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Autore: sleepingwithghosts    01/01/2012    1 recensioni
Avevo voglia di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.
Sospirai, e chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il suo bacio umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo e di una coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.
Ero sola, di nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile e tanto freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol. Attorno e dentro me freddo, solo tanto freddo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Something inside this heart has died.

 

Non c’era via d’uscita da quell’incubo. Ormai neppure tapparmi le  orecchie e chiudere gli occhi serviva a far rimanere il dolore lontano. Quel dolore che usciva dalle labbra rosse di mia madre.

Urla. Erano urla che ti entravano nei tessuti della pelle, che bruciavano, che stridevano e facevano male.

Erano otto anni che sentivo ogni maledetto giorno quelle urla, quelle richieste d’aiuto che non arrivava mai. Otto anni di cuscini sopra la testa, di labbra morse con forza, di occhi sigillati, stanchi. Otto anni da quando io, Evie Mcdonnell, non avevo più potuto essere quella bambina con le trecce sui capelli, i pantaloni sporchi di fango, i lacci dei sandali chiusi da mamma con un sorriso sulle labbra.

Ad un certo punto le urla finivano, ed era allora che indossavo le calze rosse, il vestito grigio lungo fin sopra le ginocchia, le Converse alte a stringermi le caviglie, e uscivo di casa, senza guardare mia madre, senza guardare mio padre. Era allora che, frugando nella borsa, trovavo le sigarette e fumavo, sistemandomi il cappello nero sulla testa.

Avevo diciassette anni, e niente avrebbe potuto suggerire alla gente come stavo (il mio trucco pesante poteva esser scambiato per un eccesso di eccentricità): andavo bene a scuola, ero gentile con i professori, salutavo gli inservienti della mensa. Qualche piccolo particolare come non mangia, non sorride, non parla, non fa niente se non guardare davanti a se, non sembravano turbare nessuno, perché io non ero nessuno dentro quella scuola. Dentro quella scuola eccetto gli spogliatoi della squadra maschile di football. Lì non conoscevo nessuno, ma tutti conoscevano me, Evie Mcdonnell, quella facile, la troia. Tutti conoscevano la mia pelle, le mie labbra, la mia lingua, le mie cosce. Quei piccoli dettagli come non mangia, non sorride, non parla, non fa niente se non guardare davanti a se non li notava nessuno, perché tutto quello che succedeva dentro quei bagni di un metro per due, rimaneva lì dentro, e fuori ero solo un fantasma.

Nessuno conosceva Evie Mcdonnell tranne me stessa. Mi riconoscevo quando in biblioteca lisciavo le pagine di un libro di storia seduta su una sedia scomoda, quando ascoltavo una canzone con le cuffiette chiudendo gli occhi e cantando a bocca chiusa con un sorriso, quando facevo girare un piatto di pasta precotta nel microonde, quando guardavo una serie televisiva giocando con le frange della coperta stesa sul divano. Quella era la Evie che conoscevo, e viveva nella mia testa, un fossile di ciò che avrei tanto voluto essere.

Avevo chiuso la porta pesante di metallo facendo tintinnare la campana dorata sopra lo stipide, e mi ero seduta al solito posto: moquette blu, angolo a destra, nascosta da una qualche macchinetta da gioco non funzionante, odore di fumo impregnato nelle perline di legno sulle quali appoggiavo le spalle.

L’inserviente, senza davvero avvicinarsi, mi aveva posato due bottiglie davanti ai piedi (come ogni pomeriggio alle cinque) e senza neanche guardarlo sapevo che aveva sorriso, che mi aveva guardato le gambe e dentro la scollatura. Non ringraziai e presi la prima bottiglia fra le mani. La birra era fredda, e mentre strisciava nell’esofago sentivo quel poco piacevole senso di smarrimento di quando ti trovi in mezzo alla nebbia con addosso solo una canottiera, e le braccia cominciano a gelarsi fino a far male. Faceva male, ecco qual era il bello. Sapevo che quel litro e mezzo di liquido giallastro che stavo facendo entrare nello stomaco l’avrebbe distrutto.

Sorrisi – un mio sorriso, una smorfia di amarezza, tristezza e odio – toccandomi la pancia. Ridacchiai, felice di cominciare già a sentire la testa vuota.

Svuotai entrambe le bottiglie e con le gambe che faticavano a rimanere erette, tornai a casa, mi tolsi i vestiti e mi distesi a letto, lasciando che le dita nude dei piedi diventassero viola a contatto con il pavimento di piastrelle.

Andai in bagno, raccolsi i capelli in una coda di cavallo, e riconoscendo i segnali del mio organismo, abbassai la testa sul water. Pulii la bocca con una mano e feci una smorfia: l’odore di vomito mi nauseava, e non avevo mai retto l’alcol.

Tolsi il reggiseno ed entrai in doccia. Aprii l’acqua, fredda come ghiaccio, e chiusi gli occhi, cominciando a tremare. Mi morsi il labbro inferiore per fermare i denti, spostai i capelli all’indietro e mi sedetti a terra, le spalle posate al muro.

Rimasi ferma, sperando di non riuscire a muovermi più, per un po’ di tempo, poi, a causa di uno spasmo, sbattei le gambe (magre come bastoncini di legno) alla parete di vetro appannata. Allora mi alzai, avvolsi il mio corpo in un asciugamano e mi ranicchiai a letto.

Sembrava terribilmente caldo, dieci volte più caldo di una pelle febbricitante, incandescente.

Strinsi un lembo del lenzuolo con le mani, fino a far diventare le nocche bianche. Sbattei piano gli occhi, pensando che mi fosse scesa qualche lacrima, ma niente, gli occhi erano asciutti. L’unica cosa che sentivo erano i muscoli contratti per il freddo, il battere lento del mio cuore, quello veloce dei denti.

Avevo voglia di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.

Sospirai, e chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il suo bacio umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo e di una coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.

Ero sola, di nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile e tanto freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol. Attorno e dentro me freddo, solo tanto freddo.

  
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