Laphroaig - Gli anni di Hogwarts

di FeraNoir
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ormai dovreste sapere bene chi siamo. Nella remota ipotesi in cui non lo sappiate, ci dispiace per voi, perché ora dovrete sorbirvi una lunghissima introduzione sui perché e i percome della long che avete appena aperto.

 

LUNGHISSIMA INTRODUZIONE:

Anzitutto, il nome. FeraNoir è il mostro bicefalo generato dall’unione di due creature mitologiche: MedusaNoir (bravissima autrice di fanfiction e originali) e ferao (che si atteggia a fanwriter ma tanto lo sanno tutti che è solo una cazzara). MedusaNoir e ferao sono su EFP da anni, hanno scritto valanghe di roba, esplorato diversi generi in fandom di tutti i tipi e raccolto, ciascuna nel proprio ambito, un certo consenso; insomma, non le si potrebbe definire “fanwriter alle prime armi” neanche sotto l’effetto di roba pesante.

Orbene, nel lontano 2012 è accaduto qualcosa tra queste due autrici. Per farla breve, senza rivangare penose discussioni a base di “Fera puzza!” e “Med puzza di più!”, un giorno MedusaNoir vinse una scommessa con ferao: in virtù di ciò, fu “autorizzata” a pubblicare una fanfiction in cui detta ferao appariva come personaggio e interagiva con Percy Weasley, ossia l’essere più immondo tra quelli partoriti dalla penna di JK Rowling.

Era solo l’inizio, naturalmente: più avanti fu ferao a vincere una scommessa, e stavolta MedusaNoir dovette scrivere e pubblicare un’altra fanfiction in cui era lei stessa a interagire col succitato Percy (interagire a rating rosso, s’intende. Sia mai che chi perde una scommessa con ferao abbia una vita facile).

Da quel momento, le cose sono degenerate. Le due fanwriter si sono lasciate prendere un po’ la mano, e in men che non si dica hanno costruito un intero universo alternativo (il Ferusaverse) di cui entrambe fanno parte e in cui hanno una vera e propria esistenza, con tanto di trama e caratterizzazione. Hanno, insomma, scoperchiato quel vaso di Pandora chiamato self insertion.

Ebbene sì: dopo anni e anni trascorsi a perfezionarsi come autrici, MedusaNoir e ferao sono tornate allo stadio primordiale inserendo se stesse nelle loro fanfiction, come le più debosciate ficcynare alle prime armi.

Che disagio.

Ma ehi, ne sono nate alcune storie davvero fighe: le trovate tutte qui (https://www.facebook.com/notes/859338110830188/), ordinate secondo la cronologia interna del Ferusaverse; se volete leggerle nell’ordine in cui le abbiamo pubblicate, non temete, lo troverete alla fine di questo spiegone. Il consiglio è di leggere almeno “Atterrerò sulle tue spine” prima della long, tanto per cominciare a capirci qualcosa.

Noterete che i titoli non hanno senso: questo perché ciascuno di essi è un verso di “Laphroaig” (sì, bravi, come il whiskey), una canzone bellissima che è stata suonata per la prima volta la sera in cui MedusaNoir e ferao si sono conosciute. Che ci volete fare, siamo due romanticone.

La nostra serie “Laphroaig”, insomma, è nata come uno scherzo tra ragazzine ed è diventata sempre più grande, fino a farci decidere di scrivere la storia definitiva. Quella in cui raccontare, una volta per tutte, come ci immaginiamo il nostro universo: le famiglie di Med e Fera, i loro amici, la scuola e il lavoro, il tutto inserito all’interno del canon più rigoroso.

Quello che state per leggere è il risultato. Una fanfiction che nasce dallo svago più puro, scritta perché dopo anni di fanwriting serio abbiamo deciso che non ce ne frega niente, vai di self insertion, voglio proprio vedere come mi sta la divisa di Hogwarts. Ci abbiamo messo noi stesse, letteralmente, e speriamo che vi piaccia o che perlomeno vi intrattenga.

 

Bene, questa era l’introduzione per chi non ci conosceva. Per chi ci conosce e sa già in quale circolo vizioso siamo cadute: gente, eccovi la vera storia dietro tutte le Perao e le Pedusa che vi siete sciroppati finora. Abbiatene cura. È figlia nostra e le vogliamo bene, nonostante tutto.

 

Atterrerò sulle tue spine

E graffierò ogni mia cellula

Dipingerò di rosso la sabbia

Mentre i pennuti suoneranno da un cielo ametista

Laphroaig (dovevamo essere ubriache)

Canzoni angeliche ma prive di logica

Vatti a fidare del Bagno dei Prefetti

What happens in dreamland, stays in dreamland. Or not?

Breve storia di tre storie

Ed assaggerò un sorso di Laphroaig

E imparerò, sì imparerò

Aspetterò che il vento si calmi

In sospeso


LAPHROAIG

GLI ANNI DI HOGWARTS

PROLOGO


1 settembre 1987

 

Con la netta sensazione di camminare in un sogno, Fera si avvicinò alla barriera che separava il binario 9 dal binario 10 nella stazione di King’s Cross. Ancora non era sicura della realtà di quanto la circondava: poco più di un mese prima, un gufo aveva bussato alla sua finestra recandole una lettera dal contenuto semplicemente assurdo; qualche giorno dopo, una donna era venuta a casa sua, presentandosi come “professoressa”, a convincere i suoi genitori che no, non c’era nulla di assurdo, e che , esisteva un luogo chiamato Hogwarts in cui ragazzi e ragazze come Fera potevano conseguire l’istruzione più adatta a loro – ragazzi e ragazze che, come Fera, facevano scoppiare lampadine e levitare oggetti senza volerlo. Da quel momento in poi, erano successe così tante cose meravigliose e inspiegabili che Fera era convinta fossero parti di un lungo, splendido sogno.

«Bene, eccoci arrivati» sospirò suo padre. Non aveva parlato molto durante il viaggio fino a Londra: doveva essere molto più teso di quanto desse a vedere. «La professoressa McGranitt ha detto che potevamo accompagnarti solo fin qui…».

«Sì, lo so».

L’uomo sospirò di nuovo, poi si strinse nelle spalle. «Mi raccomando, comportati bene» disse poi. «E se hai problemi, telefona».

«Quanto sei sciocco: non ci sono telefoni nel posto in cui va, ricordi? Non funzionerebbero» intervenne la madre di Fera, roteando gli occhi. Quindi abbracciò la figlia e le schioccò un bacio su una guancia. «Mangia, mi raccomando. E studia. E non trasformare tutti in rospi solo perché ti fanno arrabbiare».

Fera ricambiò l’abbracciò, poi salutò anche suo padre. Stava iniziando a realizzare che nulla di quanto la circondava era un sogno: era davvero in procinto di partire per una meta sconosciuta, e avrebbe rivisto i suoi genitori solo di lì a qualche mese. Cercò di non mostrare apprensione mentre spingeva il suo bagaglio verso la barriera di mattoni.

“Procedi dritta senza esitazioni”, aveva detto la professoressa McGranitt. Mosse i piedi in direzione della barriera, cercando di non pensare a quante cose potevano andare storte in quel momento – magari il passaggio era chiuso, o non esisteva nessun passaggio, o il suo carrello si sarebbe rotto…

«E ricorda, se qualcuno ti tratta male gli facciamo causa!»

Fera fece per voltarsi e ridere alla battuta di sua madre, ma dietro di lei c’era solo un solido muro di mattoni rosso cupo. Ce l’aveva fatta: era passata, giusto in tempo per salire sul suo treno.

 

In tutta la sua brevissima vita, Fera non ricordava di aver mai visto così tanti ragazzi tutti assieme. Il paese da cui proveniva era piccolo e tutti si conoscevano tra di loro, perciò ritrovarsi in mezzo a una tale folla fu per lei un piccolo shock. Istintivamente strinse le spalle e abbassò il capo, come aveva fatto la prima volta che era entrata in Diagon Alley; una volta salita sul treno, camminò di vagone in vagone cercando uno scompartimento che non fosse già occupato, e quando lo trovò vi si lanciò dentro con un sospiro di sollievo.

“Fatti tanti amici”, aveva detto sua madre. “Fosse facile”, aveva pensato lei. La verità era che Fera era timida e non cercava di nasconderlo. Fosse dipeso da lei, si sarebbe chiusa in casa e avrebbe passato la vita a leggere, fine.

A proposito di leggere. Con un sorriso, Fera aprì lo zainetto che aveva portato con sé in treno e ne rimirò il contenuto: i suoi libri di scuola, nuovi e profumati di pergamena, che aspettavano solo di essere sfogliati.

Era indecisa se aprire prima quello sulla trasfigurazione, quello sulla storia della magia o quello sulla teoria degli incantesimi. Sembravano tutti interessanti, e lei aveva così tanto da imparare! Gli altri ragazzi, nati e cresciuti in famiglie magiche, sarebbero stati di sicuro molto più avanti rispetto a lei: doveva provare, se non a rimettersi al pari con loro, almeno a raggiungere un livello di conoscenza che non l’avrebbe fatta sembrare una completa ignorante al loro confronto.

Dopo averci riflettuto, optò per la trasfigurazione: il nome prometteva bene. Mancavano ormai pochi minuti alle undici, ora di partenza dell’Espresso per Hogwarts; Fera aveva appena iniziato a sfogliare il primo capitolo del libro, quando udì delle voci approssimarsi alla porta del suo scompartimento.

«… nel vagone dei Prefetti, Perce».

«Allora posso venire con te, Charlie?».

«No, mi vedo con quelli della squadra». La porta si aprì di colpo, facendo sobbalzare Fera: dal corridoio del treno si affacciarono tre ragazzi. «Ecco, puoi stare qua» proseguì l’ultimo che aveva parlato. «C’è anche una ragazza carina, cosa vuoi di più?».

Fera storse il naso. La consapevolezza di non essere neanche lontanamente carina le faceva cogliere una sgradevole ironia in ogni complimento. Non disse nulla, ma squadrò per bene i tre: quello che aveva appena parlato doveva avere sui quindici anni, era basso e ben piazzato; un altro, di sicuro il più grande, era il più bel ragazzo che Fera avesse mai visto, alto e con un sorriso che irradiava simpatia; il terzo indossava grossi occhiali, era scuro in volto e non dimostrava più di undici anni. Tutti e tre sfoggiavano la stessa capigliatura rosso fiamma.

«Ciao,» disse il più grande a Fera, «scusa il disturbo. Nostro fratello può sedersi qui con te?»

«Bill!» esclamò quello con gli occhiali. «Posso fare benissimo da solo!».

«Perfetto, allora ti lasciamo qui. Ci vediamo a scuola!» e dandogli una pacca sulla spalla, Bill si allontanò dallo scompartimento. Il ragazzo più basso scompigliò i capelli al fratello, poi guardò Fera e le sorrise. «Controlla che faccia il bravo» disse, prima di andarsene a sua volta.

Il ragazzino con gli occhiali lo seguì con lo sguardo, un’espressione tra il mesto e l’arrabbiato dipinta in volto. Dopo qualche secondo sospirò, si risistemò con cura i capelli e si rivolse per la prima volta a Fera.

«Posso sedermi? Il treno è quasi tutto pieno…».

Fera annuì e fece per spostare lo zaino, ma lui si accomodò nel sedile posto in diagonale rispetto a lei. «Scusa per… beh, loro» disse poi, alludendo agli altri ragazzi. «I miei fratelli amano prendermi in giro».

«Nessun problema». Fera gli rivolse un sorriso rassicurante, poi tornò a immergersi nel libro. Non amava chiacchierare, soprattutto con gli sconosciuti, e di solito l’essere presa dalla lettura la salvava dalle conversazioni. Quella volta non fu così: il ragazzo si sporse per vedere il titolo del libro e si illuminò.

«Sei del primo anno anche tu?».

Trattenendosi dallo sbuffare, Fera alzò gli occhi. «Sì».

«Anche io!» Il ragazzo fece un gran sorriso e le tese la mano. «Mi chiamo Percy».

Stavolta sbuffò davvero. «Fera» rispose, stringendogli la mano.

«Stai già studiando Trasfigurazione?» Senza attendere risposta, Percy aprì la propria borsa e ne estrasse una copia dello stesso libro di Fera, solo più consunta. «Ho provato anch’io a dare un’occhiata. Sembra una materia molto complicata, però è interessante, non trovi?».

«Non saprei. Sono arrivata solo a pagina cinque…».

«Non vedo l’ora di imparare a trasfigurare gli oggetti» la interruppe lui, ignorandola. «Bill dice che la professoressa McGranitt…».

«McGranitt?» Fera spalancò gli occhi. «È venuta a casa mia, un mese fa, dopo che ho ricevuto la mia lettera».

«A casa tua? Perché, tu…» Percy si sistemò gli occhiali e la osservò per un secondo. «Sei… sei figlia di Babbani, per caso?».

Fera annuì. Aveva imparato che “Babbani” indicava le persone normali, o meglio, quelle prive di poteri magici: i suoi genitori, avvocati irlandesi senza la minima traccia di magia nel sangue, rientravano perfettamente nella descrizione.

Percy la squadrò ancora per qualche istante, poi fece un enorme sorriso. «Caspita. Chissà com’è interessante la tua vita!».

«Eh?!».

«Sì, insomma… vivi coi Babbani!» Percy si piegò in avanti. «Mio padre ha un sacco di libri su di loro, dice che riescono a fare cose incredibili senza magia… È vero?»

Un po’ sconcertata, Fera si ritrovò a raccontare come fosse la giornata-tipo di una famiglia non magica, dal suono della sveglia a pile fino allo spegnimento della televisione la sera. Tutto ciò che aveva sempre considerato “normale” appariva straordinario agli occhi di quel ragazzo – e sì che lui proveniva da una famiglia di maghi!

«E voi, invece, come vivete?» chiese Fera, una volta finito il suo racconto. «Immagino che tu sappia già un sacco di incantesimi…».

«Beh, in realtà no». Percy ridacchiò. «Andiamo a scuola apposta per impararli. Inoltre, non possiamo fare magie fuori da Hogwarts fino alla maggiore età».

«Cosa?!».

«Sì. È una questione di sicurezza».

«Oh». Fera ci rimase male. Sperava, una volta tornata a casa, di mostrare qualche magia ai suoi. «Comunque,» riprese, «di sicuro la vita è più facile per voi maghi. Tipo, le faccende di casa…».

«Beh… sì, suppongo». Percy si grattò la testa. «Voglio dire, mia madre ci mette sempre un sacco a mettere in ordine casa nostra, ma forse dipende dal fatto che siamo in nove…».

«Nove? Siete in nove?».

Percy annuì. Il libro di Trasfigurazione giacque dimenticato accanto a Fera, mentre questa ascoltava rapita le vicende della famiglia Weasley: scoprì molte cose che la professoressa McGranitt non le aveva detto circa il mondo magico, quali l’esistenza di un Ministero della Magia e di alcuni villaggi abitati solo da maghi; imparò che nessun mago o strega nasceva già “conoscendo” la magia, ma che, proprio come per le materie scolastiche babbane, erano necessari mesi e anni di apprendimento, e che c’erano moltissime branche diverse di conoscenza; venne a sapere del Quidditch e, infine, della divisione in Case.

«Io spero di andare a Grifondoro» concluse Percy. «Bill e Charlie sono lì, e ci sono stati anche i miei genitori».

«Forte». Fera pensò che fosse stato un bene, una volta tanto, essere stata interrotta mentre leggeva: aveva ricevuto più informazioni di quante ne avrebbe potute trovare nei libri che aveva con sé. Anche Percy non sembrava antipatico; decise che avrebbe potuto andarci d’accordo. «Sai quanto manca all’arrivo?» domandò.

«Dunque…» Percy si affacciò al finestrino, e Fera lo vide illuminarsi. «Direi che ormai ci siamo». La ragazza guardò fuori a sua volta, e lo vide.

 

In tutta la sua breve vita, Fera non aveva mai trovato nulla di così bello, speciale, magico. La sagoma nera del castello si stagliava contro il cielo ormai scuro, svettando sul panorama circostante.

Era assolutamente meraviglioso. Fera tornò a provare la sensazione di trovarsi in un sogno, uno di quelli da cui non avrebbe mai voluto svegliarsi. In un batter d’occhio si ritrovò sopra una barca non più grande di un guscio di noce, la tunica nera addosso e Percy seduto accanto a lei che diceva qualcosa.

«Come, scusa?» gli chiese, poiché non aveva udito nemmeno una parola.

«Ti ho chiesto se sai nuotare. Bill dice che a volte qualcuno cade nel Lago… No, Crosta, sta’ buono». Da una tasca del mantello di Percy sbucò un musetto rosa e grigio, la cui vista fece sobbalzare Fera. «Scusa, il mio topo è un po’ agitato».

«Santo cielo». Fera non aveva nulla contro gli animali, anzi, ma stabilì che quel topo doveva stare lontano da lei il più possibile.

La traversata in barca fu curiosamente tranquilla: nessuno cadde in acqua, anche se una ragazzina si era sporta troppo e il traghettatore, un uomo gigantesco, l’aveva dovuta acchiappare prima che fosse troppo tardi. Tutti gli studenti di primo anno, compreso Percy, ammutolirono al momento di attraversare l’enorme portone di quercia; quando poi apparve la professoressa McGranitt dietro di esso, il cuore di Fera fece un piccolo balzo. Era il primo volto familiare che incrociava da ore.

La professoressa lasciò correre lo sguardo su tutti loro, soffermandosi un secondo quando arrivò a Fera – doveva essere un cenno di saluto, e la ragazza lo interpretò come tale. La professoressa disse alcune parole di benvenuto, spiegò la divisione in Case e la cerimonia dello Smistamento (tutte cose che Fera aveva già imparato poco prima) e, dopo qualche minuto, li introdusse nella Sala Grande.

Se l’esterno del castello era meraviglioso, l’interno non aveva paragoni. Ma la sensazione di stupore che provò Fera fu presto soppiantata da un’altra, più potente: la consapevolezza di essere a casa. I suoi genitori potevano essere Babbani, così come tutta la sua stirpe, ma lei apparteneva a un altro mondo, quel mondo, e finalmente lo vedeva con chiarezza.

Si riscosse. Uno sgabello era stato portato davanti al tavolo dei professori, e sopra di esso stava un orrido cappello rappezzato. Di lì a pochi istanti, sarebbe iniziato lo Smistamento.

 

I cognomi degli studenti venivano snocciolati senza posa: il Cappello Parlante non impiegava mai più di qualche secondo a decidere in quale Casa mandarli. In treno, Percy le aveva spiegato brevemente che l’appartenenza all’una o all’altra Casa dipendeva da diversi criteri, e Fera bruciava di curiosità.

Cosa avrebbe visto in lei il Cappello? Coraggio, lealtà, astuzia, intelligenza? Nemmeno lei lo sapeva. All’improvviso, si sentì priva di qualsiasi virtù. Cos’era lei, se non una ragazzina timida che non aveva mai nemmeno visto una magia in vita sua? Un senso di malessere la colse.

Proprio in quel momento, la voce stentorea della professoressa McGranitt chiamò il suo nome: Fera lo sentì risuonare nella Sala, e impallidì. Si girò verso Percy, che per tutto il tempo era rimasto al suo fianco – e che, ora lo vedeva per la prima volta, era leggermente più basso di lei. «In bocca al lupo» disse lui in un soffio. Deglutendo, Fera annuì e si avvicinò allo sgabello. Un secondo dopo, era avvolta dall’oscurità.

Ci furono un paio di secondi di silenzio, durante i quali Fera sentì il sangue ronzarle nelle orecchie: se la tensione l’avesse fatta svenire lì, davanti a tutti, cosa sarebbe successo?

«Oh, molto bene», disse poi una vocina, «molto interessante. Sveglia, arguta e creativa. È fin troppo facile capire dove mandarti. CORVONERO» gridò infine il Cappello.

Fera sentì l’intera Sala applaudire; quando si tolse il Cappello, vide che ad esultare con maggior forza erano proprio i Corvonero, dal secondo tavolo a sinistra. Sorridendo di sollievo ed emozione, Fera li raggiunse. Se è un sogno, per favore, non farmi svegliare mai più.

Strinse le mani ai Prefetti e si sedette accanto a un certo Paul, del primo anno; d’istinto cercò con lo sguardo Percy, ancora tra quelli da Smistare: lui sembrava dispiaciuto, ma un secondo dopo le sorrise.

“Chissà se il Cappello lo accontenterà?” si domandò Fera. Si guardò attorno e considerò ancora una volta dov’era, le persone con cui era, e chi era.

Sveglia, arguta e creativa. E una strega.

 

*****

 

1 settembre 1988

 

Pioveva.

Gli studenti del primo anno attraversavano Hogwarts in barca, guardando il castello per la prima volta, e pioveva.

Di male in peggio, realizzò Med.

La sua bagnarola ondeggiava sul lago – si era mai visto un lago mosso? Forse tutti i laghi avevano finto di essere un lucido specchio d'acqua in vista di quel giorno, per prenderla in giro e dimostrarle che il suo arrivo a Hogwarts sarebbe stato il preludio di qualcosa di molto, molto brutto. Accanto a lei, Lobelia ciarlava entusiasta dei bei ragazzi che aveva incontrato sul treno mentre Grace si ingozzava di Gelatine Tuttigusti +1.

«Non le hai ancora finite?» le chiese Med con una smorfia di disgusto.

«Ne ho comprati tre pacchetti!». Grace mostrò il numero con le dita della mano sinistra, come se volesse fieramente far sapere al mondo che era in grado di contare fino a tre. «Vuoi?».

Tanto so che beccherei la peggiore. Lo so, perché oggi non può che peggiorare.

Tuttavia lo stomaco gorgogliante di Med la spinse ad accettare una caramella. Una e solo una, perché prenderne di più avrebbe significato maggiori probabilità di insuccesso. Masticò piano, sperando con tutto il cuore che fosse mela verde, o kiwi, o erba fresca, ma quel giorno niente era dalla sua parte: broccoli.

Si trattenne dallo spingere quella grassona di Grace in acqua – Come se questo potesse risolvere qualcosa... – solo perché avevano attraccato in quel momento ai piedi del castello, sugli scogli su cui, sapeva bene, sarebbe inciampata: non importava quanto tempo avesse speso in quegli undici anni di vita ad arrampicarsi sulle scogliere vicino casa, non importavano i lividi e le sbucciature che, dopo un durissimo allenamento, l'avevano resa una scalatrice professionista; no, non importavano, perché sarebbe finita dritta nel lago se la manona di quel mezzo gigante non fosse intervenuta a salvarla. Alle sue spalle sentì ridacchiare.

Io me ne vado. Finisco questa stupida farsa e me ne vado.

Ci aveva riflettuto per gran parte del viaggio sull'Espresso per Hogwarts e per tutta la traversata del lago, ma alla fine era giunta a quella conclusione – perché, di altre, non ce n'erano proprio. Certo, tutto sarebbe stato diverso se al termine di quella giornata devastante lei fosse stata Smistata nella Casa in cui la sua famiglia materna era stata per generazioni, ma le possibilità sembravano ridotte a zero, ora che aveva scoperto che proprio a causa dell'egoismo di sua madre avrebbe reso vergogna all'intera famiglia.

 

 

Era andato tutto bene fino a quando non avevano lasciato l'Inghilterra. La notte precedente aveva dormito solo un paio d'ore, talmente era eccitata all'idea di frequentare Hogwarts; alla fine si era arresa e, per distrarsi, aveva cominciato a sfogliare uno dei tanti romanzi babbani che suo padre teneva in casa. Per questo, una volta preso posto nel suo scompartimento, aveva sentito il sonno crollare pesantemente su di lei. Non si era arresa, però, perché voleva gustarsi l'Espresso per Hogwarts, voleva salutare le figlie delle amiche di sua madre – molto più grandi di lei, perché quella non le aveva neanche fatto il favore di partorirla prima dei trent'anni – e conoscere le future compagne di scuola. Grazie al Prefetto Louis Nott, che conosceva da quando le erano spuntati i primi dentini, era stata presentata alle ragazze del primo anno con cui avrebbe volentieri condiviso lo scompartimento, Lobelia Parkinson e Grace Pucey. L'unica cosa che le due avevano in comune erano dei fratelli minori che avrebbero iniziato Hogwarts entro tre anni. A parte quello, non avrebbero potuto essere più diverse: Lobelia era alta e snella e sembrava molto più grande della sua età – tanto da attirare lo sguardo di ragazzi del terzo anno nonostante la sua faccia schiacciata; Grace era invece rotondetta e avrebbe continuato a esserlo, se davvero aveva intenzione di mangiare a ogni pasto come aveva fatto per tutta la durata del viaggio. Caratterialmente erano simili sul piano della conversazione, perché non la finivano di scambiarsi pettegolezzi e informazioni sull'estate appena passata, ma Grace rispetto a Lobelia sembrava non avere alcuna intenzione di far colpo sull'altro sesso – se questo significava dover rinunciare alle dieci Cioccorane che non aveva offerto a nessuna di loro due.

Era rimasta ad ascoltarle nonostante le palpebre pesanti finché Lobelia non aveva intrapreso il discorso dello Smistamento.

«Melissa Baker, la mia vicina di casa, due anni fa è finita a Tassorosso. Nessuno in famiglia voleva crederci, per un po' i suoi non le hanno nemmeno scritto... Sai, erano tutti Serpeverde, la famiglia del padre e quella della madre, non si aspettavano niente del genere... Ma poi è venuto fuori che il nonno paterno era un Babbano. Ti rendi conto? È morto quando il padre era un bambino, così la nonna lo ha tenuto nascosto e nessuno sapeva di avere una feccia in famiglia! Ha dovuto raccontarlo solo quando ha visto come stavano trattando Melissa».

Grace aggrottò le sopracciglia. «A me non pare di avere Babbani in famiglia».

«Certo che no, Grace! Altrimenti non sarei qui a parlarti, non credi? Non saremo imparentate direttamente con i Black, ma Malfoy – l'amichetto di mia sorella, il figlio di Lucius e Narcissa – mi ha raccontato che nello stemma della casata ha visto almeno un Parkinson e un Pucey. E sua madre è una Black, non gli avrebbe permesso di frequentare la nostra famiglia se non avessimo del sangue puro nelle vene».

«Quindi sarò a Serpeverde». Grace alzò le spalle e scartò un'altra Cioccorana, rompendola in due prima che potesse saltare via.

Lobelia annuì. «Non ci sono dubbi. E tu, Med? Sicura di non avere Babbani in famiglia?»

Med non rispose. Aveva chiuso gli occhi, fingendo di essersi addormentata per non dover rispondere alla domanda che aveva intuito sarebbe giunta presto. Si stava sentendo male. Perché i suoi non le avevano mai detto niente sui Mezzosangue? Tanti discorsi sulla Casa migliore di Hogwarts... e alla fine avevano eluso la parte più importante.

Cedette al sonno con quei pensieri nella testa, così si ritrovò a sognare lo Smistamento e il Capello Parlante che le aveva descritto sua madre la guardava e rideva di lei. «Serpeverde, eh? Una come te non può stare fra di loro... Sono i migliori, i più astuti, mentre tu non saprai mai fare neanche gli incantesimi più semplici. I Mezzosangue non sono capaci, non lo sapevi? Meglio metterti a Tassorosso, è la Casa adatta ai perdenti come te».

Nel sogno tutta la scuola l'additavamentre lei tentava di correre via, ma tra le risate generali i suoi piedi si fusero con il pavimento e due serpenti cominciarono a salirle sulle gambe, minacciandola di morte sicura finché non scoppiarono a ridere anche loro, per poi trasformarsi nei nonni che stracciavano le sue lettere e dimenticavano di averla mai avuta come nipote...

 

Da quando si era svegliata con la fronte sudata, Med continuava a riflettere, ma nessuno di quei cupi pensieri era riuscita a calmarla; al contrario, il panico le cresceva dentro a ogni minuto, a ogni cosa che andava male in quello che avrebbe dovuto essere il suo giorno, il momento più importante della sua vita.

Seguì Lobelia, Grace e gli altri primini fino a una saletta dove una professoressa con un alto chignon nero aveva pregato loro di aspettare – Med non aveva sentito il suo nome, era troppo impegnata a immaginare la propria vita da esule. Ormai aveva deciso: se il Capello non l'avesse Smistata a Serpeverde, lei sarebbe fuggita. Doveva esserci una corsa verso King's Cross, l'Espresso non sarebbe di certo rimasto lì fino a giugno; tutto ciò che Med doveva fare era declinare gentilmente l'offerta di andare a Tassorosso e uscire dal castello. Era sicura che anche altri lo avessero fatto in passato.

«Hai sentito cos'ha detto la professoressa McGranitt?» esclamò euforica Lobelia. «Fra poco tocca a noi!».

«Falle pulire la bocca» si limitò a rispondere Med, indicando con un cenno del capo Grace. Finalmente la ragazza aveva smesso di mangiare, ma aveva ancora residui di cioccolata sulle labbra e sul mento.

Med si stupì della quantità di nervosismo in quella stanza: pochi ragazzi sprizzavano felicità come Lobelia; la maggior parte si torceva le mani, ripeteva a bassa voce alcune formule magiche, controllava di avere indossato tutta la divisa. Forse, tra loro, c'era qualcuno in preda al panico all'idea di essere Smistato in una Casa diversa da quella dei suoi genitori e forse aveva scoperto da poco che non bastavano generazioni di maghi ad assicurarlo a Grifondoro o Corvonero. Forse anche loro avrebbero rifiutato e sarebbero usciti di scena, e allora Med non avrebbe dovuto andarsene da sola.

«Siete pronti?». La professoressa McGranitt era appena tornata e reggeva una pergamena fra le lunghe dita sottili. «Seguitemi».

Med si diede un'occhiata veloce: niente cioccolata, divisa a posto, capelli fradici. Era così intenta a controllarsi che non si accorse di nulla finché i ragazzi intorno a lei non esplosero in un ammirato: «Oooh!».

Solo allora si rese conto dello spettacolo che aveva di fronte: su quattro tavoli sedevano gli studenti già Smistati e sopra di loro splendevano gli stemmi delle Case: Grifondoro, Corvonero, Tassorosso e Serpeverde. Med non ebbe il tempo di sentire un nodo alla gola, perché seguendo gli arazzi con lo sguardo scoprì il soffitto stellato che si stendeva sopra la sua testa. Sembrava che avesse smesso di piovere, perché altrimenti si sarebbero bagnati tutti, però c'erano ancora nuvole grigie nel cielo. Si chiese come mai quella sala non avesse una copertura, ma sembrava che nessuno a parte lei si stesse ponendo quella domanda. Quando furono giunti all'altra estremità della Sala Grande, la professoressa McGranitt posizionò uno sgabello di fronte a loro e vi posizionò sopra l'oggetto che, da qualche ora, era diventata l'incubo di Med. Il Cappello Parlante incominciò a dire una filastrocca, ma lei non lo sentiva: ora il suo sguardo era puntato sul tavolo dei Tassorosso, sull'orrendo abbinamento giallo e nero, sulle stupide facce che ciascuno degli studenti lì seduti sembrava avere. Udì solo le ultime strofe della filastrocca, improvvisamente colta da un dubbio: e se Melissa Baker fosse stata Smistata a Tassorosso perché non aveva ascoltato il Capello Parlante? Se quella fosse stata la vendetta di quell'orrenda creatura sbrindellata e rattoppata?

«Ora chiamerò i vostri nomi» annunciò la McGranitt «e voi indosserete il Cappello. Ackerley, Ross?».

Il ragazzo mingherlino accanto a lei sussultò: forse neanche lui stava ascoltando. Si diresse tremante verso lo sgabello, si sedette e aspettò che la McGranitt gli posasse il Cappello Parlante sulla testa. Dopo qualche secondo di riflessione, quello urlò: «TASSOROSSO!».

Il cuore di Med mancò un battito. Aveva solo ipotizzato che Ross non stesse ascoltando... e il Cappello, indispettito, l'aveva messo a Tassorosso.

«Caldwell, Miriam?».

Miriam non ebbe neanche il tempo di sedersi, perché il Cappello urlò immediatamente: «CORVONERO!».

«Diggory, Cedric?».

Lobelia le diede una gomitata nel fianco. Anche senza essere richiamata da lei, Med avrebbe osservato il bel ragazzo che si stava avvicinando allo sgabello perché non poteva fare a meno di tenere gli occhi su ciascuno dei nuovi studenti. Cedric sembrava sicuro di sé, proprio come Miriam, e forse era così che lei doveva apparire: tranquilla, priva di dubbi, e tutto sarebbe andato bene.

«TASSOROSSO!».

Non riusciva a crederci. E, cosa ancora più incredibile, Cedric sembrava felicissimo della sua assegnazione! Sentì Lobelia bofonchiare accanto a lei: «Non era neanche tanto carino...». Ma non la stava ascoltando. Ora non ascoltava più niente. C'erano solo il suo cuore e le urla del Cappello.

Furono Smistati tre Grifondoro di fila, poi finalmente iniziò il turno dei Serpeverde; due Corvonero, un Serpeverde, un Grifondoro, un altro Corvonero, Tassorosso...

Quando l'ennesimo Grifondoro ebbe preso posto nella tavola della propria Casa, Grace cominciò ad agitarsi. «Ha chiamato Johnson. Fra poco tocca a noi... Oh, Lobelia...».

«State tranquille, ragazze: vi terrò un posto».

Lobelia rimase calma anche mentre la McGranitt posava il Cappello sulla sua testa. Med la vide aggrottare le sopracciglia, forse perché ci stava mettendo più del previsto, ma alla fine l'urlo fu: «SERPEVERDE!».

«Pucey, Grace?».

Nel suo caso, il Cappello si limitò a sfiorarle i folti capelli biondi. «SERPEVERDE!».

Toccava a lei, c'erano quasi. Alicia Spinnet fu assegnata a Grifondoro, poi la McGranitt chiamò il suo nome.

Sembrava che il mondo si fosse spento attorno a lei: non si udiva più il chiacchiericcio basso degli studenti, c'era solo il battito del suo cuore. Si sedette sullo sgabello, realizzando che finora nessuno si era opposto al volere del Cappello Parlante, nessuno era uscito dalla Sala Grande per tornare a casa, in una scuola babbana o in un'altra scuola di magia: lei sarebbe stata la prima. Si sentiva osservata mentre il copricapo pieno di strappi veniva posto sui suoi capelli bagnati.

«C'è astuzia qui...». Med sobbalzò, aspettandosi tutto tranne che il Cappello dicesse altro oltre al nome della Casa; guardando davanti a sé, tuttavia, notò che nessuno sembrava farci caso. Forse poteva sentirlo solo lei. «Fierezza, orgoglio e una buona dose di coraggio... Lealtà? Lo scopriremo nel tempo. Hai desiderio di imparare, lo vedo... La tua Casa potrebbe guadagnare da te...».

Serpeverde, Serpeverde...

Non sapeva se il Cappello potesse leggerle nei pensieri, le bastava continuare a sperare con tutto il cuore.

Serpeverde, anche se sono una Mezzosangue... Serpeverde...

«Ti accontenterò: SERPEVERDE!»

La sala riprese vita dopo quelle parole. Med sgranò gli occhi, li puntò sul tavolo di Serpeverde e vide Lobelia e Grace applaudire felici, e Louis che applaudiva più di tutti gli altri. Saltò giù dallo sgabello e corse a prendere posto nel suo tavolo, nella sua Casa, all'inizio della sua grande avventura.

Il sorriso non accennò a lasciarla per il resto della serata.


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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


CAPITOLO I

1 settembre 1991

 

«Sei sicura di avere tutto quel che ti serve?».

«Per la quattordicesima volta, ».

«Perché starai via fino a Natale e hai bisogno di pergamene, abiti, forse un mantello più pesante...».

«Oh, Merlino, davvero starò via fino a Natale?! Non me n'ero resa conto! Calmati, pa', potrai mandarmi pacchi via gufo ogni volta che vorrai, ormai dovresti avere imparato a farlo».

«Questo stupido Babbano ora ci riesce, stronza di una figlia».

Med e suo padre si guardarono negli occhi per tre secondi, poi scoppiarono entrambi a ridere.

«Mi mancherai, lo sai?».

«Come ogni volta, pa'». Allargando le braccia, Med rispose all'abbraccio del padre. Immaginava il rumore delle lancette che si muovevano alle sue spalle, ricordandole che doveva far presto se non voleva perdere l'Espresso per Hogwarts, ma non riusciva a staccarsi da lui.

Alla fine fu suo padre a parlare. «Mi spiace che tua madre non sia potuta venire oggi...».

«Si sta bene anche senza di lei».

A Med non era andata giù la valanga di scuse che la sua adorabile mammina aveva utilizzato per evitare di accompagnarla a King's Cross: «Ho un mal di testa tremendo... E se poi vomitassi lungo la strada? Con tutte quelle curve... Non posso certamente presentarmi alle altre famiglie di maghi con questi capelli, che cosa penserebbero?».

Quelle ultime tre parole avevano riassunto alla perfezione il vero motivo per cui, quella mattina, sua madre non era lì con lei. Diane era una strega mediocre, ma con un talento naturale per la Materializzazione che con il tempo le aveva permesso di essere a capo dell'Ufficio per il Trasporto Magico al Ministero della Magia. Appena diplomata aveva sfidato la tradizione, lavorando per guadagnarsi da vivere nonostante il grosso patrimonio dei genitori, e anni dopo aveva perfino deciso di sposare un Babbano; le sue amicizie con alcune delle più importanti famiglie Purosangue erano continuate, ma un inatteso imbarazzo era sorto nel momento in cui aveva incontrato le migliori amiche di Med e relativi parenti. Parkinson e Pucey erano nomi rinomati nell'ambiente che lei stessa aveva frequentato a Hogwarts, mentre Diane dopo le nozze si portava dietro un cognome babbano. Inutile dire che le signore Parkinson e Pucey avevano subito trovato il modo per guardarla dall'alto della loro stupida superiorità di sangue e questo non aveva fatto un buon effetto su Diane, che cercava di evitare qualsiasi fortuito incontro con loro per evitare di sentirsi a disagio. Al contrario, suo padre si era ulteriormente elevato rispetto alle rivali di Diane e aveva deciso che gli sguardi a lui rivolti non facevano alcun male; si divertiva perfino a rispondere a tali sguardi con un allegro saluto, che costringeva i Purosangue colti in fallo ad abbozzare il più tirato dei sorrisi.

C'era stato un tempo in cui anche Med aveva creduto nella superiorità della razza magica. Questo prima di sentire il padre di Lobelia pronunciare parole poco graziose per descrivere Diane e Wes: suo padre era un babbano incapace di fare la magia più elementare, ma era il suo stupido padre babbano e solo lei aveva il diritto di prenderlo in giro.

«Le porterò i tuoi saluti».

«Dille che mi mancherà come i brufoli dell'anno scorso».

Wes ridacchiò, arruffò i capelli della figlia e poi sollevò lo sguardo verso l'orologio della stazione. «Va' o farai tardi. E io non posso accompagnarti a Hogwarts, la scopa della nonna non vuole saperne di sollevarsi».

«La nonna è babbana, pa'».

«Tu dici? Avrei giurato che fosse una strega. Ma non dire che te l'ho detto».

Rivolgendogli un ultimo sorriso, Med si congedò da lui e riprese i propri bagagli per raggiungere il binario 9 e ¾. Ormai attraversare il passaggio era diventata una passeggiata: si appoggiò al muro, attendendo di essere celata da Babbani di passaggio in tailleur e ventiquattrore, e si lasciò cadere oltre le insegne tra i binari 9 e 10, tornando in quel mondo che per lei era una casa, un rifugio... e una maledettissima scuola.

Com'era prevedibile, c'era più confusione nella stazione magica che in quella babbana. Un gufo le sfiorò i capelli, mentre il suo proprietario urlava cercando di farlo tornare nella gabbia; poco più in là, un ragazzino paffutello – sicuramente del primo anno – si vantava con quella che doveva essere sua nonna del bellissimo rospo che teneva in mano. Mentre cercava qualche volto conosciuto, Med lo sentì dire: «...il regalo migliore del mondo, nonna! Lo chiamerò Oscar, ti piace? Sta' tranquilla, non lo perderò, lo metto in questa gabbietta...». Un attimo prima il bambino reggeva il rospo, l'attimo dopo strillava perché la porta della gabbia era aperta. Med sogghignò, superandolo e lasciando il rospo sul baule di una Tassorosso con il terrore degli anfibi.

Ah, ora sì che siamo di nuovo in pista!

Cresciuta in una famiglia per metà babbana, Med non aveva avuto problemi ad adattarsi al divieto di fare magie fuori dalla scuola; era stato quindi semplice continuare a infastidire i ragazzini più stupidi e codardi con i tipici trucchi da Babbana. Ora che stava tornando a Hogwarts, però, poteva infierire su di loro nei modi che più la divertivano. Le mancavano solo poche ore e poi non avrebbe dovuto aprire una gabbietta con la mano per far piangere qualche primino.

«Med!».

Si voltò, riconoscendo subito quella voce; a giudicare da come si stava sbracciando, tuttavia, sembrava che Louis Nott stesse cercando la sua attenzione da un bel po'. Lo raggiunse di corsa, felice di vederlo.

«Louis! Che ci fai qui? Ti mancavano i sotterranei?».

«Così tanto che volevo farmeli costruire anche a Bristol. Come stai?».

«Bene... il rospo di quel ragazzino un po' peggio» ridacchiò, indicando il primino indaffarato a cui aveva tirato uno scherzo.

A differenza di molti altri della loro stirpe, la famiglia Nott – perlomeno i due figli – non manifestava disgusto vedendo Med, Diane o "quel babbano che si era sposata"; Louis, in particolar modo, era sempre stato un buon amico per Med, nonostante i loro tre anni di differenza: le aveva presentato alcuni studenti più grandi, che si erano diplomati l'anno precedente insieme a lui, e le aveva spiegato i trucchi migliori per passare un esame. Med non ricordava di avere fatto niente di importante per contraccambiare, ma a Louis era bastato che lei gli fosse stata accanto, tre anni prima, quando sua madre era scomparsa.

E, ora che lui aveva concluso gli studi, a Med non restavano altro che Lobelia e Grace.

«Come mai sei qua, allora?».

«Ho accompagnato mio fratello. Ora sta salutando... papà». Louis storse il naso, facendole capire che il suo rapporto con il padre non era cambiato da quando si era trasferito a Bristol per mettere più distanza possibile fra di loro e, per un buffo scherzo del destino, aveva finito per essere diseredato. «Hai letto la Gazzetta stamattina? Dicono che... Oh, no, sono tornati».

Med non ci mise molto per capire di chi stesse parlando. C'era una Casa di Hogwarts che lei non avrebbe mai imparato a sopportare: i Grifondoro. Tronfi, arroganti e rumorosi, a Med avevano sempre ricordato i giocatori di football che nei film horror babbani fanno subito una brutta fine; si vantavano di essere grandi giocatori di Quidditch, sebbene non vincessero la coppa da anni; camminavano lungo la scuola occupando l'intero corridoio, facevano chiasso mentre lei leggeva sulla riva del Lago Nero e passavano il tempo a sfidarsi nelle maniere più stupide. La cosa peggiore, tuttavia, era il loro bisogno di sentirsi al centro dell'attenzione in ogni momento: per quanto i Tassorosso fossero sfigati, perlomeno avevano la decenza di aiutare i più deboli per altruismo, non per ricevere un'immaginaria medaglia al valore.

Ma, per quanto la disgustassero, c'era qualcosa che Med detestava più dei Grifondoro in generale: i fratelli Weasley. Una massa di capelli rossi e lentiggini, più chiassosi e tronfi degli altri, abituati a fare del mondo il loro palcoscenico e per niente imbarazzati all'idea di girare con vestiti di seconda o terza mano. Ogni volta che ne vedeva uno in lontananza, Med si chiedeva se trovassero i loro abiti fra quelli donati in beneficenza e, al contempo, come fosse possibile sterminarli una volta per tutte. Vide i gemelli, caotici e buffoni; vide il Prefetto, saccente e pieno di sé; vide due nuovi ragazzini e la loro ingombrante madre, carichi di bauli; ma, fortunatamente, non vide i più grandi.

«Quest'anno non ci hanno reputati degni della loro presenza» sibilò fra i denti.

I gemelli erano fastidiosi, il Prefetto era noioso, il nuovo arrivo insignificante, la ragazzina frignava già troppo, ma a incarnare lo stereotipo del perfetto Grifondoro erano Bill e Charlie Weasley, i fratelli maggiori. Charlie non era un grosso problema, perché pur essendo osannato come grandissimo giocatore di Quidditch aveva avuto la decenza di essere un cesso, ma lo stesso non si poteva dire di Bill: Prefetto, Caposcuola e idolo delle ragazzine, Bill sapeva farsi amare da tutti e odiare da ogni singolo Serpeverde; perfino alcuni Corvonero non sopportavano la sua presenza. Per fortuna aveva frequentato Hogwarts solo durante il primo anno di Med, ma a volte si faceva vedere al binario 9 e ¾ in compagnia degli altri perdenti dei fratelli. Quell'anno doveva essere ancora in giro per il mondo a farsi ammazzare da qualche avido folletto.

«Devo salire, fra poco l'Espresso partirà» si rese improvvisamente conto Med controllando l'orologio alla parete. «Scrivimi, ogni tanto!». Quando lo salutò con un rapido bacio sulla guancia, Louis arrossì, ma lei non ci fece caso.

«Lo farò. Vedi di mantenere alto l'onore dei Serpeverde!».

«Per chi mi hai preso? Hogwarts non sa cosa l'attende, quest'anno!».

 

*****

 

«Io continuo a pensare che una cosa del genere sia inconcepibile».

Fera sbuffò. «Dai, papà, lascia perdere…».

«Inutile,» la interruppe sua madre, «andrà avanti con questa storia per il resto della settimana».

«Dico solo,» riprese il padre di Fera, continuando a spingere il carrello verso l’accesso al binario 9 e ¾, «che è assurdo. Un’incursione dentro la Gringott? Dovrebbe essere il posto più inespugnabile del mondo! E cosa fanno i goblin? Sdrammatizzano».

«Certo che sdrammatizzano, Niall. Non è stato rubato nulla, ricordi? Santo cielo,» borbottò la donna, rivolta a Fera, «perché diavolo abbiamo abbonato tuo padre alla Gazzetta del Profeta?».

«L’idea stessa che qualcuno sia entrato nella banca è drammatica, Maire» proseguì imperterrito l’uomo, mentre Fera ridacchiava e scuoteva la testa. «Ci pensi? Meno male che non abbiamo messo i nostri risparmi là dentro, come ci aveva suggerito quel goblin dalla testa grossa…».

Maire e Fera si scambiarono un’occhiata esasperata e lasciarono che Niall, preso dall’indignazione, seguitasse a blaterare. L’uomo poteva anche essere un Babbano, ma l’interesse che mostrava per il mondo magico era paragonabile solo a quello di un Ministro della Magia: da cinque anni era un lettore appassionato delle più importanti riviste magiche, quale appunto la Gazzetta del Profeta, e questo lo faceva sentire in diritto di esprimere a chiara voce le sue opinioni su ogni avvenimento – salvo quando c’erano altri Babbani nei paraggi, ovviamente.

«E cosa fa quell’ameba di Caramell, invece di occuparsene? Si balocca con le sciocchezze…».

«Ehm, papà? Io sarei arrivata».

Finalmente, Niall smise di parlare e si guardò attorno: la barriera di mattoni si ergeva di fronte a loro. «Oh, di già? Come vola il tempo».

Fera sospirò e scosse la testa, poi abbracciò suo padre e sua madre. «Vi scrivo appena arrivo, ok?».

«Studia, mi raccomando. Voglio vedere tanti bei G.U.F.O. sulla tua pagella, l’anno prossimo».

«E se anche stavolta c’è un insegnante di Difesa squilibrato, scriverò al Ministro!» tuonò Niall.

«Tranquillo, quest’anno dovrebbero averne preso uno normale. Ci vediamo a Natale!» e agitando la mano, Fera oltrepassò il muro.

Immergersi nella folla antistante l’Espresso per Hogwarts fu al contempo un sollievo e uno stress. Il mondo babbano sembrava così lontano, quasi non esistesse affatto, eppure Fera poteva ancora avvertirne un’eco dalla parete alle sue spalle.

Ricacciando il leggero magone che le veniva ogni volta che si allontanava da casa, la ragazza si avvicinò al treno. Raggiunta la prima porta disponibile, salì sul predellino e tirò il baule verso di sé: di solito quella operazione le richiedeva qualche tentativo, ma stavolta sperava di farcela senza troppi problemi. Speranza vana.

«Uffa,» si lagnò, dopo la quarta volta che provava ad issare il baule. Come poteva essere così pesante? Di sicuro sua madre ci aveva aggiunto una tonnellata di vestiti pesanti per l’inverno… o forse erano quei quindici-sedici libri che aveva portato da leggere fino a dicembre? Chissà.

«Serve una mano?».

Fera alzò gli occhi. Sulla banchina, di fronte a lei, c’era un ragazzo bruno e alto che le sorrideva. «Oh,» gli rispose, «no, tranquillo, ce la faccio».

Ignorò l’espressione scettica apparsa sul volto del ragazzo e tentò ancora una volta di sollevare il baule, senza riuscirci. Accidenti alle norme! Se solo avesse potuto fare un incantesimo… Invece il divieto di fare magie fuori da Hogwarts si estendeva alla stazione, fino al momento esatto della partenza del treno. Che seccatura.

«Ok, mi arrendo» sospirò rivolta al ragazzo, che allargò il sorriso e alzò la parte di baule rimasta a terra. Insieme riuscirono a trasportarlo fino al corridoio.

«Grazie mille, è stato gentile da parte tua».

«Aspetta, ti aiuto a portarlo nel vagone».

Prima che Fera potesse rifiutare, trasportò il baule fino ad uno scompartimento libero, verso la metà del treno. «Ecco qua» fece lui, mostrandole il posto con un ampio gesto del braccio.

«Grazie di nuovo. Non dovevi disturbarti così tanto».

«Figurati, è stato un piacere».

Fera si aspettava che, a quel punto, il ragazzo la salutasse e andasse via, o che si presentasse; invece le domandò di punto in bianco: «Com’è andata l’estate?».

«Ehm… bene?».

«Sono contento. Pensi di tornare al club di lettura, quest’anno? Io mi sono già iscritto, non vedo l’ora che ricominci…».

Fera restò un po’ perplessa di fronte a quella confidenza. Era convinta di non aver mai visto quel ragazzo in vita sua – o meglio, sicuramente l’aveva incrociato a Hogwarts – ma quello parlava come se si conoscessero da tempo. Incerta se ammettere la sua ignoranza o rischiare una figuraccia, Fera cercò di mantenersi sul vago. Dopo un po’, il ragazzo tacque.

«Tu non ti ricordi di me, vero?».

A quel punto, Fera si arrese. «No» sospirò, «non ho la più pallida idea di chi tu sia, anche se ho capito che siamo nello stesso club di lettura. Ho una memoria terribile per le facce».

Il ragazzo scoppiò in una sonora risata. «Ehi, non è colpa tua. Dicono che io sia cresciuto parecchio, questa estate». Le tese una mano. «Sono Edmund Fawley. Ed. Corvonero, sesto anno, Prefetto, amo i romanzi babbani e ogni tanto li chiedo in prestito a te».

Edmund Fawley? Cosa?! Fera spalancò gli occhi. Ricordava Ed come un ragazzo pieno di brufoli, appena più alto di lei e con la faccia tonda come la luna, mentre quello che aveva davanti… Forse era per l’accenno di barba, ma pareva decisamente più interessante di quanto lei ricordasse.

«Oh, per Circe!» esclamò, stringendogli la mano. «Perdonami, io…».

«Sì, pessima memoria. Non preoccuparti».

Fera accennò un sorriso, ma dentro si sentiva morire d’imbarazzo. Se quello era l’inizio del nuovo anno, non osava pensare a cosa l’aspettasse.

Scambiarono ancora qualche parola, poi Ed la lasciò sola a crogiolarsi nella vergogna. Perché, perché solo lei faceva queste figure di cacca di drago? Con uno così carino, poi!

Quando l’imbarazzo fu un po’ diminuito, Fera si affacciò al finestrino. Gruppi di ragazzini e genitori sciamavano avanti e indietro lungo la banchina, salutandosi e lanciandosi vicendevoli raccomandazioni; aguzzando la vista, intravide infine quello che cercava: una serie di teste coi capelli rosso fiamma, sparse tra la folla variopinta.

Con un gran sorriso, abbandonò bagagli e pensieri e corse verso la porta.

 

«Mostramela. Ora».

«Argh!».

Vedendosela comparire davanti all’improvviso, Percy sobbalzò e quasi cadde dal predellino. Quando capì che era solo Fera, sbuffò con ferocia.

«Ciao anche a te,» rispose, sarcastico. «Bella giornata, non trovi?».

«Quasi quanto il giorno in cui mi libererò di te,» replicò Fera con soavità, osservandolo dall’alto. «Ma basta coi convenevoli: mostramela, o non ti faccio salire sul treno».

Percy sospirò e roteò gli occhicome se fosse esasperato, ma Fera sapeva benissimo che era un modo per nascondere la soddisfazione: un istante dopo, il ragazzo mise una mano in tasca e ne estrasse, avvolta con cura in un fazzoletto, la sua spilla da Prefetto.

«Oooooh!».

«Attenta a non farla cadere, è nuova...».

«Lo so che è nuova, non mi hai scritto altro per tutta l’estate!». Fera prese la spilla, la rigirò tra le dita e poi se l’appoggiò al petto, fingendo di provarsela. «Diamine, mi sarebbe stata benissimo».

Finalmente, si scansò e lasciò salire Percy in treno. Da quando si erano conosciuti, esattamente cinque anni prima, entrambi erano cresciuti parecchio: lui aveva guadagnato in altezza, lei in sicurezza di sé. A volte, a Fera sembrava incredibile che fosse già passato così tanto tempo, ma per convincersi le bastava vedere la fronte di Percy dieci centimetri più in alto della sua.

«Mi dispiace che non abbiano nominato Prefetto anche te,» disse lui, riprendendosi la spilla e seguendo Fera verso lo scompartimento. «Proprio non capisco perché Vitious abbia deciso così».

«Forse è perché ho polverizzato la sua cattedra durante l’ultima lezione?».

«Ma non l’hai certo fatto apposta! Oppure sì? Santo cielo, Fera,» si fermò di colpo, «mi hai promesso che non l’avevi fatto apposta!».

«E infatti non l’ho fatto apposta. Non del tutto».

Se c’era una cosa che Fera amava fare, era suscitare indignazione nel suo amico. Anche quella volta, com’era prevedibile, ci riuscì: il viso di Percy divenne rosso e le sue guance si gonfiarono, pronte a sparare una delle sue solite tiritere. «Sta’ calmo, sto scherzando» lo fermò allora lei.

«Vorrei ben vedere» replicò Percy, gelido.

Lo scompartimento di Fera era ancora vuoto, i bagagli dove lei li aveva lasciati. La ragazza si sedette accanto al finestrino, mentre Percy restò in piedi accanto alla porta. «Parlando seriamente,» riprese lui, «è un vero peccato. Mi sarebbe piaciuto che fossimo entrambi Prefetti».

«Anche a me». Fera prese a frugare nel suo zainetto. «Insieme avremmo impedito a Serpeverde di vincere di nuovo la Coppa delle Case».

«Fera!».

«Che c’è?» Fera alzò le mani. «Non dirmi che non ci hai pensato anche tu. Immagina,» guardò in aria e fece un ampio gesto con la destra, «il Prefetto Weasley che si imbatte in un Serpeverde a caso, gli punta un dito contro e dice: “Stai respirando in maniera scorretta, un milione di punti in meno!”».

Percy fece un verso col naso, come se cercasse di reprimere una risata. «Non è divertente» disse, a dispetto di ciò. «Non posso mica comportarmi come un bullo».

«Non sei un bullo, sei un’autorità».

«Adesso capisco perché non ti hanno nominata Prefetto. Saresti stata terribile».

«Oh, dai, per favore. Almeno una volta, quest’anno, togliti la soddisfazione di levare punti a caso a Serpeverde. Fallo per me».

Disse l’ultima frase con un tale candore, che stavolta Percy non riuscì a trattenere la risata. «Solo una volta, però» mise in chiaro, «e solo perché tu non potrai farlo per conto tuo».

«Mio eroe». Fera tornò a cercare nello zaino. «E comunque, non preoccuparti: ci penserà Penelope a consolarti della mia assenza» buttò lì.

Da parte di Percy vi fu silenzio per un paio di secondi. «P-Penelope?».

«Sì, ti ricordi di lei? Vi ho presentati lo scorso maggio, avete studiato per l'esame di Aritmanzia insieme, nelle tue lettere l’hai nominata più spesso della tua spilla da Prefetto… Quella Penelope».

Di sottecchi, osservò l’amico e rise sotto i baffi. Il viso di lui era diventato tutto rosa, sognante e sorridente. «Penelope è diventata Prefetto? Davvero?».

«Eh, già. Non ha polverizzato nessuna cattedra, lei».

«Ma è splendido». Di colpo, Percy sembrava molto più allegro. «Voglio dire, è una persona seria e responsabile, lavorare con lei sarà sicuramente proficuo…».

«Certo, certo. Lavorare».

Percy ignorò l’ironia. «Chi altro è diventato Prefetto della tua Casa?» chiese.

«Paul. E Catherine per Tassorosso».

«Oh, no!» Percy sospirò gravemente. «Dovrò controllare che non si appartino durante i turni di guardia…».

«E chi controllerà te e Penelope?».

«Fera!».

Finalmente, la ragazza trovò quello che cercava: dallo zaino estrasse un walkman, delle cuffie e due musicassette. «Va bene, la smetto di prenderti in giro» disse. «E per farmi perdonare, quest’anno lascio scegliere a te: Patti Smith o Stevie Nicks?».

Sollevò le musicassette, tenendone una per mano. A partire dal loro secondo anno, avevano inaugurato la tradizione di passare parte del viaggio sull’Espresso ascoltando musica che Fera sottraeva all’ampia collezione dei genitori. Non sempre Percy apprezzava quello che la sua amica sceglieva, ma qualche volta erano riusciti a far incontrare i rispettivi gusti musicali.

Quel giorno, però, Percy non parve gradire la proposta; al contrario, si fece scuro in volto. «In realtà…» borbottò. «Quest’anno non farò il viaggio con te».

Fera spalancò gli occhi e sollevò le sopracciglia. «Cosa?» balbettò. «Perché? Guarda che scherzavo, se ti ho offeso non…».

«No, è che… dovrò stare nel vagone riservato ai Prefetti».

«I Prefetti hanno un vagone?».

«Due. E dovremo anche fare turni di controllo in treno e cose così». Percy si guardò le scarpe. «Ti dispiace?».

Fera si trattenne dal fare una smorfia. «Ma no, figurati. Sono solo sorpresa». Sorrise. «Vorrà dire che ascolterò Patti Smith e Stevie Nicks».

«Davvero, io preferirei che non fosse così, però…».

«Non preoccuparti» ripeté Fera. In quel momento si accorse di alcuni dettagli, come l’assenza del bagaglio di Percy e il suo rimanere vicino alla porta, che avrebbero dovuto farle capire immediatamente quanto le era stato detto a voce.

Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante. «Meglio che vada,» disse infine lui, «devo cambiarmi e salutare mia madre».

«Certo. Ci vediamo a Hogsmeade».

Con un cenno del capo, Percy uscì e si allontanò verso la testa del treno. Fera rimase ad osservare le musicassette che teneva tra le mani, poi le appoggiò mestamente accanto a sé.

In quegli anni, non aveva mai viaggiato da sola. Sebbene i suoi amici si contassero sulle dita di una mano, Fera ci teneva a passare il tempo in loro compagnia, perlomeno nella parte magica dell’Inghilterra: per questo, trascorreva i tragitti sull’Espresso per Hogwarts sempre insieme a Percy, Paul e Catherine. A quanto pareva, però, quel giorno nessuno dei suoi tre amici sarebbe stato lì a farle compagnia, e probabilmente le cose sarebbero addirittura peggiorate nel corso dell’anno scolastico. Poteva ancora andare a far compere da Scrivenshaft con Catherine? Sarebbe riuscita ad incontrarsi in biblioteca con Percy ogni giorno, alle quattro, per fare i compiti? E chi lo sapeva? Ora che tutti erano Prefetti, tranne lei, di sicuro i loro orari avrebbero smesso di coincidere, e così la loro disponibilità a stare insieme.

Persa in questi pensieri, Fera quasi non si accorse che il treno era partito. Il nuovo anno scolastico era ufficialmente iniziato.

 

*****

 

Non passò nemmeno un'ora perché Med si pentisse di non avere costretto Louis a salire sull'Espresso e a venire a Hogwarts con lei. Perché – continuava a chiedersi – le ragazze del suo anno erano una tale palla? E perché si portavano dietro sorelle ancor più pallose di loro?

«Non vedo l'ora di essere a Hogwarts! Belia dice che è fantastica, devi solo studiare parecchio, ma non importa, in fondo... Eh, Belia?».

"Belia" riemerse improvvisamente dal cumulo di stracci accanto al finestrino – No, non è un cumulo di stracci, sono solo due idioti che non possono fare a meno di pomiciare in qualsiasi momento – e guardò la sorella, mettendosi a posto la chioma nera. «Cosa dicevi, Pansy?».

Alle sue spalle Miles Bletchley, il portiere di Serpeverde, fissava Lobelia con un'espressione beata, pregustandosi probabilmente il momento in cui avrebbe ripreso ad affondarle la lingua in bocca. Miles era del terzo anno, ma la sua fama di bravo giocatore gli aveva fatto guadagnare le attenzioni di una ragazza più grande – di età, non di cervello. Lobelia non era bella, tuttavia aveva già collezionato un buon numero di fidanzati e appuntamenti, al contrario delle sue due amiche, e non passava giorno in cui non dovesse ricordarglielo.

«Che devi tenere le mani e la bocca a posto» rispose Med, anticipando qualunque altra stupidaggine volesse dire Pansy. «Siamo su un treno, non in un bordello.»

Lobelia avvampò e le rivolse un'occhiata furente, ma non disse nulla: poteva anche avere successo con i ragazzi, poteva anche provenire – come Grace – da una famiglia Purosangue, però era chiaro che il capo del terzetto fosse Med. Non doveva fare altro che ricordarglielo, ogni tanto.

Proprio mentre nello scompartimento era sceso il silenzio, interrotto soltanto dal suono della mascella di Grace, la porta si spalancò rivelando un figura pallida e allampanata. «Ciao, Med. Posso sedermi con voi?».

«Ciao, Theo. Vieni pure, Lobelia ti farà spazio».

«A dire la verità, Med, qui siamo già in tre. E Grace non ci permette di entrare in sei in un solo scompartimento...».

«Lo so, ma tanto Miles stava andando via. Vero, Miles?».

Med parlò senza guardare il portiere. Fissava Lobelia, in attesa che passasse gli ordini al suo cagnolino.

«Ci vediamo dopo, Miles» disse a denti stretti, spingendolo nel corridoio e tornando a sedersi.

Senza scomporsi, Med passò alle presentazioni. «Theo, loro sono Grace Pucey e Lobelia e Pansy Parkinson. Ragazze, lui è Theodore Nott, il fratello di Louis».

«...'ao» mormorò Grace mentre masticava l'ennesima bacchetta alla liquirizia.

«Ciao, Theo!» esclamò Pansy porgendogli la mano: sembrava l'unica persona entusiasta di vederlo lì. «Sei del primo anno anche tu? Serpeverde?».

«Beh... non lo so ancora, ma ne sono abbastanza certo, sì». Mentre parlava, Theo aveva già cominciato a tirare fuori dal baule il libro di Pozioni. «Ehi, sapete chi...?».

Prima che potesse dire altro, la porta si aprì di nuovo e Adrian Pucey, il fratello minore di Grace, fece irruzione nello scompartimento.

«Non c'è posto!» si affrettò a dire Lobelia, forse temendo che anche sua sorella venisse mandata via.

«Ce l'ho già, un posto, genio» rispose Adrian con una smorfia, poi si rivolse alla sorella. «Grace, hai saputo?».

«La signora del carrello è malata? Cavolo, sapevo che avrei dovuto portarmi dietro un panino!».

«Un po' di dieta non ti farebbe male. No, intendo dire... Potter! Dicono che sul treno ci sia Harry Potter!».

Pansy fece un gridolino. «Belia, posso andare a vedere? Dai, Belia, ti prego!».

«Mamma ha detto che devi stare con me, quindi da qui non ti muovi. Che storia è questa, Adrian?».

«Marcus ha sentito Baston dire che Jordan aveva sentito dai gemelli Weasley che Potter era sul treno!».

«Mi sta venendo il mal di testa...» esclamò Med, facendo capolino dietro la montagna di dolci di Grace. Non appena la vide, Adrian sbiancò.

«Oh... ehi... ciao, Med».

«Quanti anni dovrebbe avere Potter?» chiese lei, ignorando il saluto: Adrian aveva cominciato a comportarsi in quel modo da quando era andata a trovare i Pucey durante l'estate e ancora non si era degnato di spiegarle il motivo. «Undici?».

«Ma se Marcus dice che Baston sostiene che...».

«Ti prego, Lobelia, non ricominciare. A quanto pare, nessuno dei presenti ha visto questo Potter, quindi basterà fare un rapido calcolo per capire se queste voci corrispondono a verità».

«Io l'ho visto».

Si voltarono tutti verso Theo, che era già affondato nel libro di Pozioni – Tipico dei Nott.

«È quello che volevo dirvi prima. Potter era alla stazione, me l'ha indicato mio padre» spiegò. «Ha detto che era identico al padre e che oggi avrebbe undici anni, quindi doveva essere lui».

«Beh, certo, quel che dice il tuo paparino è sicuramente più vero di...». Lobelia si interruppe, cogliendo lo sguardo intimidatorio di Med.

«Belia, dai, posso andare?» squittì ancora Pansy saltando sul sedile.

«Basta, lo vedrai a scuola!».

«Mi sorprendi, Lobelia». Med aggrottò la fronte. «Come mai non hai nessuna voglia di andare a cercare la star del momento?».

Lobelia sospirò, cercò una posizione più comoda e si controllò le unghie. «Non credo che Potter sia degno delle mie attenzioni. Voglio dire, è solo un moccioso orfanello che una volta, per puro caso, ha annientato il più grande mago di tutti i tempi. Ma se tu e il tuo amico Nott voleste andare a cercarlo...».

«No, non me ne andrò per permetterti di limonare qua dentro con Miles. Come tu stessa hai detto a Pansy... lo vedrai a scuola».

Prima che Lobelia potesse ribattere, alle spalle di Adrian – che era ancora in piedi sulla porta, con lo sguardo a terra da quando Med si era manifestata – apparvero due ragazzoni del primo anno grossi come quelli del terzo, con spalle larghe e braccia grassocce; dovette passare qualche secondo perché tutti si accorgessero che c'era un altro studente con loro, molto meno imponente e con l'arroganza tipica della sua famiglia già stampata in volto.

«Potter è qui» disse a Pansy senza degnare di un saluto nessuno degli altri presenti.

Non c'era bisogno di presentazioni: capelli biondi, occhi grigi, pallido come la morte, quello era un Malfoy. Il carissimo amico della sorella di Lobelia, stando ai suoi racconti.

«Oooh!» esclamò sorpresa Pansy, come se non lo avesse ancora sentito da altre due persone. «Posso andare con Draco, Belia? Posso?».

Questa volta Lobelia non la sgridò. Si spostò una ciocca nera dietro l'orecchio e sorrise a Malfoy. «Ciao, Draco. Mi dispiace, ma mia madre ha insistito così tanto che Pansy rimanesse con me durante il viaggio...».

La sua voce melliflua tradiva l'interesse che aveva nei confronti del ragazzino. Se fosse stato più grande di almeno un paio di anni, Med avrebbe scommesso che Lobelia stesse tentando di sedurlo; tuttavia in quella precisa situazione non c'erano dubbi: Draco era un Malfoy e i Malfoy erano tra le più rispettabili famiglie di maghi Purosangue.

Ma non sono come i Nott.

Se la madre di Louis e Theo era stata bendisposta nei confronti della sua famiglia nonostante la scelta di Diane di sposare un Babbano, i Malfoy erano dall'altra parte della barricata insieme al signor Nott: si trattava, in sostanza, di quel preciso tipo di persone che Diane aveva voluto evitare rimanendo a casa quel giorno. Lucius, Narcissa e il loro figlioletto non avrebbero visto di buon occhio la Mezzosangue Med, ma per fortuna non sembrava che Draco fosse in vena di conoscenze che non fossero Harry Potter, il bambino che era sopravvissuto alla più forte Maledizione Senza Perdono probabilmente mai lanciata.

«Va' con lui, Pansy».

Lobelia si girò di scatto verso di Med. «Cosa?».

«Prima o poi tua sorella dovrà rimanere senza di te, o vuoi accompagnarla anche a lezione? Meglio che cominci a farlo con una persona che conosce da una vita».

Pansy guardò Lobelia, poi Med, di nuovo la sorella e alla fine si alzò entusiasta dal suo posto per seguire Malfoy nel corridoio del treno.

E ci siamo levati di torno anche quella piaga.

Dei quattro che avevano sostato sulla porta, soltanto Adrian era ancora lì.

«Che c'è? Vuoi sederti qui?» sbottò Med, stufa del suo stupido e improvviso silenzio.

«No... no, vado via. Volevo... ehm... augurarti buon viaggio».

«Grazie» bofonchiò senza neanche guardarlo. Adrian si allontanò, chiudendosi la porta alle spalle, e solo allora Med udì Lobelia ridacchiare.

«Cosa c'è?».

Il suo sorriso divertito prese alla sprovvista tutti quanti: Grace smise per un attimo di mangiare e gli occhi di Theo fecero capolino dalla cima del libro.

«Hai fatto colpo, cara la mia donna di ghiaccio».

«Di che cavolo stai parlando, Lobelia?». Med stava già cominciando a spazientirsi.

«Adrian! Non hai visto come ti guarda?».

«Come non mi guarda, vorrai dire».

«Esatto! Quando un ragazzo non ha il coraggio di guardarti, significa che è cotto di te, non lo sai?».

«So solo che dici un mucchio di cavolate. Grace, tu lo conosci meglio di tutte, dille come stanno le cose».

«È vero».

«Grazie, Grace...».

«No, intendevo dire che è vero, Adrian è cotto di te».

Il sorriso di Lobelia si fece, se possibile, ancor più irritante. «Era così palese! Ah, finalmente anche tu assaggerai le gioie dell'amore e mi lascerai in pace! Un tempo non avrei proprio capito cosa ci trovasse in te, ma ora che non sei più...».

«Basta, Lobelia!».

Med aveva quasi urlato. Non sopportava quel discorso, non sopportava ricordare il suo terzo anno e non sopportava Lobelia. Seguendo l'esempio di Theo, prese un libro a caso dal baule e si immerse nella lettura.

 

*****

 

Due ore dopo la partenza, Fera dormiva con la fronte schiacciata contro al finestrino; a risvegliarla bruscamente fu lo scatto della musicassetta nel walkman, segno che era già ora di cambiare lato. La ragazza sbadigliò, si strofinò gli occhi e lanciò uno sguardo alle quattro undicenni seduti nel suo stesso scompartimento, che chiacchieravano di ciò che avrebbero trovato una volta a Hogwarts.

«… dicono che questo sia il suo primo anno! Vi immaginate? Chissà com’è…».

«Di sicuro è bellissimo».

«E potente! Ho letto che gli è bastato guardare Voi-Sapete-Chi per…».

Fera aprì il walkman e girò la cassetta. Il rumore attirò l’attenzione delle undicenni, che tacquero e si voltarono a guardarla. Notando il loro interesse, la ragazza sorrise.

«Tecnologia babbana, piccole,» spiegò, agitando la cassetta. «Se fate le brave, potrei addirittura raccontarvi come funziona».

Tre ragazze fecero “Uuuuuh”, ma la quarta grugnì. «Chi se ne importa, di quella robaccia babbana» commentò, ostentando insofferenza. «Siamo streghe, noi».

«Anche Patti e Stevie lo sono,» ribatté Fera senza perdere il sorriso, «ma voi, coi vostri intrasportabili grammofoni magici, non potete ascoltarle in treno, mentre io sì». Mostrò di nuovo la cassetta. «Mica male per una robaccia babbana, eh?».

«Ha ragione lei, Millicent» ridacchiò la ragazza bionda seduta a sinistra di Fera. Quella che si chiamava Millicent storse il naso, incrociò le braccia e si chiuse in un mutismo impenetrabile.

Uno a zero.

Senza aggiungere una parola, Fera cambiò lato alla cassetta e si rimise nella posizione di prima, testa contro finestrino. Ogni occasione era buona, per difendere la propria origine non magica.

La musica ripartì. Fera sapeva che era solo questione di minuti, prima che il meccanismo del walkman soccombesse alla vicinanza con Hogwarts e le rendesse impossibile ascoltare musica decente fino a dicembre; si predispose quindi a non lasciarsi disturbare da alcunché.

Niente e nessuno doveva mettersi tra lei e “Bella donna”.

Ovviamente, proprio in quell’istante la porta dello scompartimento si spalancò, e un tornado dai boccoli dorati si gettò tra le braccia di Fera.

«Finalmente ti ho trovata!» ululò Catherine. «Perché diavolo non sei venuta da noi?!».

Schiacciata dal peso dell’amica, Fera cercò di divincolarsi. «Perché siete nel vagone dei Prefetti, voialtri!» rispose a fatica, appena Catherine si fu staccata da lei. «Che ci fate qui?».

Dalla porta si affacciò anche Paul.«Beh, non siamo mica obbligati a fare tutto il viaggio insieme ai Prefetti e ai Capiscuola» rispose questi. «Appena abbiamo potuto, siamo venuti a cercarti».

Fera fece un enorme sorriso. All’improvviso dimenticò le preoccupazioni che l’avevano crucciata due ore prima. «Temevo di dover stare da sola per tutto il tempo…».

«Sei proprio sciocca. Scusa, bimba, mi serve che ti scansi». Con un gesto, Catherine fece spostare una delle undicenni e si sedette davanti a Fera. «Perché non sei venuta con noi? Non hai incontrato almeno Percy?».

«Beh, sì, ma lui ha detto che…».

«E ti pareva! È sempre colpa di Percy!» sentenziò Catherine, rialzandosi di scatto. «Andiamo, ti porto nel nostro vagone».

«Amore, non credo sia possibile…» tentò di dire Paul. Quel ragazzo era dolcissimo, ma assolutamente impotente di fronte alle decisioni della sua fidanzata, la quale infatti lo ignorò per rivolgersi alle ragazzine. «Bimbe…» iniziò a dire.

«Bimba sarai tu!» le rispose Millicent.

«Sì, sì, adesso fa' parlare l’adulta. Noi lasciamo qui il bagaglio della mia amica: fategli la guardia e io vedrò di non togliere troppi punti alle vostre future Case. Tutto chiaro?».

Fera e Paul si scambiarono un’occhiata rassegnata. Catherine poteva anche essere una dolce e amichevole Tassorosso, ma nessuno riusciva mai a superare la sua forza di volontà.

 

Il primo dei due vagoni riservati a Prefetti e Capiscuola era esattamente uguale a tutti gli altri; da quel punto di vista, sembrava che gli amici di Fera non godessero di particolari privilegi.

«Eccoci qua». Catherine spalancò uno scompartimento e fece cenno all’amica di entrarvi. «C’è giusto il posto per un’altra persona».

«Permesso?» domandò Fera, automaticamente. Alla sua sinistra trovò seduto Percy, che sembrava assorto in una fitta conversazione con Penelope Light: quando lui la vide entrare, sulle prime parve contento, poi assunse un’aria severa.

«Questi vagoni sono solo per i Prefetti!» sbottò.

«Silenzio, tu. Come hai potuto abbandonare la nostra amica?!» lo rimproverò Catherine, con aria drammatica. Percy lanciò un’occhiataccia a Fera mentre entrava, e lei, con la massima noncuranza, si passò il dito medio sul naso in modo che lui lo vedesse. Solo dopo aver salutato anche Penelope, notò l’altro occupante dello scompartimento.

«Ehi» la salutò Ed, con lo stesso enorme sorriso di prima. «Com’è piccolo il mondo, eh?».

«L’Espresso per Hogwarts lo è ancora di più» rispose Fera, sentendosi avvampare senza motivo. Si sedette di fronte a lui; per un po’ ascoltò Catherine ciarlare delle ultime due ore trascorse tra istruzioni e regolamenti, ma ad un certo punto Ed si chinò verso di lei. «Posso chiederti una cosa?».

«Certo» disse Fera.

«So che è stupido, ma… Hai un nome strano, e mi sono sempre domandato…».

Fera trattenne una risata. «Me lo dicono spesso, sì. Per farla breve: i miei genitori erano indecisi tra Fey e Clara, quindi hanno trovato una via di mezzo».

Doveva essere la millesima volta che raccontava quella storia. Tutti le domandavano da dove sbucasse quel nome insolito, se fosse tipicamente babbano o se si trattasse di un diminutivo… L’unico a non averle mai chiesto spiegazioni era Percy, ma lui era un caso a parte.

Ed sembrò molto divertito dalla storiella, e per un po’ chiacchierò con Fera del più e del meno. Chissà come mai non si erano frequentati, a scuola; doveva essere a causa della differenza di età, altrimenti Fera non comprendeva perché non avessero legato prima. Parlare con lui era così gradevole…

«Ehi, avete letto il Profeta in questi giorni?» chiese a un tratto Penelope, rivolta a tutti i presenti. «Pare che…».

«Ti riferisci all’effrazione nella Gringott, vero?» intervenne Percy. «Incredibile, no? Voglio dire, dovrebbe essere il posto più sicuro al mondo… È inconcepibile. E i goblin sdrammatizzano! Che c’è?» chiese bruscamente a Fera, accorgendosi che questa lo fissava.

«Ti ho mai presentato mio padre, Perce?» domandò lei.

«Tuo… padre? Mi pare proprio di no».

«Controllavo soltanto». Mosse una mano in un gesto che indicava di proseguire col discorso.

«In realtà,» riprese Penelope, «mi riferivo al fatto che quest’anno dovrebbe esserci anche Harry Potter, a scuola».

«Harry Potter?» fece Paul. «È già ora?».

«Fantastico!». Catherine congiunse le mani. «Finalmente, essere più piccola delle mie sorelle porta a qualcosa di buono… Io andrò a scuola con Harry Potter, e loro no! Oh cielo,» si portò le mani al viso, «potrei essere Prefetto della Casa di Harry Potter!».

«Perché, secondo te sarà smistato in Tassorosso? Il bambino che ha sconfitto Voi-Sapete-Chi, a Tassorosso?».

L’occhiata furiosa di Catherine raggelò Penelope. «Ha il venticinque per cento di probabilità di essere smistato a Tassorosso: sperarci è più che ragionevole, no?» osservò seccamente.

«Potrebbe anche essere un Corvonero,» intervenne Paul, per stemperare l’atmosfera. «Sono secoli che un personaggio importante non passa per la nostra Casa… Sarebbe un onore».

«Sono d’accordo, Corvonero sarebbe una scelta sensata… Almeno rispetto a Tassorosso» disse ancora Penelope. Con la coda dell’occhio, Fera osservò le reazioni di Catherine: la fronte corrugata e le labbra arricciate indicavano, senza ombra di dubbio, che Penelope si era appena guadagnata tutto il suo odio.

«Non è una questione di scelta: Harry Potter verrà smistato in base al suo carattere, tutto qui». Ed accennò un sorriso verso Fera, quando la vide attenta alle sue parole. «Se ha attitudini da Tassorosso andrà in quella Casa, se risulterà più Corvonero, invece…».

«Bello notare come abbiate escluso Grifondoro dalle vostre illazioni». Un verso esasperato provenne da Fera, in risposta all’osservazione di Percy. Questi insistette: «Beh? È vero. Non esistono solo le vostre Case».

«Giusto, ma sei in minoranza, quindi zitto» disse Fera, facendogli poi la linguaccia. «Comunque, nessuno di voi ha pensato allo scenario più interessante».

«Ossia?».

«Se finisse a Serpeverde».

Un silenzio di tomba calò nello scompartimento. «Non oso immaginare,» disse infine Paul, «quanto diventerebbero insopportabili i Serpeverde, se Potter finisse nella loro Casa».

Tutti quanti convennero. I membri della Casa di Salazar erano già abbastanza pieni di sé: non avevano bisogno di un ulteriore motivo a sostegno della loro superiorità.

 

*****

 

Per la barba di Merlino, muovetevi.

Lo stomaco di Med gorgogliava, ma la tradizione andava rispettata: niente cena finché lo Smistamento non fosse finito. Il guaio era che non era neanche iniziato.

Se solo avessi preso qualcosa dal carrello...

Rimpiangeva di non aver mangiato niente sull'Espresso per Hogwarts, tanto era arrabbiata con Lobelia e Grace – che, seduta accanto a lei, continuava invano a esaminarsi le tasche in cerca di residui di Pallotti Cioccocremosi. No, più che arrabbiata Med si era innervosita e questo costringeva il suo cervello ad arrovellarsi in cerca della verità.

Il terzo anno per lei era stato terribile: la pubertà era una brutta bestia, ma vedersi spuntare peli da ogni dove era stata la cosa peggiore. C'era chi pensava che le avessero gettato una maledizione, perché a distanza di tre giorni le sopracciglia tornavano a nasconderle quasi completamente gli occhi castani, mentre un accenno di barba le spuntava dal mento. Med aveva provato con tutto, finché sua madre non aveva deciso di portarla al San Mungo e farle fare un Incantesimo Anti-Ricrescita. Peccato che ciò fosse accaduto non appena aveva rimesso piede a casa, qualche mese prima, quando sua madre aveva appurato lo stato effettivo delle sue sopracciglia cespugliose; prima di allora, non c'era stato verso di trovare una soluzione e mettere a tacere le voci – probabilmente messe in giro da qualche compagna di dormitorio – sul suo reale sesso biologico.

Med si era sfogata nel modo che preferiva, strafogandosi di pudding e roast beef come sempre, senza immaginare che anche il suo metabolismo dovesse essere cambiato. Nel giro di cinque settimane era ingrassata di due taglie e la situazione era andata peggiorando; prima del termine delle lezioni aveva rischiato di fare invidia a Grace, ma fortunatamente l'arrivo dell'estate era stato provvidenziale.

Il primo settembre Med non aveva – né avrebbe più avuto – peli di troppo sul viso e, sebbene il suo fisico non fosse tornato a essere quello di una ragazzina, la dieta l'aveva resa una donna. O era ciò che suo padre diceva quando Med si lamentava di avere ancora un sedere troppo grande.

Alla fine della giornata Med era giunta a una conclusione: qualcosa era cambiato nel modo in cui i ragazzi la guardavano, se ne rendeva conto dagli sguardi che ricevette anche da un paio di Corvonero. L'idea, tuttavia, che Adrian si fosse preso una cotta per lei continuava a disturbarla: Med era sempre la stessa persona, come poteva vederla in un altro modo?

Si riscosse dai propri pensieri nel momento in cui nella Sala Grande scese il silenzio: la professoressa McGranitt teneva in mano un rotolo di pergamena, pronta a iniziare lo Smistamento.

Finalmente.

«Abbott, Hannah!».

Codini biondi: troppo facile.

«Tassorosso» mormorò Med un attimo prima che il Cappello Parlante ripetesse la stessa parola.

Era uno dei suoi giochi preferiti: gettava un rapido sguardo ai nuovi studenti, ipotizzava la loro Casa e la maggior parte delle volte ci azzeccava in pieno. Fino all'anno precedente ci aveva giocato con Louis, ma ora le toccava indovinare da sola perché Lobelia e Grace non avrebbero mai trovato il gioco interessante quanto "Purosangue o Mezzosangue".

Indovinò un altro Tassorosso e due Corvonero, ma giocare da sola era noioso. All'improvviso alle sue spalle udì: «Grifondoro».

Era così stupita che non fece nemmeno una propria ipotesi per «Brown, Lavanda». Voltandosi, scoprì che Grace aveva scambiato il proprio posto con il fratello. Sembrava una persona diversa rispetto a quella che aveva visto sul treno e quel giorno d'estate a casa dei Pucey; sembrava, a dire la verità, l'Adrian che aveva sempre conosciuto con il suo tipico sorriso genuino e la fossetta sul mento – nonostante quello strano rossore sulle guance. Guardandolo meglio, Med si accorse che qualche cambiamento c'era stato: Adrian era più alto di lei, lo notava anche se erano seduti, e intorno alla bocca sottile era spuntata una manciata di peli.

Perché la pubertà dev'essere così semplice solo per i maschi?

«Non si gioca così?».

Doveva essere rimasta a fissarlo per un po', perché la voce della McGranitt aveva appena annunciato: «Finnigan, Seamus!». Si riscosse e assunse la tipica aria altezzosa dei Serpeverde – quella che preferivano mostrare quando venivano colti in fallo.

«Grifondoro» si limitò a dire, indicando con un cenno del capo il ragazzino che aveva appena indossato il Cappello Parlante.

«Tu dici? Mi sembra più Tassorosso...».

«Fidati, è Grifondoro».

Ebbero tutto il tempo di discutere della futura casa di Finnigan perché il suo Smistamento durò quasi un intero minuto; come indovinato da Med, il Cappello urlò: «GRIFONDORO!».

«Si vede dagli occhi» spiegò lei. «Quel Finnigan ha l'aria di far saltare l'intera scuola per farne una delle sue».

«Granger, Hermione!».

«Questa è Corvonero».

«Io dico Grifondoro» ipotizzò Adrian.

«Stai scherzando? Ha già l'espressione da prima della classe!».

Il Cappello, tuttavia, diede retta ad Adrian. Med strinse le palpebre, ma si stava cominciando a divertire. Indovinò tutti gli altri finché non giunsero a «Paciock, Neville»; quando il ragazzino cadde, Med sogghignò.

«Mi pare di averlo già visto a King's Cross, quello. Sicuramente Tassorosso.»

«Grifondoro» la corresse Adrian.

Med sollevò un sopracciglio. «Ma l'hai visto? Cos'avrebbe quel ciccione di coraggioso e... spericolato?». La sua bocca rimase aperta, tuttavia, quando il Capello smistò lo studente a Grifondoro.

«I genitori» rispose Adrian con un sorriso. Il rossore gli era quasi del tutto sparito dalle guance. «I Paciock discendono da una lunga stirpe di Purosangue e Grifondoro, non fidarti delle apparenze».

Dopo Paciock vennero un paio di Serpeverde, tra cui Malfoy, e finalmente fu il turno di Theo. Su di lui Med non aveva dubbi e il suo applauso fu il più fragoroso quando, con un enorme sorriso sul volto, il fratello di Louis venne Smistato a Serpeverde. Anche Pansy dovette raggiungere il tavolo della sorella, ma Med non si diede la pena di battere la mani nemmeno una volta.

Lei e Adrian stavano ancora discutendo dell'incredibile avvenimento appena accaduto – due gemelle Smistate in Case diverse - quando tutti i mormorii che avevano attraversato la Sala Grande si interruppero. La McGranitt aveva chiamato un nuovo nome, e non uno qualsiasi.

«Potter, Harry!».

Un ragazzino mingherlino, occhialuto e con una massa di disordinati capelli neri si stava avvicinando al Cappello Parlante. Sembrava una persona qualunque, ma il suo nome lo tradiva.

«È lui?» Med udì qualcuno mormorare al suo tavolo. «Potter... è lui?».

Nessuno dei due Serpeverde ipotizzò la sua futura Casa. Med lo fissava in silenzio, chiedendosi come fosse possibile che quel bambino, al tempo solo un neonato, avesse potuto sconfiggere il più potente mago oscuro di tutti i tempi. Sembrava così... comune, uno di quegli studenti a cui passare accanto senza accorgersi della loro presenza. Un bambino qualsiasi e, al contempo, il più famoso di tutta la comunità magica.

«GRIFONDORO!».

Il Cappello ci mise un po', ma alla fine fu quella la sua decisione. Il tavolo di Grifondoro scoppiò in applausi e grida di felicità, e uno di quegli stupidi dei Weasley si alzò per stringergli la mano. Le venne da vomitare.

Il gioco continuò per pochi altri nomi, ma lo sguardo di Med continuava a tornare al tavolo di Grifondoro – così come quello di gran parte degli studenti. Non riusciva a trovare una risposta.

 

*****

 

L’arrivo a Hogwarts fu festoso e caloroso come sempre. Fera non invidiava proprio i ragazzi di primo anno costretti ad affrontare il lago in barca, per quanto quella sera il tempo fosse splendido: non una nuvola oscurava le stelle. Si incantò a guardare il soffitto della Sala Grande, la cosa che più amava in assoluto della scuola, e pensò che non era troppo diverso da quando l’aveva visto per la prima volta.

«I primini ci stanno mettendo un sacco,» sussurrò Penelope, seduta accanto a lei. «Qual è il problema? Perché non iniziano?».

Fremeva d’impazienza, e il motivo era uno solo: la curiosità. Quasi tutte le persone sedute nella Sala attendevano il momento in cui avrebbero visto, per la prima volta, il leggendario Harry Potter.

Si trattava, per lo più, di figli di maghi, cresciuti con il racconto della sconfitta di Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato da parte di un neonato dagli straordinari poteri; da parte sua, Fera aveva solo letto qualcosa sui libri di storia magica contemporanea, ma non poteva negare che l’attesa rendesse vagamente ansiosa anche lei.

Ci volle ancora un minuto prima che la porta della Sala Grande si spalancasse, lasciando entrare i nuovi arrivati. Sebbene avessero solo quattro anni meno di lei, a Fera parvero piccolissimi. Dalla sua posizione non li vedeva molto bene, ma quando si fermarono intravide subito una chioma rosso brillante, e ricordò le lettere in cui Percy le parlava del fratello minore prossimo a iniziare la scuola.

«Vedi quello lì?» disse, dando di gomito a Penelope. «È il fratello di Percy. Gli somiglia, non trovi?»

«Oh! È vero, gli assomiglia un sacco. Com’è carino!».

Non era “carino” il termine che Fera avrebbe usato, semmai “spaesato”, ma lasciò stare. Cercò di seguire lo Smistamento: dopo i primi, tuttavia – tra cui la Millicent incontrata in treno, che fu mandata senza sorpresa a Serpeverde – fu difficile non cedere alla noia. L’attenzione si risvegliò quando un certo “Paciock, Neville” rimase sotto al Cappello per quasi due minuti, e tornò del tutto quando, dopo “Perks, Sally Anne”, fu chiamato “Potter, Harry”.

Un fitto brusio accompagnò il piccolo Harry verso lo sgabello. Lui che era piccino: mingherlino, coi capelli sparati in ogni direzione, gli occhiali storti e i vestiti che lo facevano apparire ancora più magro. A Fera, più che curiosità, ispirò tenerezza.

«Ma quello… non sembra Harry Potter» commentò Penelope, evidentemente delusa dall’aspetto del leggendario bambino.

«Che ti aspettavi, Arnold Schwarzenegger?» avrebbe voluto chiedere Fera, ma tenne per sé la citazione babbana e guardò il Cappello calare sulla fronte del bambino.

E se fosse finito nella sua Casa? Paul aveva ragione, per Corvonero sarebbe stato un grande lustro. D’altra parte, era come diceva Ed: dipendeva dal suo carattere, non da altro.

Dopo qualche lungo secondo, in cui si potevano sentire i ritratti stessi respirare, il Cappello emise il verdetto a gran voce.

«GRIFONDORO!».

Fera sobbalzò, mentre il tavolo rosso e oro esplodeva. D’istinto, la ragazza cercò con lo sguardo Percy, e quando lo vide sorrise: il suo amico si era alzato in piedi per dare personalmente il benvenuto a Harry nella sua Casa.

«Per Circe,» mormorò tra sé, «adesso ci rinfaccerà per secoli il fatto che il grande Potter è un Grifondoro come lui».

In fondo, però, non le dispiaceva; e quando Percy guardò raggiante nella sua direzione, si congratulò in silenzio alzando un pollice.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II
 
31 ottobre 1991
 
Per tutto il giorno, grosse nubi minacciose avevano fatto temere il peggio a studenti e insegnanti di Hogwarts, convinti che prima di sera si sarebbe scatenata una tempesta in piena regola. Fu con enorme sollievo, dunque, che tutti guardarono al soffitto della Sala Grande nel momento in cui entravano per il banchetto di Halloween: tra le nuvole, riflesse dal cielo all’esterno, si intravedevano stralci di blu stellato sparsi qua e là.
«Oddio, meno male» commentò Catherine ad alta voce. «Non sopporto di mangiare sotto la pioggia».
«Neanche ti bagnassi davvero!».
«Ma l’impressione è quella».
Fera scosse la testa. Era talmente abituata al clima umido e piovoso di casa sua, che quelle due nubi in croce non le facevano alcun effetto. «Sta’ piuttosto attenta ai pipistrelli, quelli sì che possono darti fastidio».
«Pipis-ah, no. Non quest’anno». Catherine estrasse la bacchetta e si acquattò, lanciando sguardi torvi agli stormi di pipistrelli che sorvolavano la Sala. «Non permetterò a nessun topo volante di impigliarsi nei miei capelli, stavolta».
«Che fine ha fatto Paul?».
Le due ragazze erano sedute dando le spalle ai rispettivi tavoli, in maniera da poter chiacchierare senza essere obbligate a separarsi dai compagni di Casa. «Penso sia da qualche parte con Percy, avevano l’ultimo turno di ronda insieme. Loro due, più Diodora e Penelope» Catherine pronunciò l’ultimo nome con un brivido di fastidio.
«Cathy, non potresti sforzarti di trovare Penelope simpatica?».
«Solo perché piace a Percy? Anche no, grazie». Sbuffò. «Proprio non capisco come tu abbia potuto presentarglielo...».
«Te l’ho detto: Penelope è perfetta per lui». Fera si chinò in avanti: era la centesima volta che ripeteva quel discorso, ma la sua amica sembrava decisa a non comprenderlo. «È intelligente, aggraziata… ed è bionda. Percy adora le bionde, lo sai».
«No, non lo so. È roba che confida solo a te, grazie al cielo».
«Ad ogni modo, secondo me starebbero benissimo insieme, e inoltre si piacciono. Fattene una ragione».
Catherine sbuffò di nuovo. «Non sono affatto d’accordo con te» borbottò.
Fera alzò le spalle. «Vedrò di convivere con questa consapevolezza».
La Tassorosso parve sul punto di dire qualcosa, ma tra lei e Fera passò un gruppo di bambine del secondo anno e dovette interrompersi. «Sai bene come la penso» disse finalmente, chinandosi il più in avanti possibile nello spazio tra i tavoli di Corvonero e Tassorosso. «Te lo dico da quando abbiamo dodici anni, che Percy…».
«Sì, so come la pensi, e tu sai come la penso io» si affrettò a rispondere Fera, troncando il discorso. «E ti ho già detto che una cosa simile non accadrà mai, se non nella tua testa».
«Ma tu…».
«Pipistrelli, Cathy».
Lanciando un gridolino, Catherine cadde dalla panca; invece di rialzarsi subito, guardò nervosamente in aria in cerca dello stormo in avvicinamento. «Stronza» ringhiò, quando capì che era stato solo un trucco di Fera per distrarla. Questa le fece la linguaccia e le voltò le spalle, segno che per lei la discussione era chiusa.
Per le Erinni, Catherine era adorabile, ma possedeva una testardaggine rara. Tirare fuori quella storia, quando ormai dovevano aver messo in chiaro che... Maledizione. Fera non poteva esserne certa, ma avrebbe scommesso sul fatto che il Cappello Parlante avesse considerato l'idea di mandare Catherine a Serpeverde.
«Buon Halloween!».
Sentendo quella voce alle sue spalle, Fera si voltò di nuovo e sorrise. «Buon Halloween anche a te,» rispose a Percy, «e… che diavolo è successo?».
Percy stava sorridendo, e non fece una piega di fronte alla domanda di Fera. «Parli di questo?» chiese, indicandosi la veste imbrattata di una sostanza verdastra. «Oh, nulla, Pix è più su di giri del solito, tutto lì».
Cosa? Il suo amico era stato bersagliato dal Poltergeist che tanto odiava, e non se la prendeva? «Di’ un po’» chiese Fera, sorridendo maliziosa, «questo tuo buonumore c’entra qualcosa con un certo Prefetto che conosciamo entrambi?».
«Non so di cosa tu stia parlando» rispose lui, ma il sorriso costante e il rossore sulle guance le fecero capire che , la causa di quella giovialità era proprio Penelope. Mentre Percy la salutava per andare a sedersi al suo tavolo, pensò che Catherine aveva torto marcio: bastava vedere l’effetto di Penelope su di lui, per capire che quei due erano destinati a stare insieme.
 
*****
 
C'era un giorno, a poca distanza dall'inizio dell'anno scolastico, che Med considerava il culmine del divertimento: Halloween. Per la precisione, Med amava il momento in cui, giunta l'ora di cena, saliva nella Sala Grande e la trovava addobbata con zucche intagliate, candele inestinguibili e qualunque cosa ricordasse ai maghi lì presenti che loro non erano una leggenda. Si diceva che anche il Natale fosse spettacolare a Hogwarts, ma Med – che lo aveva sempre passato in famiglia – insisteva nel sostenere che niente potesse superare il cenone di Halloween.
Quella sera, quando Med entrò nella Sala Grande, trovò migliaia di pipistrelli vivi appesi al soffitto, evidentemente pronti a prendere il volo non appena il Preside avesse mosso la bacchetta. Prese in fretta posto accanto a Theo, che veniva spesso messo in disparte dai compagni del suo anno: Malfoy preferiva stare con i suoi scagnozzi e con la sorella di Lobelia, mentre l'unico che pareva interessarsi a Theo era un certo Zabini, con cui ogni tanto il ragazzino scambiava i libri presi in biblioteca; Med aveva provato a parlare con Zabini un paio di volte, ma al contrario del suo amico – che rispondeva sempre e con garbo quando gli veniva rivolta una domanda – lui si limitava ad alzare un sopracciglio e proseguiva senza interruzioni la lettura. A Med non dispiacevano le persone colte, ma i maleducati la irritavano quasi quanto i giocatori di Quidditch del Grifondoro.
«Ehi, Theo» salutò non appena si fu seduta, sfregandosi le mani in attesa delle prelibate pietanze che venivano servite ogni anno. «Ho ricevuto una lettera da Louis stamattina. A quanto pare, Bristol è una favola».
«Credevo la trovasse noiosa». Theo chiuse Manuale degli Incantesimi, Volume primo e lo ripose nella borsa.
«Non da quando ha scoperto le creature magiche vicino al Trym. Sta ancora cercando di capire bene cosa sono, perché la vicinanza al fiume lo confonde.»
«Non ne sapevo niente. Vi scrivete spesso?».
«Due o tre volte a settimana. Eravamo abituati a chiacchierare molto più spesso, quando frequentava ancora Hogwarts».
«Scrive più a te che a me... Ma dovevo immaginarlo, succede tra fratelli».
Mentre Theo sospirava, Med udì i gemelli Weasley urlare qualcosa oltre il chiacchiericcio della Sala Grande e si chiese se anche loro, una volta lasciata la scuola, si sarebbero allontanati; l'alternativa sarebbe stata la nascita del peggior nido di idioti della storia britannica. Un nuovo tipo di creature che Louis avrebbe studiato, probabilmente.
«Med, non puoi capire» esordì Lobelia sedendosi di fronte a lei con una silenziosa Grace – ancora doveva iniziare il banchetto e lei già aveva una Cioccorana in bocca. «Abbiamo una notizia bomba per te!».
«Spara».
Lobelia sghignazzò e si guardò intorno prima di parlare. Evidentemente non stava più nella pelle. «Hai presente Mildred, quella del secondo anno?».
«È una del secondo anno, perché dovrei conoscerla?».
«Suo padre ha inventato il Gelato Tuttigusti +1» spiegò Grace, ingoiando un pezzo di cioccolata.
«Beh, oggi si è dichiarata ad Adrian... e lui l'ha respinta!».
«Ehm... che bello?» tentò Med, non capendo dove Lobelia volesse arrivare. Tuttavia, quella notizia le aveva provocato una strana sensazione allo stomaco, come di euforia: non aveva ancora capito chi fosse quella Mildred, ma d'istinto non la trovava molto simpatica.
«Non hai ancora sentito il bello! Adrian le ha detto di no perché... Aaah, Grace, continua tu!».
Io l'ammazzo nel sonno, questa, pensò Med portando gli occhi al soffitto. Proprio in quel momento, i pipistrelli si staccarono dal soffitto nuvoloso e spiccarono il volo nella sala.
«Gli piace un'altra» concluse in fretta Grace, perché nei piatti dorati stavano cominciando ad apparire le pietanze.
Med avvertì nuovamente una fitta, questa volta più strana da riconoscere. Si servì un coscio di pollo e un paio di patate farcite, ma prima di cominciare a mangiare dovette mandare giù un sorso di succo di zucca. Qualcosa non andava, lo stomaco le faceva già male.
«Allora?» insistette Lobelia. «Non dici niente?».
«Che dovrei dire?».
La reazione di Med fece sbuffare la sua compagna. «Beh, che ne so, gongolare perché Adrian ha respinto Mildred per te!».
«Adrian ha detto che gli piace un'altra, potrei non essere io. E poi hai considerato la possibilità che la sua fosse solo una scusa per scrollarsela di dosso?».
«Oh, Med, andiamo! Perché non vuoi accettare l'evidenza? Il fratello di Grace è cotto di te. Forse un Pucey non è abbastanza per la principessa?».
Le guance di Med si tinsero di rosso. La sua testa scattò verso Lobelia, gli occhi ridotti a fessure, ma non disse nulla. Quella reazione sorprese anche lei. Sospirò e si lanciò sul pollo, iniziando finalmente a tagliuzzarlo e mandandone giù un boccone; udì una risatina trattenuta a malapena provenire dall'altro lato del tavolo e fece il possibile per non rivoltarsi contro Lobelia e lanciarle una fattura.
Adrian è un bambino, si mise a riflettere con lo sguardo fisso sul piatto. Lo conosco da anni e non l'ho mai visto come... come lui ora vede me. Certo, stare con lui mi diverte e per essere un giocatore di Quidditch non se la tira neanche tanto. Ma questo non significa che debba starci insieme...
Maledicendo Lobelia per averle rovinato la sua festività preferita, si lanciò su un altro coscio di pollo e stava per addentarlo, quando qualcosa distolse la sua attenzione.
La porta della Sala Grande si era aperta con un tale impeto che tutti gli sguardi furono sull'uomo che la stava varcando: Raptor, il professore di Difesa Contro le Arti Oscure, sembrava stravolto; il suo esotico turbante sembrava sul punto di sfarsi da un momento all'altro e il volto era pallido, come se nella Sala d'Ingresso avesse incontrato casualmente uno di quei vampiri che tanto temeva. Si avvicinò alla sedia del Preside e parlò a voce bassa, ma perfettamente udibile nel silenzio che era calato nella sala.
«Un mostro... nei sotterranei... pensavo di doverglielo dire».
 
*****
 
«Un cosa?».
«Ma siamo matti?!».
«È uno scherzo, vero?».       
«Ho paura!».
Decine e decine di voci si levarono nello stesso momento, in risposta all’annuncio di Raptor. In tutti i tavoli regnava la confusione più totale, tanto che il professor Silente dovette lanciare una serie di petardi viola con la bacchetta per richiamare l’attenzione e poter prendere la parola.
«Prefetti, riportate immediatamente i ragazzi nelle rispettive Case, immediatamente!».
Fera vide Ed alzarsi e iniziare a condurre via i Corvonero più grandi; fu subito imitato da Penelope e Paul, che invece dovevano occuparsi dei ragazzi del primo anno.
«Bene,» esordì Paul, ergendosi di fronte a loro, «tutti in fila indiana, e…».
«No, scusa, io non ho capito» lo interruppe una bambina dalla voce querula, «avete fatto entrare un mostro a scuola?».
Interdetto, Paul iniziò a balbettare. «Nessuno ha fatto entrare nulla,» rispose, «è solo…».
«Mia madre dice sempre che la scuola è sicura» lo interruppe un altro ragazzino.
«Infatti lo è, ma…».
«Voglio tornare a casa!» esplose una terza bimba, scoppiando a piangere. Sembrava che tutti gli altri fossero sul punto di imitarla, e lo fecero quando Penelope, scansando Paul, iniziò a minacciarli con voce dura che, se non fossero saliti immediatamente nella Torre di Corvonero, li avrebbe portati personalmente a trovare il mostro nei sotterranei.
Fera si guardò attorno: gli altri ragazzi del quinto anno erano già saliti, ma lei non se la sentiva di abbandonare quelle matricole terrorizzate. Fu a quel punto che le venne un’idea. Si mise in mezzo a Paul e Penelope e, con un gran sorriso, guardò i primini piangenti.
«Oh, andiamo, non ve la prendete. Ci cascano tutti, al primo anno».
«Cosa?!» dissero in coro, sia i bambini sia i due Prefetti.
«Ma sì!» Non vista, Fera diede un pizzicotto a Paul e a Penelope. «È la Gara di Fuga dal Troll, non lo sapete? La facciamo tutti gli anni, ad Halloween… La Casa che torna per prima al dormitorio vince cinquecento punti!».
Non era affatto sicura che avrebbe funzionato, anche perché i Prefetti la fissavano come se fosse impazzita; uno dei bambini, però – il secondo ad aver parlato – si asciugò il naso con la manica della veste e le chiese: «Quindi non c’è nessun mostro?».
«Ti sembra che Silente lascerebbe entrare un mostro a scuola?» Ridacchiò. «Avanti, dobbiamo correre di sopra, o perderemo i punti in palio!».
Quella frase convinse del tutto i ragazzi, che finalmente lasciarono il tavolo e seguirono Paul verso il dormitorio. Fera e Penelope chiusero la fila. «Grazie,» disse la seconda, «non so perché non siamo riusciti a gestirli…».
«Erano solo spaventati, bisognava distrarli».
Pochi minuti dopo, giunsero alla base della Torre di Corvonero. Appena prima che Fera e Penelope potessero entrare, davanti a loro comparve Percy.
«Ciao!» lo salutò Penelope, illuminandosi in volto.
Lui le rispose allo stesso modo, ma poi si rivolse a Fera. «Possiamo parlare un momento?».
Sembrava molto turbato. La ragazza lo seguì, anche se sentiva lo sguardo di Penelope sulla propria nuca.
«Che succede?» domandò, non appena ebbero svoltato l’angolo. «Perché non sei nella tua Torre?».
«Ho un problema. Un enorme problema». Percy si mise le mani nei capelli, inspirò e sbuffò. «Ho perso Harry Potter».
«Hai perso cosa?!».
«Non gridare! Io…» Sbuffò di nuovo, irrequieto. «Dovevo controllare i ragazzi del primo anno, e solo quando siamo arrivati alla Signora Grassa mi sono accorto che… Per Merlino,» quasi singhiozzò, «ho perso Harry Potter».
«Magari ha solo sbagliato strada» commentò Fera. «Insomma, ormai conosce Hogwarts, saprà di certo…».
«E manca anche mio fratello Ron!».
«Cosa?!».
«Ho perso Harry Potter e ho perso mio fratello!».
«Va bene, va bene, manteniamo la calma». L’agitazione di Percy iniziava a contagiarla. Se davvero aveva perduto di vista due studenti, le cose potevano mettersi male per lui e per loro. «Dove pensi che possano essere andati?».
«Non lo so! Devi aiutarmi a cercarli!».
«Ma stai scherzando? Io dovrei essere già in dormitorio! Chiedi a un altro Prefetto!».
«Sei pazza? Direbbero a tutti che sono un incapace! E che figura ci farei con Penelope?!».
«Cosa sta succedendo, qui?».
Al sentire quella voce imperiosa, sia Fera che Percy urlarono di spavento. Alle loro spalle era comparsa la professoressa McGranitt, che li osservava con un cipiglio furioso. «Avete dieci secondi per spiegarmi cosa ci fate fuori dai dormitori, ed è bene che sia una spiegazione valida».
Con la coda dell’occhio, Fera vide Percy diventare mortalmente pallido; prima che potesse uscirsene con “Ho perso Harry Potter”, fece un passo avanti. «Weasley mi stava aiutando a tornare in dormitorio, professoressa».
«Cosa?!».
“Cosa?!” sembrava essere l’esclamazione del momento; Fera avrebbe riso, se il suo cervello non fosse stato così concentrato. «Uno studente di Grifondoro aveva perso il suo gruppo, così l’ho portato alla sua Torre… e poi Weasley ha insistito per riaccompagnarmi, in modo che non facessi la strada da sola. Sa, visto che c’è un mostro in giro».
Non tenere mai lo sguardo fisso quando menti, e non trattenere il fiato. Suo padre le aveva insegnato questi trucchetti anni prima, e Fera li aveva sempre applicati, tanto da sembrare molto naturale quando inventava una bugia su due piedi. Anche in quel momento, evitò di fissare la McGranitt e respirò normalmente, sperando che quel cretino del suo amico non la smentisse.
La professoressa guardò Percy. «È vero?» gli domandò.
Lui fece cenno di sì con la testa. La McGranitt squadrò di nuovo entrambi, li ammonì ancora una volta e corse via, diretta chissà dove.
«Grazie» disse Percy, riprendendo a respirare. «Ora…».
«Ora te ne torni nel dormitorio, e io farò altrettanto. Harry Potter e tuo fratello sono al sicuro» aggiunse, impedendo a Percy di interromperla. «I professori si occuperanno del troll, o di quel che è».
Poco convinto, il ragazzo si allontanò. Solo quando fu certa che se ne fosse andato definitivamente, Fera tornò all’entrata del dormitorio.
Visto come lavorava il suo cervello, quella sera, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a superare l’indovinello della porta.
 
*****
 
3 novembre 1991
 
Quella mattina si sarebbe giocata la prima partita di Quidditch del campionato. Grifondoro contro Serpeverde, un pessimo inizio – se si contava che la squadra verde-argento non faceva altro che umiliare le altre da anni. A giocare come Cercatore sarebbe stato il famoso Harry Potter, un nuovo e avventato acquisto per il Grifondoro, dal momento che aveva solo undici anni; la scelta suggerita dalla McGranitt e approvata dal Capitano poteva rivelarsi la strategia vincente o la peggiore dell'ultimo secolo.
Eppure non era per prepararsi a quella prima partita che Oliver aveva costretto la sua squadra ad allenamenti lunghi e sfiancanti: Potter doveva essere ben istruito, era vero, e anche gli altri membri della squadra dovevano migliorare rispetto agli anni passati, ma quello che aveva più bisogno di stare sul campo da Quidditch era lui stesso.
Volare gli faceva bene, così come elaborare nuove tattiche di gioco. Era il primo anno da Capitano e ciò, fortunatamente, riusciva a tenergli la testa impegnata; tuttavia una grossa parte di lui non riusciva a smettere di associare le parole "Capitano", "Cercatore" e "Quidditch" a una sola persona – a discapito della propria salute.
Charlie aveva lasciato Hogwarts mesi prima, dando alla squadra la possibilità di prepararsi in vista del campionato successivo: serviva un nuovo Capitano – Oliver, su questo si erano tutti trovati d'accordo – e un nuovo Cercatore, che fosse allo stesso tempo potente quasi quanto Charlie e abbastanza da sconfiggere la squadra di Serpeverde; si sarebbero tenuti dei provini a inizio anno, ma nessuno era riuscito a convincere Oliver quanto il giovanissimo studente proposto dalla professoressa McGranitt.
Già, l'assenza di Charlie sul campo era stata messa in conto; a pungere il cuore di Oliver era l'inaspettata uscita dalla sua vita.
Charlie era sempre stato portato per Cura delle Creature Magiche, per quella materia aveva ottenuto un M.A.G.O. e tanti complimenti sinceri da parte dell'esaminatore, e Oliver era conoscenza della passione che nutriva per i draghi: era stato lui stesso, molte volte, ad accompagnarlo da Hagrid per parlare di creature non poco pericolose davanti a una tazza di tè; ogni tanto anche Tonks si univa a loro, facendo facce buffe quando il discorso passava da innocui Asticelli a noti ammazzamaghi come le Chimere. Hagrid e Charlie erano in grado di elencare tutte le tipologie esistenti di draghi, ma Oliver era convinto che la passione per quegli animali si fermasse alla raccolta di informazioni. A un viaggio in Svezia per vedere un vero Grugnocorto Svedese nel suo habitat naturale, al massimo.
Charlie amava le creature magiche, ma era nato per il Quidditch. Aveva la bravura nel sangue, era in grado di eseguire una Finta Wronsky alla perfezione e se non erano riusciti a vincere i precedenti campionati era stato solo a causa del resto della squadra di Grifondoro – tra cui lo stesso perfezionista Oliver. Tutti i suoi compagni erano convinti che avrebbe fatto un provino per una qualche famosa squadra di Quidditch, e invece Charlie aveva deciso di punto in bianco di partire per la Romania a studiare i draghi.
Lasciando solo una lettera di spiegazioni.
I suoi compagni di squadra l'avevano presa sul ridere, probabilmente così aveva fatto anche Tonks, migliore amica del secondogenito Weasley, ma per Oliver era stato diverso. Oliver non era né un compagno né un amico per Charlie: era il suo ragazzo. Il loro rapporto era sfociato in amore solo negli ultimi tempi e per qualche manciata di mesi, ma aveva significato qualcosa – almeno per lui. Charlie, invece, non si era fatto tanti problemi a mollarlo con una lettera; ogni volta che Oliver provava a rileggerla, avvertiva l'impellente bisogno di afferrare la mazza da Battitore e spedire un Bolide dritto in Romania. Non dubitava poi molto di poterci riuscire.
Alla rabbia era subentrato il dolore. Un dolore cieco, che lo aveva fatto rintanare in casa per tutta l'estate, a chiedersi dove avesse sbagliato con lui, perché Charlie non lo avesse considerato un bravo fidanzato; in seguito aveva ripreso a odiarlo con maggiore intensità, maledicendo lui e le sue stupide scelte, le passioni, il tempo trascorso insieme. Maledicendo i suoi baci e le false promesse. Dopo quella rottura, Oliver era rimasto senza un ragazzo e un migliore amico – perché Charlie era stato quello, prima di diventare il suo fidanzato, e lui, Oliver e Tonks passavano più pomeriggi insieme di qualsiasi altra combriccola di Hogwarts. E ora Oliver era solo.
Per questo si dedicava tanto al Quidditch. Per questo ciò che all'inizio era stato un semplice sport stava diventando la sua ragione di vita, perché comportarsi da Capitano e occuparsi di un nuovo Cercatore gli facevano pensare a Charlie, ma gli davano anche qualcosa su cui impegnarsi.
«Oh, sei ancora qui?».
La voce di Percy lo riscosse dalle sue riflessioni. Il terzogenito dei Weasley era così diverso da Charlie che Oliver non provava alcuna sensazione dormendo nella sua stessa stanza: come Charlie era robusto e sorridente, Percy era snello e spesso imbronciato, con lo sguardo sempre rivolto a un libro. In quel momento, ne trasportava uno sotto il braccio. Oliver guardò fuori dalla finestra.
«È tardissimo!».
Saltò giù dal letto e si infilò in fretta la divisa del Grifondoro, armeggiando con le ginocchiere e i parastinchi. Rivolse un rapido cenno del capo a Percy e si fiondò giù per le scale diretto alla Sala Grande, dove lo attendeva una ricca colazione: nonostante non sentisse appetito, Oliver sapeva di non poter affrontare un'intera partita a stomaco vuoto. Facendosi largo per raggiungere il tavolo della sua Casa, si scontrò con una Serpeverde che gli stava passando accanto.
«Guarda dove vai, razza di idiota con il cervello marcio!» la sentì imprecare e le rivolse comunque un sorriso di scuse, ma lei era già scomparsa oltre la folla.
Quando si sedette, trovò davanti a sé una pila di salsicce fumanti. Allungò la mano per afferrarne una.
«Però, l'appetito non ti manca, eh?».
A parlare era stata Angelina Johnson, una delle Cacciatrici della sua squadra. La ragazza – che aveva un anno meno di lui – aveva raccolto i capelli in lunghe treccine nere per evitare che le finissero davanti agli occhi; cosa che, notò Oliver, avrebbe dovuto fare anche Alicia, la cui ribelle chioma bionda risultava sempre un problema durante gli allenamenti.
«Non posso battere Flitt senza fare un'abbondante colazione» le rispose, mandando giù un boccone di salsiccia fritta.
«Dillo al nostro nuovo Cercatore». Angelina fece un cenno in direzione di Harry, che circondato dai suoi amici si rifiutava di mangiare alcunché. «Ci farà perdere».
«Non perderemo» la rassicurò Oliver, seguendo il suo sguardo.
«Se solo ci fosse ancora Charlie...».
Il pezzo di salsiccia gli si fermò in gola. Come il resto della scuola – eccetto Tonks, che comunque aveva lasciato Hogwarts – nessuno aveva mai sospettato del vero rapporto tra lui e Charlie; quando lo vedevano adirarsi soltanto a sentirne il nome, attribuivano la causa della sua rabbia alla perdita del miglior giocatore di Quidditch che il Grifondoro avesse avuto da generazioni.
«Ma non c'è e dobbiamo arrangiarci. Fidatevi, vinceremo. E la nostra grande sorpresa prenderà il Boccino in meno di due ore, ne sono certo». Si alzò, pulendosi la bocca con un tovagliolo e sistemandosi le maniche della divisa scarlatta. «Ci vediamo nello spogliatoio alle undici esatte».
Non sapeva da dove gli venisse quella fiducia, ma una parte di lui non vedeva l'ora di scoprire Harry in azione e cancellare così il ricordo di Charlie alla ricerca del Boccino d'Oro. Un'altra parte, più piccola e fastidiosa, gli supplicava di non dimenticarlo mai.
 
*****
 
I giorni successivi ad Halloween si erano svolti in maniera relativamente tranquilla. A parte i ragazzini di primo anno, nessuno accennava più al mostro – gli studenti più anziani erano abituati a trovare ben altro, tra le mura di Hogwarts – e l'unica volta in cui Fera dovette tornare sull'argomento fu quando, dopo una lezione di Incantesimi, il professor Vitious la prese in disparte e le chiese cosa caspita fosse la Gara di Fuga dal Troll di cui i primini parlavano tanto. La spiegazione gli piacque moltissimo, tanto che assegnò cinque punti tardivi a Corvonero; Percy, invece, non apprezzò allo stesso modo.
«Hai dato ordini al posto dei Prefetti! È una cosa terribilmente irrispettosa!».
«Ma dannazione, Perce, sono passati tre giorni!» esclamò Fera, attirando gli sguardi di alcuni studenti nel salone antistante la Sala Grande. «Non è possibile che tu mi rimproveri ancora per Halloween».
«Lo farò, finché non ti sarà entrato in testa che non puoi far passare i Prefetti per incompetenti».
Fera sbuffò con ferocia e provò ad accelerare il passo, ma Percy la raggiunse facilmente. Accidenti a lui e alle sue gambe da struzzo.
«Che dovevo fare? Lasciare che i Corvonero stazionassero in Sala Grande quando c’era un maledetto troll in giro per la scuola?» gli chiese allora. Avevano già affrontato quel discorso una decina di volte, da Halloween a quella parte, ma Percy sembrava proprio deciso a non mollare finché lei non avesse ammesso di aver torto.
La qual cosa era del tutto reciproca.
«Ne abbiamo già parlato: avresti dovuto prendere Paul e Penelope da parte, dir loro la tua idea e poi lasciare che se ne occupassero loro» ribadì Percy. «Io proprio non… E poi» alzò la voce, come se l’idea lo inorridisse ancora di più, «hai mentito a degli studenti!».
«Ah!» Fera si fermò davanti a lui, obbligandolo a una brusca frenata. «Mi stai facendo la morale? Stai dicendo che mentire è sbagliato? Bene,» nella foga, lo spintonò con forza, «me ne ricorderò, la prossima volta che avrai bisogno di qualcuno che copra i tuoi errori con la McGranitt».
Lì per lì, Percy non seppe cosa controbattere – anche perché la sua amica aveva decisamente ragione; annaspò in cerca di una risposta, ma in quei pochi secondi Fera girò sui tacchi e se ne andò in Sala Grande, al contempo innervosita e soddisfatta di aver chiuso la questione. Le discussioni tra loro due non erano affatto rare, e di solito erano intense e di breve durata: dopo un affondo simile, Fera aveva la certezza che quel cretino sarebbe venuto a scusarsi con la coda tra le gambe.
L’atmosfera nella Sala era elettrica – per quanto il concetto si potesse applicare al mondo magico: quel giorno si sarebbe svolta la prima partita di Quidditch dell’anno, Grifondoro contro Serpeverde, e i simpatizzanti delle rispettive squadre avevano già iniziato a scambiarsi sguardi minacciosi e insulti non proprio scherzosi da un tavolo all’altro.
Bah. Quidditch. A Fera proprio non piaceva: troppe palle in gioco, troppe regole… e soprattutto, perché i maghi si comportavano come se esistesse solo quello sport? I Babbani avevano il rugby, il calcio, la pallavolo, la scherma, il ciclismo… I maghi, invece, erano tremendamente monotematici.
Fosse dipeso da lei, avrebbe preferito di gran lunga restare in sala comune a leggere piuttosto che assistere alle partite; purtroppo, uno dei suoi amici era Battitore di Corvonero e l’altro un grande appassionato, e nessuno dei due le permetteva di astenersi dal tifo.
Fece colazione con calma. Era sabato, quindi i suoi le avrebbero scritto nel pomeriggio: ottima cosa, perché non doveva aspettarsi che un gufo del Servizio Postale Irlandese le finisse nella tazza di tè o nel piatto mentre mangiava. Ascoltò distrattamente Paul parlare della partita e di una “grande sorpresa” annunciata dal Capitano Baston; quando fece per alzarsi, fu colpita dritta in un occhio da un minuscolo aeroplanino di carta.
«Ma che caz…». Afferrò il biglietto e si guardò attorno con aria bellicosa, pronta a prendersela con l’autore di quello scherzo idiota, ma notò solo Ed che, dal tavolo dei Prefetti, la salutava con un sorriso. Un po’ sorpresa, Fera ricambiò il saluto, si risiedette e aprì il biglietto.
 
“Scommetto che non tifi Serpeverde, vero?”
 
Grugnì. Persino Ed era fissato col Quidditch. Cercò una penna nella borsa.
 
“Se è per questo, non tifo affatto!”
 
Con la bacchetta diresse il biglietto verso di lui, che rispose immediatamente. L’aeroplanino fece avanti e indietro tra i tavoli ancora un paio di volte, abbastanza da far scoprire a Fera che nemmeno Ed era un appassionato, ma andava alle partite per far piacere ai suoi amici.
“Come me”, pensò. Fu tentata di scrivergli che, se voleva, potevano saltare entrambi la partita e fare qualcos’altro, ma non voleva sembrare sfacciata. Ci pensò lui a toglierla dall’imbarazzo, mandandole un secondo foglietto.
 
“Se la partita finisce presto, possiamo vederci subito dopo. Che ne dici?”
 
Sorpresa per la seconda volta, Fera deglutì. Era… un appuntamento? Ma no, di certo era un segno di amicizia; aveva chiacchierato varie volte con Ed, dal loro viaggio sull’Espresso, e non le era mai parso interessato in… D’altronde, lei non aveva alcuna esperienza in questo tipo di cose, quindi…
Si voltò. Ed la guardava, in attesa di risposta; senza pensarci su due volte, tracciò un “Va bene” sul biglietto e lo rispedì al mittente, per poi scappar fuori dalla Sala Grande. Sentiva dentro di sé qualcosa di strano, un misto di imbarazzo e piacere che voleva esaminare con calma, nella sala comune di Corvonero; e l’avrebbe fatto, se qualcuno non l’avesse bloccata sullo scalone principale.
«Vai già via?».
Prima ancora di girarsi, Fera sapeva esattamente quale espressione avrebbe trovato sul volto di Percy: muso lungo, sguardo a terra e orecchie basse – in senso metaforico. Faceva sempre così: si vergognava a chiedere scusa a parole, quindi lasciava che il suo dispiacere trasparisse dagli atteggiamenti dimessi. Di solito, a lei bastava.
«Ho un po’ da fare» gli rispose, in tono conciliante. «Voglio finire il tema di Pozioni adesso, così avrò il pomeriggio libero».
«Oh. Bene». Percy spostò il peso del corpo da un piede all’altro, ulteriore segno che si voleva scusare in silenzio. Fera lo notò e sbuffò.
«Dai, accompagnami alla Torre, brutto scemo» gli disse, a mo’ di perdono. Lui dismise l’aria afflitta e la seguì sulle scale.
«Hai saputo di Penelope, vero?».
«Sì» rispose Percy. «Sono andato a trovarla ieri in Infermeria. Dice che ha avuto un incidente nella serra».
Più che un incidente, era stato un deliberato tentativo da parte di Catherine di zittire per sempre la fastidiosa collega, ma Fera si guardò bene dal dirlo. «Stavo pensando che forse dovresti andare da lei, invece che a vedere la partita» suggerì. «Poveretta, è tutta da sola, e…».
«No no no. Aspetta». Percy si fermò di scatto e costrinse Fera a fare altrettanto. «Perché mai dovrei saltare la partita?».
«Perché… sarebbe un bel gesto, no?».
«Ho capito, ma… Saltare la partita? Devi essere pazza».
Fera sospirò. Maghi. Nemmeno Percy era immune dalla febbre del Quidditch, sebbene – a differenza dei suoi fratelli – fosse interessato più allo studio delle tattiche che al gioco vero e proprio. Era così appassionato che non riusciva proprio a capire lo scarso entusiasmo di Fera, e in genere la trascinava alle partite di Grifondoro per cercare di convertirla.
«Senti» sbottò la ragazza, «se vuoi dimostrare a Penelope che ti piace, devi darti una mossa. È rimasta parecchio male, ad Halloween, quando mi hai presa da parte fuori dal dormitorio».
Non che glielo avesse detto apertamente, ma le occhiate sospettose e certe parole un po’ taglienti avevano reso chiarissimo il messaggio a Fera.
«E che dovevo fare?» Percy alzò le spalle. «Dirle che avevo perso…».
«No, ma magari potresti essere un po’ più carino con lei. E rinunciare a una partita per farle compagnia sarebbe l’ideale».
«Mi permetto di dissentire».
«Dissenti quanto ti pare, tanto lo sai che ho ragione».
«Fera, amica mia». Il suo tono si era fatto fastidiosamente paternalistico. «Capisco che il tuo background culturale ti impedisca di apprezzare qualcosa di diverso dal rugby – tra l’altro, un giorno mi spiegherai cosa ci trovi di tanto bello…».
Fera alzò gli occhi al cielo. «Cosa c’è di bello nel vedere uomini grossi e prestanti scontrarsi fisicamente per ottanta minuti, spargendo attorno sudore e ormoni? Già, me lo domando anch’io…».
«Dicevo, forse non hai ancora capito che per noi il Quidditch è fondamentale. Nessun mago o strega chiederebbe a un altro di rinunciare a una partita importante, mi spiego?».
La ragazza non rispose. Si limitò a fermarsi un gradino più in alto di lui e a fissarlo con tutta la severità possibile. Percy sostenne lo sguardo per una manciata di secondi, poi cedette. «Va bene, dopo la partita passerò l’intero pomeriggio in Infermeria con Penelope» sospirò, crollando il capo. «Contenta?».
«Abbastanza». Ripresero a camminare. «Lo sarei di più se io potessi evitare la partita…».
«Ah, no!» esclamò Percy. «Non se ne parla! Devi venire a vederla, ci sarà una formazione del tutto nuova, e Oliver dice che ha in serbo una sorpresa… Sarà una nuova tattica, ci scommetto. Magari ha deciso di seguire uno dei miei suggerimenti…».
«Se è intelligente, avrà sicuramente evitato di farlo».
Ignorando i brontolii scontenti di Fera, Percy continuò a parlare di Quidditch per altri dieci minuti. Fu la sua piccola vendetta per la discussione di poco prima.
 
*****
 
Med non amava il Quidditch. No, quella definizione non era corretta: Med detestava il Quidditch. Considerava gli sport un perdita di tempo e chiunque li praticasse un arrogante in cerca di fama e successo nel modo più facile possibile; con una tale disposizione d'animo, la ragazza non riusciva a comprendere come il resto della scuola andasse in visibilio per degli idioti in groppa a delle scope.
Tuttavia, quel giorno Med era sugli spalti insieme a Grace, Lobelia e Pansy, che cercava di darsi un tono facendosi vedere con studentesse più grandi di lei, secondo il consiglio datole dalla sorella. Mentre Lobelia aveva sfoggiato l'espressione più adatta al contesto – un misto di sorrisi e grida entusiaste rivolte al portiere con cui usciva – Grace aveva messo da parte dolci e schifezze varie per urlare colorite imprecazioni ai giocatori di Serpeverde e Grifondoro che, secondo lei, non sarebbero stati in grado di acciuffare una Pluffa nemmeno con un Incantesimo di Appello. Grace, aveva scoperto Med alla sua prima partita a Hogwarts, era la più grande tifosa di Quidditch che la Casa di Serpeverde avesse mai avuto.
«Cos'è, Flitt, non hai mai visto un portiere prima? Ci sono tre pali, cerca di beccarne almeno uno!».
Med rise sotto i baffi. Grace nella versione di tifosa era impagabile, ma non era per lei che si trovava lì: quando aveva finito di fare colazione e si era alzata per avviarsi verso il Lago Nero, dove avrebbe letto un buon libro, Adrian l'aveva intercettata.
«Verrai alla partita?» le aveva chiesto. Stava per rispondergli negativamente, ma poi aveva visto il suo sguardo supplicante.
«Io...».
«Dimmi che verrai, ti prego. Per me è importante che oggi ci sia anche tu».
Med non ne aveva fatto parola con nessuno, convinta che Lobelia avrebbe ripreso a gracchiare su quanto Adrian fosse pazzo di lei, e si era presentata alla partita con la scusa di voler ridere del nuovo acquisto della squadra di Grifondoro, il favoloso Harry Potter.
«Ci voleva un Bolide per togliere la palla a quell'incapace?! Su, così, vai, Adrian!».
Adrian aveva preso la Pluffa e si stava minacciosamente dirigendo verso i pali avversari, ma un secondo Bolide colpì la sua scopa, facendogli perdere la presa sulla palla.
«E ti pareva: Weasley...» commentò Med a bassa voce, riconoscendo una testa rossa con la mazza da battitore in mano. Sopra la sua voce, Grace stava imprecando sempre più forte, mentre Lobelia urlava parole di conforto al suo ragazzo che era appena stato sconfitto da un tiro della Johnson.
«Vai, tesoro mio, non preoccuparti! Resti sempre il migliore del mondo!».
Med guardò in basso, riflettendo seriamente sulla possibilità di lanciarla giù dagli spalti.
Dopo il vantaggio dei Grifondoro, Adrian aveva finalmente recuperato la Pluffa. Era difficile leggere la sua espressione a quella distanza, ma Med immaginò che fosse molto determinata: stava schivando Bolidi e Cacciatori con un'agilità impressionante, dimostrando di essere l'erede di quel grande giocatore di Quidditch che era stato suo padre – prima di scoprire l'alta pasticceria.
«Aspettate un attimo... ma quello non era il Boccino?».
La voce dello speaker della partita attirò l'attenzione di tutti; anche Adrian finì per distrarsi e perdere la palla, osservando il luccichio dorato sfiorargli la guancia. A Med non importava niente del Boccino, continuava a fissare il punto in cui Adrian era in volo, maledicendo Lee Jordan per avere interrotto quella splendida azione.
 
*****
 
Non c'era una tradizione per la sconfitta nella prima partita di stagione. Non ce n'era neanche per le altre due; semplicemente, i Serpeverde non perdevano – almeno da quando Adrian era entrato nella squadra. A giudicare dai volti dei suoi compagni, la precedente sconfitta contro Grifondoro doveva essere avvenuta molto, molto tempo prima.
Adrian cacciò la divisa nella borsa, premendo per farcela entrare senza doverla piegare: era stanco, avvilito e voleva soltanto tornare nel dormitorio e passarci l'interadomenica. Nemmeno la doccia negli spogliatoi era riuscita a calmarlo.
Accanto a lui, Marcus ribolliva di rabbia. Tutti avevano visto l'espressione trionfante di Baston quando quell'idiota di Potter aveva sputato il Boccino. Si era mai vista un'azione tanto assurda? In una partita seria, fuori da Hogwarts, nessuno avrebbe considerato valida quella presa. Purtroppo per loro, Madama Bumb la pensava diversamente da un arbitro vero e aveva concesso ai Grifondoro la vittoria. Marcus era furioso, imprecava e sbatteva i pugni contro gli armadietti tra una frase e l'altra, ma Adrian era quello che se la passava peggio; era il solo, di tutta la squadra, a essere a conoscenza del proprio disagio, ma era anche consapevole che nessuno di loro la stesse prendendo male quanto lui.
Nonostante il caldo, si infilò il mantello e tirò su il cappuccio mentre usciva dagli spogliatoi in silenzio. Teneva la testa china, determinato a non incontrare alcun tifoso sbeffeggiante, e fu per quello che non la vide; tuttavia quando la udì preferì non averlo fatto. Accelerò il passo.
«Adrian, fermati!».
Con un piede ancora sollevato, decise che fuggire non sarebbe servito a niente. Sospirò e si voltò. «Ti ho fatto perdere tempo».
«Sì, è vero» ammise Med senza peli sulla lingua. «Ma avevi detto che dovevo esserci a ogni costo. Una roba del genere».
Adrian alzò lo sguardo al cielo e sbuffò, profondamente irritato con se stesso. «Senti, è stato inutile. Volevo fare una splendida partita e invece ho giocato di merda. Non c'è altro da dire».
«Non penso che tu abbia giocato di merda».
Ci volle un po' per convincerlo che era stata sincera: lo fissava con le palpebre socchiuse e le braccia conserte, forse in attesa che lui dicesse altro. Ma non che la contraddicesse. Nessuno contraddiceva Med. Mai. Gli scappò un sorriso.
«Quel Potter ha avuto una fortuna pazzesca, eh?». Si passò una mano fra i capelli neri, cercando di spiegare il motivo di quella smorfia divertita e triste che era spuntata sulle sue labbra. «Se avessimo avuto altro tempo per giocare, forse avrei potuto... Ma no...».
«Adrian, parla. Ho passato la mattinata in uno squallido campo pieno zeppo di stupidi tifosi di un gioco che neanche capisco come faccia a riscuotere tanto successo, ho rinunciato a un paio d'ore di lettura ben più proficue e ora sono qui, fuori dagli spogliatoi, mentre in Sala Grande stanno già cominciando a servire il pranzo. Quindi...». Fece un passo verso di lui, quasi incenerendolo con il suo sguardo inquisitorio. «Vedi di dirmi per quale cavolo di motivo mi hai implorato di vedere questa cavolo di partita».
«Perché mi sono allenato per tutta la settimana!» sbottò Adrian, incredulo. Come poteva non esserci ancora arrivata? «Perché questa era la prima partita della stagione e volevo segnare un sacco di pali per impressionarti! Così poi... poi...». Avvertì le guance ribollire e si chiese quanto rosse stessero diventando. Con la coda dell'occhio vide la testa di Med inclinarsi verso destra, cercando forse di seguire il suo ragionamento. Sospirò. «Così poi ti avrei chiesto di venire con me a Hogsmeade, sabato prossimo».
Non osservò la sua reazione perché era troppo impegnato a guardarsi la punta delle scarpe: aveva paura di vedere il disgusto – beh, uno ancora maggiore del solito – sul suo volto. Il cuore gli batteva molto più forte di quando aveva cominciato a giocare, perché a Quidditch era bravo, ma con la donna della sua vita non aveva alcuna speranza. Soprattutto dopo avere fallito così miseramente il tentativo di impressionarla.
Stava per decidersi a fare un passo indietro e fuggire via verso la scuola, gridandole che era solo uno scherzo architettato da Grace o roba del genere, quando la sentì parlare.
«Va bene. Ci sto».
 
*****
 
8 novembre 1991
 
«Cosa farai domani?».
Percy fece spallucce. «Andrò a Hogsmeade, suppongo».
«La tua capacità di ribadire l’ovvio ha del sorprendente» sbuffò Catherine.
Era la loro prima ronda notturna insieme e, se continuava così, sarebbe stata anche l'ultima. Dapprima avevano discusso sul giro da seguire all'interno di Hogwarts, poi avevano avuto un diverbio circa l’importanza o meno di rispettare le direttive dei Capiscuola in merito, infine si erano accapigliati sulla competenza (o incompetenza) dei suddetti Capiscuola. In tutti e tre i casi, Catherine aveva avuto la meglio, perciò Percy le stava riservando il trattamento del silenzio: frasi smozzicate, risposte a monosillabi e contegno generale di un bambino di cinque anni.
Se solo Catherine avesse avuto un carattere diverso – un carattere paziente, o quantomeno indifferente – se ne sarebbe sbattuta. Purtroppo non era così. Non era paziente, né indifferente, e soprattutto non lo era nei confronti di Percy Weasley. Aveva iniziato a conoscerlo in secondo anno, dopo aver fatto amicizia con Fera, e avrebbe davvero voluto instaurare un ottimo rapporto con lui, ma quello lì era così testardo che la mandava in bestia. Il che la faceva ostinare ancora di più nel tentativo di essere una buona amica per lui.
«Beh? Che c'è, ora non puoi nemmeno sostenere una conversazione civile?» insistette, di fronte al suo prolungato silenzio.
Percy sbuffò. «Non ho alcun programma in mente».
«Davvero? Nemmeno con Light?».
Seguì un altro silenzio. Catherine non aveva idea di quanto fosse dolente il tasto appena toccato: solo un paio d’ore prima, dopo cena, Percy era tornato in Infermeria dove Penelope stava per essere dimessa, intenzionato a chiederle di uscire con lui l’indomani. Niente di che, solo una passeggiata, una Burrobirra ai Tre Manici di Scopa... Giunto lì, però, si era imbattuto in un gruppetto di Corvonero cinguettanti che circondavano la ragazza dei suoi sogni, gioiose per la sua guarigione, e la invitavano a un pomeriggio di shopping l’indomani.
Che fortuna, eh. Proprio quando aveva deciso di seguire il consiglio di Fera di essere un po’ più propositivo con Penelope...
«Lei ha da fare» rispose.
«Si è rifiutata di uscire con te, vero? Tipico» Catherine ignorò il tentativo di Percy d’interromperla. «L’ho capito subito, quella è la classica ragazza che sulle prime ti fa un miliardo di moine e poi ti molla sul più bello. Non la sopporto».
«Hai frainteso completamente, lei non…».
«Sì, è uguale, non la sopporto lo stesso».
Attraversarono una galleria piena di ritratti addormentati, badando di non illuminarli direttamente con le bacchette. I giri di pattuglia, per fortuna, non duravano tutta la notte né si svolgevano ogni sera; nonostante ciò, svolgerli era in assoluto il compito più noioso per i Prefetti. Resistere alla voglia di addormentarsi, in particolare, era difficilissimo, ma con Catherine il problema non sussisteva: la sua voce querula e imperiosa avrebbe svegliato un orso in letargo.
«E Fera? Esci con Fera!».
«Anche lei è occupata. Ha un appuntamento».
«Lei…» La Tassorosso si fermò e iniziò a balbettare. «Lei ha… cosa?!».
«Un appuntamento» scandì Percy.
«Ma cosa… come… Chi?».
«Edmund Fawley».
«Chi?».
«Come chi? Il Prefetto di Corvonero, quello del sesto anno. Domenica scorsa si sono visti dopo la partita e hanno passato il pomeriggio insieme, poi si sono incontrati altre volte dopo le lezioni, oggi lui le ha chiesto di uscire e…»
«Ma intendi dire Ed?!» squittì Catherine. «Quell’Ed?!»
Per Merlino, cos’era quel tono sorpreso? Sull’Espresso tutti si erano accorti delle occhiate che si scambiavano; a parere di Percy, avrebbero dovuto iniziare a frequentarsi ben prima. Lo disse, ma Catherine non lo stava minimamente ascoltando.
«Non mi ha detto niente!». La sua voce era acutissima, di certo avrebbe svegliato i ritratti dell’intero piano. «Ha un appuntamento per la prima volta in vita sua, e non mi ha detto niente!».
«Forse sapeva che avresti reagito così».
«Ma Ed! Perché esce con quello là?».
«Lo trova un bel ragazzo…».
«A Fera non serve un bel ragazzo, le serve uno alla sua altezza!».
«Fawley è ben più che alla sua altezza: è un Prefetto». Percy pronunciò l’ultima parola come se racchiudesse tutti gli attributi positivi del mondo.
Catherine storse il naso. «Non è mica l’unico Prefetto della scuola…».
Lo disse in tono casuale, ma Percy, che la conosceva dal secondo anno, sapeva quale insinuazione fosse celata in quella frase. Voleva risponderle per le rime, e al contempo non intendeva darle soddisfazione.
«Personalmente, sono contento per Fera». Svoltarono un angolo e si fermarono, in attesa dell’arrivo di una scala per il piano superiore. «Considerando che non è mai stata ricambiata, finora, avere un ragazzo può solo farle bene…».
«No, se il ragazzo non è giusto per lei, e quell’Ed non è giusto per lei!».
La scala si spostò di fronte a loro. Percy vi saltò subito sopra e aiutò Catherine a fare altrettanto. «Ma che ne sai? Se lo conosci a malapena!».
«Non ho bisogno di conoscerlo. So già che Fera dovrebbe stare con te».
Percy si bloccò mentre saliva un gradino. No, non era possibile: aveva davvero tirato fuori quella storia? Ma basta! Da quando Catherine aveva conosciuto Percy, pochi giorni dopo l’aver fatto amicizia con Fera, si era letteralmente fissata con l’idea – insensata, peraltro – che loro due dovessero mettersi insieme. Nessuna ragione in particolare, se non quella che, essendo amici e passando molto tempo assieme, tale passo fosse inevitabile. L’aveva anche detto apertamente a entrambi, e da entrambi aveva ricevuto la stessa identica risposta.
Tu non sei normale, Catherine.
«Ne abbiamo già parlato» sbuffò Percy. «Non potremmo mai metterci assieme, io e Fera».
«Perché?! Insomma, è vero, tu non sei carino o simpatico…».
«Grazie».
«… ma la conosci meglio di chiunque altro, e poi… Oh, io so di avere ragione, e quando so di averla, di solito ce l’ho. Ecco».
Percy fece spallucce. Il loro turno di ronda era quasi finito: non valeva la pena di insistere in quella sterile discussione, visto che tanto lei non avrebbe cambiato idea. «Vedrò di convivere con questa consapevolezza» rispose.
Un fantasma passò loro accanto, ignaro di tutto. Voltandosi ad osservarlo, Percy guardò Catherine: il suo viso, illuminato dalla fioca luce della bacchetta, era aperto in un sorriso enigmatico.
«Che c’è?» domandò, brusco.
«Niente» rispose la ragazza. Percy avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma da qualche parte una pendola suonò le due. La ronda era terminata.
 
*****
 
9 novembre 1991
 
Non aveva mai visto un posto più rosa. Non c'erano altre parole per descrivere il locale di Madame Piediburro: tutto era rosa, dalle pareti alle tazze da tè, dalle tende ai fastidiosi cuscini posati su ogni sedia. Tutto era rosa e, quando poteva, anche di pizzo.
Med si sentiva estremamente a disagio; aveva sperato in un inizio confortevole, quel che serviva per farla adattare alla situazione di per sé imbarazzante, e invece era stata trascinata in quell'improponibile obbrobrio non appena avevano messo piede a Hogsmeade. E per fare cosa? Rimanere in silenzio per oltre mezz'ora, senza guardarsi in faccia e tenendo le braccia strette al petto. Proprio la realizzazione del suo appuntamento ideale.
Me ne vado.
Se lo stava ripetendo per la cinquantunesima volta, sempre più decisa a farlo, ma ancora ben lontana dal prendere una scelta definitiva. Quel posto le faceva venire il voltastomaco, il disagio la stava inghiottendo, tuttavia non voleva ferire i sentimenti di Adrian; se si fosse trattata di una qualsiasi altra persona non ci avrebbe pensato due volte, ma si era affezionata a lui quel tanto che bastava a non spaccargli il cuore dopo una sola mezz'ora di imbarazzo. Altri venti minuti e sarebbe stata pronta a farlo.
La proprietaria interruppe le sue riflessioni trasportando le ordinazioni. Pose davanti a loro due tazze di tè, una zuccheriera e una decina di biscotti allo zenzero e al cioccolato, poi si congedò con un sorriso. Probabilmente disse qualcosa, ma tutto quel che Med riuscì a capire fu: «Rosa, rosa, rosa».
Adrian sollevò il coperchio della zuccheriera e finalmente si decise a guardarla in faccia. «Quanto zucchero?».
Davvero un ottimo inizio. Non parliamo da quando ci siamo seduti e il primo argomento è lo zucchero. Non ci sono più dubbi: è il fratello di Grace.
Ricordò i pomeriggio passati con Louis tra Mielandia e l'Emporio degli Scherzi di Zonko, giornate radiose rispetto al pessimo appuntamento che stava passando; aveva potuto approfittare di pochi sabati prima che il suo migliore amico si diplomasse, ma erano stati i momenti più belli della sua vita. Era stato sciocco pensare che, senza di lui, Hogsmeade sarebbe rimasta la stessa.
«Mezzo cucchiaino» rispose di malavoglia. Da quando aveva perso quei chili durante l'estate stava cercando di fare il possibile per non recuperarli in fretta – anche se ciò significava dover bere un tè più che amaro per i suoi gusti.
«È... è un posto particolare, vero?» tentò di conversare Adrian, versandole lo zucchero richiesto.
«Decisamente».
«Sapevo che Grace e Lobelia avrebbero voluto seguirci. Così mi sono fatto dire quali locali ci fossero a Hogsmeade e ho scelto... il posto meno adatto a te. Quello in cui sarebbero state certe di non poterti trovare».
Di colpo tutta l'antipatia che stava nutrendo nei confronti del ragazzo sparì dalla testa – e dallo stomaco – di Med: c'era un motivo per cui erano lì, un motivo valido, non era un tentativo di impressionarla con gli addobbi più diabetici dell'universo conosciuto. Senza rendersene conto, sorrise.
«Hai avuto una buona idea. Per quanto questo posto... mi dia la nausea».
«Ce ne andremo il prima possibile, te lo prometto.» Adrian sorrise a sua volta, porgendole il piatto con i biscotti. «Mi dispiace, sono una frana, ma non so come comportarmi esattamente».
«Prova a parlarmi come sempre».
Lo stesso consiglio che sto tentando di darmi da un'ora, pensò Med, afferrando un biscotto ricoperto di cioccolato.
«Con i tuoi ex funzionava?».
Aggrottò la fronte e distolse lo sguardo. «Non ho mai avuto un appuntamento prima. Mica lo so, come si fa in questi casi. Però mi sembrava il consiglio più sensato».
«Scusami, scusami» esclamò subito Adrian, avvampando fino alle occhiaie – non doveva avere dormito molto, quella notte. Probabilmente anche Med aveva le stesse occhiaie. «Credevo che tu... che tu... beh... Sei molto carina, quindi era sensato che... Anche se l'anno scorso non eri... ehm... Sto perdendo il controllo».
Med scoppiò a ridere, ringraziando la confusione di Adrian per averla messa finalmente a proprio agio: si sentiva esattamente come lui, il suo stomaco si apriva e si chiudeva di continuo, il cuore palpitava forte nel petto. Non le era mai successo prima e solo l'imbarazzo del ragazzo era riuscito a distrarla.
Adrian la stava fissando a bocca spalancata. Passano tre, cinque, dieci secondi, poi finalmente sbatté le palpebre e si sporse verso di lei. «Aspetta, Med, sei sporca di cioccolato...». Allungò un dito per pulirle la guancia, ma – senza che lei si rendesse conto di come fosse successo – a toccarle il volto furono le sue labbra. Che si posarono esattamente su quelle di Med.
Lo stomaco si aprì di nuovo, questa volta senza richiudersi, e la testa divenne d'un tratto leggera. Non aveva mai provato una sensazione simile. Quando Adrian si ritrasse, rosso più di prima, e cominciò a chiedere scuse su scuse, Med lo afferrò per la maglietta e lo tirò verso di sé, baciandolo di nuovo.
Appena torno a Hogwarts devo scriverlo a Louis!
 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III

24 dicembre 1991

 

Le piaceva la neve; non la venerava, non aspettava il suo arrivo come il segno che il Natale era finalmente giunto e tutti sarebbero diventati più buoni, più altruisti, più magri e più belli – perché l'ipocrisia della famiglia di sua madre arrivava al punto da immaginarsi splendidi e raggianti come non erano mai stati.

Semplicemente, banalmente, la neve aveva un buon odore. A Slough la pioggia rendeva impossibile nevicate di diversi centimetri: i fiocchi non attaccavano e venivano persi, si scioglievano subito, senza dare il tempo di godere di un paesaggio invernale come si deve. Per questo Med amava osservarli volteggiare nel cielo, contemplare la loro esistenza simile a quella di una farfalla e assodare che, sì, le cose belle sono tali perché hanno vita breve.

Bristol non aveva neanche quei piccoli fiocchi.

Era una città grigia, nuvolosa e anonima, ancor di più della sua Slough; in confronto a Londra, festosa e addobbata con luci colorate, Bristol era un posto ben triste. Se Louis aveva deciso di passare lì il Natale, tuttavia, significava che casa Nott doveva essere ancora più grigia e triste.

Lo vide tornare dal Trym ed ebbe un tuffo al cuore: non lo vedeva dal primo settembre, quando lo aveva incontrato a King's Cross, e non erano mai stati così divisi per tanto tempo. Gli diede appena il tempo di sorprendersi della sua presenza, poi gli buttò le braccia al collo.

Louis aveva ancora gli occhi sgranati. «Med! Che ci fai qui?». La tenne stretta a sé e, anche se non poteva vederlo, Med era sicura che stesse sorridendo proprio come lei.

«Volevo darti personalmente il tuo regalo di Natale. E farti gli auguri».

Il viso di Louis, notò, recava qualche traccia di fango e terriccio; lo stesso era per i suoi indumenti da lavoro, rigorosamente babbani nel tentativo di passare inosservato agli occhi degli abitanti di Bristol. Se solo suo padre l'avesse visto vestito così...

«Tieni.» Med gli porse un pacchetto che si era impegnata a incartare per bene, ma la pioggia di Bristol aveva reso vani i suoi sforzi. Non importava: si rese conto che le bastava essere di nuovo insieme al suo migliore amico, il resto erano solo stupidi convenevoli.

«Io... Non mi aspettavo che venissi qui, ho già inviato il gufo con il tuo regalo a Slough. Cavolo, mi dispiace...».

Si strinse nelle spalle. «Lo aprirò stasera».

Louis parve ancor più dispiaciuto. «Torni già a casa?».

«Ho il treno alle sei. Posso rimanere per qualche ora, se non è un problema per te».

«Un problema?». Scoppiò a ridere e l'abbracciò di nuovo, stando attento a non fare cadere il regalo. «È così bello vederti! Vieni, entriamo a casa, ti faccio un tè caldo. Avrai un sacco di cose da raccontarmi».

 

«Theo è a Londra?».

Come promesso, Louis stava preparando il tè. Una procedura familiare per un inglese: riscaldare l'acqua, preparare l'infuso, versare un goccio di latte. C'era una regola non scritta, mai pronunciata, ma accettata da tutti i maghi della Gran Bretagna, che vietava l'uso della magia nella preparazione del tè pomeridiano; così Med osservava Louis districarsi nel piccolo appartamento in cui si era stabilito, affittato con i pochi soldi che sua madre gli aveva lasciato e che il padre non aveva tenuto per sé. Era un bilocale accogliente e arredato ancora con i pacchiani sopramobili della sua padrona di casa, ora riscaldato dal fuoco magico che crepitava nel camino.

Louis era nato in una famiglia Purosangue, una delle più nobili che varcassero tuttora la soglia di Hogwarts senza mai essersi unita in legami sconvenienti; suo padre, Absalom Nott, era stato perfino sospettato di essere stato un Mangiamorte. Med sapeva che quei sospetti non erano infondati.

Eppure, nonostante l'infanzia nobiliare di Louis, eccolo intento nella tradizionale e anticlassista preparazione del tè. Era un bello spettacolo da contemplare.

«Sì, passerà il Natale a casa» rispose Louis, riscuotendola dai propri pensieri.

«Tanto valeva che restasse a Hogwarts...» bofonchiò Med. «Pensavo sareste stati insieme. È il primo Natale che passi da solo».

«Meglio solo che in quella casa».

La punta di amarezza nella voce di Louis era abbastanza evidente, soprattutto per chi, come Med, sapeva quando Absalom fosse tirannico. La vita dei fratelli Nott era cambiata drasticamente dopo la morte della madre; ricordava Christine come una donna gentile, non bella, ma pronta a tutto per rendere felice la vita dei suoi figli. Non semplice, non gloriosa. Felice e basta.

«Era qui che vi immaginavo, infatti. Soltanto voi due».

«E rischiare che mio padre minacciasse di diseredare anche lui? Non sarebbe stato un bel regalo di Natale per Theo».

La sua risata non era per niente divertita, ma quando Louis si voltò trasportando il bricco con il tè il suo volto era rilassato. Versò in una tazza la bevanda ambrata e fumante e gliela porse, lasciando che Med si servisse da sola dei consueti cinque cucchiaini di zucchero. Con la coda dell'occhio, lei lo vide sorridere fra sé.

«Si può sapere perché sembri così contento?» si decise a chiedergli con un sopracciglio alzato.

«Domani è Natale e tu sei qui con me».

Una risposta dato in un modo talmente diretto e noncurante che le guance di Med avvamparono all'improvviso. Diede la colpa al calore del fuoco lì vicino.

«Mi sarebbe piaciuto esserci domani, ma...».

«Diane non te l'avrebbe mai permesso, lo so».

«Stavo per dire che non avevo trovato un treno. Di quel che pensa quella stronza me ne frega poco».

«Smettila. È tua madre e ti vuole bene. Non prendertela se si vergogna della sua scelta».

«Se ne è pentita».

«No, se ne vergogna e basta, altrimenti avrebbe già chiesto il divorzio. Ha sposato un Babbano, un'onta per i suoi amici, ma un bene per lei. E per me». Louis le sorrise per l'ennesima volta nel giro di un'ora e Med socchiuse le palpebre, sospettosa.

«Di' un po', perché sei così carino con me oggi?».

«Non saprei... Forse perché non ti vedo da quasi quattro mesi... o forse perché mi sento in colpa di non avere con me il tuo regalo. Non ho neanche pensato di fare un salto a Slough, sono così preso dal lavoro da aver perso la cognizione del tempo».

«A proposito, perché non lo scarti?». Indicò con un cenno del capo il pacchetto bagnato accanto alla tazza di Louis. «Ma prima ti conviene asciugarlo».

«Detto fatto». Un colpo di bacchetta e la carta da regalo tornò come nuova. «Quasi un peccato doverla rompere...». Scartò il pacchetto e rimase senza parole quando ne scorse il contenuto.

Nascosta dietro il tè, Med gongolò. «Scommetto che non te l'aspettavi».

«Guida completa ai Dugbog: riconoscerli, nutrirli e curarne le ferite» lesse Louis ad alta voce. «Lo stavo cercando da un sacco!».

«Diane sarà un'aristocratica con la puzza sotto il naso, ma ha la sua biblioteca. Mi hai scritto di avere riconosciuto le creature del Trym come Dugbog e mi sono ricordata di averlo. Può esserti utile, credo. È di Dylan Marwood, quello fissato con i Maridi».

Come da copione, Louis la stava ascoltando solo in parte: si rigirava il libro tra le mani, sfogliandolo rapidamente e soffermandosi ogni tanto su qualche disegno dettagliato dei Dugbog. Tipico dei Nott. Stava perdendo il conto di quante volte l'avesse pensato.

Louis inforcò gli occhiali e lesse meglio un paragrafo che sembrava interessarlo particolarmente. «Lo sapevo! Scamandro sosteneva che abitassero solo le zone paludose, ma dovevano essere Dugbog... Ci ho quasi rimesso un piede!».

«Sono felice che ti piaccia».

«Piacermi?». Finalmente Louis sollevò lo sguardo dal libro. «Altro che piacermi, già lo adoro quasi quanto...». Si interruppe di colpo, sospirò e si tolse gli occhiali. «È un regalo bellissimo, grazie. Temo che il mio non sia allo stesso livello».

«Spero che lo sia, o aspetta che possa fare magie fuori da Hogwarts e vedrai» lo ammonì Med.

Louis sorrise e cambiò discorso, tornando a sedere. «E... ehm... cos'hai preso ad Adrian?».

«Roba per il Quidditch, niente di speciale. Però so che anche lui l'apprezzerà».

«Come sta andando tra voi? Nelle lettere non ti dilunghi troppo».

«E ci credo: il programma di Aritmanzia di quest'anno è fantastico, sei l'unico che non mi prende per scema quando ne parlo! Perfino Adrian si annoia dopo un po'... Preferisce parlare di quella roba là, Cacciatori, Pluffe, Boccini... e allora lo costringo a pomiciare, almeno la smette».

Una relazione invidiabile, pensò cupamente. In realtà le cose tra di loro andavano piuttosto bene, per essere la sua prima storia d'amore: si vedevano dopo le lezioni, passavano del tempo insieme nella sala comune di Serpeverde, in attesa che il tempo all'esterno riscaldasse, e si erano promessi di incontrarsi entro Capodanno. Med non era sicura di come dovesse svilupparsi una relazione, ma come inizio non sembrava male.

«La prossima volta niente giocatori di Quidditch, eh?» ridacchiò Louis, tenendo lo sguardo stranamente ancorato alla sua tazza di tè.

«Mi stai augurando che questa non sia la volta buona?».

Ora sembrava imbarazzato. «No... Voglio dire, è il tuo primo ragazzo, no? Raramente il primo resta per sempre. Se Adrian ti piace molto, spero per te che sia una bellissima eccezione alla regola. Lungi da me augurarti il contrario». Sorrideva, ma una strana sensazione nello stomaco di Med le suggeriva che Louis non stesse dicendo tutta la verità.

 

*****

 

3 gennaio 1992

 

“Cara Fera,

sono davvero, davvero, DAVVERO desolato per il disguido coi regali di Natale. Davvero. Se avessi immaginato che mi avresti comprato proprio la Guida ai castelli infestati di Scozia e Irlanda mi sarei guardato bene dal regalartela a mia volta. Vedi perché odio le sorprese? È già il terzo Natale che succede una cosa simile!”

 

Seguivano due pagine di minuziosa descrizione delle vacanze trascorse da Percy a Hogwarts, compresa una lunga filippica contro gli scherzi di Fred e George (Toglierei loro decine di punti, se solo non significasse sottrarli alla mia stessa Casa!”) e un resoconto completo degli sviluppi nella sua storia con Penelope – cioè nessuno, salvo uno striminzito ed imbarazzato scambio di auguri via gufo.

 

“Sarò ad attendere gli studenti alla stazione di Hogsmeade. Ci vediamo lì? Spero di vedere anche Penelope, ma dati i nostri impegni come Prefetti la cosa non è assicurata. A tal proposito, ti invio anche i saluti di Edmund: lui è stato assegnato all’accoglienza degli studenti alla scuola, quindi mi ha detto di dirti che vi incontrerete lì.

È simpatico, ma vorrei che si trovasse un gufo tutto suo con cui spedirti messaggi.

Ti auguro di fare buon viaggio!

A presto, P.

PS: Voglio sperare che tu abbia STUDIATO, in questi giorni. Casomai te ne fossi dimenticata, a giugno abbiamo i G.U.F.O.”

 

Sbuffando per l’ultima frase, Fera piegò la lettera e la ripose nel contenitore dove teneva la corrispondenza, poi prese un foglio di pergamena e una bic e pensò a come rispondere. Le sue vacanze invernali erano state molto meno interessanti di quelle di Percy, ma era comunque contenta di averle trascorse a casa invece che a Hogwarts. Alla fine, scrisse una lettera molto più breve di quella del suo loquace amico: parlò delle nevicate continue e delle passeggiate con suo padre nei rari momenti in cui il tempo dava loro tregua, della messa di Natale cui non sarebbe mai potuta mancare (“Non finché vivo io!”, aveva detto nonna Brigit, per poi chiederle se “prendeva i sacramenti” in quella orrenda scuola scozzese dove studiava: e Fera aveva risposto di sì, sperando intensamente che le confessioni dal Frate Grasso fossero valide come se il fantasma fosse vivo), dei pranzi e cene coi parenti che non vedeva da tempo e del sollievo di esprimersi finalmente in gaelico, anche se ogni tanto le scappavano intere frasi in inglese (con gran disappunto dei nonni, fieri membri della comunità Gaeltacht di Rathcairn). Accennò anche alla difficoltà, sempre crescente, di non parlare di magia in quelle occasioni, sebbene non fosse sicura che Percy avrebbe capito: lui non aveva e non avrebbe mai provato qualcosa del genere. Evitò accuratamente di dire che non aveva toccato libro, in quei giorni, e gli diede appuntamento alla stazione di Hogsmeade.

Anche se avrei preferito ci fosse Ed.

Il pensiero di Edmund la riscaldò. Aveva scambiato un paio di lettere anche con lui, durante le vacanze, e sapeva già dei suoi impegni per il giorno del ritorno a Hogwarts; l’idea che avesse voluto confermarglieli anche attraverso Percy, tuttavia, le parve buffa e gradevole.

Scese le scale, persa nei pensieri, e per poco non andò a sbattere contro suo padre.

«Ehi! Sei di fretta?». Niall non parlava irlandese, ma in presenza di sua figlia marcava comunque il proprio accento: sapeva che presto le sue orecchie si sarebbero disabituate ai duri suoni della sua terra, perciò cercava di ritardare quel momento il più possibile.

«Non troppo. Vado solo alle poste prima che chiudano».

«Capisco. Ti serve un francobollo o… Ah, già». L’uomo si batté una mano sulla fronte. «Le tue poste».

«Già». La ragazza ridacchiò prima di aggiungere: «Che non richiedono francobolli, al contrario delle tue poste».

«Le mie poste? Signorina, non mi starai mica dando del volgare Babbano? Sono padre di una strega, io!» La punzecchiò scherzosamente con un dito, infine la lasciò passare. «Puoi controllare se è arrivata la mia copia del Cavillo? Hanno annunciato un numero speciale per Natale!» le gridò, un istante prima che Fera si chiudesse la porta alle spalle.

L’ufficio postale magico occupava uno sgabuzzino all’interno delle Poste babbane: più che sufficiente, visto che a utilizzarlo erano solo Fera e una famigliola di maghi residente nel paese accanto. Per raggiungerlo non ci volevano più di quindici minuti a piedi attraverso il centro città, ma la ragazza allungò il tragitto percorrendo la strada che tagliava per i campi e costeggiava poi il fiume Boyne. Le piaceva camminare, soprattutto nel suo paese: Trim non aveva nulla in comune coi paesaggi montagnosi dei dintorni di Hogwarts, l’altura più imponente era costituita dalla collinetta dove sorgeva il Castello e tutto il resto erano strade dritte, case bianche e soffice erba verde. O neve, come in quel momento.

Camminò senza fretta, fermandosi di quando in quando per riprendere fiato e guardarsi attorno: voleva stamparsi nella mente le vedute di casa sua, in modo da ricordarli quando fosse tornata a Hogwarts.

Poco prima di tornare verso il centro di Trim, Fera si accostò a una villetta che conosceva bene. La casa, abbandonata da anni, si trovava in riva al fiume e ben distante dalla strada; l’incuria era evidente, specie dal tetto sfondato e dal giardino incolto. Le finestre erano state tappate dall’interno con pezzi di compensato, e le assi che componevano i gradini d’ingresso erano state divelte da qualcuno in cerca di legna. Unico elemento che rendeva quel posto degno di una seconda occhiata era il grande, maestoso albero di Giuda a sinistra della facciata, i cui fiori color rosa vivo contrastavano meravigliosamente con la neve circostante.

Peccato che i miei non possano vederlo.

Sorrise tra sé, ricordando il momento in cui la sua famiglia aveva capito che in lei c’era qualcosa di non completamente Babbano. Un qualsiasi abitante di Trim, guardando la casa in riva al fiume, avrebbe visto l’albero di Giuda nero e rinsecchito come il resto delle piante attorno; un mago o una strega, invece, si sarebbero goduti l’effetto dell’incantesimo eseguito, un secolo prima, dall’antica abitante della villetta, per mezzo del quale l’albero rimaneva fiorito in ogni stagione e con ogni tempo atmosferico. La prima volta che Niall e Mairie avevano portato Fera a passeggiare accanto al fiume, erano rimasti un po’ sconcertati nel vedere la loro bambina sorprendersi e indicare invisibili fiori rosa dove non c’erano altro che rami secchi; il pensiero che si trattasse di una fantasia era stato scartato di fronte all’insistenza della piccola, e per un po’ avevano evitato di avvicinarsi ancora a quella casa affinché quella stranezza non si ripetesse. Diventata abbastanza grande da andarsene in giro da sola, però, Fera era tornata più e più volte a trovare l’albero, e solo l’arrivo della McGranitt aveva dato finalmente un senso a quella che ormai riteneva un’allucinazione.

Restò a guardare l’albero che fioriva solo per lei, finché non udì suonare le campane della chiesa: mancava solo mezz’ora alla chiusura dell’ufficio postale. Con un sospiro, riprese la strada. Se non avesse risposto in tempo alla sua lettera, quell’antipatico del suo migliore amico sarebbe stato capace di rimproverarla.

 

*****

 

7 gennaio 1992

 

Alla stazione di King’s Cross, la folla che occupava il binario 9 e ¾ era molto ridotta rispetto a settembre. Tra quelli che avevano scelto di passare le feste in famiglia c’erano Catherine e Paul, che ora, con aria professionale (ma non troppo), aiutavano i ragazzi ad issare i bagagli e a salire ordinatamente sul treno.

«Hai visto Fera?» chiese Catherine, a un certo punto.

«Non ancora». Paul si scansò la frangia dagli occhi e sorrise a un gruppetto di piccole Grifondoro, che si allontanarono ridacchiando. «Dici che dovremmo tenerle un posto?».

«Nah, la faremo sedere nel nostro scompartimento, come a settembre. E questa volta non ci sarà Percy a romperci le scatole». Catherine osservò altre due primine, stavolta Serpeverde, accostarsi a Paul per farsi aiutare con i bauli; pur sapendo che lo facevano solo per avvicinarsi al suo ragazzo, non se la prese minimamente.

Da quando avevano iniziato a frequentarsi, tre anni prima, Catherine era dovuta venire a patti con l’idea che il suo alto, biondo e in generale splendido Paul attirasse gli sguardi di chiunque in ogni luogo. All’inizio questo l’aveva infastidita e ingelosita, ma aveva smesso di preoccuparsene quando si era resa conto che Paul, pur consapevole delle occhiatine languide e svenevoli delle sue compagne di scuola, ne era del tutto impermeabile. Niente riusciva a distoglierlo da Catherine, cui era fedele con una devozione straordinaria per un adolescente, e in questo era ciecamente e totalmente ricambiato.

«Mi sembra una buona idea. Tanto ci sarà posto, gli altri sono a scuola e…».

«... E Light se ne starà fuori dalle palle, spero».

«Cathy!».

«Che c’è? Sai che non la sopporto».

«Lo so, tesoro, ma...».

«Ehi, Fera! Fera!». Facendosi largo a spintoni tra gli studenti, senza badare affatto alle loro proteste, Catherine raggiunse Fera e l'aiutò a trascinare il baule. «Presto, Paulie,» esclamò poi, «occupiamo lo scompartimento prima che arrivi quell'oca!».

«Non dirmelo: sta parlando di Penelope» disse Fera a Paul, che sospirò.

Il vagone dove entrarono era vuoto a eccezione di Diodora, la Prefetto di Grifondoro, che li salutò con un cenno del capo e si immerse subito nella lettura del libro di Rune avanzate. Fera non la conosceva granché bene; sapeva che Percy non ci andava molto d’accordo – come con gli altri compagni di classe, del resto – perciò non si era mai preoccupata di stringerci amicizia, ma in quel momento avrebbe tanto voluto sedersi accanto a lei e chiederle aiuto per ripassare Rune. Perlomeno, si sarebbe risparmiata la ramanzina di Percy sul fatto che non aveva aperto libro durante tutte le vacanze – ma che ci poteva fare? Concentrarsi, a casa, era impossibile, e poi passava talmente poco tempo con i suoi che non le andava di sprecarlo studiando. A cosa serviva, infine, quando la sua media in tutte le materie era più che decente?

Non basta. Hai i G.U.F.O., quest’anno, le sussurrò una parte di lei, quella che parlava con la voce di Percy. Devi impegnarti di più, o farai una figuraccia e non otterrai mai un lavoro decente nel mondo magico. Non vorrai mica diventare un avvocato, vero?

Scrollò il capo per scacciare quei pensieri. Non le serviva la voce immaginaria del suo migliore amico per farla sentire in colpa: presto avrebbe avuto a disposizione quella reale.

Una volta sedutasi, Catherine si voltò a guardare Fera. Riconobbe l’espressione che l’amica metteva su quando si sentiva in colpa per qualcosa (per Tosca, quella ragazza era trasparente!); aspettò che si sedesse di fronte a sé e poi attirò la sua attenzione con un calcetto.

«Ehi, sei riuscita a studiare durante le vacanze? Io no» aggiunse subito, con un certo orgoglio. «I miei genitori hanno portato me e Susan a New York, abbiamo girato per tutto il tempo…».

«Sul serio?». Dimenticata la preoccupazione di poco prima, Fera interrogò Catherine su ogni particolare delle due settimane passate in America, a cominciare dalla scomoda Passaporta a forma di tagliola per volpi (chiaro segno che il passare dei secoli non aveva mitigato l’astio tra la Gran Bretagna e la sua vecchia colonia).

«… e se le Torri Gemelle sono grandi, non hai idea di cosa siano i loro sotterranei! Susan ha tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo, quella fifona – è incredibile che una come lei voglia fare la Guaritrice! – ma io sono sicura di aver visto qualcosa, là sotto; sembrava una viverna, ma senza le ali».

«Fantastico» sospirò Fera. «E tu, Paul?».

«Niente di speciale: sono andato a trovare i nonni a Copenaghen». Lanciò un’occhiata a Catherine. «Ormai non fanno che chiedermi di presentare loro la mia ragazza, ma lei non vuole mai accompagnarmi…».

«Per quale motivo dovrei andare in Danimarca, se posso visitare New York e le sue viverne?». Catherine rispose allo sguardo deluso di Paul con una risata, poi gli accarezzò il mento. «Verrò per le vacanze di primavera. Va bene?».

Il ragazzo si illuminò. «Davvero? Grande! Saranno contentissimi!».

Rimasero a guardarsi per qualche istante. “Per Tosca”, pensò Catherine, per l’ennesima volta in vita sua, “quanto mi piace Paul”.

E dire che la loro storia era iniziata nel più banale dei modi, ovvero con un colpo di fulmine. Erano al secondo anno, ora di Pozioni; all’epoca Catherine aveva appena incominciato a fare amicizia con quella pallina di timidezza che era Fera, e si erano messe in coppia per creare la pozione Antiacne; a un certo punto, Fera si era schizzata del pus di Bubotubero su un braccio ed era dovuta correre in infermeria, al che il professor Piton aveva messo Paul al suo posto. Prima di allora, lui e Catherine non si erano mai accorti l’uno dell’altra, sebbene a posteriori ciò sembrasse impossibile: entrambi erano belli, biondi e discendenti da alcune delle famiglie più ricche d’Inghilterra. Erano evidentemente fatti per stare insieme – e tuttavia, c’era voluto mezzo baccello di Bubotubero addosso alla povera Fera perché ciò accadesse.

Meno di ventiquattr’ore dopo, erano già inseparabili. Meno di due giorni dopo, Fera era diventata la loro migliore amica.

La porta dello scompartimento si aprì di scatto, interrompendo il flusso di ricordi di Catherine. «C’è posto?» chiese Penelope Light, affacciandosi.

«Oh, ciao!». Fera le diresse un grosso sorriso e spostò lo zaino. «Certo, siediti pure».

«Ciao» le fece eco Paul, mentre Catherine si limitò ad alzare il mento. Penelope parve sorpresa: non doveva essersi accorta della loro presenza, prima di aprire la porta; rivolse alle due ragazze uno sguardo seccato e scosse la testa.

«No, grazie» borbottò, e richiuse la porta con forza.

«Ma…che è successo?» chiese Fera, strabuzzando gli occhi. Non si aspettava un rifiuto così. «Le ho solo detto che poteva sedersi!».

«Tranquilla, non ce l’ha con te». Paul guardò Catherine in modo eloquente. «Vero, Cathy?».

La ragazza incrociò le braccia. «Oh, senti, non è colpa mia se ci stiamo antipatiche a vicenda».

«No, ma è colpa tua se è stata per quasi una settimana in infermeria. Le hai aizzato contro un Geranio Zannuto, ricordi?».

«Io?».

«Tu, o la tua gemella segreta».

Catherine parve oltraggiata. «Non è vero, non le ho aizzato contro nulla! Quel Geranio ha fatto tutto da solo!».

«Ah-ha».

«Fera, diglielo anche tu!».

«Ehi, Diodora, posso studiare insieme a te?» chiese in fretta Fera alla Prefetto di Grifondoro, spostandosi accanto a lei. Fu una mossa un po’ vigliacca, ma – le ripeté la voce di Percy nella sua testa – lei doveva studiare per i G.U.F.O., e inoltre nessuno sano di mente si sarebbe mai fatto coinvolgere in una discussione tra Paul e Catherine.

Gli altri due la guardarono male, poi ripresero a parlare a bassa voce. «Dimmi la verità» chiese Paul, «davvero Penelope ti sta antipatica solo perché piace a Percy?».

«Non solo. Anzitutto, non mi va che prenda in giro i Tassorosso».

«È successo una volta, mesi fa! E poi, tu prendi in giro i Grifondoro!».

«Ma quelli meritano di essere presi in giro!».

«Cathy, avanti. Ammettilo».

Catherine fece per negare ancora, ma con Paul era inutile insistere. «Forse sì» bofonchiò allora. «Non mi va che si metta con Percy. È… inadatta».

Paul rise. Se c’era qualcuna, in tutto il mondo, adatta a quel secchione vanesio e perfezionista di Percy, quella era proprio Penelope. Lo disse, ma Catherine scosse il capo.

«Non sono d’accordo». Lanciò un’occhiata a Fera, ormai concentrata nel ripasso con Diodora. «L’hai mai visto con Fera? È praticamente un’altra persona».

«Fera?». Anche Paul la guardò. «Ma va’. Sono come fratelli, quei due. Sarebbe troppo strano».

«Sarebbe romantico, invece. Gli amici d’infanzia che scoprono di amarsi, si sposano e vanno ad abitare vicino agli altri loro amici, ossia noi due». Catherine sospirò, e il suo sguardo si perse verso un punto lontano. «Avrebbero dei figli intelligentissimi».

«… hai detto figli?!».

Catherine annuì. «Figli. Che sarebbero amici dei nostri, giocherebbero insieme a Quidditch e mi chiamerebbero zia Cathy».

«Mi sa che stai…».

«Verrebbero a cena da noi tutti i mercoledì, e durante le vacanze andrebbero in Irlanda e noi spediremmo i nostri marmocchi con loro!».

«… esagerando parecchio».

La Tassorosso lo ignorò, lanciata com’era nel suo sogno ad occhi aperti.

 

*****

 

«Ho scoperto che Harry è proprio incapace nel gioco degli scacchi».

«Harry Potter?».

Percy annuì. «Mio fratello Ron lo ha battuto per non so quante volte di seguito. E dire che io l’ho anche aiutato!».

«L’hai aiutato a perdere, probabilmente».

Fera rise e Percy fece una smorfia. «Avrebbe perso comunque» aggiunse poi, in tono lagnoso.

«Non ho dubbi».

Con un gesto identico, si coprirono meglio coi mantelli. Lo strato di neve sotto i loro piedi era ancora consistente, ma non abbastanza da impedire una passeggiata in riva al Lago Nero; il che era proprio ciò che serviva a Percy per chiacchierare senza venir distratto dai suoi doveri di Prefetto, come ammonire gli studenti o cercare di sfuggire a Pix. Le lezioni erano già ricominciate, ma gli impegni dell’uno e dell’altra – nonché l’ansia di rivedere i rispettivi interessi amorosi – avevano impedito ai due amici di ragguagliarsi decentemente sulle vacanze appena trascorse, fino a quel momento.

«Ah, ho già iniziato a leggere la Guida che mi hai regalato» disse Fera, dopo qualche secondo. «Sono un po’ delusa, pensavo che anche il Castello di Trim fosse infestato».

«Vivi nel posto meno infestato d’Europa, fattene una ragione». Percy arrossì. «Mi dispiace davvero tanto per averti preso un regalo uguale al mio».

«È il brutto di avere gli stessi gusti in fatto di libri» replicò Fera, ridendo.

«Ma tu, almeno, mi hai regalato un libro nuovo».

Stavolta la ragazza non rise. «E allora? Sai che io amo i libri usati, hanno più storia addosso». Scalciò via un po’ di neve. «Magari il mio regalo è costato di più, ma il tuo ha più valore».

Percy sorrise. Con Fera non aveva mai fatto mistero delle sue condizioni economiche, ma gli sembrava sempre così strano che lo accettasse senza problemi. «Comunque, tieni» disse, tirando fuori una mano dalla tasca del mantello. «Per compensare».

Fera stese la propria mano e Percy ci piazzò su una monetina d’argento. «Cos’è?».

«Ti piace?».

«Molto!». La soppesò, la prese tra le dita e l’esaminò meglio. «Sembra antica. Dove l’hai trovata?».

«Era nella mia fetta di dolce al pranzo di Natale. Mi ci sono quasi rotto un dente…». Detto ciò, Percy si morse la lingua. Avrebbe dovuto omettere quel particolare, lo sapeva.

Difatti, l’espressione curiosa di Fera si mutò in orripilata. «Questa… è stata nella tua bocca?».

«L’ho lavata dieci volte, lo giuro!».

«Sei… sei disgustoso. Riprenditela».

Mesto, il ragazzo si rimise la monetina in tasca. «Prima o poi ti farò un regalo decente» mugugnò.

«Dovresti farlo a Penelope, piuttosto» replicò Fera. «Davvero non le hai mandato nulla? Non posso crederci!».

Percy fece spallucce. «E allora? Nemmeno lei mi ha fatto un regalo».

«Non importa!».

Il ragazzo sbuffò e accelerò il passo. «Sarebbe stato cavalleresco, da parte tua» insistette Fera, marciando più rapida. «Avresti dimostrato che ci tieni a lei, che la pensi e che…».

«Fawley ti ha fatto un regalo?» domando lui a bruciapelo.

Fera esitò. «N-no, ma…».

«Tu gli hai fatto un regalo?».

«No…».

«Vedi? A me sembra del tutto normale».

«Ma che c’entra? Ed e io non… Tu e Penelope vi frequentate da una vita, sarebbe stato giusto scambiarvi un pensiero per Natale!».

Percy sbuffò di nuovo e si fermò, dando modo a Fera di chinarsi per allacciarsi una scarpa. «Beh, frequentare… Non siamo mai nemmeno usciti insieme, tu e Ed invece sì».

«Ehi, non incolpare me se non hai ancora chiesto un appuntamento a Penelope!». Si rialzò. «Dovresti darti una mossa, sai?».

«Lo farò. Appena ci sarà l’occasione giusta».

Lo sguardo di Fera era scettico, e per evitarlo Percy chinò il capo. Di occasioni ne aveva avute, in effetti, ma per quanto si fosse preparato al momento di invitare Penelope da qualche parte – anche ad una semplice passeggiata nel parco – alla fine non ce l’aveva mai fatta. Era più forte di lui. Non aveva mai affrontato una cosa del genere, la sola idea di sbagliare e rovinare la propria immagine davanti a Penelope lo atterriva.

Fera gli si avvicinò. «Cos’è? Adesso mi tieni il muso?» chiese, e senza alcun preavviso gli diede una spallata, sbilanciandolo. Percy si rimise subito dritto e, automaticamente, rispose alla spallata con un colpo più forte. Un secondo dopo, lui e la sua amica erano spalla contro spalla, i piedi puntellati a terra, e ciascuno spingeva cercando di far perdere l’equilibrio all’altro.

«Cadi, maledizione! Perché non cadi?!».

«Perché mi sono allenato con Charlie, ecco perché!».

Si staccarono e ripresero subito a spingersi, incuranti della neve scivolosa. Era un gioco che facevano da quando avevano undici anni: Percy era avvantaggiato dall’altezza, Fera dall’essere più grossa, perciò vittorie e sconfitte erano equamente distribuite.

«Irlanda vince! Irlanda vince!» strillò Fera, quando finalmente sentì Percy cedere; un istante dopo, tuttavia, si ritrovò a faccia in giù nella neve.

«Hai barato!» gridò, non appena riuscì a girarsi sulla schiena. «Brutto figlio di…».

«Ciao, Penelope!».

Fera si rimise subito in piedi, giusto in tempo per vedere Penelope avvicinarsi. Capì al volo cos’era successo: quel deficiente le aveva fatto mancare la controspinta e l’aveva praticamente buttata a terra, solo perché la ragazza dei suoi sogni non lo notasse in quell’atteggiamento infantile.

Merlino, che idiota.

Penelope li raggiunse. «Ciao» fece, rivolta solo a Percy.«Fawley ti sta cercando, dice che avete un appuntamento» disse poi a Fera, con una nota strana nella voce.

Fera, che si stava ripulendo il mantello dalla neve, al sentire ciò si immobilizzò. Cercò di ricordare come e quando si era data appuntamento con Ed, poi si batté una mano sulla fronte. «Cavolo, oggi c’è il club di lettura!». Si ripulì più in fretta, poi si avviò verso il castello. «Ci vediamo stasera a cena!».

Percy ricambiò il saluto agitando una mano. Penelope, invece, non fece nemmeno quello.

 

*****

 

23 gennaio 1992

 

Da quando le vacanze di Natale erano terminate, le settimane avevano ricominciato a scorrere lentamente tra lezioni noiose e cinquanta centimetri di pergamena per il giorno seguente. Oltre ad Aritmanzia, le sola cosa che rendesse il tempo di Med a Hogwarts più sopportabile dal diploma di Louis erano i pomeriggi passati con Adrian; a settembre le era sembrato che si prospettasse per lei un anno infelice, perennemente in compagnia di Lobelia e Grace, ma dall'appuntamento a Hogsmeade del novembre passato le cose avevano cominciato a girare diversamente.

Lobelia e Grace erano sempre presenti nella sua vita, fortunatamente però in maniera limitata: Med aveva iniziato a uscire con gli amici di Adrian, un gruppetto di Serpeverde che non parlavano solo di Quidditch – perlomeno in sua presenza. Aveva sempre saputo di trovarsi meglio in mezzo ai ragazzi e forse era solo quello di cui aveva bisogno: meno chiacchiere sull'amore e più bullismo nei confronti di quegli sfigati dei Tassorosso. O dei Grifondoro.

Ce n'era uno, in particolare, su cui Med, Adrian e i loro amici si divertivano a sfoggiare la legge del più forte.

«Ehi, Paciock, ti sei perso anche stavolta?».

Il ragazzo paffutello che Med aveva preso di mira già a King's Cross sussultò, si guardò intorno e rabbrividì quando riconobbe il gruppetto di Serpeverde. Spostò di nuovo lo sguardo di qua e di là, forse per accertarsi di non essere solo. Speranze vane.

«Aspetti che qualcuno accorra in tuo aiuto?» lo canzonò Ariel, un ragazzo del terzo anno con una fossetta sul mento. Si guardò in giro anche lui, poi si strinse nelle spalle. «Peccato, non vedo Potter da nessuna parte».

Med ridacchiò. Se c'era una persona che sopportava meno dei Weasley, quello era il famoso Harry Potter – che non a caso girava sempre in compagnia del più piccolo dei Weasley. Fra sfigati si riconoscono facilmente, pensò. Potter si dava delle arie che in un primino stonavano parecchio; era pur sempre un Grifondoro, tuttavia, e con la leggenda che si portava dietro non avrebbe potuto comportarsi altrimenti. A Med non andava giù comunque, ma prendersela direttamente con lui – come faceva il ragazzino di cui la sorella di Lobelia era tanto invaghita – lo avrebbe solo reso ancor di più al centro dell'attenzione, sostenendo la falsa convinzione che i Serpeverde erano capaci di prendersela solo con i più piccoli e deboli. Non era vero: i Serpeverde volevano divertirsi e basta. Se poi a farne le spese era un bambino del primo anno con la bocca ancora sporca di latte... peggio per lui.

«Che fai, Paciock? Non rispondi?». A farsi avanti questa volta fu Caius, uno dei battitori della squadra di Serpeverde. La sua mole lo rendeva minaccioso anche in assenza di mazza e Bolidi.

Paciock arretrò di qualche passo, incontrò una radice sporgente e cadde a terra. Med scoppiò a ridere.

«Non sei neanche in grado di guardarti i piedi, ragazzino?». Lo canzonò, avvicinandosi tuttavia a lui per porgergli una mano. «Da' qua, ti aiuto a rialzarti prima che faccia altri danni».

Giustamente, Paciock non sembrava convinto della sincerità di Med, ma Caius aveva appena fatto scrocchiare le grosse dita ed era meglio vedersela con una ragazza del quarto anno piuttosto che con un battitore che non vedeva l'ora di fargli saltare le cervella. Afferrò la sua mano con le dita sudaticce e, miracolosamente, si ritrovò in piedi.

«Gr... grazie...» balbettò incredulo. Rimase immobile, temendo improvvisi brutti tiri, ma non accadde niente. I Serpeverde lo fissavano. «Allora... ehm... io vado...».

Quando, tuttavia, il ragazzino si abbassò per afferrare la borsa che era caduta insieme a lui, Med esclamò: «Relascio!».

Paciock rischiò di inciampare, preso alla sprovvista. Tra le risate dei presenti, tentò nuovamente di avvicinarsi alla borsa, ma ancora una volta Med pronunciò la formula dell'Incantesimo di Esilio.

«Relascio!».

Altri due metri. Altri passi incerti.

«Relascio! Relascio! Relascio!».

La borsa si era aperta, lasciandosi dietro a ogni balzo un libro o una piuma, un calamaio che si rovesciò sul prato bagnato, un rotolo di pergamena e perfino una Ricordella che rotolò giù per la discesa. Il gruppo di Serpeverde scoppiò a ridere ancor di più mentre osservava il ragazzino rincorrerla e inciampare, il volto rosso quasi quanto lo stendardo della sua Casa.

Ariel si teneva lo stomaco, piegato in due. Anche Caius e Miles, il ragazzo di Lobelia, erano in preda all'ilarità. Med gongolò, complimentandosi con se stessa per essere riuscita, ancora una volta, a conquistare il rispetto del suo nuovo gruppo di amici.

«Potresti anche dargli un po' di tregua» finse di sgridarla Adrian, che aveva appena appoggiato una mano sulla sua spalla. «È pur sempre un marmocchio».

«Ha due anni meno di te» puntualizzò Med, girandosi per fronteggiarlo. «Non tirartela troppo».

«Avrà anche due anni meno di me, ma non ha una ragazza bella come te».

Questa volta fu Med quella presa alla sprovvista. Avvampò, stupendosi dell'audacia di Adrian – sebbene avesse scoperto che, dopo essere diventati una coppia, il fratello di Grace si era dimostrato capace di superare la timidezza ed esprimere ad alta voce i propri sentimenti.

Non ebbe il tempo di accorgersi che Adrian la stava baciando. Udì i loro amici schernirli e lanciare esclamazioni di cui lei li avrebbe presto fatti pentire, ma per il momento scelse di infischiarsene.

 

*****

 

12 febbraio 1992

 

La partita si stava avvicinando – mancavano ancora diverse settimane, ma non importava.

I G.U.F.O. si stavano avvicinando – mancavano addirittura mesi, ma non importava neanche questo.

Il punto era che il mondo intorno a lui andava avanti e lo faceva anche la sua vita, tuttavia Oliver non riusciva ancora a capacitarsi che quella in cui si trovava era la realtà. C'erano le lezioni, gli allenamenti e i pomeriggi a Hogsmeade, c'erano le vacanze appena terminate e gli amici da frequentare ogni giorno. Non importava neanche quello: Oliver si sentiva estraneo a tutto ciò.

Perlomeno in quel quinto anno di Hogwarts aveva accettato qualcosa, e cioè che il motivo di quella sua apatia non era Charlie; lo era stato, lo era ancora in parte – ma, per l'appunto, in parte. Si sentiva semplicemente spaesato, senza Charlie, senza Tonks, senza il tempo libero passato con loro. Ora il castello sembrava un posto mai visitato prima.

Oliver aveva cercato di combattere quell'apatia e continuava a farlo intensificando gli allenamenti, senza però riscuotere successo nell'ambito scolastico. E i voti ne avevano nuociuto.

«Hai saltato Incantesimi».

Si sarebbe detto che la sua coscienza aveva la voce di Percy Weasley, e forse era proprio così.

«Non mi sentivo bene» mentì prontamente Oliver, sebbene si fosse appena reso conto di avere perso una lezione.

Merda.

«Sei stato in infermeria?».

Annuì. «Ora sto meglio. Cos'ha spiegato Vitious?».

«Ci siamo esercitati sull'Incantesimo di scavo. Non ho ancora ben chiaro il motivo di questa scelta,» aggiunse Percy sistemandosi gli occhiali sul naso, «ma il professor Vitious ritiene che dovremmo imparare a usarlo al pari dello Schiantesimo. Eravamo in pochi a riuscirci, a dire il vero».

Oliver aveva notato come il petto di Percy si era gonfiato quando si era incluso in quel ristretto gruppo di vincenti – di cui sicuramente aveva fatto parte anche quella ragazza del loro anno con cui Percy stava sempre insieme.

Com'è che si chiama?

«Hai bisogno di esercitarti?».

«Uh?».

«Con l'Incantesimo di scavo, intendo dire. Posso mostrarti il suo corretto funzionamento».

Mi spiace, Percy, ma ormai so scavarmi una fossa benissimo da solo. Si morse la lingua, prima di rispondergli. «Grazie, non serve. Ho l'allenamento fra poco e poi hai ragione, non capisco neanch'io perché Vitious ci faccia studiare un incantesimo del genere...».

«Posso aiutarti con altri incantesimi. So che all'ultimo tema hai preso una S».

Già, Percy Weasley era davvero la fastidiosa e immortale voce della sua coscienza.

«Non dovresti impicciarti dei miei voti» si indispettì Oliver, cominciando a perdere la pazienza.

«E tu non dovresti lasciarli in bella vista nel dormitorio».

«Fatti gli affari tuoi, Percy» concluse mentre si avvicinava alle scale a chiocciola, determinato ad appropriarsi della scopa prima che il suo compagno potesse farlo sentire addirittura più in colpa con se stesso.

 

*****

 

«Quest'oggi, ci eserciteremo sulla Pozione Obliviosa. Chi di voi sa dirmi che cosa comporterebbe berla?».

Senza che nessuno, in quell'aula, se ne meravigliasse, il primo braccio a scattare in alto fu quello di Hermione Granger. E, senza che nessuno si meravigliasse anche di quello, Piton fece finta di non vederlo. Con il mento sollevato, il suo sguardo vagò sul resto della classe, soffermandosi più di una volta sul duo composto da Potter e Weasley; incredibilmente, quel pomeriggio aveva scelto di dare loro tregua. Ma non di soddisfare la saccenza e la vanità della Granger.

«Nessuno?».

Alla fine Theodore sospirò e alzò anche lui la mano: odiava essere al centro dell'attenzione e sarebbe stato veramente grato a Piton se un giorno avesse deciso che bastava mescolare pozioni in silenzio per guadagnare punti per la propria Casa, ma erano già passati tre minuti e non aveva intenzione di aspettare ancora per potere imparare la Pozione Obliviosa. Non quando sapeva che veniva spesso scelta per gli esami di fine anno.

Piton annuì silenziosamente verso di lui. Il braccio della Granger ricadde verso il banco e Theodore fu certo di averla udita sbuffare.

«La Pozione Obliviosa ha un effetto molto simile all'Incanto Oblivium» cominciò a recitare. «Chi la beve dimentica immediatamente gli eventi delle ultime ore. A differenza dell'Incantesimo di Memoria, tuttavia, non è possibile modificare l'arco di tempo che verrà scordato o manipolare la memoria a proprio piacimento».

«Ed è per questo motivo che l'Incantesimo di Memoria non viene insegnato prima del secondo anno» concluse Piton in tono piatto. «Cinque punti a Serpeverde».

Draco, che era seduto davanti a lui, si voltò per rivolgergli un sorriso compiaciuto. Theodore lo accolse con una smorfia di ringraziamento, niente di più: conquistare punti per Serpeverde era una conseguenza di poca importanza; ciò che lui desiderava realmente era imparare a usare qualsiasi incantesimo e pozione per la memoria, in modo da dimenticarsi ogni singolo momento in famiglia da quando sua madre era morta.

Fu per questo grato del silenzio di Blaise, suo vicino di banco, che non trovava niente di encomiabile nell'imparare ciò che dovevano comunque studiare. Il sapere veniva prima di tutto, poco importava se manifestato o meno – sebbene, nel profondo, Theodore fosse convinto che Blaise non aspettava altro che stupire i professori ai G.U.F.O. e ai M.A.G.O., dimostrando loro la grandezza del suo cervello e mettendo finalmente a frutto i propri studi. Ambizioso, certo, ma dopotutto era un Serpeverde.

«Aprire il libro a pagina centosessantadue» aveva ripreso a parlare Piton. «Gli ingredienti che vi serviranno si trovano accanto ai vostri calderoni. Mi aspetto che tutti voi riusciate nella preparazione di questa semplice pozione». I suoi occhi si puntano su Paciock, che si fece piccolissimo.

Theodore aprì il libro e cominciò a leggere. Accanto a lui, Blaise aveva già accesso il fuoco del calderone e stava attendendo per aggiungere le radici di valeriana. Sapevano entrambi, però, che i loro sforzi di preparare la pozione migliore sarebbero stati vani: la Granger avrebbe concluso prima degli altri, regalando al proprio orgoglio un liquido color amaranto.

La pozione di Theodore, infatti, poteva vantare soltanto una sfumatura carminia, ma era comunque migliore di quella di Paciock, verde vomito e piena di gigantesche bolle che minacciavano di scoppiargli in faccia, e dell'intruglio melanzana di Draco. Il volto del suo compagno era dello stesso colore.

«Spero che qualcuno di voi abbia eseguito alla perfezione la preparazione» esordì Piton, fermo davanti al calderone di Paciock «perché avrei bisogno di un'ottima Pozione Obliviosa per dimenticare questo incommentabile disastro».

Quelle parole fecero tornare in fretta il sorriso a Draco, che diede una gomitata a Tiger, gongolando per un risultato che, a conti fatti, non era terribile come quello del Grifondoro.

La pozione immediatamente successiva apparteneva alla Granger, ma Piton non disse nulla, guardandola a malapena.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


CAPITOLO IV
 
9 marzo 1992
 
È già marzo.
Sdraiata sul letto, Fera cedette al desiderio di restare sotto le coperte per altri cinque minuti. Odiava la primavera. Il cambio di stagione la rendeva perennemente stanca, nonché facile a irritarsi e a litigare con chiunque. L’ideale sarebbe stato chiudersi nel dormitorio, ma ovviamente non poteva; a breve si sarebbe dovuta trascinare fuori dal letto, recare in aula e seguire le lezioni della giornata – lunedì, il giorno peggiore in assoluto. Il tutto condito dall’ansia per i G.U.F.O., che serpeggiava tra studenti e professori e li costringeva a continui ripassi, interrogazioni ed esercitazioni.
Ed è già marzo. Mancano solo tre mesi. Non ce la posso fare.
Tirò le coperte fin sopra la propria testa e si rannicchiò su un fianco. Nel letto a baldacchino non potevano raggiungerla lo stress e la preoccupazione, solo bei pensieri e ricordi piacevoli. Il suo preferito, in quel periodo, risaliva a due settimane prima: era andata a Hogsmeade insieme a Ed e, sebbene non fosse la prima volta, era stata diversa da tutte le altre. Erano andati ai Tre Manici di Scopa (nessuno dei due voleva mettere piede in quella schifezza di Madama Piediburro) e avevano passato il pomeriggio a chiacchierare; niente di particolare rispetto al solito, finché la mano di Ed non si era posata su quella di Fera e vi era rimasta fino a quando non avevano deciso di uscire dal pub. E anche dopo, mentre camminavano fianco a fianco diretti al castello, si erano tenuti per mano come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Sorrise contro al cuscino. Sapeva che emozionarsi così era infantile ma, per Morgana, era la prima volta che qualcuno la facesse stare così bene. Che ricambiasse il suo interesse – meglio, che si interessasse a lei in qualsiasi modo. Negli anni precedenti si era presa diverse cotte, e da ognuna di esse aveva ricevuto solo delusioni; ora, invece…
Sussultò. Basta, era ora di alzarsi. Raccogliendo tutta la forza di volontà di cui disponeva, rotolò fuori dal letto e cercò a tentoni la sedia dove appoggiava i vestiti.
«Ah, sei sveglia».
Fera fece un salto. «Penelope, mi hai fatto prendere un colpo…» rantolò, rivolta alla compagna.
«Sei rimasta solo tu. Datti una mossa: sai che Vitious se la prende con me, se qualche Corvonero pigro manca all’appello».
Quel rimprovero la infastidì più del dovuto, anche perché non era la prima volta che Penelope le si rivolgeva in modo antipatico o scostante. Quella freddezza nei suoi confronti era iniziata all’incirca dopo le vacanze di Natale, e Fera proprio non se la spiegava. Di malumore, si lavò in tutta fretta e indossò la divisa; appena fu pronta, Penelope la precedette verso le scale. Camminarono in silenzio attraverso i corridoi, e fu solo in Sala Grande, davanti a una grande ciotola di porridge, che Penelope parlò di nuovo.
«Ascolta, devo chiederti una cosa, e voglio che tu mi dica la verità».
«Mh?» mugolò Fera, la bocca piena.
«Ti piace?».
La ragazza deglutì. «Il porridge? Sì, è meglio di quello che fa mia mamma».
Penelope la guardò schifata. «Ma quale porridge? Sai benissimo di chi sto parlando!».
Sospirò di fronte allo sguardo vacuo di Fera. «Percy» buttò fuori. «Ti piace, non è così?».
Se non si fosse già riempita la bocca con un’altra cucchiaiata di porridge, Fera avrebbe riso. «Mi prendi in giro, vero?» rispose, poco dopo. «No, certo che no».
Vide Penelope farsi rossa; improvvisamente, senza alcuna ragione, sembrava arrabbiata. «Ah, no?» berciò a bassa voce, per non farsi sentire dai Corvonero attorno. «Allora spiegami perché passate tutto il tempo assieme, avanti».
Fera sgranò gli occhi. «Eh?».
«Vi vedete tutti i pomeriggi per studiare. A lezione siete sempre vicini di banco. Vi scambiate i regali a Natale – sì, me lo ha detto» disse, impedendo che Fera la interrompesse. «O vi piacete, o state insieme. In ogni caso, se mi state prendendo in giro lo voglio sapere, perché non è possibile che lui stia sempre a farmi gli occhi dolci quando poi se ne corre via da te, sempre».
Tornò a guardare il piatto, stavolta con gli occhi lucidi. Sembrava esasperata, più che arrabbiata. Una parte di Fera avrebbe voluto risponderle, con calma, che no, lei e Percy non stavano né erano mai stati insieme e che, anzi, sperava con tutto il cuore che quel deficiente chiedesse finalmente a Penelope, dopo tutti quei mesi, un vero appuntamento. Quella era la risposta giusta da darle.
Ma non quel giorno. Quel giorno si era alzata con la prospettiva di una giornata pesante, aveva già ricevuto un rimprovero e quella cretina di Penelope – per Merlino, Catherine aveva davvero ragione sul suo conto! E dire che le sembrava tanto simpatica, all’inizio – quella cretina se la stava prendendo con lei per una cosa di cui avrebbe dovuto incolpare Percy. Per tutti questi motivi, la sua pazienza andò graziosamente a farsi fottere.
«Ah,» sbottò, «quindi è per questo che da gennaio mi tratti di merda? Perché sei gelosa?».
Quel tono brusco fece sussultare Penelope. «Beh, te lo dico una volta sola: Percy non mi piace, io non gli piaccio, noi non stiamo insieme» proseguì Fera, sottolineando i “non” col volume della voce. «Ma dico, ragiona! Te l’ho presentato: pensi che l’avrei fatto, se fossi stata interessata a lui? Pensi che io sia un’idiota?!».
«I-io…» provò a balbettare la Prefetto, ma ormai Fera era lanciata.
«Studiamo assieme? E allora? Quale malato di mente ci vedrebbe qualcosa di romantico? E Percy ti ha detto che sono già tre volte che ci regaliamo lo stesso libro? Proprio un bell’affare, diamine, da essere invidiosi!».
«Dico solo che, se state sempre insieme…».
«Stiamo sempre insieme perché non abbiamo amici!» ululò Fera. Per fortuna, attorno a loro non c’era più nessuno, altrimenti l’avrebbero additata come pazza per sempre. «Sarebbe bello poter scegliere le compagnie, cambiare gruppi di studio e uscire con persone diverse ogni volta, ma guarda un po’, io e Percy ci conosciamo dal primo anno e andiamo d’accordo solo tra di noi perché, per qualche ragione, agli altri non piacciamo. Con poche eccezioni. È colpa nostra?».
Riprese fiato. Il rossore era scomparso dalle guance di Penelope, sostituito da un bel bianco su cui spiccavano le sue piccole lentiggini. «Detto questo, lui non mi piace. E anche se mi piacesse, ti sbava dietro talmente tanto che ormai ci avrei perso le speranze» concluse Fera, per poi tornare a mangiare il suo porridge con un gesto nervoso.
Merlino, quello sfogo le serviva proprio. Era andata un po’ oltre le sue intenzioni iniziali, ma non importava: ora Penelope sapeva tutto quel che c’era da sapere su lei, Percy e i loro rapporti, e se avesse osato riprendere il discorso si sarebbe beccata una fattura.
Per un po’, tacquero entrambe. Ad un tratto, Penelope tirò su col naso. «Non intendevo… Io…».
Fera sospirò. «Senti, non volevo aggredirti» la fermò subito. «Il fatto è che tutti pensano che tra me e Percy debba per forza esserci qualcosa, e questo è esasperante».
Penelope tirò di nuovo su col naso. Il suo atteggiamento era assai meno signorile del solito. «È difficile credere a quello che dici» mormorò, senza l’acredine di prima. «Insomma, voi…».
«Te l’assicuro. Noi siamo…» Fera cercò la parola adatta. «Siamo come fratelli».
«Però non lo siete».
Per poco, Fera non perse di nuovo la calma. «È come se lo fossimo. Non baceresti mai tuo fratello, no? Ecco, questo è quello che provo io per Percy. E viceversa» specificò, vedendo l’espressione di Penelope. «E lui ha una cotta mostruosa per te, posso assicurartelo».
L’ultima frase sembrò sollevare la Prefetto. «Ma allora, non capisco…» balbettò. «Perché non me lo dice, in qualche modo? Perché non usciamo mai assieme, perché…?».
«Perché Percy fa tanto lo sbruffone, ma in fondo è timido» sospirò Fera. E un idiota, aggiunse mentalmente. «In ogni caso, dovresti parlarne con lui. Io non c’entro nulla».
Penelope non rispose, al che Fera decise che fosse meglio lasciare la Sala Grande. Quel lunedì era già cominciato male, non aveva intenzione di renderlo peggiore.
 
 
12 marzo 1992
 
Da tre giorni, Percy aveva la vaga impressione che Fera lo stesse evitando. Tutto era iniziato il lunedì precedente, quando la sua migliore amica lo aveva investito come una furia dicendogli che doveva chiedere un appuntamento a Penelope, perché era ridicolo che la illudesse senza mai concludere nulla e che, dannazione, era ora di dimostrare di essere un fottutissimo uomo. A parte il linguaggio volgare, ciò che aveva sorpreso Percy era la totale incoerenza di quel discorso con tutto. Perché stava parlando di Penelope prima ancora di dirgli “Buongiorno”? Cosa si era perso?
La sua amica non gli aveva dato spiegazioni: aveva mugugnato qualcosa come “Chiedilo a quella cretina” e si era seduta lontana da lui, in fondo alla classe. Lo stesso pomeriggio, mentre l’aspettava al solito tavolo in biblioteca, una ragazzina Corvonero dai tratti orientali era venuta a dirgli che Fera non sarebbe scesa dalla Torre. Questo aveva confortato Percy: significava che la sua amica stava male, per questo era stata scostante e nervosa tutto il giorno. Aveva chiesto alla ragazzina di mandarle i suoi saluti, dopodiché si era rassegnato a studiare Astronomia da solo, certo che già dal mattino dopo tutto sarebbe tornato alla normalità
Nulla di più falso. Da tre giorni, Fera gli rivolgeva la parola a malapena e badava di non sedersi mai accanto a lui, durante le lezioni. E nemmeno Catherine e Paul sapevano il motivo.
Beh, al diavolo. Percy aveva esaminatola propria coscienza, realizzato di non aver commesso nessun imperdonabile errore nei confronti di Fera e concluso che a quella lunatica doveva aver dato di volta il cervello. Semplice. Da parte sua, aveva già fin troppi pensieri senza doversi preoccupare anche delle crisi di nervi della sua amica: le pattuglie e le riunioni coi Prefetti sottraevano un sacco di tempo allo studio, che quell’anno era più importante che mai – avevano i G.U.F.O., come non mancavano mai di ricordare i professori.
Quel giorno, ad esempio, avrebbe dovuto seguire Difesa, Erbologia, Pozioni e Incantesimi, portarsi in pari col programma di Aritmanzia (era indietro con una materia! Lui!), finire il tema di Astronomia iniziato lunedì (e che avrebbe già terminato, se quella squilibrata di Fera si fosse degnata di aiutarlo) e, se ci riusciva, dormire un paio d’ore in vista del turno di ronda notturno.
Con Catherine. Di nuovo. Uccidetemi.
Sbuffò e uscì dalla Torre, salutando la Signora Grassa. Avrebbe potuto prendere il passaggio che conduceva direttamente al corridoio dell’aula di Difesa, invece decise di fare il giro più lungo. Non aveva alcuna fretta.
Dall’inizio dell’anno, non ricordava una sola lezione di Difesa che gli avesse davvero insegnato qualcosa: il professor Raptor si era rivelato, con rispetto parlando, più bravo a parole che a fatti. Quando aveva spiegato i Lupi Mannari, era stato del tutto incapace di rispondere alle loro domande su cosa fare davvero in presenza di uno di essi, limitandosi a una battuta sul correre più veloce del proprio compagno. Certo, era un salto di qualità rispetto al professor Carroll, che arrivava in classe in pigiama e si addormentava in piedi appoggiato alle mura dei corridoi; o alla professoressa Petrova, che a metà del loro terzo anno si era convinta di essere una Rusalka e si era buttata nel lago dalla Torre di Corvonero, urlando in russo (fortunatamente, era stata afferrata al volo dalla Piovra Gigante e depositata integra sulla riva). In confronto ai suoi predecessori, Raptor era un genio della pedagogia.
Arrivò che l’aula era già quasi piena. Vari capannelli di ragazzi e ragazze erano formati in ogni angolo della stanza; vide subito Penelope, nella fila in fondo, che chiacchierava con Baston.
«Buongiorno» li salutò, avvicinandosi.
«Ciao! Vuoi sederti qui?».
Percy fece per rispondere a Penelope, la quale si stava già spostando per fargli posto, ma con la coda dell’occhio si accorse che Fera era seduta, da sola, poco più avanti. «Non ti scomodare, vado là» disse, per poi voltarle le spalle e dirigersi verso il banco.
 
«Che ci fai qui?».
Percy la osservò come se fosse pazza (aveva sempre avuto questo dubbio, in effetti). «Seguo la lezione, ovviamente».
Fera si guardò in fretta alle spalle; quello che vide non dovette piacerle, perché si voltò subito. «Che ci fai in questo banco» specificò. «Perché non ti sei messo dietro, da Penelope?».
«Perché non ci vedo, dal fondo dell’aula». Indicò i propri occhiali. «Sono miope, ricordi?».
La ragazza aprì la bocca per rispondere, ma un brusio generale e l’avviarsi dei ragazzi verso i banchi annunciò l’ingresso di Raptor. «C-comodi, comodi» disse il professore, sebbene nessuno avesse fatto il gesto di salutarlo.
Sia Percy che Fera si portarono una mano sul volto e trattennero il fiato: quel giorno, l’odore di aglio che aleggiava attorno all’uomo era più forte del solito. Il professore poggiò un libro sopra la cattedra e si calcò il turbante sulla testa.
«O-o-ggi sarà u-u-u-u…». Si schiarì la voce. «U-u-n giorno interessante» buttò fuori. «I-i-interrogazione a s-s-s-orpresa!».
L’intera classe sobbalzò, per poi rilassarsi quando Raptor specificò che avrebbero risposto solo i volontari. Mentre il professore apriva il libro per sfogliarne l’indice e i loro compagni tornavano a chiacchierare, Fera diede una gomitata a Percy e gli parlò a bassa voce. «La devi smettere».
«Di fare che?».
«Di comportarti così».
Percy assunse un’espressione confusa. «Tu mi stai evitando da tre giorni, e io devo smetterla di comportarmi così?! Così come, poi?».
«Ah, ecco q-qua!». Raptor posò un dito sul libro, trionfante. «Ch-chi è s-s-stato l’inventore d-d-dell’Incantesimo di-di-di-Disarmo?».
Fera alzò prontamente la mano destra; Raptor la indicò. «Egon Sokolov, nel 1240 circa».
«B-bene, d-d-due p-punti a Cor-Corvonero. O-ora vediamo…».
«Ti sto evitando per non litigare con Penelope» riprese Fera. «Lunedì mi ha quasi aggredita».
«Cosa?!».
«Q-qua-ante e qu-quali sono le c-categorie di In-incantesimi d-difensivi?».
Fu di nuovo Fera a rispondere. «Scudo, Ostacolo, Inganno, Disillusione e Prevenzione».
«In che senso, ti ha aggredita?».
«Nel senso che ha iniziato a interrogarmi per scoprire se stiamo insieme».
«Cosa?!».
Il professore fece un’altra domanda che Percy non riuscì a sentire; per la terza volta, Fera rispose e conquistò due punti.
«E perché diavolo pensa una cosa simile?».
Fera gli lanciò un’occhiata di fuoco. «Forse perché qualcuno passa tutto il tempo con me, invece che con lei». Indicò alle proprie spalle. «Cosa ti costava sederti là dietro?».
«Ma perché avrei dovuto? Siamo sempre stati compagni di banco, io e te. L’Incanto Patronus!».
Fera sussultò. Non aveva udito la domanda, perdendo i due punti per la risposta. Ciò la indispettì ancora di più: non le piaceva che Percy rispondesse più di lei alle interrogazioni.
«Sì, ma in questo modo Penelope pensa che tu non ci tenga a lei. Non le hai nemmeno preso un regalo a Natale…».
«Ancora quella storia?!».
«Quarantadue volte in cinquant’anni!».
«B-b-bene, altri d-d-uue punti a C-C-C…».
«Senti», disse infine Fera, «se lei ti piace, e ti piace, dovresti starmi lontano. Almeno non la renderesti gelosa».
«Che sciocchezza. Non c’è niente di male se preferisco studiare con te. Il Terzo Uso del Sangue di Drago!» L’ultima risposta fu data da Fera e Percy assieme; Raptor li guardò un po’ spaesato, infine assegnò due punti ciascuno.
«C’è di male che te l’ho presentata mesi fa, e non hai ancora fatto un passo in avanti con lei».
«Te l’ho detto, sto aspettando… Nel 908 dopo Cristo!».
«Stai aspettando cosa? L’ispirazione? Oh, già: l’occasione giusta» lo punzecchiò Fera, ormai spazientita da quel discorso. «Come no».
«È la verità!».
«C-con quale in-incant-incantesimo s-s-i può e-vocare un s-s-serp…».
«Serpensortia» rispose Fera. «La verità? La verità è che hai paura» sbottò poi, abbassando la voce. «Stare con Penelope, o almeno provarci seriamente con lei, sarebbe una cosa nuova. E tu non la vuoi affrontare. Sei un vigliacco».
Percy ammutolì, incredulo. Fera non lo aveva mai offeso così, nemmeno quando litigavano sul serio. «No che non lo sono».
«Allora dimostralo».
Gli occhi del ragazzo divennero due fessure, e finalmente Fera si accorse di quanto lo aveva fatto arrabbiare. Prima che lei potesse dire qualcos’altro, Percy alzò la mano. «Professore? Mi scusi, la mia compagna di banco legge le risposte dal libro».
Fera trasalì. Davanti a lei era appena comparso il testo di Difesa, aperto alla pagina sull’incantesimo Serpensortia. Raptor si avvicinò, spandendo odore di aglio tutt’attorno; vide il libro e fece una faccia delusa.
«Ooooh. D-dovrò toglierti t-t-tutti i p-punti».
Troppo sbalordita per difendersi, Fera si girò verso Percy, decisa a Schiantarlo o ucciderlo davanti a tutti. Lui non fece una piega: si era appoggiato allo schienale, le braccia conserte, e la guardava con aria di sfida.
«Contenta? Adesso hai un vero motivo per evitarmi».
Non si rivolsero la parola per giorni.
 
*****
14 marzo 1992
 
Divisa da Capitano: pronta.
Comet 260: orgogliosamente in mano.
Determinazione: ne aveva a palate.
Quel giorno il Grifondoro avrebbe giocato la seconda partita del campionato e Oliver era deciso a battere Tassorosso a ogni costo; in altri momenti la partita si sarebbe rivelata più semplice di quella svoltasi mesi prima contro Serpeverde, ma questa volta ad arbitrarla sarebbe stato Piton. Oliver non riusciva ancora a capacitarsi di quella scelta.
Bene, possiamo andare.
La prima tappa era la Sala Grande: un campione ha bisogno di un ottimo pranzo per poter sbaragliare gli avversari sul campo. E magari chiedere ai gemelli di lanciare accidentalmente un Bolide in direzione di Piton; avrebbe lasciato al loro ingegno il compito di far ricadere la colpa sui Battitori della squadra avversaria.
I Tassorosso?
Sollevò dubbioso un sopracciglio mentre prendeva posto al tavolo di Grifondoro tra Diodora e Alicia.
«'giorno» le salutò appena.
Aveva avvistato dell'ottimo arrosto e non intendeva farselo sfuggire: Angelina poteva arrivare da un momento all'altro e, allora, per le scorte di cibo degli elfi domestici non ci sarebbe stata speranza. Era incredibile come una ragazza alta, ma snella come lei riuscisse a trangugiare più roba del resto della squadra, perfino di Charlie! Avvertì una stretta allo stomaco, ricordando il suo amico seduto di fronte a lui con mezza dozzina di uova e bacon nel piatto e una Tonks divertita al suo fianco; ricordava il suo panico all'avvicinarsi di qualunque esame, in particolare quelli di Pozioni e Aritmanzia – ma perché cavolo aveva scelto una materia del genere?! Poco prima di diplomarsi gli aveva confessato il suo sogno di diventare un Auror e Charlie, pur conoscendo la sua goffaggine nell'eseguire gli incantesimi, era certo che la sua testardaggine le avrebbe fatto realizzare il suo sogno, proprio come le permetteva di ottenere tutto ciò che desiderava con fervida passione.
Senza rendersene conto aveva messo in pratica uno dei trucchetti che stava affinando da qualche settimana prima. Pensare a Tonks gli faceva venire nostalgia della sua migliore amica, ma almeno riusciva a sviare l'attenzione da Charlie.
«Ho sentito che Piton arbitrerà l'incontro» esordì Diodora, tagliando alla perfezione il suo cosciotto di pollo – nessuno era mai riuscito a capire come facesse a farne tanti pezzettini, lasciando l'osso perfettamente pulito e mettendo da parte la pelle croccante. «È vero?».
«Già» rispose Oliver, avvertendo la tensione e il pessimismo prossimi a vincere la sua determinazione. Non appena fossero stati negli spogliatoi, doveva prendere Potter da parte e spronarlo ad acchiappare il Boccino il prima possibile, se non volevano rischiare che Piton li fischiasse per "macchie di sugo sulla divisa".
«Il Cercatore dei Tassorosso è bravo». Sembrò che Diodora gli avesse letto nella mente. «Potter ha avuto fortuna nel primo incontro, ma... non so, mi sembra che voli bene. Non me ne intendo molto».
Oliver stava per lanciarsi in un elogio verso l'ultimo membro acquisito dalla sua squadra – elogio destinato più a tranquillizzare se stesso che a difendere l'onore di Harry Potter – quando si rese conto della prima parte della frase di Diodora.
«Il Cercatore?».
«Sì, quel tizio biondo».
«Stai parlando di Diggory?».
«Boh, mi pare di sì».
«Cedric Diggory?».
«Ehi, che ho detto di strano?» si alterò leggermente Diodora, a disagio. Per tutta la durata della loro conversazione aveva tenuto gli occhi fissi sul piatto.
«Scusami, è solo che... beh, di solito tutti conoscono Diggory. Non credevo che tu non sapessi neanche il suo nome».
«Sono brava in Antiche Rune, pessima nell'abbinare nomi e volti» si giustificò.
Assurdo: era la prima volta che Oliver sentiva parlare di Diggory come "il Cercatore di Tassorosso" e niente di più. Certo, era ancora un ragazzino del quarto anno, ma i suoi bei lineamenti e il suo modo di fare – mai vanesio, sempre modesto – aveva catturato l'attenzione anche di studentesse più grandi, tra cui la sua compagna di squadra Angelina, che aveva perfino detto, in un momento di debolezza, che Diggory non le sarebbe dispiaciuto se fosse sceso da quella sua maledetta scopa. Si allungò per afferrare le patate al forno e notò che la pelle pallida di Alicia si era tinta di un fortissimo rosso: avrebbe potuto scaldarci l'arrosto ormai freddo.
Perfino Alicia. E Diodora non conosce nemmeno il suo nome!
Stava per riprendere la conversazione con lei quando davanti a lui si stagliarono le alte figure di Fred e George.
«Oliver, dobbiamo parlare».
«Subito o prima di subito».
«Abbiamo già ricevuto diverse offerte. Mio fratello ha parlato di pulirci la stanza per un mese».
«E Lee si è offerto di regalarci la sua collezione di Caccabombe». George si strinse nelle spalle. «A quanto pare, Zonko gli ha tenuto da parte un'edizione limitata che viene dal Brasile».
Oliver aggrottò le sopracciglia. «Ma di che state parlando?».
«Ha una punizione da scontare con Piton sabato prossimo» spiegò Fred, abbassando la voce.
Dopo qualche momento di silenzio, Oliver capì.
«State facendo affari per mandare Piton in infermeria?!» sussurrò a denti stretti.
Per tutta risposta, i gemelli esibirono un sorriso a trentadue denti.
«C'è chi parla addirittura di pagarci in galeoni!».
«Sanno che i Tassorosso non sarebbero mai capaci di colpire Piton con un Bolide, perciò...».
«E non lo farete neanche voi!» li sgridò Oliver, controllando a destra e a sinistra se qualcuno li avesse uditi, ma erano tutti troppo concentrati sul pranzo per farlo. Tutti, a eccezione di Diodora e Alicia. «Potter acchiapperà il Boccino in men che non si dica, e allora non avrete neanche il tempo di pensare a come... fare quella cosa!».
Un conto era immaginare Fred e George bombardare Piton di Bolidi – probabilmente il sogno di metà degli studenti – un altro era sentirli fare affari in merito; per esperienza, sapeva bene che niente tentava i gemelli Weasley come una camera pulita o una collezione di Caccabombe. Oliver si alzò, sperando di chiudere così la discussione.
«Ci vediamo negli spogliatoi fra mezz'ora. Discorso di incoraggiamento».
Con la coda dell'occhio vide Fred alzare lo sguardo al cielo, ma non se ne curò, perché in quel momento Diodora si era nuovamente rivolta a lui.
«In bocca al lupo, Oliver» gli disse, e Oliver fu certo di avere visto un accenno di sorriso sul suo volto perennemente serio.
 
«Harry, sei stato grandioso!».
«Qualunque cosa abbia mangiato a pranzo, Potter, mangiala anche prima della partita contro Corvonero!».
«Hai visto la faccia di Diggory? Gli hai rubato il Boccino da sotto il naso!».
Oliver era euforico. Harry Potter aveva preso il Boccino dopo soli cinque minuti, lasciando interdetti i Tassorosso e Piton, che non aveva fatto in tempo a fischiare nessuno della squadra dei Grifondoro. E ad aiutare i gemelli Weasley a procurarsi un mese di pulizie gratis. Forse il pubblico avrebbe preferito una partita più lunga, forse i giocatori volevano mettere in pratica tutti gli schemi che i loro Capitani avevano ideato, ma Oliver era fiero di quel risultato.
«Siete stati fantastici, ragazzi» si complimentò con loro quando furono nello spogliatoio. «Voglio vedere questa grinta anche agli allenamenti di lunedì prossimo».
«Oh, dai, ma sei serio?» si lamentò George, portandosi su una spalla la mazza da Battitore: sembrava quasi una minaccia.
«Abbiamo finalmente la possibilità di vincere il campionato, e non la sprecheremo».
«A meno che tu non ci faccia ammalare sotto la pioggia».
«Già» si preparò a rincarare la dose Fred. «Altri due allenamenti sotto la pioggia e finiremo tutti in infermeria fino a giugno».
«Ma salteremmo gli esami» rifletté George, guardandolo come se il fratello avesse appena avuto un'ottima idea.
«E Silente se la prenderebbe con Oliver, non con noi poveri studenti costretti a passare gli esami a letto».
I gemelli si schierarono l'uno accanto all'altro. «Ci stiamo, Ol. A che ora comincia l'allenamento?».
Il resto della squadra scoppiò a ridere: forse lo sketch dei Weasley non era stato uno dei migliori, ma in quel momento la gioia regnava sovrana fra tutti loro.
«Vi aspetto lunedì, allora» salutò Oliver, uscendo dallo spogliatoio. Si diresse immediatamente verso il castello, pregustando già una meritata dormita, e incontrò la folla che finiva di lasciare lo stadio; accanto a un castagno vide Diodora e Penelope, la Prefetto di Corvonero, osservare la fila disordinata di studenti che tornavano all'interno delle calde mura di pietra; senza rendersene conto, i suoi passi lo portano da loro.
Diodora sussultò non appena lo vide. «Oliver!» esclamò entusiasta, con un calore che raramente aveva avvertito da parte sua. «Ottima partita, siete stati bravissimi!».
«Grazie a Potter» tenne a precisare Penelope, incrociando le braccia al petto. Se la partita contro Serpeverde fosse andata bene, Corvonero sarebbe stato primo in classifica insieme a Grifondoro e allora solo l'incontro di fine campionato avrebbe determinato il vincitore tra le due Case.
«È stato bravo» concordò Oliver, ben deciso a non farsi guastare il pomeriggio di felicità. «Lo siamo stati tutti. Certo, Katie ha sbagliato un passaggio che ha rischiato di far guadagnare a Tassorosso dieci punti, ma non sarebbe stato un problema». Dimenticò per un momento le mentali imprecazioni contro Katie.
«Complimenti». La voce di Percy gli comunicò che l'altro Prefetto di Grifondoro li aveva appena raggiunti. «Avete fatto un'ottima partita e non posso biasimarti per la scelta di far giocare un Cercatore così giovane. Sai, all'inizio avevo pensato che si trattasse solo di fortuna, ma il migliore amico di mio fratello» e qui Percy gonfiò il petto orgoglioso «si è dimostrato un degno sostituto di Charlie».
«Ha ancora tempo, ma potrebbe raggiungere il suo talento» concordò Oliver, troppo felice per lasciarsi distrarre dal pensiero di Charlie. «State tornando alla Sala Comune?» chiese a Percy e Diodora.
«In realtà noi Prefetti stiamo andando a studiare in biblioteca». Percy si sistemò gli occhiali sul naso, sollevando il mento con aria di superiorità. «E dovresti farlo anche tu. I G.U.F.O. si stanno avvicinando e...».
Fu un istante: le parole di Percy, il nome di Charlie, il ricordo della conversazione di quella mattina con Diodora... E tutto gli fu chiaro.
«Perce, posso parlarti un secondo?». Senza attendere risposta, Oliver lo prese da parte e abbassò la voce. «Sono indietro con lo studio e... beh, mi farebbe bene ripassare con voi».
«Sarebbe un grosso sbaglio: non possiamo rischiare di rimanere indietro anche noi».
«Ma ho frequentato le lezioni, so di cosa parlerete! Te lo prometto, me ne starò in silenzio, se non potrò dare il mio contributo». Anticipò Percy prima che potesse parlare di nuovo: «Quindi sempre. Ascolterò e basta. E poi... sei il miglior studente di Grifondoro, se non dell'intera scuola. Da chi potrei imparare, se non da te?».
Sapeva di avere appena toccato il tasto giusto. Percy si gonfiò di nuovo, trattenendo un sorriso compiaciuto, e alla fine gli parlò come se gli stesse concedendo la più grande opportunità della sua vita.
«Il compito dei Prefetti è di aiutare gli studenti, quindi non posso escluderti dal nostro gruppo di studio. In realtà, non saresti neanche l'unico studente del quinto anno che si unisce a noi Prefetti, ma le eccezioni devono rimanere tali. Se prometti di non interferire nel ripasso, potrai studiare con noi».
Oliver, colmo di gioia, lo ringraziò con una pacca sulla spalla. «Volo al dormitorio, mi cambio e vi raggiungo in biblioteca» lo avvertì, prima di correre verso il castello con una piacevole brezza fredda che gli accarezzava il volto.
Quel sabato di marzo, Oliver aveva fatto grandi progressi per ottenere tutto quel che desiderava: il primo posto in classifica, voti decenti ai G.U.F.O. e, soprattutto, un nuovo gruppo di amici che avrebbe rimpiazzato Charlie e Tonks. Non vedeva cosa potesse andare storto.
 
*****
 
1 aprile 1992
 
Le cose erano decisamente migliorate, da quando Percy e Fera avevano litigato. Penelope non credeva che un evento del genere si sarebbe mai verificato, eppure, da tre settimane, quei due non si parlavano né si frequentavano più. Finalmente.
«Cominciamo dal secondo o dal quinto piano?» chiese, non appena Percy la raggiunse davanti alla Biblioteca. Quel pomeriggio avevano un turno di ronda insieme, per la prima volta da mesi; Penelope sperava che ciò significasse poter parlare di argomenti diversi dai G.U.F.O., ma se anche così non fosse stato, non importava: sarebbero stati insieme per due ore, da soli, senza insopportabili Tassorosso o stupide irlandesi tra i piedi.
Il ragazzo scrollò le spalle. «Non so, decidi tu».
«Andiamo al quinto e poi scendiamo, va bene?». Senza attendere risposta, Penelope si avviò verso le scale.
Sì, decisamente migliorate. Da tre settimane, Percy aveva preso a sedersi accanto a lei a lezione, sebbene non sempre – a volte preferiva dividere il banco con Paul Frischmann – e spesso le aveva addirittura chiesto di studiare insieme da soli, senza gli altri Prefetti. Certo, non era così che Penelope sperava di passare il tempo col ragazzo che le piaceva, tanto più che lui era costantemente di malumore; tuttavia, lei non si lamentava. Meglio così che non parlargli affatto.
«Hai già guardato i nuovi capitoli di Incantesimi?» domandò Percy appena raggiunsero il quinto piano, passando subito al proprio argomento preferito. «Sono una follia. Ora capisco perché Vitious voleva che imparassimo bene l’Incantesimo di Scavo, era un allenamento per…».
«I nuovi capitoli? Ma non abbiamo Incantesimi fino a martedì prossimo».
«Mi sto portando avanti».
Penelope annuì e sorrise dentro di sé. Aveva sempre immaginato se stessa insieme a un ragazzo studioso e diligente, piuttosto che a uno bello ma stupido.
«Sai, mi sono organizzato in questo modo: per ogni capitolo nuovo ne ripasso uno vecchio» stava continuando il Grifondoro. «Così non avrò problemi a maggio, quando faremo gli ultimi compiti in classe. Ci vuole costanza per studiare in questo modo, ma io sono molto bravo».
La ragazza sogghignò. «Sei anche molto modesto».
Le orecchie di Percy si fecero rosse. «Ho esagerato, scusa» mormorò.
«Ma no. Hai ragione, sei molto bravo». Penelope gli sorrise e Percy divenne, se possibile, ancora più imbarazzato. Non doveva essere abituato ai complimenti – non se passava il tempo con quella cicciona rozza e sarcastica. Penelope non capiva come Percy potesse andare così d’accordo con Fera; cosa ci trovava? Va bene, era brava a scuola, ma a parte questo non avrebbe saputo trovarle altri pregi. Non era nemmeno carina, con quei capelli di un banalissimo castano e la faccia tonda, per non parlare del sedere…
«Senti…».
«Sì?».
Si fermarono accanto a una parete del corridoio. In mezzo a loro passarono alcuni Serpeverde, probabilmente in ritardo per una lezione. «Ho bisogno di parlarti,» disse Percy tutto d’un fiato. «È una cosa importante».
Penelope drizzò le orecchie. Importante? Di certo non si trattava dei soliti compiti!
«Ma certo! Dimmi pure, ti ascolto!» cinguettò, facendosi tutta rosa in volto.
«Ecco…» Il ragazzo si schiarì la gola più volte. «Si tratta di Fera».
L’allegria di Penelope svanì. «Ah» fece, gelida.
«Sai, noi abbiamo litigato, tre settimane fa».
«Davvero?».
Percy non colse il sarcasmo. «Non mi sono comportato bene con lei» proseguì, nonostante il colorito di Penelope stesse divenendo sempre più terreo, «mentre cercava solo di aiutarmi a…».
Disse qualcos’altro, ma Penelope, che aveva voltato la testa per guardare altrove, non lo udì. Quanto era stupida: come poteva avere una cotta per un ragazzo così perso dietro a un’altra? Una brutta e antipatica, oltretutto!
«… quindi, insomma, sei libera sabato prossimo?».
Si girò di scatto verso Percy. «C-cosa?».
«Sabato prossimo». Il ragazzo era avvampato. «C’è l’uscita a Hogsmeade, quindi pensavo… Ti va di andarci insieme? Se non hai altri impegni, ovviamente, non vorrei che…».
«Oh!». Colta di sorpresa, Penelope iniziò a ridacchiare: da come era partito il discorso, non si aspettava affatto una richiesta del genere. «Oh, no no no, sono liberissima» rispose in tutta fretta.
«Davvero?».
«Davvero. Sarò tutta tua».
Si portò una mano alla bocca. Cosa le era saltato in mente di dire una cosa del genere? A Percy! «C-cioè, intendevo… Non volevo…».
Ma lui non sembrava neanche essersi accorto dell’orribile doppio senso. «Oh, benissimo!» esclamò infatti, illuminandosi per la prima volta in tre settimane. «Mi fa proprio… Ehi! Che state combinando, voi due?».
Veloce come un fulmine, Percy aggirò la compagna e si diresse verso l’altra parte del corridoio. Penelope rimase lì a sorridere tra sé, poi lo raggiunse trattenendosi a stento dal saltellare. Non aveva capito cosa c’entrasse Fera in tutto il discorso, ma decise che non le importava affatto.
 
*****
 
2 aprile 1992
 
«Attenta!».
Troppo tardi: la Caccabomba investì Fera in pieno, senza che lei potesse far nulla per ripararsi.
«Scusaci, scusaci tanto! Volevamo colpire un’altra, invece…».
Fera non disse niente. Era senza parole. Restò immobile, mentre gli autori di quello scherzo idiota le ripulivano la faccia con due fazzoletti evocati dal nulla.
«Ci dispiace tantissimo, davvero…».
Con la faccia finalmente pulita (ma la divisa in condizioni pietose) Fera poté vedere i maldestri aggressori che l’avevano colpita. «Fred e George Weasley, vero?» chiese, già sapendo la risposta.
I gemelli annuirono. «C’è una Serpeverde stronza che tormenta un primino della nostra Casa,» spiegò quello a destra, «e quando ti abbiamo vista arrivare ci sei sembrata lei…».
«Capisco. Vi siete sbagliati. Può succedere».
I ragazzi si guardarono. Quella reazione composta doveva averli sorpresi molto. «Non sei arrabbiata?» domandò il gemello a sinistra, cauto.
Fera inspirò e chiuse gli occhi. «In condizioni normali, vi avrei già trasformati in scarafaggi» rispose, con calma olimpica, «ma sono talmente infuriata con una persona che non riesco ad esserlo con nessun altro».
«Oh, che fortuna» sbuffò lo stesso ragazzo, sollevato. «Quindi non lo dirai a Percy?».
L’odore intenso di Caccabomba le dava già la nausea, ma udire quel nome provocò una smorfia di disgusto da parte di Fera. «Vostro fratello? Perché dovrei?»
«Perché ci stai sempre assieme. O mi sbaglio? Magari è colpa della cacca, ma sembri lei».
«Lo ero. E visto che è con lui che sono arrabbiata, non gli dirò niente neanche sotto tortura».
Si passò una mano tra i capelli – sarebbero rimasti sudici per giorni, se non si fosse sbrigata a lavarli. «Beh, vi saluto. Devo andare a farmi una doccia, a quanto pare» e con un mesto sorriso fece per allontanarsi dalla serra. Avrebbe dovuto saltare Erbologia, ma non era un problema: era avanti col programma, e…
«Aspetta!».
Si voltò. «Come mai ce l’hai con Percy?» le chiese il gemello a destra.
Fera aggrottò le sopracciglia. «Perché vi interessa?».
«Perché ci sta antipatico» rispose quello a sinistra. «E vogliamo dissociarci da ciò che fa».
«Nonché scusarci a nome suo».
«A nome dei Weasley in generale, scusaci se ti abbiamo riempita di cacca e fatta arrabbiare».
Merlino, ma quanto erano teneri? E dire che Percy parlava sempre male di Fred e George. Fera non poté fare a meno di sorridere. «Scuse accettate» rispose. «Anche se non bastano a farmi perdonare quel coglione».
Agitò una mano e mosse un passo verso il castello, ma subito un’idea la colpì. «Avete detto che Percy vi sta antipatico?» chiese, voltandosi di nuovo.
Fred e George annuirono con vigore.
«Perciò, non avreste alcun problema a fargli uno scherzo come quello che avete fatto a me».
«Possiamo fare anche di peggio» disse quello di destra, «però è rischioso».
«È un Prefetto, può metterci in punizione quando vuole» aggiunse l’altro.
«Quindi, avete paura?».
Qualcosa cambiò nello sguardo dei gemelli. Tipico dei Weasley: non amavano che si mettesse in discussione il loro coraggio. «Diciamo solo che, se ci assumiamo questo rischio, vogliamo qualcosa in cambio» disse in fretta uno dei due, mentre l’altro annuiva.
Fera alzò un sopracciglio. «Mi avete appena lanciato una Caccabomba, direi che accontentarmi sia il minimo per farvi perdonare».
Niente da fare: Fred e George avevano messo su un’aria così furbetta, che Fera capì di non poterla spuntare con loro. «Va bene, che ne dite se vi faccio un’offerta?» sbuffò.
«Così ci piaci».
«Dicci pure».
Fera ci pensò su. «Avete presente le Scatole TuttiDolci di Mielandia?».
Gli occhi dei ragazzi brillarono. «Quelle grandi o quelle piccole?».
«Quelle grandi, con i Bignè Ballerini e le Fragolizie».
Uno dei gemelli sospirò, l’altro deglutì. In casa loro, dove non si sprecava neppure uno zellino, non dovevano esserci molti dolciumi. «Se facciamo arrabbiare Percy, ce ne comprerai una?».
«Ve ne comprerò due». Fera ridacchiò nel vedere Fred e George trasalire. «Ma vostro fratello deve essere davvero incazzato, intesi? E non mi importa se lo ricoprite di cacca o gli fate spuntare le corna, purché lo sentano urlare da qui a Diagon Alley».
Non persero tempo a pensarci su: entrambi tesero la mano verso di lei. «Ci stiamo» disse uno.
«Hai fatto un affare» aggiunse l’altro.
Fera non aveva dubbi in proposito.
 
*****
 
10 aprile 1992
 
Med sbatté i piedi contro il pavimento, cercando di togliersi di dosso gli ultimi residui di fango – con la speranza che Gazza o la sua stupida gatta non comparissero da un momento all'altro – e, quando fu certa di avere ottenuto il risultato sperato, si preparò a varcare la soglia per accedere alla Sala Comune di Serpeverde.
La stanza era gremita di studenti alle prese con i compiti per il giorno successivo; alcuni di loro erano chini sulle pergamene, che la luce del lago colorava di un blu verdastro, altri chiacchieravano animatamente e raccoglievano gli sguardi di fuoco di tutti quelli che aspiravano a un momento di pace sulle poltrone di pelle nera. Med superò il camino e il lungo tavolo al centro della sala per raggiungere la scala a chiocciola e accedere al piano superiore, dove su uno scuro corridoio di pietra si affacciavano sette porte di mogano. Raggiunse quella esattamente nel mezzo e afferrò la maniglia a forma di serpente, poi girò.
«Guarda chi si vede, la nostra giovane innamorata!» l'accolse l'irritante voce di Lobelia, che si alzò in piedi e si avvicinò all'ingresso compiendo un vano tentativo di giravolta.
Sebbene non le piacesse dare a vedere sintomi di debolezza, Med non riuscì a reprimere il rossore che le coprì le guance a quelle parole. «Taci, Belia».
«Che cosa ho detto di male?». Si finse offesa e guardò Grace in cerca di una risposta, ma lei era china su una confezione di Api Frizzole e non la udì neanche. «Non è forse vero che la nostra cara Med ha un colorito migliore da quando si è aperta alle grazie dell'amooore?» sottolineò fastidiosamente l'ultima parola e si lasciò cadere sul letto a baldacchino, sospirando felice.
«Che ha da essere così contenta?» chiese Med a Grace, facendo il gesto di toglierle il prezioso tesoro dalle mani, e finalmente l'amica si accorse della sua presenza.
«A Pasqua presenterà Miles ai suoi» spiegò Grace in tono piatto, poco interessata a quella conversazione «e lui le ha appena detto che non vede l'ora».
«Di già?!». Med era stupefatta. «Ma... vi frequentate da quanto? Neanche un anno?».
«E allora? Un anno è tantissimo tempo, Med! E io amo Miles così tanto!».
«Effettivamente, è la prima volta che resti con un ragazzo per più di due mesi».
«Cosa vorresti dire?».
«La verità: non sei mai stata con un ragazzo per più di due mesi».
Lobelia sembrò soppesare le sue parole, ma non dava segni di capire se si trattava di un insulto o di un complimento; alla fine, mentre Med cercava il libro di Incantesimi, tornò alla carica.
«Perché non porti Adrian con te? Vi frequentate dal primo fine settimana a Hogsmeade, dovresti farlo conoscere alla tua famiglia».
Med arrossì di nuovo, ma questa volta fu per il nervosismo e non per l'imbarazzo: non aveva detto niente di Adrian ai suoi genitori, era una cosa... privata, in un certo senso. L'unico fuori Hogwarts a sapere della sua esistenza era Louis.
«Non tornerò a casa per le vacanze di Pasqua» evitò così l'argomento.
«Neanche quest'anno? Come mai?».
«Rivedrò i miei a giugno, che senso avrebbe perdere due giorni sull'Espresso per stare a casa mia meno di una settimana? Qui almeno posso studiare, lì sarebbe un via vai di parenti».
«Ottima occasione per presentare Adrian a tutta la tua famiglia!».
«È un peccato, però» si intromise Grace, che aveva dato fondo a tutte le Api Frizzole del pacchetto e che ora sembrava in procinto di prendere il volo – se solo non fosse stata così pesante da rimanere ancorata a terra. Med e Lobelia si voltarono verso di lei, che si stava leccando le dita. «Adrian lo sa? Ha detto a mamma che ti avrebbe portata da noi, durante le vacanze».
Med rimase senza parole mentre Lobelia squittiva entusiasta. Riuscì a parlare solo dopo avere aperto e richiuso la bocca un paio di volte. «L'ha fatto davvero? Ma... non ne avevamo mai parlato».
Grace si strinse nelle spalle. Ci volle qualche secondo prima che rispondesse, perché aveva appena avvistato un'Ape Frizzola che era rotolata via dalla confezione ed era finita sotto il suo cuscino. «Forse non dovevo dirtelo. Avvertilo, comunque, così mamma lo saprà subito e non ci rimarrà male. Ci teneva tanto, da quel che ho capito».
E a me non pensa?
Invece di essere lusingata da quella scoperta, Med ne era profondamente infastidita. Come aveva potuto Adrian agire a tal punto di testa sua, senza nemmeno chiederle un parere? Si trattava di una questione delicata, che lei non aveva intenzione di prendere sottogamba. Suo padre non sapeva ancora niente di niente, accidenti!
Tenendosi dentro tutti quei pensieri irritanti, afferrò il libro di Incantesimi e sparì oltre la soglia, decisa a rifugiarsi in biblioteca, lontana dalla presenza dell'ennesimo Serpeverde che avrebbe potuto farle saltare i nervi.
 
*****
 
11 aprile 1992
 
«Sei ancora arrabbiata con lui?».
Fera sbuffò. «Lui non mi ha ancora chiesto scusa».
«Incredibile». Ed sogghignò, e Fera si chiese se avrebbe passato tutto il tempo della gita a Hogsmeade a ridere di lei. «Dai, fate pace» continuò Ed. «È troppo strano non vedervi insieme».
«Dovresti essere contento». Il sole accecante costrinse Fera a ripararsi il volto con una mano. «Non sei geloso di lui?».
«E perché dovrei esserlo?».
Prima che potesse rispondere, Ed le afferrò la mano che aveva alzato. «Mi dispiace che tu stia male per un litigio, tutto qui» disse, mentre intrecciava le dita alle sue.
«Figurati» balbettò lei, sorpresa – come sempre – da quel gesto tenero e stranamente naturale. Rallentarono il passo, lasciando che i ragazzi di terzo anno li superassero nell’entrare a Hogsmeade. L’ultimo fine settimana prima delle vacanze di Pasqua rendeva tutti più eccitati; anche Fera sentiva qualcosa agitarsi dentro di sé, sebbene non collegato alla festa imminente.
«Allora, vuoi visitare qualcosa in particolare?».
Si erano fermati in un angolo della piazza centrale, accanto all’Ufficio Postale. Ed si scansò i capelli dalla fronte e le sorrise. «Perché non restiamo qui?» propose.
«Qui? In mezzo al nulla? A fare che?».
«Ho una mezza idea».
Il battito di Fera accelerò alla follia, quando Ed si chinò verso di lei. Sulle prime non comprese cosa stesse accadendo: d’istinto aveva chiuso gli occhi, ma sapeva che il calore sulla propria faccia proveniva dalla pelle di Ed; soltanto quando lui si allontanò, Fera capì di aver ricevuto il suo primo bacio.
«Perdonami». Ed sembrava affannato, le guance infuocate. «Avrei voluto farlo mesi fa…».
Fera deglutì. «Se è per questo, anch’io».
Risero entrambi, poi Ed le si accostò di nuovo. Il secondo bacio fu decisamente migliore: stavolta Fera poté distinguere la sensazione delle labbra di lui, il suo profumo, le sue braccia attorno alla propria vita. Era come lo aveva sempre sognato, anzi, meglio, perché era reale.
Naturalmente, non poteva durare a lungo.
«Fera!».
La ragazza si staccò, lasciando Ed confuso e deluso. Dietro di lui era comparso quel deficiente di Percy, il quale appariva del tutto ignaro di aver interrotto qualcosa di fondamentale. «Ti ho cercata dappertutto, io… Oh, ciao, Fawley».
«Weasley».
«Cosa vuoi?» chiese Fera, trattenendosi a stento dall’aggiungere un insulto.
«Ho bisogno di parlarti». Percy si voltò verso Ed. «Puoi scusarci un minuto?».
«Sicuro!» rispose il Corvonero, allontanandosi in tutta fretta. Quando Fera assumeva quel cipiglio furioso, era sempre meglio starle alla larga.
«Cosa vuoi?» ripeté la ragazza in tono acido, incrociando le braccia.
Percy era a disagio. Si toccò gli occhiali un paio di volte, prima di parlare. «Buon San Patrizio».
Fera sgranò gli occhi. «È stato più di tre settimane fa, idiota!» esclamò.
«Vero, ma all’epoca ero arrabbiato con te».
Per tutta risposta, Fera grugnì. Era lei ad essere arrabbiata, e per motivi più che validi; stava per dirglielo, ma Percy assunse l’espressione di quando voleva chiederle scusa.
«Avevi ragione» mormorò, la testa china e gli occhi bassi. «Avevo paura di chiedere a Penelope di uscire con me, e non avrei dovuto mentire a Raptor per farti perdere quei punti a lezione».
L’ammissione di colpa placò Fera, ma non del tutto. «Va bene» rispose, tuttavia.
«E comunque, oggi ho un appuntamento con lei».
Per lo stupore, Fera perse l’espressione arcigna. «Sul serio?».
Percy annuì e azzardò un mezzo sorriso. «Ha proposto di andare da Madama Piediburro, speriamo bene…».
«Speriamo». Si guardò attorno con aria vaga, ma alla fine non riuscì a trattenersi. «Dovrai raccontarmi tutti i dettagli, idiota».
Rincuorato, il suo amico le rivolse un gran sorriso. Si scambiarono un altro paio di frasi, infine si salutarono; Percy prese una delle vie che si dipartivano dalla piazza, Fera, invece raggiunse Ed dalla parte opposta. «Che ti ha detto?» domandò lui, non appena la vide arrivare.
«Te lo racconto dopo». La ragazza si morse un labbro, speranzosa. «Ora, che ne dici se…».
Ma non riuscì a finire la frase: un urlo belluino era risuonato dalla strada imboccata da Percy, facendo girare tutti i passanti. «Che accidenti è successo?!» fece Ed, agitato.
Fera spalancò la bocca, stupita, poi scoppiò in una gran risata. «Oh, non preoccuparti» rispose. «Mi sa che devo fare un giro da Mielandia».
 
*****
 
15 aprile 1992
 
Mentre aspettava che il bollitore cominciasse a fischiare, Louis rilesse alcuni stralci della lettera che aveva di fronte.
 
Non mi importa cosa ne pensa lui, farò in modo che non lo scopra...
 
...gli esami non sono un problema, posso farcela benissimo...
 
...sono sempre tuo fratello, Louis, e questo non potrà cambiare mai.
 
Sospirò e si passò una mano sulla fronte, inerme. Solo il suono del bollitore lo riscosse dalle sue deprimenti riflessioni; si alzò per versarsi il tè, avvicinò la tazza alla lettera e si sedette di nuovo, preparandosi a dare a Theo una risposta che chiudesse una volta per tutte la questione. Gli occhiali si erano appannati con il vapore che saliva dalla tazza e Louis dovette pulirli prima di afferrare penna e inchiostro.
 
Theo,
ti avevo già scritto mesi fa cosa pensavo di questa tua folle idea e la mia opinione non è ancora cambiata: resta a Hogwarts.
Lascia perdere lo studio per gli esami, sappiamo entrambi che non potrebbe essere usato come motivazione né da una parte né dall'altra; conosco i tuoi voti, so bene che una settimana di riposo non comprometterebbe la tua media e anche che potresti comunque portati dietro qualche libro di scuola. Il motivo è un altro, e ho intenzione di ritornarci sopra per quella che spero sia l'ultima volta.
Nostro padre non vuole vedermi. Mi ha diseredato perché non condivido le sue stupide opinioni sulla "razza pura" e non me ne frega niente, ma non puoi andarci di mezzo tu: sei ancora un ragazzino, hai dodici anni, per la miseria!
So che vuoi vedermi, so che stare separati anche durante le vacanze è una tortura, però devi farci l'abitudine. Pensa a Hogwarts, pensa ai mesi che sei comunque obbligato a passare lontano da me; ti darà l'impressione che le cose siano come prima e quando tornerai a casa... beh, ti basterà immaginare che io sia distante per lavoro (ipotesi tra l'altro vera, perché le ricerche che sto facendo si stanno rivelando parecchio fruttuose). Cercare di venire a trovarmi di nascosto, facendo credere a nostro padre che tu sia rimasto a Hogwarts, potrebbe mettere a rischio il tuo futuro; non dispongo ancora della possibilità di mantenere entrambi, perciò hai bisogno di studiare, diplomarti e trovare un lavoro. Se durante questi anni dovessi fare la scoperta della mia vita, qualcosa che mi frutterebbe una marea di galeoni, te lo dirò e potrai lasciare casa di nostro padre quando tu lo vorrai. Ma, per il momento, fa' il bravo. Ti prego.
E resta a Hogwarts. A prescindere dal mio rifiuto ad ospitarti: non tornare a casa, cerca di stare lontano da lui più che puoi.
Tuo fratello, comunque e per sempre,
 
Louis
 
P.S. Mamma manca tanto anche a me.
 
Concluse quella lettera stropicciandosi gli occhi, che si erano infiammati per la vicinanza della pergamena ai suoi occhiali – non riusciva ancora a evitare di scrivere a due centimetri dal foglio – e per la rabbia che stava provando. Bevve un sorso di tè ormai tiepido e sospirò di nuovo una volta che la lettera fu arrotolata e messa da parte.
Sotto la pergamena inviata da Theo spiccava un'altra missiva, a cui Louis dedicò un sorriso amaro, ma non troppo.
Si raddrizzò sullo schienale, ben consapevole che da lì a poco sarebbe tornato curvo sul tavolo, e intinse la penna nel calamaio.
 
Cara Med,
sono felice di sapere che stai bene. Le vacanze di Pasqua si stanno avvicinando, perciò ti allego un pensierino da poco: questa volta riuscirò a coglierti di sorpresa!
 
Louis sorrise, ripensando all'improvvisata di Med la vigilia di Natale.
Magari accadesse anche a Pasqua.
Rivolse uno sguardo speranzoso alla porta di casa. Non apparve nessuno, ma in effetti mancava ancora qualche giorno.
 
Vorrei parlare di tutto ciò che mi hai scritto nella lettera di ieri, lo vorrei davvero. Però ho uno scoop troppo importante da darti e non riesco ad aspettare.
Ricordi la mia teoria sui Dugbog? Già da tempo mi ronzava in testa l'idea che avessero cominciato a spostarsi dal Trym, risalendo l'Avon fino a Bristol, perché le uova che avevo trovato a febbraio avevano un aspetto troppo particolare, ma quando mai i Dugbog si sono fatti vedere nelle zone abitate dai Babbani? Ho voluto indagare meglio. Qualche giorno fa, finalmente ho trovato dei resti di topo: erano rimasti solo la coda e qualche osso, altro fatto strano. Quale animale lascerebbe la coda della sua preda... se non un Dugbog?
Ho cominciato a risalire il fiume, allontanandomi dal Trym e dalla costa, e sono arrivato fino al West Cut (sia benedetta la Materializzazione!). Avrai ormai intuito dove voglio arrivare. Indagando e indagando, sono giunto a Bath, e indovina un po'?
Le terme romane.
Le terme romane ospitano la prima colonia di Dugbog dell'Inghilterra! Ti rendi conto? Centinaia di turisti le visitano ogni giorno e mai nessuno aveva fatto caso a un Dugbog: hanno imparato a nascondersi, convivono perfino con gli esseri umani. Se solo non sapessi di cosa sono capaci, li lascerei in pace, ma la sicurezza dei Babbani (e l'amore per la gloria) mi costringono a mettere il corrente il Ministero della mia scoperta. Pubblicheranno sicuramente la mia ricerca e, se sarò fortunato, avrò un posto assicurato nell'Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche!
E non è neanche questa la parte migliore. Med, i Dugbog si nascondono a Bath. È praticamente certo che dovrò trovarmi un appartamento lì per studiarli meglio (al diavolo la Materializzazione, adesso). A Bath! Prenderò qualcosa di più spazioso di un monolocale, così potrai venire qui tutte le volte che vorrai, anzi perfino tutta l'estate!
 
Lasciò andare la piuma e si scrocchiò le dita, contemplando quella meravigliosa prospettiva. Med poteva anche avere Adrian, ora, ma Bath era sempre stato il suo sogno e lui glielo stava porgendo su un piatto d'argento. Non se lo sarebbe fatto scappare facilmente.
 
*****
 
16 aprile 1992
 
«Ehi, Theo, buongiorno!».
Med vide il primino accanto alla finestra sussultare al suono della sua voce: forse non si aspettava di sentire un tono tanto felice, così diverso dalla caratteristica scontrosità, e non l'aveva subito riconosciuta; poi si accorse che il ragazzo stringeva tra le mani una lettera che doveva essere stato il centro dei suoi pensieri fino a quel momento.
Theo la ripiegò in fretta e se la mise in tasca. «Buongiorno. Come stai?».
«Assolutamente bene» rispose Med, lasciandosi cadere sul divano più vicino. «Ho appena ricevuto una lettera da Louis, mi ha detto di Bath... Non riesco ancora a crederci!».
«Di Bath?». Il suo interlocutore aggrottò le sopracciglia.
«I Dugbog. Non ne sai niente?».
«No, a dire il vero, ma non mi parla spesso di lavoro».
«Capisco... Quindi cosa vi siete detti nella lettera?».
L'espressione di Theo si fece se possibile ancora più confusa, finché Med non indicò con un cenno della testa la tasca in cui aveva ripiegato la sottile pergamena.
«Ah, sì... Sì, era sua. Parlavamo delle vacanze di Pasqua».
«Hai preparato il baule?».
«No, in realtà rimarrò a Hogwarts, cambio di programma».
Il fastidio con cui sembrò pronunciare quelle parole convinse Med a non insistere oltre; per fortuna proprio in quel momento dalla cima delle scale comparve Adrian, intento a trascinare il suo bagaglio. Lei gli andò incontro per stampargli un fugace bacio sulle labbra.
«Buongiorno» lo salutò.
Il suo strano cambio di atteggiamento stupì anche Adrian, che storse perplesso il naso. «Ti sei svegliata bene, oggi».
«Già».
Med sorrise, senza rivelargli il motivo della sua improvvisa gioia, decisa a contornarsi di un'aura di mistero agli occhi del suo ragazzo. In realtà sarebbe bastato dirgli della lettera di Louis, ma come avrebbe potuto Adrian anche lontanamente intuire perché la notizia che le aveva dato il suo amico la rendesse fuori di sé dalla felicità? Med era stata a Bath solo da bambina, ma ci era tornata mille e più volte grazie ai romanzi di Jane Austen, e che idea si era fatta di quella splendida cittadina di villeggiatura! Le carrozze, i balli, i cappelli per proteggersi dal sole, le passeggiate pomeridiane, il debutto in società... Jane non aveva parlato solo di Bath nei suoi libri, ma per qualche motivo quel posto era rimasto nella mente di Med come il solo luogo in cui tutti i suoi sogni avrebbero potuto avverarsi. Aveva deciso che ci sarebbe tornata non appena sarebbe stata in grado di Materializzarsi, facendo avanti e indietro da casa sua alle terme romane, dalla piovosa Slough alle rive dell'Avon; avrebbe potuto chiedere ai suoi genitori di portarla lì durante una delle estati passate, ma le piaceva l'idea di andarci senza di loro, magari su invito di qualche zio o vicino di casa – non era forse già accaduto a Catherine Morland?
Louis non era un signore di mezza età sposato con una donna fissata con la società inglese, ma poteva essere considerato un amico di famiglia; avrebbe avuto una casa in cui ospitarla e oh, come sperava che fosse una villetta ottocentesca con il caminetto nel salotto!
Quell'estate, costasse quel che costasse, avrebbe passato almeno un mese a Bath con Louis. Certo, era felice della scoperta del suo amico e sperava che potesse avere il successo prospettato... ma anche per costringerlo a rimanere nella città dei suoi sogni il più a lungo possibile.
Era così contenta che aveva dimenticato il broncio che aveva messo giorni prima ad Adrian, quando aveva scoperto che era stato intenzionato a presentarle i genitori senza avere chiesto il suo parere. Ora che Adrian stava tornando a casa per le vacanze di Pasqua, le sembrava giusto dividere con lui parte di quella immensa gioia che le aveva donato Louis, perdonandolo per avere fatto tutto di testa propria.
«A che ora parte l'Espresso?» gli chiese, prendendolo sottobraccio. Si sentiva già una lady sul punto di debuttare.
«Alle undici, come ogni anno. Sei sicura di stare bene?».
«Benissimo! Mi dispiace solo non poter venire con te... ma impegni urgenti mi trattengono qui».
«Paciock rimarrà a scuola, eh?» sghignazzò Adrian, seguito subito da Med.
«Ho paura che si sentirebbe solo, senza te e i tuoi amici. Devo rimanere a fargli compagnia».
«Saggia decisione».
Adrian afferrò il suo viso e la baciò, mentre ancora i pensieri di Med vagavano su tutto quello che avrebbe potuto fare con Louis di lì a pochi mesi. Sorrise contro le sue labbra.

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