Standby

di Evil Daughter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Il genio, il torvo, e un po’ di sangue. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Dolcetti alla Belladonna, ovvero: non voglio crederci. ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - La scimmia guarda, la scimmia ruba. ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Dementia: è un’emorragia. ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - L’amore è una belva anaerobica che soffre d’insania. ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI - Eclissi di efferatezze serali. ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII – Giaculatoria per un orgoglio senza cuore. L’infedeltà si maschera sinceramente. ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII - La foresta brucia. Salvate il lupo. ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX - Organizzare un omicidio in una camera iperbarica. Amore a parte, senso civico ovunque. 

 ***
Capitolo 10: *** Capitolo X - Noli foras ire. Anamnesi pericolose. ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI: Rottweiler idrofobi e bambine che li salvano.  ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII - Solve et Coagula. ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII - Sub-limen: la passione si vestì di solo tormento. ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV - Tre teste immerse nell'acido formico. È certamente capitato.
 ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV - Remissione, iato. Coito. Si tratta di vendetta. ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI - il cielo fra le costole sopra un esercito silenzioso. ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII - Terzo atto. E peggio: larvato e catastrofico perdono. ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII - Progenie segreta sotto lampi di guerra. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Il genio, il torvo, e un po’ di sangue. ***


EDIT del 28/12/2020: come potete vedere la pubblicazione di questo capitolo risale al lontano 2011, dopo tanti anni, questo inizio a me non piace più come allora, se non per pochi aspetti e unicità. Quindi, unico sforzo che vi consiglio è andate avanti, magari troverete questa storia non così scontata come potrebbe apparire in questo capitolo. Vedrete che poi la vicenda si farà molto movimentata come meno potreste aspettarvi. Provare per credere. Un grazie in anticipo a tutti i coraggiosi.

Prima di dare inizio alle danze: se disgraziatamente vi annoiaste dopo le prime quattro righe (mi auguro di no e vi consiglio caldamente di proseguire; nella coda sta il veleno) scorrete la pagina e date uno sguardo a cosa c'è in fondo.


Standby


Capitolo I - Il genio, il torvo, e un po’ di sangue.


Occhi rossi fissi allo schermo, cerchio insopportabile alla testa e piedi bramosi d’uscire da quelle che potevano essere meglio definite trappole mortali piuttosto che scarpe; a quel punto Bulma fermò il lavoro, mollando il resto delle pratiche da controllare alla segretaria.
Voleva tornare a casa per lasciarsi alle spalle i postumi di una giornata piena e sfiancante: starsene rinchiusa in ufficio, senza fare nient’altro che firmare cartacce, parlando con persone mai viste che, in alcuni casi, emanavano cattivo odore, non le si addiceva. Era un tipetto da laboratorio lei, amava stare con le mani in pasta a progettare nuovi congegni. Lei era l’ideatore, il genio. Non sentiva assolutamente di meritare tanta denigrazione per colpa d’un padre svogliato con l’aggravante dell’età avanzata. Pertanto, abbandonò rapidamente gli uffici della Capsule Corporation alla guida della sua hovercar, tirando dritta verso casa.

Scesa dal veicolo, una folata di gelo accolse il suo ritorno. Non ricordava ci fossero mai stati inverni tanto freddi, si strinse di più nel cappotto e camminando goffa e tremolante sui tacchi scomodamente alti; perché la femminilità non andava trascurata: "una donna deve essere slanciata" le diceva spesso sua madre, "a forza di indossare scarpe basse finirai per avere polpacci e caviglie da uomo", ultima arringa minacciosa che l’aveva definitivamente convinta a calzare i trampoli che aveva allacciati ai piedi; Bulma s’avviò con sforzo per raggiungere l’ingresso di casa. Ma si fermò: la navicella spaziale, che da un paio di mesi occupava parte dell’ampio cortile, era in funzione; il suo bislacco coinquilino, buon masochista, si stava ancora massacrando nella camera delle torture.
La scienziata arricciò il naso e fece passo, fosse stata più in forma gliene avrebbe cantata una. Sfortunatamente, nelle condizioni in cui erano i suoi nervi non avrebbe sopportato una sola parola da parte dell’altro.
Quindi, aggirò l’ennesimo urticante prurito della giornata.
Raggiunta finalmente la porta di casa, Bulma vi entrò con stizza esagerata. Era tardi e i suoi di sicuro s’erano già coricati.
Meglio.
Pensò.
Niente domande inutili.
Evitò la cucina. Anche se la fame era tanta, necessitava di farsi prima un bagno, per sciogliere la tensione e per togliersi di dosso tutti i germi che sentiva proliferare beatamente sulla sua preziosissima pelle.
Così, immersa in una vasca d’acqua bollente e avvolta in tanta schiuma, iniziò a sentirsi meglio. Nell’assoluto relax, tra il calore e i vapori dei sali che si scioglievano, soffermò i pensieri sul misterioso ragazzo giunto dal futuro e sulla notizia che con molto dispiacere aveva rivelato a Goku; e che Piccolo aveva poi riportato:

"Esseri umani mutati in macchine porteranno morte in ogni parte del mondo, nessuno potrà nulla per impedirlo. Tra tre anni ogni cosa sarà polvere."

L’inquietante pronostico era stato un trillo d’allarme per tutti, più che altro per lei; il resto della combriccola d'amici era parso bramoso di incontrarli, i beneamati cyborg; addirittura, era stata zittita quando, genialmente, lei aveva proposto loro la soluzione all'imminente catastrofe: eliminare il male alla radice, far fuori il folle scienziato del Red Ribbon.
Sapere che un mentecatto stava dandosi da fare per dare il benservito alla Terra, mentre loro si dedicavano ai sollazzi, facendo finta di nulla, era inconcepibile. Da veri incoscienti, a parer di Bulma.
Durante il travaglio su Namecc, lei aveva sviluppato un innato attaccamento alla vita; di buttarla via a causa dei compagni vogliosi di qualche scazzottata, non lo reputava affatto giusto. Sentiva che le cose stavano cambiando, che tirava un’aria pericolosa e, sebbene amasse l’avventura come le sue invenzioni... sembrava non ci fosse più posto per lei.
L’arrivo dei guerrafondai saiyan era stato indiscutibilmente ciò che aveva spostato l’ago della bilancia in un tracollo verso il caos. Ed esattamente in quell’istante, inevitabilmente, Bulma virò le attenzioni proprio al soggetto della questione, quello che per primo aveva bocciato in tronco la sua iniziativa anti-cyborg: Vegeta. Uomo imperscrutabile – o meglio, una scimmia – schivo, parecchio torvo, smisuratamente maleducato, in sintesi una montagna di innata alterigia. Le incuteva timore, certo, lo incuteva a chiunque e ci godeva nel farlo, però, assurdamente; alla vista di chi avesse voluto vederla da quest’angolazione; lei gli aveva elargito ospitalità ad occhi chiusi, fregandosene altamente di quanto fosse sporca la fedina del saiyan. Correndo il rischio con strana curiosità.
Sì, Vegeta era pericoloso. Aveva anche minacciato d’ucciderla, se si fosse intromessa per fermare la pazza mente del Fiocco Rosso... Ma Vegeta aveva pure dato una mano per resuscitare Crilin e Goku; e nonostante il visibile indigesto che provava per la Terra e i suoi abitanti, si stava allenando tenacemente per affrontare gli androidi prossima sventura del pianeta.
Lei lo apprezzava, tralasciando quella cocciutaggine votata all’esagerazione dell'esercizio fisico, che lo portava sullo sfinimento alla fine di ogni giorno, lei smisuratamente lo apprezzava.

Ancora nella vasca, Bulma allungò lo sguardo sulle dita dei propri piedi: facevano capolino fra la schiuma e le unghie erano laccate di rosso infuocato.

Chissà come sono i piedi di Vegeta...

Arrossì. Constatazione bizzarra, forse perversa. Non era nemmeno la prima volta che osservando il suo corpo fantasticava su quello del saiyan. Anzi, le capitava spesso. Come se, attraverso la pelle e le sue forme, riuscisse a comprenderlo di più. Tra loro non c’era dialogo o, perlomeno, non come comunemente si intendeva tra due persone normali. Le loro interazioni erano composte dagli irregolari monosillabi di lui con i quasi altalenanti monologhi di lei; se la giornata era fortunata, il cielo era sereno e alla radio trasmettevano la sua canzone preferita. Quasi mai.
Durante il resto del tempo, i due si pungolavano. Ed aspre erano le frecciatine che finivano per scambiarsi. 
E se dubbi ed incognite l’avevano sempre attratta come un magnete sin da quando era bambina, stare ora ad elucubrare sul “torvo di casa” era diventato un conturbante passatempo. Vegeta era il suo privato enigma da risolvere. Bulma sapeva che era lo spietato principe di una razza estinta con un pianeta andato in frantumi, e l’aveva visto all’opera più volte a manifestare la sua terrificante natura aliena. Quel Vegeta, però, non corrispondeva affatto all’uomo che da mesi le deambulava per casa, dalla presenza più assente che presente, e pacata se lasciato per fatti propri, senza stuzzicarlo.
Bulma era convinta, inoltre, di aver scorto qualcosa di triste e vacuo in lui, un’ombra nei suoi occhi severi. E non era malvagità, come il saiyan s’ostinava a mostrare e come tutti vedevano. Ne era sicura, c’era qualcosa che il ritroso alieno celava ferocemente dietro maschere di collera e cattiveria. 
Riassunto: le appariva frammentato, sdoppiato, i vuoti che restavano li riempiva lei. La convinzione che sotto quella corazza scostante e scorbutica nascondesse sentimenti umani era il suo personale e riservato punto di sutura.

Sembri saperla lunga. Che vogliamo fare? Un giorno di questi lo portiamo giù in laboratorio, lo stendiamo sul tavolo operativo e smantellandolo in più parti proviamo a vedere se pure lui ha un cuore?

Scendi dalla navicella spaziale, facci il piacere, tesoro.

La sua coscienza, quella che tutti dovrebbero possedere, quella sincera, immediata, che palesa le cose per ciò che sono; nel caso della scienziata irrazionali.
Con malgrado, Bulma ne aveva una. Addirittura più irritante di lei.

 

Mani lesse, acqua fredda. La scienziata decise di abbandonare il piacevole brodo primordiale in cui s'era immersa e che l'aveva rigenerata. S’asciugò alla meno peggio e, vestita nel suo pigiama, un maglione di una taglia molto grande rispetto alla sua esile figura e che a caratteri cubitali riportava il suo nome, si mosse per raggiungere la cucina.
Nel frattempo, diede una sbirciatina fuori, in giardino. Notò che finalmente la gravity room all’interno dell'astronave era stata spenta. Osservazione che la dilaniò in due metà: se da una parte era contenta che il bieco saiyan avesse finalmente sospeso di flagellarsi, dall’altra non voleva assolutamente incontrarlo.
Si sentiva strana, quella sera, e per nulla pronta ad affrontarlo. Neanche avesse dovuto lottarci in un corpo a corpo.
Ma trattare con Vegeta significava partecipare ad una maratona senza aver mai corso, soffrendo pure di tachicardia.
Il risultato: un rigor mortis sicuro. Con lui ci voleva polso duro e battuta pronta, mai farsi vedere fiacchi. Altrimenti, se ne sarebbe approfittato.
Affrettò il passo, con la speranza di non incrociarlo. Il suo spauracchio, purtroppo, l’aveva battuta sul tempo: se ne stava nel buio della cucina, illuminato solo dalla fioca luce del frigorifero e chinato ad ingozzarsi come una bestia, in un atteggiamento che rasentava quello d’un ladro intento a portarsi via l’intero malloppo.
Bulma cercò di non farsi sentire e s’accucciò pure lei. Restò ad osservarlo silenziosamente, facendo capolino dalla parete che separava il salotto dalla cucina.
Rifletté che quel che lei stessa stava facendo era assai commentabile.

Spiare: roba da vigliacchi mascalzoni.

Pensò, ma scansò a pedate il pensiero e continuò a studiarselo.

L’esemplare più bello d’una specie ormai estinta...

Un momento... Aveva detto che era bello? No, l’aveva solo pensato tra sé.

Sì, dopo questa, alla prossima dillo ad alta voce, faglielo sentire, così, tanto per vedere come reagisce. Magari ricambia e ti divora come sta facendo adesso con quel cosciotto di carne. Oppure s’arrabbia e ti divora e basta.

Dov’era la differenza?
Non la stava aiutando, non la stava aiutando per niente quella voce nella sua testolina dalla chioma tutta ciano.
Doveva andarsene subito via. Al diavolo la cena, si sarebbe rifatta l’indomani con un’abbondante colazione.
Sgattaiolare senza farsi sentire: prima opzione. Tanto, lui pareva non essersi accorto di nulla. Oppure, per evitare il rischio, aspettare che finisse per poi uscire allo scoperto e nutrirsi anche lei. Sempre che l’ingordo non ingoiasse pure il frigo.

«Vuoi smetterla di spiarmi!»

Troppo tardi.

Il saiyan aveva ringhiato improvvisamente facendola sobbalzare dallo spavento e interrompendo così il flusso delle sue speranze.
A tradirla, secondo lei, era stato un mugolio del proprio stomaco affamato. In realtà lui s’era accorto da un pezzo che stava nascosta. La smemorata aveva dimenticato le capacità sensitive ultra-sviluppate che egli possedeva.
«M’hai fatto prendere un colpo! Che modi sono i tuoi? Sei un animale sai? Vergognati!»
«Zitta, se qui c’è qualcuno che deve vergognarsi quella sei tu. Mi stavi spiando.»
«Non ti spiavo!... Ad ogni modo, vorrei ricordarti che qui sono in casa mia, e quindi ho carta bianca per fare qualsiasi cosa io voglia!»

Anche per sbavare dietro ai tuoi ospiti?

Coscienza pignola. Il tono con cui s’era giustificata non era stato nemmeno tanto convinto. E beffardo e consapevole della risposta di circostanza, il torvo non replicò lasciando morire il battibecco nel silenzio che li circondava.
L’aveva spaventata, poteva dirsi soddisfatto per quella sera. Ultimamente, se c’era qualcosa che a Vegeta dava gusto era atterrire la terrestre, spegnerle il cicaleccio continuo ed insopportabile.

A guardarlo nella penombra, sembrava provasse soddisfazione. Certo, si compiaceva nel vederla così a disagio. Pensò lei.
Contrariamente alla baldanza di Vegeta, Bulma era un agglomerato di cocente imbarazzo.
Iniziò a farsene una ragione, optando per un digiuno, poiché, di quel passo, con l’inquietante presenza del cumulo di superbia, non sarebbe riuscita a sfamarsi. E mentre s’avviava in direzione del salotto per raggiungere le scale dirette al piano superiore, i suoi piedi nudi ed infreddoliti calpestarono qualcosa di bagnato ed appiccicoso.
Inorridita dalla sensazione e maledicendo se stessa per il vizio di girovagare sempre scalza come una zingara, corse ad accendere la luce. Le si aprì un sipario raccapricciante: parte del pavimento era tappezzato da piccole gocce d’un colore rossiccio, non completamente calpestate. Le gocce iniziavano a metà della cucina e poi tornavano indietro fino a lei che saltellò come per non farsi toccare da queste ed assicurarsi che non fosse lei a perdere sangue. Ne risultarono un altro paio di stampi dei suoi piedi ormai sporchi.
Analizzando il resto del pavimento, che s’era ridotto quasi ad una artistica composizione astratta, Bulma s’accorse che macchioline più scure e dense campeggiavano sull’entrata, giravano attorno al tavolo, e non ad intervalli regolari, arrivavano al frigorifero per accumularsi, e finivano col raggiungere il saiyan; il quale, nel frattempo, s’era messo comodo su uno degli sgabelli della cucina con un’aria del tutto indifferente.
Alle grida della scienziata s’aggiunse un impercettibile plick.

«Vegeta, sei ferito!»

Una chiazza marrone all’altezza della spalla si stava estendendo inzuppando quasi del tutto la felpa verde da lui indossata, rendendola più antiestetica di quanto essa già non fosse. Il sangue aveva trovato strada lungo il braccio sinistro, continuava imperterrito a sgocciolare lentamente seguendo il profilo della mano di Vegeta.
Bulma scattò verso di lui, senza curarsi di dove mettere i piedi, timbrando maggiormente le mattonelle già sporche. Poi, allungò le mani. «Hai bisogno di una medicazione!» Neanche il tempo di dire o fare altro che lui, in una smorfia forse di dolore, le afferrò un braccio con veemenza per spingerla via. Lei rimbalzò violentemente addosso al piano cottura: una bella botta al fianco, preliminare per lividi, con fitte lancinanti ad ogni movimento che l'avrebbero sorpesa nel giorno a seguire. Per non parlare del braccio che il saiyan le aveva ghermito in una stretta simile ad una tenaglia.
Vegeta rimase sconcertato, non credeva d’averci messo tanta forza, possibile che i terrestri fossero così dannatamente deboli? Era già pronto ad una sfuriata o ad un pianto tragico. Invece, contrariamente alle sue aspettative, lei non accusò dolore. La scienziata fece un respiro profondo e tornò nuovamente da lui, che ora la osservava sbalordito.
«Fammi vedere.» Lo esortò, tono inflessibile.
Vegeta ubbidì, insolito, sporgendosi verso di lei. Senza fare obiezioni stavolta. Si sfilò la felpa per farsi esaminare.
La ferita, ringraziando il cielo, non era né profonda né estesa, però, continuava a perdere sangue. 
Come facesse lui a starsene tranquillo, Bulma non riusciva a spiegarselo.
Colpa dei tuoi allenamenti.
La sua prognosi: disinfettante, qualche giro di bende e danno risolto.
Senza proferire parola, Bulma si districò per la cucina in cerca di garze e quant’altro occorreva.

Troppo delicata... Una donna piccola e troppo delicata. Anzi, una ragazzina.

Era l’analisi di un Vegeta che cominciava a sentirsi alquanto infastidito da quella situazione e dal fatto che s’era ammansito inspiegabilmente; e poi, elaborare giudizi su di lei, in base ad una eccessiva osservazione, gli urtava non poco i nervi.
Poteva benissimo accantonarla dov’era e filare via, non aveva bisogno di cure, lui. Eppure, non si mosse. Come un cane che si fa docile per mordere, il saiyan era alla mercé della scienziata.
Bulma gli pulì la ferita, tamponando il sangue, e gliela disinfettò. Pratica che procurò un fremito al bieco silenzioso. Sì, perché nei brevi minuti necessari al compimento dell’opera, Vegeta s’era fatto muto. Probabilmente una tregua la sua. 
Lei a malapena riusciva a nascondere il batticuore. Gli era talmente vicina che percepiva il respiro di Vegeta, la pelle calda sotto le dita e l’odore di sudore misto al metallico del sangue; peccato per l’antisettico, che stava coprendo quell’odore. Per sentirlo meglio, avrebbe dovuto avvicinarsi di più a lui. Le stava girando la testa, era in preda ad una vertigine. Le mani tremavano.

Da quand’è che ti piace l’odore di un assassino?

E la coscienza l’assillava senza sosta, insolente e dispettosa. 
Intanto, aveva iniziato a passare il primo giro di bende per coprire quello che di lì a poco si sarebbe tramutato nell’ennesimo sfregio su un corpo visibilmente stremato. Vegeta si limitò semplicemente a lasciarla fare, statico nel suo silenzio, puntando gli occhi altrove.
«Avresti dovuto farti controllare subito, con una ferita del genere. Guarda come hai ridotto il pavimento, sembra un macello!»
Meglio chiacchierare e distogliersi dal desiderio di...
Di che?

«È solo un graffio.», rispose lui.
«Io capisco gli allenamenti, ma la tua sta diventando un’ossessione!» Questo avrebbe potuto dirlo anche a se stessa: l’ossessione era uno stato che di recente viveva anche lei. E nel mentre dell'occasionale e particolare conversazione, da record sulle classifiche della loro hit-parade delle interazioni, la testa continuava a girarle veloce, ovattata. Ed il cuore ci dava dentro: le macinava battiti da stramazzo.
«Te l’ho detto, non è nulla. Piuttosto, impicciati degli affari tuoi.»
«Infatti, lo sto facendo, tu sei affar mio
Tu sei affar mio...
L’ho solo pensato, vero?
No, stavolta l’hai detto, gli hai dato fiato.
Senza ragionare, le parole le si erano srotolate di bocca. Spontanee. Nessun filtro, nessun controllo. Inutile tentare di riparare, ormai il danno s’era compiuto.
Quel mio pesava come un macigno. Un’affermazione tanto breve quanto significativa lasciava molto ad intendere al suo interlocutore.
Voleva piangere e scappar via. 

Adesso lo sa, sì che lo sa, ha capito.

Diceva a se stessa.

Certo... Ma cosa dovrebbe aver capito?

La interrogava la coscienza.

Non ci stava capendo nulla, aveva completato il lavoro da una decina di secondi ma non riusciva a mobilitare un solo muscolo: era rimasta pietrificata. Con tutta la luce che illuminava l’ambiente, nulla poteva occultare il suo musetto completamente rosso. «Ho... ho finito.» Concluse, infossando lo sguardo a terra, come se bastasse a rimediare a quel che aveva sciorinato con troppa sicurezza.
Vegeta se la guardava con gli stessi occhi di chi veniva a conoscenza di verità che non voleva assolutamente sapere: non gliene fregava nulla, ma il senso l’aveva compreso. Non era un idiota.
«Tsk, ragazzina... »
L’ammonì e s’alzò strusciando rumorosamente le zampe dello sgabello. Un' azione che fece di proposito, per rompere quella specie di incanto, per porre fine alla strana atmosfera – troppo intima per i suoi gusti – che non doveva esserci ma che s’era andata ugualmente a creare, fra loro.
La lasciò sola, senza ringraziarla.

Fra il rumore scorticato e il sentirsi dare della ragazzina, la testa non le girava più. Faceva male e basta.


La scienziata aspettò con sconforto che i silenziosi e diligenti robot pulissero lo sfacelo appiccicato sul pavimento della cucina – e che non si limitava ad imbrattare solo quell'ambiente – per evitare sicure grida d’orrore al mattino. I suoi genitori se ne sarebbero accorti.
Si pulì i piedi e buttò ovatta e fazzoletti sporchi nella pattumiera. Raccolse dal pavimento la felpa ormai da buttare di Vegeta. Poi, a testa china, raggiunse la sua camera.
Chiusa la porta, s’adagiò su di essa pesantemente. Gli era stata vicina per pochi minuti, ma aveva avvertito lo stesso un'insolita sensazione, diversa: non era l'abituale voglia di sfidarlo a parole per dimostrargli di non temere nulla, nemmeno lui; tanto meno la paura d’essere di fronte a uno degli esseri più pericolosi dell’universo; era stata una vibrazione. Una vibrazione che aveva risuonato in lei col cieco istinto di volersi propagare anche in lui. Ne conosceva bene il significato e la faceva vergognare.

Stringendo ancora tra le mani la felpa sporca del sangue del saiyan, Bulma raggiunse il letto, spense la luce. E spense la testa con la sua mente geniale.


Continua...
 

Note:
1. I capelli di Bulma sono di un lilla scuro, direi più violetto, ma per motivi pratici e di comodità, oltre che di gusto, ho scelto di dar retta alla serie televisiva.

2. Bulma potrebbe apparire piuttosto prematura, confusa – idem per il racconto – e voi potreste confondervi nella lettura assieme a lei... va benissimo, così mi piacete.

3.Il periodo in cui si svolge la vicenda è semplicemente quello durante l’attesa dei cyborg, prenderò a mio piacimento alcuni momenti che son stati creati solo nell’anime e di questi non vi garantisco l’ordine cronologico. 4.Vegeta suggerisce di spostare l’entità di Crilin e Goku sulla Terra per poi poterli riportare in vita ma, come sapete, all’eroe non servirà.
5. Quello che vedete è un disegno che ho fatto per voi, perché vorrei che ve li immaginaste come li vedo io. Senza nulla togliere al grande Akira e alla perfezione della sua forma stilizzata, naturalmente.
(È stato abbastanza difficile tramutarli in figure quasi reali, soprattutto Vegeta, renderlo umanamente appetibile rispettando la sua fisionomia mi è sembrato quasi impossibile, e ancora non sono pienamente convinta che possa piacervi... Ditemi voi). 

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Dolcetti alla Belladonna, ovvero: non voglio crederci. ***


 

Standby

Capitolo II – Dolcetti alla Belladonna, ovvero: non voglio crederci.


 

Iniziava come un richiamo lontano, perduto. Man mano che la coscienza tornava e i sensi andavano risvegliandosi, quel che percepiva di udire assumeva toni a dir poco orribili: qualcuno bussava ininterrottamente alla sua testa. E lo faceva urlando.

Caldo, troppo, le pareva di essere scivolata in mezzo ad un’immensa folla esagitata che la stava soffocando. Mischiata in uno di quei raduni di gente scalmanata che andava ai concerti per scaricarsi.
Era un batterista schizofrenico infuriato, quello che le stava stracciando i timpani?
Terribile cacofonia, così forte da farle aprire gli occhi.

La sveglia.

La sveglia andava demolita.
Una mano resuscitò da lenzuola e coperte che l’avevano seppellita, e pose fine al rumore continuo ed esasperato.
Mai quell’oggetto tanto utile per una dormigliona come lei aveva assunto timbri e sembianze così inquietanti.

Altra nuova giornata da ingranare Bulma, fatti forza.

Di voglia per alzarsi neanche l’ombra, stava già architettando di marinare l’immenso lavoro che l’aspettava in ufficio; poteva tranquillamente permettersi il lusso di darsi malata anche per svariati giorni. Perché sin dall’adolescenza, e senza badarci, Bulma aveva nettamente oltrepassato le sciocche supposizioni che comunemente s’additavano a chi cresceva nell’agio di una famiglia illustre e benestante come la sua. Essere la figlia dell’uomo che, a livello mondiale, stava a capo della tecnologia più all’avanguardia, lasciava presupporre che fosse dotata di conoscenze e d’una intelligenza superiore alla media. E che, prima o poi, avrebbe ereditato l’impero del padre; con la solita invidiosa incognita del “se ne sarà all’altezza”Di talento ne aveva anche più del suo vecchio, ma di dare buona impressione e dimostrarsi capace di fronte all’opinione pubblica, le interessava tanto quanto strofinarsi bene le scarpe sullo zerbino prima di mettere piede in casa.
Ricca ed intelligente sì, ma non figlia di papà con la giacchetta pulita e ordinata.
Prima i capricci, dopo il lavoro: era la personale direttiva di Bulma Brief.

Il ganglio che realmente la turbava aveva tutt’altra natura: il suo fidanzato, ormai definibile solo per nome – per dargli un senso, poiché neppure lei sapeva più come collocare la sua esistenza all’interno della propria vita – quella mattina, come d’accordo, sarebbe passato a trovarla… Tragicamente per lei.
Erano settimane che non si vedevano. A causa degli allenamenti, Yamcha aveva deciso di trasferirsi dal Maestro Muten con la scusa che vicino a lei non ce l’avrebbe fatta a concentrarsi.
Ciancia che Bulma non s’era bevuta per niente.
Conosceva i vizi del lupo fin troppo bene: se lui sentiva il bisogno di allontanarsi per i suoi comodi, lei lo assecondava togliendogli il guinzaglio e, con grande piacere della propria bile, si metteva comoda a non aspettarlo.

La loro relazione s’era ridotta ad un rapporto viziato, mancante.
Perché ancora si trascinasse dietro una simile zavorra arrugginita, non sapeva spiegarselo. Forse aveva paura di cambiare: anni di fidanzamento non potevano essere depennati con tanta superficialità, ma da tempo non suonava più la stessa musica. Almeno per quanto la riguardava.
L’amore per Yamcha le faceva male come una carie.


Avrei bisogno di una pinza.

Smise di analizzare la propria vita sentimentale e decise di alzarsi. Anche se non riusciva a comprendere chiaramente quanto le importasse del suo ragazzo – le statistiche le suggerivano un precipitoso ribasso – la scienziata non voleva farsi trovare come una sciatta. L’aspetto esteriore occupava uno dei primi posti nella scala delle sue priorità.

S’alzò velocemente liberandosi di una montagna di coperte che l’avevano ridotta ad un bagno di sudore. E... Mossa sbagliata.
Il dolore arrivò puntale, insopportabile.
Aveva del tutto rimosso la stramba e singolare avventura notturna avuta col saiyan. Al ricordo, si sentì sbriciolare dentro.
Il caldo e le angoscianti sensazioni ebbero un loro perché.

In piedi e nuda davanti allo specchio, Bulma ammirò le tracce che Vegeta le aveva lasciato sul corpo: un fianco era ornato da ecchimosi violacee, ed il braccio destro portava i segni della sua presa ad artiglio.
Non ne capiva la ragione – e con questa cominciavano ad essere innumerevoli le cose che ultimamente non afferrava – ma avere quei segnacci addosso, meriti di uno stupro coi fiocchi a chi li avesse visti senza sapere, non le dava per nulla fastidio; però andavano immediatamente nascosti.

Nessuno dovrà venir a conoscenza di quel che è successo con Vegeta, oppure...
Cosa? Datti un freno, in fondo l’hai solo medicato, non ci sei andata a letto.

Il buongiorno incominciava a darselo da sola.
La sua coscienza la batteva, aveva la lingua più lunga, parlava liberamente e quando lo faceva non le risparmiava ovvietà.


Disinfettare, bendare la carne lacerata di una persona, toccarla e sporcarsi le mani col suo sangue, non è sinonimo di “farci sesso”. Anche se nel frattempo hai la temperatura alle stelle, il fiato corto e le palpitazioni.

Concetto chiave, tesoro, condensalo e staremo tutti più tranquilli.

Peccato per la sparata successiva, molto esplicita, che niente aveva lasciato all’immaginazione. Ancora si sentiva bruciare di vergogna.

Di certo, avrà compreso limpidamente i miei sentimenti.

Adesso i tuoi ormoni sull’orlo dell’incoscienza sono divenuti “sentimenti"?!
Placati.

La scienziata andò ad aprire l’armadio per scegliere cosa indossare. Fortuna per lei che la stagione stava dalla sua parte: era assodato che Bulma non andasse pazza per l’inverno, a lei piaceva vestirsi non coprirsi. Però, in quell’occasione, non poté che sfruttare la situazione a proprio vantaggio: scelse un completo dalla tinta arancione, a righe e con le maniche lunghe. Ottimo per coprire i lividi e perfettamente complementare alla sua chioma riccia e di color turchese.
Inoltre, colore e motivo del vestito adornavano la sua coscienza da evasa. Così si sentiva: come un galeotto in fuga.


Ragazza, ricorda il concetto chiave.

Ma non aveva fatto nulla per il quale era possibile imputarle un tradimento; ed era diventato talmente molle il rapporto con Yamcha che non aveva motivo di farsi scrupoli verso di lui, però...

I suoi occhi, d'improvviso, vennero calamitati verso un logoro straccio sporco e ammucchiato tra le pompose e candide lenzuola del suo letto: era la felpa insanguinata di Vegeta. Una macchia nella sua immacolata alcova.
Se l’era portata a letto e ci aveva dormito insieme, senza accorgersene.

È meglio che la fai sparire, se non vuoi problemi.

Seguì la voce, non la buttò via ma la nascose – se così poteva esser definito appallottolarla e metterla rapidamente in un angolo dell’armadio – senza darle nemmeno una sciacquata per togliere quel puzzo ferroso e sgradevole che emanava il sangue rappreso. Ma lei non lo sentiva, e se le avessero posto la domanda avrebbe addirittura risposto che le piaceva.
Possedere qualcosa appartenuto a lui, col suo odore, equivaleva ad aver messo le zampe su un tesoro inestimabile.
Forse… stai impazzendo.
A questo non diede retta.


 

  ~ ~ ~



Cucina e salotto adiacente erano già diventati teatro dei futili siparietti dei suoi genitori: la mamma era presa a preparare chissà quale leccornia mentre seguiva con distratta attenzione un programma culinario; il padre era a terra, seduto su un morbido tappeto, ad armeggiare meticolosamente con i circuiti di un piccolo robot.
In sintesi: la serena atmosfera di sempre che si respirava in casa Brief, ora condita con una piacevole fragranza di dolci appena sfornati.

«Tesoro, buongiorno! Fatto tardi ieri sera? Non t’abbiamo sentita rientrare. Dai, dopo mi racconti, adesso vieni qui e assaggia questi deliziosi pasticcini!»

Sua madre: un concentrato di gentilezza e bontà, una signora che a volte non arrivava a comprendere la gravità degli eventi. Sorrideva sempre.
Bulma non le rispose, ma allungando una mano su un dolcetto troppo invitante da rifiutare, andò a farsi un tè – il caffè l’aveva mollato da un po’: le ingarbugliava la digestione, soprattutto se lo prendeva di prima mattina – e quando il tè fu pronto, s’accomodò su uno degli sgabelli attorno al tavolo. Ma non s’appoggiò ad esso, era un impiastro di farina.
«Cara, ho saputo che ieri molte compagnie sono venute ad esporti i loro progetti, ecco, vorrei proprio sapere se c’era qualcosa d’interessante.»
La Capsule Corporation possedeva una grandezza e una ricchezza così vaste che in borsa aveva oramai raggiunto un valore da capogiro. Difatti, s’era aggiudicata il monopolio industriale nel suo settore: ogni nuova iniziativa da parte di terzi prima d’affacciarsi sul mercato doveva essere approvata e certificata dall’impresa C.Corporation, che ne ricavava una lauta percentuale sugli introiti annui complessivi.
Il padre, nel buonsenso e nell’interesse della sua fruttuosa azienda, andò a toccare uno dei tanti nervi scoperti della scienziata, la quale non aveva affatto dimenticato la giornatella ricca che lui le aveva rifilato.
«Allora, non c’era nulla?», continuò a domandarle, mentre abilmente, e con esasperante tranquillità a vederlo, proseguiva ad avvitare un bullone dopo l’altro.
«Ti interessa così tanto papà? Bene, tornaci tu in ufficio! D’ora in poi scordarti di me!»
«Ah ah, Bulma, non credi sia un po’ presto per stufarsi?»
«Mai da bambina ti ho visto lavorare al di fuori dei laboratori di casa. Richiama chi c’era prima per sbrogliare i nostri affari, non credo d’avere la pazienza necessaria per gestirli!»
Lo scienziato sorrise sotto il suo paio di baffi bianchi. Poi la illuminò.
«Perché quando eri piccola non ero così importante, cara, il successo ha un suo prezzo.»


Sì, ma dove sta scritto che devo essere io a pagarne le conseguenze?

«Uh! Stamattina Vegeta non ha fatto colazione, Bulma ti dispiace portargli questi?!»

Lo sproposito era la vera essenza della moglie del signor Brief.
Con fare insistente, sua madre le indicò un bel vassoio stracolmo di quegli intrugli di grassi e carboidrati – vere bombe energetiche – buonissimi, ma che a Bulma avevano dato la nausea immediatamente dopo il secondo assaggio.
La risposta: un netto e conciso assolutamente no!
Non si sentiva pronta per incontrarlo di nuovo. In lei aleggiavano imbarazzo e soggezione, decisamente sfavorevoli per mostrarsi d’innanzi a sua maestà “sono il figlio dell’ingratitudine”.

E poteva già dire che le era andata bene a non ritrovarselo gironzolare per casa.
Però, nel profondo, Bulma voleva vedere come stava, se la ferita aveva smesso di sanguinare e...

«Bulma, datti una mossa! Non vorrei mi svenisse per la fame, povero!»

«Figuriamoci! Se non è venuto a mettere nulla sotto i denti è perché evidentemente non ne aveva bisogno!»

Con tutto quello che aveva ingollato la notte passata, a suo parere, poteva star satollo per giorni.
Ma bisognoso o meno che fosse, la scienziata prese le bombe energetiche da portare all’ingrata bestiaccia.
Mentre rimuginava su come presentarsi a lui, sentì qualcuno parcheggiare nel giardino: era Yamcha, insieme al tedio che le avrebbe arrecato.



«Ehilà Bulma! Sono tornato!»

Perché le risultava seccante persino salutarlo?
La scienziata era in piedi, al centro della cucina, con ancora il vassoio tra le mani, mentre il ragazzo era entrato in casa tra le feste dei suoi genitori che lo stavano tempestano con i soliti calorosi convenevoli.
Lei era totalmente assente.
«Che fai, non vieni nemmeno a salutarmi?»
Aliena, la voce le giungeva aliena. E non si muovevano, le sue gambe erano saldamente ancorate al pavimento.
Sentiva di essere estranea a quella situazione, in viso le si poteva leggere il disagio: aveva un’espressione indecifrabile, ciondolante tra la riflessione e il disappunto.
Yamcha, inconsapevole di quel che frullava in testa alla sua fidanzata, immaginò, come da copione dei suoi film rosa, che il suo ritorno dopo giorni di lontananza l’avesse pietrificata dall’emozione.
Così, avanzò sicuro verso di lei. Per abbracciarla.


«Scommetto che ti sono mancato da morire!»

Sì, credici.

Soffocata dall'abbraccio del ragazzo – lui era tanto alto da sovrastarla completamente – in un’effusione che, per i suoi gusti, stava diventando troppo espansiva, Bulma gli rispose alzando il viso e abbozzando un sorriso finto come una torta nuziale. E rincarò la dose annuendo con la riccioluta testolina azzurra.
Il vassoio ricco degli squisiti biscotti e dolcetti destinati a Vegeta, lei lo teneva saldamente in mano; era utile quel poco per non farli abbracciare del tutto.

«Oh, che hai qui? Sono per me questi, vero? Grazie!»
Con innocenza e golosità, lo spilungone mosse una mano per prendere un pasticcino.

Bulma fece cadere tutto per terra.


Il vassoio di porcellana andò in mille pezzi, che schizzarono dappertutto. Le bombe energetiche di sua madre fecero la stessa brutta fine: si schiantarono spappolandosi e sbriciolandosi sul pavimento.
A darci uno sguardo, fu una vera strage fatta di briciole, granelli zucchero, crema, luccicanti frammenti del manufatto andato in frantumi, cioccolato, alcuni mirtilli e qualche scaglia di cocco e noci tritate.
Il bendiddio irrecuperabile finì dritto nel secchio della spazzatura.
Bulma provò lo strambo desiderio di essere uno dei pasticcini di quella poltiglia. E di essere presa e gettata via.


E se Vegeta avesse davvero fame... ora, che gli porto?


«Oh! Ti sei fatta male cara?»

La mamma si precipitò subito in suo soccorso.
«No… non preoccuparti, sono intera. Non so… mi è scivolato dalle mani. Scusatemi... »

Spavento per il fracasso. Unica reazione dei genitori, ma non di Yamcha. Che aveva visto il gesto nitidamente: lei aveva semplicemente mollato la presa, di proposito. Non le era scivolato un bel niente.
Che le era preso?

«Lascia stare mamma, ci penso io a pulire»
Disse Bulma che, eufemisticamente goffa, pestava i cocci senza accorgersene, con un’aria visibilmente soprappensiero.
Finito di raccattare tutto, si degnò di incontrare gli occhi del suo Yamcha che non aveva detto nulla. Tantomeno, s’era esposto a darle una mano. Rimanendo esclusivamente ad osservarla, sconvolto.

«Allora, tutto bene? Crilin, Pual e il Maestro come stanno?»
Le pesava smisuratamente tentare di nascondere lo scompiglio che provava. L’istinto l’aveva fatta reagire a quel modo e sotto il naso del suo fidanzato, il quale continuava a guardarla basito, con occhi inquisitori che l’accusavano duramente: "l’hai fatto apposta, perché?!"
Doveva rimediare, ricomporsi subito, altrimenti sarebbero giunte a tormentarla una valanga di domande. 
«Ah, stanno benone, sì… Cavolo, quasi dimenticavo, ti porgono i loro saluti… Ah, ah ah!»
Solito atteggiamento da ebete.
Inventati qualcosa Bulma, e fai in fretta.
Le venne in mente un diversivo vecchio e dall’uso banale, ma dalla presa efficace sugli uomini. Infallibile.
«Yamcha, ti andrebbe di uscire, di fare una passeggiata insieme?»
Ed esattamente come s’aspettava, l’espressione sul viso deturpato dello spilungone mutò in sorpresa. E piacere.

«Bene, vado ad infilarmi le scarpe e a prendere borsa e cappotto, aspettami qui.»

Addio Vegeta.

Lasciò il salotto per raggiungere la sua stanza.
Le andava di uscire con lui con la stessa voglia di avere una colite. Ma andava sopportato per forza: era il doveroso ed indispensabile sacrificio per rimediare al danno.
Yamcha non doveva sospettare nulla, pure se lei avesse avuto le mestruazioni; e di solito era una che lo lasciava intendere.
Avesse fatto la brava, quella mattina, silurandosi diligentemente nella caotica frenesia lavorativa, dandogli buca, non si sarebbe ritrovata in circostanze così importune.

Maledetta me.


 

«Yamcha ti trovo bene. E quindi… Come vanno gli allenamenti?»
Si pronunciò lo scienziato verso il ragazzo in attesa del ritorno di Bulma.
«Benone, non posso lamentarmi, mi sto impegnando al massimo e credo di aver raggiunto già ottimi risultati.»
«Bravo! Anche Vegeta sta facendo lo stesso. Pensa, si sta allenando con una gravità superiore a quella che usò Goku prima di raggiungere Namecc! Da non crederci, questi saiyan sì che sono dei portenti!»
Il signor Brief si rivolgeva allo spilungone in buonafede, ma Yamcha, nell'udire il nome del saiyan, provò spasmi allo stomaco. In più, sentire il padre della sua Bulma parlarne facendo faville lo infuriava: il furbo, ovvero il saiyan, era già entrato nelle grazie dei suoi prossimi futuri suoceri e questo non andava bene.
Per un attimo, lo sfiorò il dubbio che fosse lo stesso anche per la sua preziosissima Bulma.
No, no, certamente no. Li aveva lasciati che neanche si guardavano in faccia.... e la sua fidanzata era fedele: mai l’avrebbe tradito, tanto meno con quello schifoso maniaco omicida.

«Oh, accidenti! Mi sono completamente dimenticata di Vegeta, i pasticcini che Bulma doveva portargli sono andati a finire nella pattumiera. Che peccato... Fa niente, ne farò altri!»
La signora Brief, tra i mille difetti, parlava troppo.
E lo spilungone contò: uno più uno.
Una stilettata alla schiena gli avrebbe dato meno dolore.
Il paradosso a cui aveva assistito poc'anzi iniziava ad avere un certo senso, tremendo; non gli piaceva, non gli piaceva neanche un po’.

 

  ~ ~ ~

 

Grondava da ogni parte del corpo, il sudore, colava tanto da finirgli negli occhi e lasciargli un irritante bruciore.
All’interno della Gravity Room, quando l’alternatore di gravità era in funzione, la temperatura saliva vertiginosamente. Con gli esercizi a cui il saiyan si sottoponeva, oltre ad essere difficile sopportare la forza attrattiva, l’asfissia da claustrofobia e la sete; col caldo, starsene chiuso lì dentro diveniva anche una terribile prova di tenacia psicologica.
Ma il Principe dei saiyan sapeva resistere, come aveva fatto Kakaroth del resto. Anzi, lui poteva spingersi oltre… Poteva superare il suo limite. Lo sentiva, c’era quasi vicino, mancava poco e pure lui sarebbe esploso nella rabbia – repressa ne aveva parecchia – raggiungendo quello stadio di forza e superiorità da poter occupare nuovamente il suo posto di Principe della razza guerriera più temeraria e temuta dell’intero universo.
Doveva solo trovare il detonatore della sua bomba ad orologeria, perché sì, la sua era una questione di tempo.

Durante gli allenamenti, gli capitava raramente di concedersi distrazioni reclinando l’attenzione verso ciò che non lo riguardava; pertanto, una vena brutta e pulsante comparì sulla sua fronte nel momento in cui avvertì la presenza di quello smidollato farsi molto vicina.
Lo smidollato era il babbeo che, nel suo primo atterraggio sulla Terra, aveva pateticamente tentato di contrastarlo insieme al resto dell’insulsa marmaglia.
Morto, se ricordava bene, con l’autodistruzione di un Saibaman. Roba da classico perdente, pensò.

Era da tempo che Vegeta non lo avvertiva così vicino. Ossia, ne aveva sempre continuato a percepire la penosa aura, come anche quella dell’odioso Kakaroth; ma per settimane sembrava che lo smidollato si fosse tenuto alla larga dalla Capsule Corporation.
Perché era lì, adesso? Che voleva?
E perché lui, il grande Vegeta, se lo stava chiedendo?
I nervi si contrassero, troppe domande.
Decise di tornare subito alla sue flessioni e per punirsi aumentò la gravità. Tuttavia, udendo un energico avanzare di tacchi passare sullo stretto sentiero asfaltato che attraversava il grande cortile – un regolare tap-tap, da centoventi battiti sul metronomo – s’accorse di qualcos’altro. In particolare Vegeta vide, e non riuscì a credere ai propri movimenti: s’avvicinò con inconsueto interesse ad uno degli oblò della navicella, per osservare meglio un paio di gambe snelle, belle, ed in vista sotto una gonna a righe. Le seguì camminare a fianco dello smidollato, montare su un'automobile e andare via.

D’improvviso, il Principe Vegeta provò l’inaspettato ed irrefrenabile impulso di strapparsi di dosso le bende che gli fasciavano la spalla.


 

Continua…

Note:

1. L’Atropa Belladonna è una pianta tossica da cui si può ricavare un ottimo veleno. Ma come ogni cosa cattiva ha anche i suoi lati utili, in questo caso usi (e qui la smetto, non è una lezione di botanica). Nell’intitolare il capitolo ho giocato col nome.
2. La mamma di Bulma ha il pallino per i dolci e qualsivoglia frivolezza. Ho sfruttato la “singolarità” e il suo continuo cadere dal pero. E naturalmente il suo debole per Vegeta.
3. Questa non è una nota descrittiva, ma voglio ringraziare chi ha recensito e chi ha scelto di seguire la mia Fan-fiction.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III - La scimmia guarda, la scimmia ruba. ***


 

Premessa, quando ci sono sorprese vi avviso: chi non ha voglia di leggere, prima di chiudere la pagina, può raggiungere il fondo di questa. Ma, ad ogni modo, per capire cosa significa quel che ho disegnato vi consiglio di leggere.


 

Standby

Capitolo III – La scimmia guarda, la scimmia ruba.


 

Una giornata iniziata con una brutta piega non poteva che continuare ad accartocciarsi sempre più, diventando angusta ed estenuante.

Entrare in un puzzolente fast food risultò essere una piacevole ma purtroppo breve liberazione, per la sfortunata Bulma. Interessata non al suo uomo ma costretta ad intrattenerlo.
Trascorrere l’intera mattinata girovagando tra le strade del centro di West City, al fianco della persona che più era d’intralcio alla sua esistenza, era stato insostenibile; atroce nel sentirsi obbligata a stringergli il braccio per ricevere un po’ di calore e non morire d’ipotermia acuta a causa del clima artico che stava paralizzando la città. E cristallizzando la sua magra silhouette.
Incontrare la prima bettola svendi carne marcia, fritti in plastica e liquidi da disfunzione pancreatica, le era parso come avvistare un’oasi nel deserto: ottima per scaldarsi, calmare lo stomaco e soprattutto per tenere la bocca impegnata, dialogando il meno possibile con Yamcha.
Da quando avevano messo il naso fuori casa lo spilungone aveva mostrato nervi a fior di pelle, farfugliava cose incomprensibili ed era scosso da un’agitazione pronta a farlo scoppiare in un qualunque momento.
Ammutolirsi, secondo la scienziata, era l’unico modo per non urtare quella scatola di turbamento, fragile e non adeguatamente imballata, che il suo ragazzo si stava trascinando pericolosamente dietro.
Ingoiare schifezze e respirare lezzi nauseabondi erano tariffe accettabili, pur d’evitare una rovinosa collisione con essa.

Ma il momento di scampo durò poco: finito di rifocillarsi, i due abbandonarono la calda e maleodorante oasi, proseguendo la traversata in macchina.

Dove iniziarono i guai.


Yamcha adorava i motori, ricalcava perfettamente il cliché del maschio terrestre, e anziché avere un’autovolante d’ultima generazione preferiva possedere un’automobile: una due posti sportiva, con un telaio rosso fiammante, adatta per non passare inosservati. 
Questa quattro ruote gli permetteva di gustarsi meglio la strada: ascoltare l'auto chiamare le marce, impugnare il cambio scalando dolcemente per soddisfarla; tenere il piede, spingendolo leggermente sul pedale dell’acceleratore, era come appagare i desideri d’una donna vogliosa... e a lui il sesso piaceva.
Guidare era altresì una valvola di sfogo per lo stress: lo rasserenava trasmettendogli superiorità e controllo, quello che, in quel momento, sentiva assolutamente mancargli. Aveva bisogno di correre, ad alta velocità, sempre di più.

A Bulma capitava spesso d’assistere alle perdite di testa del ragazzo, era abituata alle sue corse pazze, e sopportava. Talvolta, d’estate, sfrecciare con la capote abbassata sentendo il sole torrido sulla testa e un rinfrescante vento fra i capelli, le risultava addirittura piacevole. Ma non in quel momento, senza caldo né sole, e quando si rendeva conto di amarlo sempre meno vedendolo muoversi da idrofobo e accorgendosi che per lui fermarsi ai semafori rossi cominciava ad essere facoltativo.
Un topo in trappola senza via di fuga: era la sensazione abbreviata che la scienziata percepiva all’interno del piccolo abitacolo dell’auto.
La scatola fragile era pronta a ribaltarsi per travolgerla; ne avvertiva l’imminente pericolo. Non si sbagliava.


Chi c’era seduto accanto a lui? O meglio ancora, in cosa si era trasformato?
Quesiti che, incessantemente, grattugiavano i nervi di un Yamcha disperso.

Solo biscotti.

Convinzione scarna a cui il ragazzo s’aggrappava per non sprofondare nella buia voragine della sua cieca gelosia.
Bulma, la sua Bulma, non era più la stessa persona d’una ventina di giorni prima. Tempo passato dal loro ultimo incontro.
Da logorroica brevettata che era, ora lei stava chiacchierando quanto una mummia e i suoi occhi prendevano tutte le possibili traiettorie tranne quella giusta per guardarlo. Anomalia che, sommata a quanto già era accaduto e aveva scoperto, acuiva ancor più i dubbi sulla fedeltà certa – forse non più così certa – della sua fidanzata.
Quel silenzio perpetuo lo stava davvero infuriando.
«Dove vogliamo andare, adesso?»
Le si rivolse con tono acido, desiderava visceralmente romperle il guscio muto in cui s’era rannicchiata e domandarle che cosa le stesse accadendo.
Bulma quasi si spaventò. Non voleva rispondergli, d’istinto gli avrebbe detto di fermare l’auto e di lasciarla in un qualsiasi posto ma, attualmente, stava tentando di dominare gli impulsi. Per i suoi standard, avevano combinato già abbastanza e aggravare le proprie condizioni era da evitare.

Quel che Bulma non voleva, oltre le domande indiscrete, era una lite con lui; ed intimorita dalla guida spericolata, con l’analogo temperamento esagitato, la scienziata continuava a tacere raggomitolata in una recalcitrante reticenza.
Sempre per avere meno contatti, restava avvolta nel cappotto nonostante i riscaldamenti dell’automobile accesi, che pompavano calore ed appannavano i finestrini. Non voleva spogliarsi, avere tanti strati di tessuto addosso corrispondeva a stargli più lontana, ad essere maggiormente protetta dalla scatola fragile.
Possibile che un vassoio lasciato cadere – ammesso che si fosse accorto del gesto – lo turbasse a tal punto?
Quel che Bulma non immaginava era il pasticcio che le aveva combinato la mamma.
Più lei rimaneva zitta più lui s’arrabbiava, lasciando crescere la tensione con una forza direttamente proporzionale.


«Apposta… per Quello … per Quello.»

Fu un sussurro, ma lei lo sentì nitidamente.
Si girò verso di lui e notò che muoveva le labbra mormorando parole ora indecifrabili.
Fare un collegamento con quanto aveva ciancicato fu semplice.

Ce l’ha con me, ovvio… Però,“quello”…
A chi si riferiva?
Non avrà mica... Impossibile!


Magari, l’unica cosa ovvia, è la tua paranoia. Ti fai suggestionare troppo dai sensi di colpa.

Ecco, continuava a piacerle sempre meno: sperò fosse una sua impressione, ma lui stava stritolando il volante dell’auto. Lo stringeva talmente forte che le mani, tese, erano diventate bianche nel punto in cui afferravano lo sterzo. E aveva le braccia scosse da strani tremolii.
Contemporaneamente, davanti a loro, comparì una brutta curva a gomito. Yamcha, nel vederla, non rallentò: gli andò contro con un tachimetro dalla lancetta pericolosamente pendente verso destra.
Sì, Bulma voleva scendere subito.
Controllò di aver allacciato bene la cintura di sicurezza, preparandosi allo schianto, poi chiuse gli occhi in attesa di sentirsi lacerare dalle lamiere e dal parabrezza che sarebbe andato in pezzi.
Brutta fine per una dea come lei.

Vegeta, avrei voluto trascorrere più tempo con te, non stancarti troppo. Addio.

Ma non accadde nulla. Lo spilungone scapestrato riuscì a dominare l’auto: diminuì la velocità appena prima di svoltare, e ripartì dando nuovamente parecchio gas.

«Yamcha potresti calmarti? Stai… stai andando troppo veloce.»
Non riuscì a trattenersi dall’ammonirlo; per un attimo s’era vista nei necrologi del giorno successivo.
«Calmarmi?! E perché, sono forse agitato? Guarda che se non ti piace il giretto puoi dirmelo. Puoi dirmi dove vorresti andare, da chi vorresti che ti portassi... e a chi stai pensando, quello… vorrei saperlo.»
Spinto da un’altra ondata di rabbia fece un sorpasso invadendo la corsia opposta, sfiorando di poco un frontale con un veicolo proveniente dall’altro senso di marcia; provocando alla sua ragazza l’ennesimo infarto.
Bulma l’aveva sentito biascicare ancora, ed anche se non era riuscita a comprendere bene quel che aveva detto, ormai era andata: pronta ad essere travolta, la scatola s’era aperta e non le restava che rassegnarsi. Con quell’andatura un incidente era inevitabile.


No, cara! Prima che si apra sul serio la tua di testa, spargendo ovunque il suo contenuto con un QI favoloso, tenta di calmarlo! Ne va della tua vita.

Sfracellarsi con un’auto per delle piccole incomprensioni, effettivamente, era da stupidi. Lei era intelligente invece.

«Per me un posto vale l’altro»
Esordì, fredda, gelida come il tempo che tirava, doveva stare attenta e mostrare maggiore entusiasmo se voleva render credibile la farsa a cui stava dando adito.
Lo spilungone, piuttosto, fremeva dal bloccarla in un angolo per farle il quarto grado. Tuttavia, non voleva cedere alla gelosia, non voleva credere al quadro che gli si era palesato sotto gli occhi.
Era la sua donna, poteva fidarsi di lei e quelli erano…
Solo biscotti.
Aumentare la velocità risultava indispensabile.

«Portami… Portami in un luogo speciale»

Glielo chiese con una voce tremula, da supplica, non le parve sua.
Il ragazzo finalmente arrestò l’auto, frenando bruscamente e rischiando un tamponamento a catena.
Una richiesta inaspettata, la osservò pensieroso. Stava riflettendo su quanta sincerità potesse esserci, giacché s’era mostrata tanto scostante a stare con lui.
Gli venne un lampo: forse poteva riassumere il controllo della situazione, l’autorità sulla sua Bulma che sembrava aver smarrito. Al pensiero increspò un sorriso più simile ad un ghigno.
Decise d’accontentarla.

Bulma lo vide quietarsi e tirò su un bel respiro. Aveva fatto centro, evitando un inutile spreco di vite, soprattutto della propria.
Poi però, si sentì afferrare la mano sinistra – quella con le unghie che aveva precedentemente conficcato nel sedile per tenersi meglio al momento dell’impatto – Yamcha l’avvicinò alle labbra per stamparci sopra un flebile bacio.
Questo la riportò nuovamente a cavalcare le increspate onde del disagio, dove non c’erano appigli a cui sorreggersi.


 

  ~ ~ ~



In mezzo alla moltitudine disordinata di strade intasate dal traffico, piene dei fumi tossici dello smog, accecate dalle tante luci psichedeliche e sovrastate dagli enormi grattacieli che s’innalzavano a perdita d’occhio; solo un posto poteva essere considerato unico, speciale a loro: era un misero luna-park ai margini della metropoli dell’ovest, vicino alla provinciale Nicky Town. Luogo dove avevano trascorso il loro primo appuntamento da fidanzati.
Yamcha ancora ricordava quando, con estrema facilità, era riuscito a vincere per lei un anellino al tiro a segno, uno di quelli da bigiotteria con le pietruzze colorate; non era prezioso, lei poteva permettersi una valanga di gioielli tale che a lui non sarebbero bastate nemmeno sei vite di duro lavoro per poterglieli comperare, però, ella lo aveva accettato lo stesso come fosse stato un tesoro.
Lo spilungone riusciva a ricordare persino il visetto da ragazzina felice col sorriso radioso che lei gli aveva mostrato.
Sì, lì poteva metterla alla prova, verificare se era la Bulma di sempre, accertandosi che quello a cui stava assistendo era solo una delle sue solite crisi lunatiche e che presto gli avrebbe tirato un orecchio per sgridarlo ed ordinargli di guardare unicamente lei.
Quel luna-park era perfetto anche per darle quello che voleva darle; a momenti non gli dispiaceva più per come si era comportata.
Farlo in un posto simbolico come quello l’avrebbe fatta sicuramente capitolare e tornare fra le sue braccia.



S’era letteralmente scavata la fossa, la zappa le era arrivata dritta sui piedi.
Nemmeno ci aveva pensato all’eventualità che potesse portarla in quel vecchio luogo, credeva che lui l’avesse cestinato dalla memoria.
Erano anni che non ci andavano, e le diceva male: nonostante la stagione invernale il luna-park stava aperto, e c’era pure parecchia gente. Per la maggior parte erano coppiette d’adolescenti in amore, persi a passeggiare nel parco o seduti a scambiarsi leziosità sulle panchine. Vedendoli, Bulma provò a rispecchiarsi in essi ma non si riconobbe in nessuno di loro: i tempi della spensieratezza giovanile erano finiti. A questo Yamcha non c’era arrivato.

Nulla era cambiato: le giostre stavano tutte al loro posto, erano solo poco più arrugginite. C’erano ancora la ruota panoramica e la pesca dei pesci dove lei non era mai riuscita a vincere – possedeva una mira da far invidia ad un tiratore di coriandoli – e le file di bancarelle dove le piaceva curiosare. Pure il chiosco dei gelati, ora circondato da una scolaresca affamata che stava strafogandosi di crèpes calde, certamente più adatte al clima.

Ogni cosa era rimasta così come la ricordava.
E i ricordi la trascinavano indietro. Portandola davanti alla realtà.

Questo è il tuo uomo, quello che ami e conosci da una vita. Guardalo!

Amore.
Vita.
Tempo.
E ricordi.
Non sapeva che farsene dei ricordi, appartenevano ad un tramontato passato. Loro non erano più gli stessi, qualcosa s’era incrinato, annebbiato; forse era semplicemente lei ad essere cambiata, a sentirsi più matura.


Vegeta…
Ti stai ancora straziando, vero? 
Perché per un attimo non ti fermi a…


«Ti fa piacere essere qui?»
La sberla per farla tornare in sé, coi piedi a terra.
«Sì, molto, non credevo te ne ricordassi.»
Gli rispose entusiasta, celando abilmente la nausea che sentiva dentro: nell’aria c’era un odore dolciastro di zucchero filato, simile a quello dei dolci fatti da sua madre – i pasticcini dannati che l’avevano incastrata nella scomoda situazione che stava patendo – quel profumo le stava dando il voltastomaco.
«Come potrei dimenticare, a te era piaciuto molto venire in questo posto»
Disse lui. E borioso le catturò una mano per tirarla a sé e passeggiare insieme, come avevano fatto prima di raggiungere il fast food.
Bulma non poté sottrarsi: faceva troppo freddo, sentire calore era gradevole, l’unica cosa gradevole.
Camminando, i due capitarono di fronte al famoso tiro a segno ed il ragazzo decise di ripetere l’impresa.

Ecco il punto: Yamcha è infantile.
Ma tu reggigli il gioco, fagli vedere quanto sei contenta di essere qui con lui dopo giorni di lontananza.
Convinciti che lo ami.


«Ehi, mi farebbe piacere se riuscissi a vincere per me, come quella volta!»
Per incantarlo meglio s’era aggrappata ancor di più al suo braccio, mettendo su un viso di barbie: sorriso largo, immobile, con ciglia sfarfallanti e occhi sognanti. Un’arma impeccabile.

«Quant’è un giro?»
Domandò Yamcha, rivolgendosi all’uomo anziano e panciuto seduto dall’altra parte del bancone, accanto ad una calda stufetta, completamente immerso nella lettura del quotidiano che stringeva tra le mani.
La risposta non arrivò. Anche quell'uomo s’era arrugginito con l'intero luna-park ed era diventato più duro d’orecchi rispetto a come lo ricordavano entrambi i ragazzi.
Bulma, nel frattempo, incatenata alla presa dello spilungone, cercava con tutte le forze di non dar a vedere l’insofferenza che sembrava volesse farla esplodere: a lui, adesso, stava sudando la mano nonostante la bassa temperatura. Il ribrezzo era enorme, si sentiva appiccicosa. Voleva tornare a casa e farsi immediatamente una doccia, faticava pure dal trattenersi di battere i tacchi sul terreno coperto di ghiaia e sprofondare – il vento gelido l’aveva resa un brivido – ma di ammaccare le sue scarpe non le andava.


A quando la fine di questa ingiusta sofferenza?

Non girare la frittata! La colpa è tua che te ne vai in giro scosciata. Ed è sempre tua che hai scelto di fare la matta per stare appresso ad uno schizzato come Vegeta.


«Senta, vorrei sapere quanto devo pagare per un tentativo.»
Niente, era sordo.
Andiamo via, andiamo via, andiamo via!
«Scusi, sto parlando con lei! Ma ci sente oppure no?!»
L’uomo d’improvviso sussultò, forse Yamcha aveva alzato un po’ troppo la voce ma stava cominciando a stancarsi.
L’anziano s’alzò, avvicinandosi a loro con fare ridicolo, sembrava muoversi come un pinguino, staccò dalla parete laterale del chiosco un piccolo manifesto e lo pose senza gentilezza sotto i loro occhi.
«È tutto scritto qui, ma dico: voi ragazzi non sapete leggere!»
Il vecchietto aveva un alito pestilenziale, puzzava di vino della peggior qualità. Yamcha indietreggiò di un passo.
«Ah… Non me ne ero accorto.»
Si difese con garbo per evitare un inutile litigio e non sentire ancora quel fetore uscire dalla bocca ingiallita del vecchio.
«Quanto sganci?»
Lo esortò scortesemente il pinguino panciuto, che sembrava non vedesse l’ora di tornare a farsi i fatti suoi. E magari di farsi qualche altro goccetto con il benestare del fegato.
«Faccio un tentativo, le pago venti zeny e può tenersi il resto.»
L’ometto paffuto lo guardò un po’ scettico, aggiungendo un impercettibile sbuffo d’incredulità, poi prese la pistola da sotto il bancone e gliela diede. Era già carica. Alla scienziata rotearono gli occhi su quell'arma soft air e ricordò la sua pistola, quella che s’era portata lungo il viaggio alla ricerca delle Sfere del Drago, la stessa che aveva usato invano contro il piccolo Son Goku il giorno del loro primo incontro; l’evento che le aveva cambiato per sempre la vita.
Dopo quell’episodio l’aveva messa da parte: non serviva a nulla possedere un ferro ammazzagente, quando vicino aveva un’invincibile guardia del corpo. Le mancavano quei tempi, lei e Goku in giro per il mondo, quando tutto era più semplice.


Ma quale tirassegno, io il tentativo lo farei mettendo un solo proiettile nel tamburo e puntandomi la pistola alla testa! 
Dove l’avrò mai messa la mia- 
Frena, la tua è un’automatica. Niente tamburo, niente giochino. E tra l'altro sei talmente fifona che non ne avresti il coraggio.

La vocina sapeva in ogni momento e in ogni modo come rimbrottarla da smontarla in tanti minuscoli pezzettini, difficili da rimettere insieme. A volte, non riusciva a capire se stesse dalla sua parte o meno.
Il ragazzo lasciò la mano di Bulma – provocandole una silenziosa esultanza – per impugnare la pistola e dare il meglio della sua puerilità.

C’erano una ventina di dischi col mirino posti in una sequenza a forma di piramide. Yamcha ovviamente li prese uno dopo l’altro, colpendo il centro di ognuno.
«Beccati!»
Il sordo matusa sgranò gli occhi dallo stupore.
«Complimenti ragazzo, che mira!»
«Visto tesoro, ho vinto!»
Disse Yamcha. Mentre a Bulma cominciava a far male sorridere.
«Allora, hai diritto a un premio. E siccome hai centrato tutti i bersagli, puoi prendere quello che vuoi.»
Annunciò il pinguino ubriacone rimasto sbalordito dalla performance di Yamcha.
Purtroppo, quel chiosco malandato era pieno di chincaglieria e non c’era molto da scegliere, l’unica cosetta che spiccava era una scimmietta peluche dal muso simpatico e con gli occhietti vispi. Ma gli faceva impressione: sembrava troppo reale. Era molto inquietante e lo infastidiva.

No, non l’avrebbe scelta.
Si voltò per chiedere direttamente a Bulma cosa desiderasse e quello che vide non gli piacque: la ragazza stava fissando esattamente la scimmietta. Pareva ipnotizzata, come se ci fosse un filo invisibile ad unirla al peluche.
«Voglio quella!»
Disse sicura di sé, lo scimmiottino le ricordava tanto Goku da bambino... e anche qualcos’altro.
Yamcha non fece in tempo a controbattere che il nonno prese la brutta scimmia dandola subito a Bulma; lei la strinse forte tra le braccia saggiandone la morbidezza.

Ah, è sordo quando gli fa comodo!
Pensò il ragazzo.

«Yamcha sei stato formidabile, più bravo di quella volta! Mi piace tantissimo questo peluche!»

Faceva tutto parte del copione, un copione ripetitivo ad orecchie attente; però il peluche le piaceva sul serio.
Lo spilungone non poté far a meno di ricambiare lo sguardo felice della sua fidanzata, anche se, vederla così attaccata a quella cosa pelosa, lo disgustava.
Salutarono entrambi l’uomo pinguino, lasciandolo alla lettura e alla bottiglia di vino tenuta nascosta sotto il bancone.


 

 

  ~ ~ ~



La gelosia aveva un rancido sapore, quello che sentiva invadergli la bocca.

Sei fissato, è solo un innocuo pupazzo, non quello scimmione assassino ladro di donne altrui.
Ed hai visto come ti ha sorriso Bulma, era sincera, ti ha anche detto “come quella volta” quindi se ne ricorda ancora.
Ti ama.

Auto-persuasione. Dicevano funzionasse, ma Yamcha ci stava provando con scarsi risultati.
Secondo i suoi gusti, Bulma teneva la scimmietta cattiva troppo attaccata al seno.
Comunque, lui aveva ancora il vero asso nella manica. Precisamente nella tasca.
Recuperò la mano di Bulma per porgerle una scatolina rotonda di piccole dimensioni. L’aveva tenuta nascosta fino ad allora con la smania di dargliela nel momento appropriato... che era arrivato: un altro pochetto, ed era sicuro che avrebbe visto la scimmia limonare con la sua donna.
Meglio sfoderare l’arma segreta, anziché strapparle violentemente dalle mani il maligno peluche.
«Aprila. È un regalo.»
La scienziata non sapeva come reagire, era rimasta spiazzata. La forma di quel cofanetto era inequivocabile, dentro doveva esserci sicuramente un gioiello.
Il morale le crollò in frantumi: s’era convinta di poterla scampare con un po’ di recitazione e farlo fesso e contento, invece lui l’aveva fregata.
L’aprì con coraggio e trovò uno degli anelli più belli che avesse mai visto: uno zaffiro attorniato da diamanti incastonati nell’oro.


Regalino? ... Qui c’è sottinteso un chiarissimo messaggio, una richiesta, un come ai vecchi tempi” o “siamo ancora gli stessi e potremmo essere di più”!


L’ultima delle opzioni l’angustiò terribilmente.
«Ti piace? Se ricordi il primo anello che ti regalai lo vinsi proprio qui.»
Aveva speso un patrimonio per fare bella figura, si immaginò Bulma.

Una scimmia finta da quattro soldi non può competere con questo, ho vinto io. 

Sempre l’auto-persuasione. E stavolta cominciava a funzionare.

Gola secca, non c’era più saliva, e mente completamente svuotata da batterci le mani dentro e sentirne l’eco.
Yamcha non le aveva mai regalato nulla di così prezioso in tanti anni di fidanzamento – certo, prima non possedeva un soldo bucato – e sicuramente doveva essergli costato parecchi sacrifici acquistarlo.
Si sentiva un’infame ingrata a non amarlo.
Hai toccato il fondo cara, non puoi rifiutarlo.
Perché proprio adesso se ne usciva con qualcosa adatto a… suggellare un’unione?!

Le cose accadono sempre al momento sbagliato.
«Yamcha è… Bellissimo! Sono senza parole.»
Esattamente senza amore, dovresti dirglielo.
«Ma non dovevi, chissà quanto ti sarà costato. Io… ti ringrazio! Il tuo è stato davvero un gesto adorabile.»
Oh sì, adorabile come il morso di un cagnolino malato di rabbia.
«Farei tutto per te, Bulma.»
Davvero… Anche sparire? Lo puoi fare questo?


Il ragazzo prese l’anello tra pollice ed indice per metterlo personalmente all’anulare sinistro di Bulma, in un gesto che sfiorava
inquietantemente l’apice d’un matrimonio, il loro.

Lei scacciò via l’incubo a spintoni.
Sperò che non le entrasse in nessun dito.
Sfortunatamente scivolava benissimo che quasi le stava largo.

Ridi, continua a ridere e respira profondamente, crederà che ti stai emozionando. Così, brava.

Ormai, sentiva il premio come migliore attrice avvicinarsi tra gli scroscianti applausi della sua immaginaria platea. Un premio meritato.
Aveva vinto: quella era la sua Bulma, la “timida” e solare ragazza di sempre, innamorata unicamente di lui.
«Mi ami?»
Lo sapeva, lo sapeva, se l’era architettata.
Che faccio?
Rispondigli, che altro? Digli quello che vuole sentirsi dire.
«Certo, che mi domandi?»
«Dimmelo»
Voleva farla morire?
«Sono innamorata, lo sono. Dai, smettila che mi vergogno, lo sai.»
Innamorata sì, eccome, di Vegeta!
Yamcha non insistette, s’accontentò per il momento, adagiandosi tra gli allori della sua convinta gloria.
Con quell’anello l’aveva riconquistata, ne era sicuro.
«Andiamo a farci un giro lassù, ti va?»
Le indicò la ruota panoramica, sapeva che le piaceva salirci, e s’avviarono mano nella mano... o meglio: mano in una mano impasticciata di sudore.



Sì, decisamente, questa era la sua Bulma: col dolce profilo, gli occhi grandi e celesti, le mani piccole e sempre fredde, la pelle morbida e odorosa di caramella…Già, la stessa ragazza conosciuta più di dieci anni prima.
Baciandola, capì d’aver commesso un madornale errore a dubitare di lei. Mai prima d’ora s’era reso conto di quanto la desiderasse. Era unicamente sua, non l’avrebbe mai lasciata andare, mai l’avrebbe fatto.

Solo biscotti, nient’altro.


Orribile, disgustoso, estraneo.
Il contatto con Yamcha era insopportabile; violento nel sentire quella sua mano umida carezzarle le cosce; nonostante Bulma indossasse le calze, il sudore filtrava attraverso di esse lasciando fastidiose tracce di bagnato.
Resistere ed aspettare, unica difesa a sua disposizione.
Io non volevo.
Sporca dentro, addosso, dappertutto.
Non poteva ribellarsi. Era uscita con lui per rimediare, distrarlo, invece le cose erano andate a complicarsi maggiormente. Perfino un anello che non aveva potuto rifiutare e che la faceva sentire ancor più ingabbiata.
S’era rivelata una pessima trovata uscire con lui, un’idea a doppio taglio.
La salvò dall’urlare la fine del giro panoramico: con sommo sforzo si era lasciata baciare e accarezzare; e Yamcha aveva indugiato molto giocando con l'orlo della sua gonna, per farle intendere che desiderava sfiorarla più a fondo.
Quando lo vorrà sul serio cosa farai? Te ne starai zitta a lasciarti fare quello che vuole?
Doveva assolutamente farsi forza e confessare.
Yamcha, io non ti amo più. Lasciamoci.
Conciso, semplice e chiaro. Ma le mancava il coraggio.
Diglielo!


 

Continua…

Note:

1. Nicky Town è una cittadina che si trova nelle vicinanze della città dell’ovest e di Ginger Town. Fa la sua comparsa durante la saga di Cell, quando il mostro era impegnato nel suo “ciuccia energia” e quindi andava a servirsi da quelle parti. Nel manga Nicky Town non c’è, viene solo nominata una certa“città della zona 48”… Ma tanto, a qualcuno interessa?
2. A Yamcha piacciono i motori, la puntata “festa a casa di Bulma” ne dà prova, ma è prettamente per mio comodo narrativo che ho scelto di appioppargli la fissa delle quattro ruote.
3. Questo è uno dei capitoli che odio, però ha la sua modesta importanza: dovevo mettere in risalto alcuni dei difettucci dello smidollato. Almeno spero che a voi sia piaciuto.
4. Altro disegno per voi. Sì, quello è Yamcha. Ah, vedete come sono alti i tacchi di Bulma? Ditemi se non ha ragione di lamentarsi.
5. Della serie facciamoci i fatti nostri: chiedo venia per il ritardo nei confronti di chi mi stava aspettando(l’elaborazione grafica mi ha rubato un po’ di tempo). E ringrazio chi ancora ha voglia di seguirmi, e chi si è appena aggiunto!

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Dementia: è un’emorragia. ***


 

Qualcuno ci ha fatto il callo:prima si legge dopo si guarda il disegno a fine pagina, fate i bravi.


 

Standby

Capitolo IV – Dementia: è un'emorragia.


 

La metropoli dell’ovest, un ammasso ribelle d’umanità e infrastrutture in costante riproduzione, era stata inghiottita dalla cupa e deprimente oscurità invernale che, per quella sera, non aveva lasciato posto alle stelle.
I plumbei cumulonembi che avevano occultato il sole durante l’arco della giornata – dando però poca impressione d’essere minacciosi – stavano ora lanciando lampi e tuonavano catturando l’attenzione di pochi tra gli indifferenti abitanti di West City; annunciando loro l’incombere d’una notte burrascosa.
Il vento, anch’esso presente sin dal mattino, s’era alzato più forte arruffando una città già disordinata: alberi dai rami irti e spogli – simili alle secche e nodose dita d’una vecchia strega – ne erano scossi e tremavano; e i lampioni, che a ogni raffica oscillavano pericolosamente, ad intermittenza illuminavano le strade.
E mucchi di cartacce s’innalzavano in una danza scoordinata.


Piazzato davanti al finestrone che dava sull’ampia terrazza ovoidale della Capsule Corporation, c’era il signor Brief, rapito a contemplare gli spettacolari e tempestosi cambiamenti della natura.
In mano, teneva una fumante tazza di caffè bollente che non stava bevendo.
«Moglie, Bulma e Yamcha sono tornati?»
Domandò, richiamando l’attenzione della moglie immersa a sfogliare alcuni di quei giornali patinati dove la bellezza veniva osannata come unico credo femminile.
Parlandole, parte della cenere attaccata al mozzicone d’una Marlboro abbandonata a consumarsi fra le sue labbra cadde sgretolandosi sulla testa del malcapitato gattino nero che, da buon felino domestico, era preso a lavorarsi con fusa e miagolii la gamba del suo distratto padrone.
Il povero micio miagolò forte, invocando lo sguardo dello scienziato, il quale, lentamente, si chinò a togliergli dal capo i resti di carta e tabacco carbonizzati; per poi caricarselo in spalla dove al gattino piaceva stare.
«No, non ancora, come mai ti preoccupi?»
Rispose spensierata al consorte.
«Credo stia arrivando un brutto temporale, be' – diede uno sguardo al suo orologio da polso – mancano tre quarti d’ora alle venti, sicuramente saranno qui a breve»
Concluse fiducioso, e appoggiò la tazza sul davanzale accanto al finestrone, per avere le mani libere e spegnere la cicca affumicata in un posacenere tascabile.
«Caspita, com’è tardi! Meno male che me l’hai detto, vado subito a vedere cosa posso cucinare stasera»
La donna lasciò cadere co’ noncuranza le riviste contenenti bugie accuratamente impaginate
, e si precipitò in cucina.
«Sì, è tardi.»
Concordò l’uomo, restringendo il proprio campo visivo per concentrarsi su qualcosa di suggestivo e terribile tanto quanto l’imminente tempesta; su un essere che se ne stava confinato nel piccolo shuttle a forma di sfera da lui stesso costruito.
«Accidenti, quel Vegeta oggi non s’è fermato un minuto! Proprio non lo capisco, sforzarsi fino all’esaurimento… Bah!»
«Lo fa per conquistare il cuore di Bulma!»
Civettò prontamente e ad alta voce la sua compagna, chiudendo il frigo con una spinta dei fianchi. Aveva tirato fuori chili di carne.
«Ne sei sicura, moglie? Io so che vuole diventare ad ogni costo un Super Saiyan»
Asserì scettico l’uomo.
«Sì, vero, ma secondo me vuole dimostrarle quant’è potente e quanto sia migliore degli altri. Personalmente, lo trovo irresistibile!»
Tagliuzzare erbe aromatiche spettegolando al contempo era un dilettevole connubio per la mamma della scienziata. Le sue impressioni, oltremodo rosee, erano lontane; ma solo dalla realtà effettiva.
«Ah, voi donne sembrate sempre conoscere il nocciolo della questione. Almeno spero sospenda per cenare, si sta prolungando eccessivamente.»
Ed apprensivo, lo scienziato guardò ancora la navicella spaziale: vibrava come se dentro vi fosse imprigionato un demone dell’inferno.

 

 

~ ~ ~

 

Da osservare fuori dal finestrino non v’era alcunché, a parte le serpeggianti e luminose colonne di traffico che avevano paralizzato la maggior parte delle arterie principali della città. Ma Bulma Brief, geniale ed affascinante donna, proprietaria di qualsivoglia stravaganza tecnologica avente motore e circuiti elettronici, rimasta imbottigliata in quelle scie di ferraglia succhia benzina che a stento proseguivano una lenta marcia a passo d’uomo, s’ostinava a fissare con finto interesse un punto impreciso del caos in cui era immersa – sia concretamente che figurativamente – nel tentativo di non imprecare per aver scordato l’astuccio delle capsule Hoipoi a casa, con dentro il suo comodo e velocissimo elicottero 87.
Rassegnata, avvilita e un po’ triste.
A guidare la gabbia che la tratteneva era l’ancora fidanzato, nonché carceriere ignaro di sentimenti fasulli andati a male.
Poteva dirlo: la sindrome di chi si innamorava del proprio aguzzino non era altro che una sciocchezza per teenager sdolcinate. Lei tutto sentiva fuorché l’amore nei confronti del suo carceriere, l’unico che tra i due aveva recuperato la pace. Lo invidiava.
Stava rientrando alla Capsule C. peggio di come ne era uscita, con l’anello al dito: un cerchio d’oro spesso qualche millimetro che poteva essere meglio equiparato ad un cappio, ad una corda filacciosa stretta attorno al suo collo niveo e che Yamcha strattonava ad intermittenza. Lei, per non morirci impiccata, si trovava costretta a stargli incollata.
Tremava al pensiero di rivedere Vegeta. Con lo spilungone tra i piedi doveva tenersi a distanza dal saiyan, sforzarsi pure di non sfiorarlo con gli occhi, se non voleva destare nuovi sospetti.

La sai questa? Il primo posto in vetta alla montagna dei codardi l’hai occupato proprio tu.

Fosse stata una persona a parlarle si sarebbe tappata le orecchie, purtroppo il sermone le partiva in autonomo dentro la testa.
O lasci la scimmia o scalzi via lui. Basta che ti spicci, non ne possiamo più.
Era l’aguzzino quello da mollare, non il torvo. Anche se…
Non posso! Sarebbe una grossa cattiveria, ho detto di amarlo e... Quest’anello- 
No! Il male lo stai facendo ora, e dovresti saperlo: non si dicono le bugie!

Impazzire, altrimenti confessare… questo era il dramma.
Di sciuparsi l’intelligenza in noiose congetture non le andava.
«Yamcha…»
Disse, titubante, come se avesse dovuto intrattenere un discorso per sedare una folla di rivoltosi, col rischio di beccarsi qualche pallottola; e nel caso, forse, non le sarebbe dispiaciuto.
Quando lui si girò dandole attenzione, Bulma strinse più forte lo scimmiottino che teneva appoggiato al ventre.
«Devo parlarti»
Valutò rapidamente le varie possibilità che aveva di svignarsela a piedi tra le auto, casomai lo spilungone perdesse il controllo: reazione dall’alta percentuale di probabilità. Non era il momento azzeccato per dichiararsi ma... meglio essere rincorsa in mezzo al traffico che precipitare da una ruota panoramica.
«Dimmi, tesoro»
Il ragazzo usò una voce talmente melliflua, Bulma sentì il bisogno d’iniettarsi una dose d’insulina.
S’umettò le labbra per far scivolare meglio la confessione.
«Io… »
Quando le sembrò d’aver preso la giusta quantità di coraggio, con le parole pronte sulla rampa di lancio, una suoneria assurda partì a disfarle l’esibizione: era il cellulare di Yamcha. Lui non tardò a rispondere.
Il ragazzo cambiò marcia passando in seconda con la mano destra e con la sinistra prese il telefono dal taschino del giubbotto. L’auto avanzò di pochi metri. Grazie al traffico niente più corse spericolate.
Appena accettata la chiamata, Yamcha deglutì. Lo fece ripetutamente.
Assorta nel proprio fallimento, Bulma non ci fece caso: aveva interamente perso l’iniziativa di porre fine al suo deprecabile istrionismo.
«Sì, sono io… Veramente?! E quando?… Certo che sono pronto! Può contare su di me, ci sarò senz’altro… Ok, allora ci risentiamo… La ringrazio.»
La conversazione con l’ignoto interlocutore durò poco, ma bastò ad irrorare orrendamente di sudore la fronte dello spilungone.
«Era il mio coach»
Se ne uscì lui, senza che lei gli avesse chiesto nulla, dimenticando completamente quel che la sua fidanzata stava tentando di dirgli poco prima.
«Ricordi il tipo bassetto e grassottello? Quello occhialuto, con i baffi»
Voleva giocare a indovina chi, per caso?
Bulma non lo seguiva, aveva mente e bulbi oculari, con iride del medesimo colore dei capelli, rivolti al traffico. A quel po’ che riusciva ad intravedere dai finestrini che s’erano appannati. Anziché gabbia, bisognava chiamarla sauna.
«L’hai conosciuto alla mia prima partita di baseball, contro Ginger Town, quattro o cinque anni fa.»
L'aguzzino stava proseguendo tranquillo in un convinto monologo. Era così ebbro di sé da sbiadire fino a far scomparire tutto quel che lo circondava, compresa la sua preziosissima Bulma.
«Insomma, la stagione inizierà tra poco e vorrebbe formare una buona squadra per vincere il campionato… Quindi mi ha proposto di giocare come titolare»
Lei fece orecchie da mercante. Con quell’andamento di limacce, raggiungere casa stava diventando un’impresa.
Nell’attesa, non potendo guardare nulla dalla sua parte, ora completamente appannata – di girarsi verso l’aguzzino non se ne parlava – Bulma era passata a torturarsi con un laccio che penzolava dal cappuccio del suo cappotto: se lo arrotolava stretto attorno all’indice, bloccando la circolazione tanto da far diventare la punta del dito violacea.
«Lo so, t’avevo promesso che sarei stato con te… »
Altro silenzio. Lui credeva che lei fosse già su di giri.
«Però capisci, è un’occasione d’oro che non posso rifiutare, dovrò trasferirmi… Bulma, ma mi stai ascoltando?!»
Certo che lo ascoltava, adesso!

Sì, un’occasione d’oro… Per me.

Aveva preso la giusta frequenza, era tutta orecchi, pendeva dalle labbra del fidanzato ed aveva capito. Benissimo.
«Ti sento amore e sai… Non vorrei mi lasciassi sola di nuovo, ma ci sono rimasti meno di tre anni di vita e poi chissà cos’accadrà»
Falsamente sconsolata, rigirò l’anello sull’anulare.
La macchina era in folle. Lui la osservava attento.
«Non posso, non posso negartelo, Yamcha, sarei crudele a dirti di no.»
In verità sei una crudele ipocrita a dirgli niente.
Lo spilungone sgranò lo sguardo.
Pantomima eccellente.
Aveva sbrodolato fuori un discorso fluido, era stata più che convincente, addirittura le erano venuti gli occhi lucidi. Il rimorso l’aveva temporaneamente messo in panchina.
Doveva liberarsi di lui senza farglielo intendere, ed aggirare il guaio piuttosto che prenderlo di petto le parve la soluzione migliore.

Yamcha non riusciva a credere a quel che aveva sentito. Di solito, per una cosa del genere, Bulma gli avrebbe tirato il collo, in termini minimi. Non era da lei, ma il ragionamento funzionava.
Inoltre era venuto a galla cosa realmente la stesse turbando: l’arrivo dei cyborg. 
Come darle torto, se la faceva sotto pure lui.
«Bulma, non immaginavo me lo avresti concesso, ti ringrazio tanto però... non piangere, mi fai soffrire così, ti prego.»


Tutto quello che vuoi per farti togliere le tende, amore.


Gratitudine reciproca: Bulma sorrise e lo spilungone si sporse verso di lei per incollarle un bacio sulla bocca, ch’ella subì silenziosamente. Ma poco male: l’allocco aveva abboccato all’amo. Preso dalla buona notizia telefonica, non sospettò affatto cosa celasse quell’acconsentire tanto enfatico, anzi: il permesso della sua donna l’aveva maggiormente infervorato.

Un’attrice nata, ci stai sorprendendo. Dove hai imparato a recitare?

Bulma prese un fazzolettino dalla borsetta: doveva asciugarsi le lacrime – di gioia – che le stavano sciogliendo il trucco, e pulirsi di nascosto l’impronta bagnata che l’aguzzino schiumoso le aveva sbavato sulla labbra.

Intanto, una leggera pioggerellina cominciò a precipitare irrorando il trambusto di West City.
Come aveva previsto il papà della scienziata, era prossimo un tremendo acquazzone.


 

~ ~ ~

 

Millecentoventidue… No, millecentoventitré.

Aveva perso il conto e non aveva importanza. Fondamentale era resistere anche oltre lo stremo.
Continuò a sollevarsi verticalmente, facendo forza sul braccio destro. Il suo corpo disegnava un verticale perfetta, nessun segno di cedimento, ma dentro l’animo era a brandelli.

Solo i più nobili, valorosi e spietati guerrieri posso ambire a trasformarsi nel leggendario ed invincibile Super Saiyan. Colui che può far crollare l’intero universo ai suoi piedi.”

Cantilena ridondante. Gliel’avevano stamburata sin dalla tenera età, suo padre, i suoi sudditi, dalla cima dell’élite saiyan al rango più basso della specie; intortato a tal punto che aveva creduto d’essere l’unico in grado di raggiungerlo. Le carte le aveva in regola: era il Principe della razza guerriera più potente dell'universo, aveva sempre combattuto in prima linea, senza mai sottrarsi ad alcuna battaglia; e in quanto a spietatezza possedeva l’innata dote di far fuori chiunque – consanguineo o nemico che fosse – si parasse davanti al suo cammino. Di norma, nessuno veniva risparmiato.
Duemilatrecentosettantanove.
Ce l’avevano fatto credere così intensamente che, nella disperazione d’una vita ridotta a schiavitù, quello stadio era stato l’unica speranza a cui aggrapparsi nell’impresa di rompere le catene che lo tenevano prigioniero. E dopo aver atteso ed ingoiato molto dell’acido che gli aveva logorato l’esistenza, ogni cosa s’era polverizzata rivelandosi una vana illusione.
Tremilaseicentoquindici.
Costretto a dover supplicare aiuto ad uno uscito dal niente, a un traditore della patria… Vergognoso!
Uno che di saiyan possedeva solo il nome e neanche più, ricco d’una magnanimità tale che gli aveva risparmiato la vita, lasciandolo però strisciare nel disonore. Come un verme.
Il tipo che, impossibile a credersi, gli aveva mostrato la leggenda farsi realtà: Kakaroth.
Un guerriero di bassa lega, un disgustoso filantropo, combatteva per proteggere gli altri, era l’esatto opposto dei dettami inculcatigli nell’infanzia a cui lui aveva lavorato sodo e s’era dedicato al massimo.
Allora perché quel pidocchio sì e il Principe Vegeta, stereotipo perfetto, no?

Quattromilaottocentonovanta… ti detesto Kakaroth!

Come c’era scivolato, dopo tanto spezzarsi la schiena, a torturarsi rinchiuso in una camera su un pianeta d’imbecilli? Tra l’altro, luogo dove viveva l’arcirivale.
Per quale motivo, nonostante la rabbia immensa che provava, faticava così tanto per eguagliarlo?
Cosa aveva in più il pivellino che a lui mancava?

Assolutamente nulla.
Cinquemila.

Finito. Aveva terminato l’ultima serie di esercizi in quel giorno intensamente perseverati.
Come ogni sera, era il momento della prova: coi piedi a terra, Vegeta incrementò la sua aura, un bagliore azzurro ed intenso lo avvolse drappeggiando su di lui in una veste di luce.
La temperatura, allo sprigionarsi della sua forza, s’alzò a tal punto che dilatò il metallo, facendo pericolosamente cigolare le pareti della capsula che lo attorniavano.
Un'energia strepitosa, galattica come la sua provenienza, tuttavia… Niente, neppure una luminescenza dorata.
Da giorni saltava l'orario regolare dei pasti e qualsiasi altro bisogno fisico per rinvigorire la propria resistenza, perpetuando un training rigorosamente serrato. Un ritmo del genere non poteva lasciarlo invariato.
Eppure, nessun mutamento.
Amara delusione.
Gravosa da imbastardirlo maggiormente e spingerlo ad ampliare il suo accanimento.

Io sono il Principe dei saiyan e ti supererò!

Si chinò a terra con l’intento di iniziare una nuova sequenza di piegamenti.
Purtroppo, nonostante la fervida ambizione, il corpo disobbedì alla mente: crollò di faccia sul pavimento della navicella, con addosso una spinta di circa diciotto tonnellate.
Qualcosa era andato storto, aveva ceduto.
Oltre la fame, la spossatezza e la pesantezza dell’acido lattico che gli aveva gremito ogni fibra muscolare, Vegeta avvertì farsi più acuto un principio di dolore al braccio sinistro, quello con la spalla rattoppata.
La ferita sanguinava, di nuovo.
Probabilmente, qualche giro di bende non sarebbe bastato questa volta.
Maledizione!
Macchioline scarlatte si espansero con lentezza sulle fasciature che avevano retto fino a quell’istante. Vedendole il saiyan storse la labbra.
Ecco un’altra delle cose che lo imbestialivano: un pensiero che aveva inchiodato alla parete del “non mi riguarda” ma che, se pur fermo e non rilevante, s’era appollaiato nella sua mente e non andava via.
Di riflesso, per cancellarlo, pensò un’altra volta di demolire l’opera medica di Bulma e, ironia della sorte, tutto a un tratto non aveva più neanche le forze per sollevarsi da terra.
Si morse il labbro inferiore, non voleva urlare.
Poi, a sovrapporsi ai vari tormenti, tornò la limpida visione di quelle gambe sinuose andare via.
Gli comparì invadente nella testa.

Ragazzina… sei una ragazzina.

O era crollato il muro su cui era inchiodato il pensiero, o s’era schiodato il chiodo dove era appeso; in ogni caso gli stava ballando sui nervi.
Esausto: uno stato che gli dava il voltastomaco.
In lui ruggiva la voglia di continuare, letteralmente lo sbranava. A malincuore però, dovette prendere atto dei suoi limiti.
Se lo sconforto fosse stato una pietanza, il saiyan ne avrebbe fatto indigestione.
A pugni stretti, tremando, riuscì a malapena a rialzarsi per spegnere il simulatore di gravità; l’immagine fastidiosa l’aveva sempre fissa. Era vivida.
Finalmente leggero, andò ad infilarsi con fatica la tuta che durante gli allenamenti toglieva, preferendo ad essa un paio di pratici calzoncini.
Ma, improvvisamente o conseguentemente che fosse, un buio sordo lo invase. Ottenebrandolo, totalmente.
La visione pruriginosa? Beatamente svanita.
Era scomparso  tutto.

 


~ ~ ~




Bulma e il suo busillis, dopo aver sorbito file chilometriche d’intoppo urbano, all’incirca per due ore, erano rientrati dalla tournée del gelo e dell’ipocrisia: lei bagnata e furibonda, lui beato come un porco.
«Bentornati! Avete trascorso una bella giornata?»
Chiese ad entrambi la signora Brief, asciugandosi le mani su un grembiule. Il manzo impepato, profumato e salato stava a rosolarsi nel forno. La risposta arrivò da Yamcha. Bulma, priva di grazia, si stava liberando del cappotto zuppo, lanciando borsa e scimmietta, anch’esse bagnante, sul soffice divano del salotto.
«Sì, nonostante il freddo siamo stati bene. Abbiamo passato il pomeriggio al luna-park, peccato per il traffico e la pioggia durante il ritorno.»
A sentirlo la scienziata sbuffò. Freddo, glielo chiamava semplicemente freddo; aveva rischiato l’assideramento lei. E quella che lui aveva citato come pioggia s’era trasformata in diluvio nel momento in cui avevano abbandonato l’automobile per percorrere quattrocento metri a piedi, poiché l’entrata della sua grande abitazione era stata ostruita dalle auto in coda.
Conclusione: fradicia.
«Oh, il luna-park, che romantico! Non ci vado da un’eternità… Come vi invidio ragazzi!»
No, davvero tragico mamma, e non ti sei persa nulla.
«Se vuole, un giorno posso accompagnarla»
S’offrì galante lo spilungone. Lisciarsi la suocera era una delle sue peculiarità da baciapile.
«Ma cosa dici? Oramai non ho più l’età per certe cose»
«Suvvia! Io la trovo in forma smagliante»

L’automatica. Dov’è? Devo uccidermi.

Mentre provava a tenere calma l’irritazione che sopraggiungeva ascoltando l’allocco flirtare con sua madre in uno show indecente, Bulma si guardava intorno con circospezione: rincasando assieme Yamcha non s’era potuta accertare se la camera gravitazionale fosse stata in funzione; aveva paura di trovarsi torvo e aguzzino nel medesimo posto e allo stesso momento.
Accadrà, prima o poi.
Vocina porta iella.
L’agitazione che l’attanagliava aveva raggiunto cime siderali: Yamcha le aveva aperto un barlume di speranza con possibilità di amnistia e revoca della pena; senza però precisarle il quando se ne sarebbe andato.
Nella peggiore delle ipotesi avrebbe montato una lista d’impegni lavorativi da tenerla fuori casa talmente da spingerlo ad andarsene prima di subito. 
Quel che le faceva vorticare la preoccupazione come un’elica, era resistere alla serata. In particolare alla notte.
E allora? Gli diamo direttamente un calcio nel sedere e lo mandiamo via?
L’idea le parve egoisticamente invitante, però non in armonia con la natura della sua persona.
Sai cosa devi fare, non girarci intorno.
L’unico che vide sopraggiungere, fortunatamente, fu suo padre. Giunse con la solita cadenza pigra e serena di pantofolaio.
«Ehi, Bulma! Esattamente mezz’ora fa stavo fumando una sigaretta e guardavo il tempo… Veramente brutto, hai visto che pioggia?»
«Papà, io la pioggia non l’ho vista, l’ho presa! Perciò, arriva al dunque.»
Conosceva bene il suo vecchio e l'inclinazione ad intavolare inutili sproloqui senza senso.
«Sì... Che stavo dicendo?… Ah! Poi ho dato uno sguardo al mio orologio ed ho previsto che a momenti sareste tornati. E dopo mezz’ora eccovi qui!… Sai cara, credo però d’aver dimenticato quel che d’importante avevo da dirti… Be’, proverò a ricordarmene e poi te lo farò sapere»
La voglia di strapparsi i capelli uno ad uno era irrefrenabile: una madre in calore e un padre con crisi d’amnesia, già vedeva i cancelli del manicomio aprirsi per lei.

Cerchiamo di trovare un diversivo…
Andiamo a spiare Vegeta?!

 

~ ~ ~

 

Cipolle: le tagliuzzava con certa maestria, pronte da aggiungere all’intingolo che stava già sul fuoco. A lei non erano mai piaciute, non ne sopportava né l’odore né il sapore, ma si stavano rivelando ottime per riesumarla dalle innumerevoli congetture che l’avevano seppellita nell’angoscia. Le davano l’alibi per star distante dalla seccante presenza placidamente accomodata su una delle poltrone violacee del salotto, Yamcha. Rilassato a fare zapping davanti alla tv mentre fingeva di ascoltare il dott. Brief.
«Stasera tutti si leccheranno i baffi!»
Disse la signora Brief tirando fuori dal forno una teglia enorme con una lombata cotta a puntino.
«Se la pasta è pronta vado ad apparecchiare la tavola, con Yamcha siamo in cinque?»
A Bulma mancava solo il promemoria.
«No, in quattro.»
«Ne sei sicura?… Io, te, tuo padre, Yamcha e Vegeta. Cinque tesoro, bisogna apparecchiare per cinque.»
Sottolineò la donna, facendo la conta sulla punta delle dita.
«So benissimo quanti siamo, grazie! Ma se dico quattro è perché Vegeta non ci onorerà della sua presenza!»
Di consuetudine andava così, anche se più che esserne certa lo sperava.
«Ah, io ti dico che verrà. Oggi, mentre tu te ne stavi con Yamcha, è stato ad allenarsi tutto il giorno. Sono sicura che adesso avrà una gran fame»
Come ficcare l’unghia nella piaga e grattare, grattare, togliere pelle, grasso, muscoli, far zampillare il sangue e arrivare all’osso.
«Tipico, il grand'uomo deve dar sfoggio della sua testardaggine»
Disse la ragazza. Fingeva disinteresse, ma niente poteva camuffare la punta avvelenata nel suo tono. Non riusciva a capire se fosse l’insistenza della madre ad infastidirla o la sconsideratezza suicida di quel saiyan.
All’angoscia le si sommò un’insostenibile preoccupazione per il torvo devoto al martirio.
«Però, è bello avere in casa questi bei ragazzi! Fossi stata più giovane… Beata te Bulma!»
«Mamma, non dire idiozie.»
«Dico sul serio, alla tua età gli uomini che mi ronzavano attorno erano innumerevoli. Non sapevo chi preferire.»
Ironicamente sembrava le stesse facendo un piccolo resoconto della sua analoga condizione, se ci si riferiva esclusivamente all’indecisione: Vegeta di certo non le ronzava attorno, semmai, era il contrario.
«Alla fine scelsi tuo padre.»
Puntualizzò la donna, come per mettere un bollo alle gloriose memorie dei tempi andati.
«Perché lui?»
Mai avrebbe confessato i propri dilemmi sentimentali, ma trattare quell’argomento la incuriosiva. Era in cerca di consigli.
«Perché mi sentivo sicura, completa standogli accanto. Tra noi bastava uno sguardo per capirci e poi era così intelligente… Credo sia stato questo a farmi innamorare pazzamente di tuo padre.»
Completa, sicura... Intelligente?... Diamine, era lei il genio della situazione! Di ogni situazione.
Yamcha non lo era e lei quando gli stava vicino non provava nulla, oltre i rimpianti. Non ci voleva un esperto per arrivarci.
«Dimmi un po’, non ti sarai innamorata di Vegeta?»
La lama del coltello entrò affilata come l’insinuazione appena udita. S’era tagliata un dito.
Sua madre, oltre ad essere una cuoca generosa, era pure un’abile carnefice fattucchiera.

«Ti sei tagliata?! Oh, cielo, fammi vedere!»

Gocce di sangue colarono veloci ad imbrattare il pavimento, due di esse a macchiarle il vestito. Non le era nuova quella situazione.
«Devi esserti distratta perché t’ho chiesto se ti piace Vegeta, vero?»
Aggiunse ancora sua madre. Sembrava che la faccia della scienziata fosse diventata un depliant facile da sfogliare.
La signora Brief aveva un sorriso a trentadue denti.
«Ovviamente no! Mi hanno distratta le tue chiacchiere assurde!... Ahi, che male!»
«Su, non è niente… – disse la sua mamma, tenendole la mano – Oh, chi te l’ha regalato questo? È bellissimo!»
Si riferiva al cappio, cioè all’anellino che portava all’anulare sinistro. Guarda caso, si era ferita quel dito.

Magari ho l’inconscio desiderio di farlo fuori… Alt! Amare Vegeta, ammesso che sia amore, non vuol dire imitarlo. Prendi nota.

«È stato Yamcha?»
«Sì, me lo ha regalato lui.»
Non c’era entusiasmo nella sua voce. Il viso una maschera cerea, inespressivo.
Avrebbe voluto dirle che era stato Vegeta, ma certe cose potevano accadere solo nei suoi sogni: il saiyan non era tipo da ninnoli e romantica love story.

Lui preferisce le scazzottate, i massacri… Bei passatempi, no?

Gioielli, fiori, biglietti d'amore, poteva fare a meno di simili frivolezze edite nelle antologie di fiabe per bimbe delle elementari.

Improvvisamente, la scienziata fu illuminata dal lampo d’una scena grottesca e raccapricciante: c'era il saiyan, che le portava in dono i denti e la pelle di un avversario appena ucciso.
Sorrise e finalmente le si illuminò il viso. Coi denti ci avrebbe fatto una bella collana, la pelle sarebbe andata bene cucita sulla sua borsetta.
No, non le dispiaceva affatto... così.
Tutto ha un limite.
«Scommetto vorresti ti regalasse qualcosa anche Vegeta»
Per un momento dubitò che sua madre fosse riuscita a sbirciare anche tra i suoi inquietanti ed allettanti pensieri.
«Finiscila con questa storia mamma!»
Finiscila tu di partorire certe fantasie! Sei oscena.
Insisté la coscienza della scienziata.

«D’accordo, la smetto, se no Yamcha sente e s’ingelosisce. Comunque lo sapevo che ti piaceva. Ora ti lascio sola, vado a sistemare la tavola.»
Ecco, fa' la brava, prendi esempio da tua madre: smettila!

Si sciacquò il dito sotto il getto d’acqua del rubinetto e prese un cerotto per chiudere il piccolo taglio.
Erano dello stesso colore, il sangue suo e di Vegeta. Lui non l’aveva blu, escludendo il senso lato sull’appartenenza nobile – aspetto che fra l’altro l’affascinava – né verde o tanto meno viola come soleva una degna creatura aliena; ma era rosso uguale al suo. E lui non era un mostro coi tentacoli, le antenne e la pelle verde e viscida - come secondo l’immaginario popolare, che tanto immaginario non era: ne aveva visti di obbrobri spaventosi durante il suo viaggio nello spazio, e le bastava guardare Piccolo – il saiyan  aveva un corpo non dissimile da un umano, era un uomo… e lei era una donna.
Non montarti la testa.
Constatazioni ridicole che ponderava mentre, impassibile, osservava le minuscole chiazze di sangue asciugarsi sul tessuto del suo completo a righe. Se non si fosse sbrigata a lavarle con acqua fredda, sarebbero rimaste lì. Per sempre.
Mi chiedo perché non la smetti di startene là dentro. Sei un vero stupido!
Pensò Bulma. La sua non era rabbia, le mancava Vegeta: tre ore ancora e sarebbero scoccate le ventiquattro tonde tonde dall’ultima volta che l’aveva visto. E toccato.
È astinenza, questa?
No, il suffisso rimane invariato ma si chiama demenza.

Voleva vedere come stava immediatamente, al diavolo la vergogna e Yamcha ad una parete e pochi metri da lei!

Imbambolata a fissare il dito appena incerottato, s’accorse che il sangue era colato a sporcarle la pietra blu dell’anello, la quale aveva assunto un colore bordò scuro.
Voleva toglierselo, e non per pulirlo.
Detestava essere lì.
Non sopportava il suo fidanzato.
Desiderava solo andare da Vegeta.

 

«Bulma, di là ho finito. Ma... Cara, dove sei?»

 

Continua…

Note:

1. L’elicottero 87 di Bulma lo potete trovare nel fumetto n.17. Sì, le eliche non ce l’ha, ma dalla forma penso che Akira si sia ispirato ad, appunto, un elicottero (mi faccio troppi problemi, lo riconosco).
Oh, se odiate Yamcha recuperate il fumetto e gustatevi quel paio di vignette in cui Bulma fa l’isterica e chiama il suo fidanzato per nome:
stronzo.
2. Se vi state chiedendo a quale campionato mondiale vuole partecipare Yamcha è la World League di baseball, particolarità only anime che potete trovare nella puntata “il primo combattimento di Gohan”.
Qui gioca con una squadra che presumo si chiami
Taitans,sulle divise così è scritto. Comunque, sono dettagli che userò ed inserirò poi. Non vi lamentate se nel capitolo sono stata poco esauriente, ho i miei motivi per farlo.
3. La mamma di Bulma la conosciamo bene: è un’impicciona. A tal proposito ho voluto ricalcare conversazioni simili a quelle del cartone animato.
4.Altro disegno. Partendo da Bulma: la collana dentata che s’è immaginata non ho potuto non mettergliela (è stata una mia catarsi) idem per la borsa in vera pelle (chissà di chi), ma quella non si capisce, per fortuna. Passando a Vegeta… Aspetto un vostro giudizio (non mi andava di darci dentro con la massa muscolare, in fondo lui è“magro”, guardate QUI , un fisico equilibrato e asciutto, no?).
5.Ringrazio i miei lettori e i nuovi arrivati (con me bisogna avere molta pazienza, scusate il ritardo).


 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V - L’amore è una belva anaerobica che soffre d’insania. ***


Una riga di prefazione: guardate e leggete, leggete e guardate. Semplice.

 

Standby

Capitolo V – L'amore è una belva anaerobica che soffre d'insania.


 

Bulma era cosciente, se ne rendeva pienamente conto: qualcosa, dentro di lei, andava imputridendosi.
I suoi neuroni invece di reagire al volere della ragione, che s’era rappresa in un mucchietto d’omertà in un angolino remoto del cervello, rispondevano direttamente agli ordini del cuore. Impostatosi come un tiranno a manovrare i fili della sua mente.

In atto c'era una pericolosa sobillazione contro la sua capacità d’intendere e volere.

Sarebbe stato un principio valido, questo, se il fenomeno fosse stato osservato con distacco, ignorandone l’introspezione, da un punto di vista behaviorista; in realtà, nell’inconscio, lei sapeva perfettamente cosa voleva.
La sua inconscia scelta però, a causa d’una questione d’etica, quel tipo d’uniformità che includeva spesso un perbenismo da possedere obbligatoriamente per appartenere al proprio gruppo sociale – nel suo caso i buoni della popolazione terrestre – evitando così d’esser schiaffati nell’ignobile reparto dei diversi/cattivi; era la più sbagliata ed ingiustificabile.
Nessuna persona normale andrebbe a perdere la testa per Vegeta – eventualmente, era il saiyan a staccartela via – per uno schizoide con le mani fresche di sangue, bramoso di vendetta e dominato da passioni perverse. Il mostro da tenere in quarantena se non da sopprimere definitivamente.
A maggior ragione, se per seguire tal fugace ed insensata infatuazione verso un simil scellerato, lei calpestava quindici anni di rapporto vissuti con la persona amata, divenuta nientemeno che l’uomo da portare all’altare; quello con cui avrebbe costruito un nido e trascorso un futuro certo e sereno. Nell’inquadratura utopica di un “vissero felici e contenti” per epilogo.

Cosa potrebbe darti una scimmia?

Nessuna risposta, perché non v’era risposta... verbale.
Aveva solo un cuore che le batteva frenetico nel petto.
Le bastava.


Alla chetichella ed accompagnata dalla signora Ansia e dal signor Frettoloso, Bulma scendeva le scale che portavano ai laboratori sotterranei all’edificio della Capsule Corporation. Questi erano disposti su un lunghissimo corridoio a spirale: un’enorme struttura composta da sessantatré reparti diversi dedicati all'ingegneria. 
Dietro di sé, a seguirla, un’allegra compagnia: la sua ombra insieme ai fuorviati pensieri che le affollavano la testa, e tra questi il saiyan era onnipresente.

In quel passaggio isolato, echeggiava solo lo scalpiccio acuto dei suoi tacchi alti. Ritmicamente alternato al respiro affannato che aveva.

Con l’inquietante impressione d’esser seguita aumentò l’andatura, stava quasi correndo.
Le porte scorrevoli a chiusura ermetica, che sezionavano il tunnel per aree, s’aprivano alla sua presenza e si richiudevano silenziose, ma percettibili come fantasmi. Alle spalle, Bulma lasciava coppie di estintori infisse sul lato destro della parete di ciascuna sezione, videocamere a circuito chiuso che impiccione gustavano la sua fuga – suo padre le aveva montate non tanto per una questione di sicurezza bensì per gusto scenico – e spie di allarmi antincendio e i molti ingressi dei reparti di cui s’occupava l’azienda C. Corp.


Ventuno, enorme, a capeggiare in nero sopra la porta-fantasma per contrassegnare il settore. Era riservato alla bioingegneria, dove si progettavano e si collaudavano apparecchiature mediche. Guardandolo, Bulma si sforzò di ricordare se lì dentro ci fossero camicie di forza, preferibilmente della sua misura.

Sei a quarantadue livelli dal rincretinirti e a ventuno dal rinsavire, puoi ancora tornare indietro.
Ogni metro percorso equivaleva ad allontanarsi sempre più dalla ragione-Yamcha avvicinandosi con smania all’inusitata follia-Vegeta.
No, niente retromarcia. Il dietrofront venne sollevato dai comandi.

Arrivata alla sessantatreesima area, l’ultima e centro di controllo di quel mondo nascosto, varcò la soglia del laboratorio annesso: reparto robotica, il suo prediletto.
Ambiente interamente metallico, lo adorava. Privo di finestre era illuminato solo dalle fredde luci delle lampade fluorescenti, queste le mettevano in risalto i capelli azzurri e la pelle chiara – perfetta come porcellana – da far invidia a Hedy Lamarr.
Era il luogo che più la rilassava dislocandola da qualunque problema. Spesso ci passava intere giornate trastullandosi tra materia inorganica e scheletri di robot che attendevano d’esser programmati e portati alla vita in un miracolo tutto artificiale.
Ma non era l’ora del relax, e della cibernetica giocando a fare Dio.
Accese le luci e messa in funzione la ventola per il riciclo dell’aria, Bulma raggiunse la sua scrivania. Questa era inagibile, piena di fogli che riportavano appunti e progetti, con post-it appiccicati intorno allo schermo del suo sofisticato PC,  a formare una cornice di cellulosa colorata su cui spiccavano formule e conteggi. Penne, cancelleria varia, più la sua inseparabile calcolatrice, s’intravedevano fra quelle pile di carta. Ed intruso, però fondamentale, troneggiava anche uno specchio. Ordine e criterio non erano il suo optimum.
Con la furia e l’indole di chi conosceva a occhi chiusi la tastiera, e gli altri mille pezzi del computer, Bulma digitò rapidamente il codice d’accesso per aprire il monitor all’interno della navicella spaziale, nella speranza di avere una rassicurante immagine del solito grugno minaccioso di Vegeta.
Stava rischiando grosso, se l’aguzzino l’avesse colta in flagrante, la pena capitale sarebbe stata assicurata. Prima di farsi martire voleva rendersi certa che il saiyan fosse ancora all’interno della Gravity Room.
Attese alcuni minuti, da aggiungere ai quasi sette impiegati per aver percorso il lungo serpentone sotterraneo – faceva bene suo padre a muoversi per i laboratori con una bicicletta; lei per apparire alta portava zeppe ai piedi, belle e scomode – e bizzarria: la tecnologia, sua fedelissima e protettrice, non le veniva in soccorso.
Schermo nero, decisamente scoraggiante, aggravato da un inesorabile messaggio luminoso d’un verde acido da infilarsi due dita in gola.
La scritta-video suggeriva segnale assente; colpa del brutto tempo.

I laboratori erano anecoici e isolati, Bulma non riusciva a sentire e nemmeno immaginava il putiferio che fuori stava scatenandosi. Non poteva risolvere l’intoppo, il mostrino dell’orologio appeso al muro di fronte a lei sembrava farle scappare i secondi per dispetto.
Avanti, dammi un’inquadratura. Anche una sgranata a bassa risoluzione mi sta bene, ma muoviti!
La sua adrenalina era alle stelle, il piede destro aveva cominciato a battere un tiptap in assolo.
Desiderava ardentemente vedere con i suoi occhi in che condizioni si trovasse il torvo. Col dubbio non ci avrebbe dormito. Inoltre, aveva delle responsabilità nei confronti del saiyan: l’aveva medicato e sicuramente le bende andavano cambiate.
Controllare di persona era l’unica cosa che le rimaneva da fare. Ed in fondo, era quel che segretamente anelava: pure se l’avesse avuto, cosa ci avrebbe fatto con un primo piano del saiyan? Tutti i sensi andavano saziati. Lo voleva tangibile, in carne e muscoli, da odorare.

Dal laboratorio alla navicella con due passi sono arrivata. E senza che mi veda nessuno.

L’uscita dal tunnel emergeva esattamente dov’era posizionato lo shuttle, chiunque si fosse affacciato sulla terrazza che ne dava un'ampia panoramica, non avrebbe potuto scorgerla, occultata com’era dalla navetta stessa.
A rallentarla c'era l’immancabile tentennamento brevettato Bulma Brief.

Ci vado.
No, non ci vado.
Ci vado.
È un rischio, se Yamcha mi stesse seguendo silenziosamente e mi vedesse andare diretta da Vegeta?

Però... Non ci vado.
Un’occhiata, un’occhiatina e basta.


Non stava strappando i petali d’una margherita recitando un monotono m’ama non m’ama in un barbaro rituale, sceglieva lei quante volte dire sì e quante no, ma il paradosso era equivalente.
La vocina non le dava più consigli, forse mancava il segnale anche a lei o, finalmente, s’era offesa e ritirata.
«Vai, sbirci e torni»
Si guardò allo specchio e, già che c’era, si aggiustò il make-up togliendo via i fastidiosissimi grumi di trucco nero vicino alla caruncola lacrimale.
Le labbra, prive di rossetto, perché lo spilungone appiccicoso l’aveva ciucciato fino a farlo sparire, erano di un rosa pallido sgradevole. Se le mordicchiò per gonfiarle e arrossarle un po’.
Sì, per abbellirsi il tempo c’era, soprattutto prima d’incontrare il Principe.
Rassettata anche la gonna, e ricomposti i seni in due coppe taglia C, la scienziata camminò in direzione delle tre rampe di scale che salivano al giardino. Alcuni dei fogli che occupavano il tavolo caddero con qualche capriola nel vano tentativo di seguirla.

Aperta a fatica la pesantissima porta d’emergenza, Bulma si trovò davanti la baldoria di una tromba d'aria in orchestra: circa duecento i metri che la separavano da lui, e tanta acqua e vento da pigliare per raggiungerlo. Omettendo qualsivoglia oggetto ne venisse trasportato.
Dai Bulma, tu puoi andare dappertutto, non conosci ostacoli, sai superare tutte le crisi. Sei incrollabile!
Aveva affrontato cataclismi più gravi – il prolasso del pianeta Namecc era stato uno dei molti – e ne era uscita sempre illesa. Cosa potevano farle un soffio di vento e qualche goccia d’acqua?

E così, correndo al gelo, evitando di fare ruzzoloni sull’erbetta fattasi melmosa e scivolosa – neanche un giacchetto a coprirla dalla pioggia battente – fra raffiche che per poco se la portavano via, Bulma giunse alla navicella.
Aveva il fiatone e stava morendo di freddo, tanto per cambiare; pena crudele per sfoggiare un fisico da schianto.
Il suo aspetto era inqualificabile: capelli appiccicati e scomposti in tante ciocche, fanghiglia sui polpacci e a inzaccherarle le scarpe per aver sgambato... e il completino da “galeotta” ridotto a un cencio aderente come una seconda pelle! Sgradevolissimo.
Non era giornata, aveva preso acqua ritornando dalla gita nel circolo della finzione e stava continuando a prenderne a secchiate. Si sentiva lievemente sudicia.
Cercò di non pensarci, Vegeta aveva la completa priorità.

Non c'era nessuna luce rossa lampeggiante a segnalare la funzione dell'alternatore di gravità, la camera gravitazionale da fuori appariva spenta; quindi, salita la passerella di collegamento della navicella – dove la pioggia scivolava a cascata – Bulma s’allungò sulle punte dei piedi per scorgere qualcosa dall’oblò sull’entrata dello shuttle.
Ciò che vide le invertì la circolazione sanguigna: il simulatore di gravità non era attivo, ma il saiyan se ne stava riverso a terra come un cadavere, senza accennare segni di vita. Da un autolesionista come lui c’era da aspettarselo.
Immediatamente, su una piccola pulsantiera che si trovava chiusa in uno sportello accanto all'entrata della capsula,
la scienziata compose la serie di otto cifre per aprire il portellone della navetta spaziale. O, almeno, ci provò. Perché pensato un numero il dito vacillante pigiava quello poco più a destra, appena sotto o sulla sinistra. Così, sbagliata una cifra, ricominciava daccapo.
Potrebbe già essere morto, non è il momento d’andare in tilt!
La vista le si stava occludendo ai lati degli occhi, tanti puntini neri a non farle vedere più nulla.
Al quarto tentativo il portellone dello shuttle s’aprì. Sessanta secondi erano previsti prima che questo s'abbassasse completamente, un processo che, in quel frangente, le risultò tanto lento che s’appuntò mentalmente di ricordare a suo padre di migliorarne la funzionalità.
Ovviamente, Bulma non attese: s’arrampicò come poté sul portellone e rotolò dentro. La manovra semi acrobatica le costò un paio di smagliature sulle calze. In altre occasioni avrebbe imprecato, in quell’istante nemmeno ci fece caso: di collant ne aveva un’infinità di paia, di Vegeta uno solo.

All’interno dello shuttle la investì un forte odore, come d’aria viziata. Era una preoccupante anomalia: andavano revisionati i serbatoi criogenici d’ossigeno. S’annotò pure questo e sì calamitò sul saiyan steso a terra.
Panico: «Vegeta, mi senti?! Apri gli occhi, ti prego!»
Il bieco non le rispondeva, mostrava un volto esangue.
La paura la pervase: tutto quel che aveva imparato prima di lanciarsi nello spazio su “come muoversi per un primo soccorso” – nel caso le sarebbe servito – divenne uno schermo completamente bianco, una tabula rasa.
Da maleducata che era mandò la calma a farsi benedire: si gettò diretta con l’intenzione di una rianimazione, senza accertarsi se Vegeta respirasse o meno.
Una rianimazione bocca a bocca.

Veloce, può darsi che non sia...
Sarà come baciarlo.
Potrò baciarlo.
Devo baciarlo.

Estrogeni, e una dose massiccia d’androgeni liberi e scorrazzanti, le stavano confondendo desiderio d’altruismo con desiderio sessuale; la vocina utile aveva scelto di fare la negligente nel momento meno opportuno.
E inginocchiata lateralmente al saiyan, Bulma si chinò avvicinandosi a quel rude viso: una mano andò sotto la cute per tenere la testa di Vegeta dritta e ferma, l’altra gli aprì prima la bocca e poi si spostò a chiudergli il naso.
La scienziata era pronta ad insufflare aria.
E gli avrebbe sfiorato le labbra, se una presa assassina non le avesse accalappiato il collo sbattendola giù, con tutta la non delicatezza possibile.
Questi li conoscevi? Sono i suoi riflessi omicidi. Su, saluta e stringi loro la mano. Un po’ d’educazione!
Il bieco, da morto, s’era tramutato in finto morto.

«Cosa stavi cercando di fare, eh?»

Dura, aspra la sua voce, un latrato. Ma almeno il cagnaccio era vivo ed il cuore della scienziata poteva ricominciare a battere su tempi regolari, recuperando anche una naturale eupnea… No, non le era permesso: Vegeta le stava a pochi centimetri dal naso e le stringeva la gola con una mano, facendo in tal modo pressione col suo corpo per  tenerla ferma sul pavimento. Bulma quasi boccheggiava.
«Allora, che ti era saltato in mente? Non rispondi?»
Voleva, anzi, era sull’orlo di mandarlo a quel paese, le signorine come lei non dovevano esser trattate in maniera così inelegante. Non era un sacco di patate! Ma con la lingua immobile, che non faceva il suo dovere credendosi un muscolo involontario, non le usciva alcuna parola.
Lo sguardo del saiyan l’aveva impietrita fin nelle ossa.
Occhi di furibondo, definirli a tal modo sapeva d’eufemismo. Erano feroci, venosi e arrossati con iridi tanto nere ed intense che la luce riflessa li faceva brillare di un bagliore proprio. E non stavano un attimo fermi: si muovevano nervosi a scansionarle ogni millimetro del viso. Se avevano lo scopo di spaventarla, a lei stavano sortendo l’effetto opposto: la incantavano.

È questo lo sguardo che mostri ai tuoi avversari prima di ucciderli, Principe dei Saiyan?

Mai li aveva osservati da così vicino, neppure quando l’aveva medicato.
L’emozione che le scaturiva fissandoli era ineffabile.
Impossibile leggervi quali sentimenti celassero, apparivano come una minuscola rifrazione del suo mondo: arcano, inaccessibile, disgraziatamente tetro ed infelice; ma anche smodato, ruggente, senza regole, distruttivo.
Meravigliosi occhi.
Cominciava a sentirsi trascinare da quel concentrato di perdizione, ne era risucchiata.
Prima di bagnarti, di saliva, rispondigli.
Qualcuno aveva recuperato il segnale radio, alla buonora.

«C-credevo fossi, pressoché mort- in fin di vita! V-volevo… salvarti... »
Bulma si pronunciò sincera, a stento; escludendo l’incanto, la stretta di Vegeta le stava veramente togliendo il respiro. Poi, si sentì come se l’avessero messa a indossare un costume ridicolo e, in piedi, davanti alle luci della ribalta, avesse commesso una gaffe stratosferica di fronte a un pubblico senza testa. Di cui non vedeva il volto ma ne sentiva lo scherno. Un orrore.
Svegliati! Ce l’hai dinanzi, è sopra di te il tuo“pubblico”.
Vegeta non aveva mai riso di cuore, lei non glielo aveva sentito fare neanche una volta da quando l’aveva accolto in casa; ritrovarsi bersaglio di un’ilarità maligna ed offensiva, fu per lei un’esperienza da infilare tra quelle da non ripetere mai più.

Sempre che il suo cuore non sia malvagio, altrimenti riderebbe di… Aspetta, ma lui ce l’ha un cuore?

«Morto? Che sciocchezze, sei ridicola! Inventane un’altra, questa, per quanto faccia ridere, non ha attecchito. Tsk, addirittura salvarmi, tu! È evidente che non sai con chi hai a che fare, ragazzina.»

Ok, portatemelo via; e ricompratemi le calze.

«Ho pensato davvero che lo fossi, te ne stavi stecchito sul pavimento e quando t’ho chiamato non mi hai risposto! Cosa avrei dovuto dedurre?!»
Offesa, Bulma si sforzò di raccogliere fiato per farsi sentire.
«Che stavo riposando. In ogni caso, non ho l’obbligo di rivolgerti la parola o darti spiegazioni.»
Mentiva. Lui, Vegeta, si stava giustificando con una che rimava con ficco-il-naso-in-ogni-dove.
In realtà, era svenuto: spento l’alternatore gravitazionale e rivestitosi per uscire aveva perso i sensi. Un dettaglio risolutamente trascurabile. Era sprofondato nell’oblio con l’allucinazione di lei, risvegliarsi, trovandosela umanamente presente, non era stato un toccasana per il suo umore. Perlomeno, non le era crollato davanti – non lo avrebbe sopportato – e fortunatamente la ferita aveva smesso di sanguinare da sola evitando di provocare un’esondazione dalle bende alla tuta e spargere un fiume di sangue al suolo della navetta.
«No, di rispondermi non ce l’hai l’obbligo... Ma di farmi stare tranquilla sì! Come facevo ad immaginare che sei così matto da schiacciare un sonnellino qui?! Oh, hai ragione tu… Avrei dovuto ricordare che da scimmia ti comporti come tale.»
Non stuzzicarlo troppo, potresti pentirtene.
Però, l’ultima battuta spettava a lei. Era quasi stramazzata dallo spavento, le aveva fatto prendere un bel colpo.

E trasportata dall’impeto di una delle sue fugaci e caratteristiche isterie femminili, Bulma non s'accorse dell'intensità con cui gli stava parlando. Né si preoccupò di mascherare quanto tenesse a lui.


Colpo basso, gli aveva dato del matto e della scimmia. Fosse accaduto un anno prima l’avrebbe eliminata all’istante, di routine il saiyan uccideva per molto meno.
Sfortunatamente però, in quel momento, lo spietato principe pativa uno strano effetto cryovac: si sentiva sigillato in un sacchetto sottovuoto che gli bloccava i movimenti e gli provocava un’ipossia da alterargli funzioni cerebrali e lucidità mentale.
Era la presenza di quella ragazzina a frenare i suoi istinti saiyan. Non v’era alcun dubbio. Ma era vietato ammetterlo.
Impedito, fece una smorfia irrigidendo le dita attorno al collo della scienziata. Pratica che gli conferiva una certa, non indifferente, sensazione di potere; gli piaceva da impazzire il potere.
«Dovresti imparare a stare zitta, potrei tagliartela quella linguaccia che hai.»
Imprescindibile mantenere un’aria intimidatoria, ma evitò di discutere gli “obblighi”che lei blaterava di avere; dalla sera passata aveva udito a sufficienza da arrivare alla conclusione che la terrestre s’era fatta idee strane.

«E tu lasciami, che mi stai… soffocando»
No, continua pure.
Era in ipnosi Bulma. Incavolata e innamorata. Sola nella tana del mostro, con il mostro. Ci fosse stata un’altra persona al suo posto questa si sarebbe vista spacciata; lei, malgrado la posizione scomoda, oltre che pericolosa, e la testa dolorante per la grazia di rinoceronte con cui Vegeta se l’era scrollata di dosso, stava bene. In uno stato soave leggermente eccitato. Non c’era altro posto in cui voleva trovarsi. I fatti avevano oltrepassato i suoi desii: lo vedeva – gli occhi del bieco erano interamente per lei – ci stava litigando e le sue mani le erano addosso. I sensi la ringraziavano all’unisono nello stesso modo di un giradischi inceppato: grazie-grazie-grazie.

Assolutamente non doveva lasciarla, anche a costo di strangolarla.

«Chi ti dice che non lo voglia fare?»
Il tono del saiyan era cambiato in un sussurro. Roco, per la voce baritonale. La mano a ganascia invece l’aveva ancora ben salda dov’era.
«So che non lo faresti.»
Era tentata dal metterlo alla prova, voleva osare, testare quanto poteva avvicinarsi. Non aveva timore.
«Allora, sciocca… ti sbagli di grosso.»
Sì, come no.
«Se tu avessi voluto, l’avresti già fatto.»

Adesso ti mangia, ti fa a pezzettini e ti mangia, ed il brutto è che proverai piacere.

Attesa.

Bulma l’aveva messo sotto scacco e Vegeta era lì dal buttare tutto all’aria.
Il saiyan inclinò la testa da un lato per scrutarla di traverso, aggrottando maggiormente il suo cipiglio.
«Che sei venuta a fare qui? Dimmelo subito! Continui a spiarmi?»
Argomento cambiato, partita abbandonata; a lui toccava il privilegio di farla sporca ma qualcuno aveva barato al posto suo.
S’era incartato e la colpa era della terrestre: lo stava spiazzando. Non capiva dove trovasse tanto coraggio, tanta arroganza priva di terrore da provocarlo e, in specie, non arrivava a comprendere perché iniziava a non dargli fastidio averla sotto di sé.
Non c’era piacere. A parte il gusto del dominio, naturalmente.
Era l’odore di lei a rilassarlo?
O forse erano i suoi occhi, in quell’istante della stessa tinta di un cielo cobalto che il saiyan ricordava aver visto molti anni prima, su un pianeta che lui stesso aveva distrutto.
Erano questi a stregarlo?
Non capiva, non ci arrivava e non gli era mai capitato nulla del genere.
Allentò di poco la presa delle dita su quel collo di cigno facile da spezzare, per consentire alla terrestre di avere aria e per farla parlare meglio. Di mollarla del tutto non ne aveva l’intenzione, perché darle la vinta? Lui non era quel che la sciocca ragazzina credeva, e le avrebbe dimostrato di che pasta malefica era fatto.

«Io non ti spio! Sono solo venuta a vedere come stavi.»
«Magnificamente.»
«Sicuro? A me nonsembra, ti vedo smunto. Se durante gli allenamenti non fai delle pause finirai per esaurirti e non potrai muoverti. La stanchezza ti porterà a essere disattento... E le mie non sono parole, mi basta guardare la tua spalla.»
Ci ho ripensato, ora la strozzo. Le schiaccio la laringe e la guardo agonizzare.
La ragazzina aveva ragione... ed era irritante. Infatti, il saiyan non aveva ottenuto cambiamenti e stava male, molto; ma pigliarsi la ramanzina alla sua età – due, tre anni aggiunti ai trenta, più una ricca esperienza nel campo della belligeranza – ramanzina che veniva direttamente dal pulpito di una terrestre come ficco-il-naso-in-ogni-dove, si palesava oltraggioso. Denigratorio per un combattente d’assalto del suo calibro.
Voleva arrabbiarsi con lei, era già infuriato: a causa sua era svenuto! Lei, con quelle gambe, gli aveva fatto perdere la concentrazione! Gambe morbide che avvertiva muoversi e sfiorarlo.

«Dammi retta, sfiancarti non ti porterà a nulla. Non vorrei un giorno vedermi costretta a soccorrerti di nuovo.»
«Basta! Taci! Mi pare di averti già fatto capire che non ho bisogno del tuo controllo e tantomeno del tuo aiuto! Piantala d’immischiarti in cose che non ti riguardano!»
S’era spazientito, doveva sminuirla, che capisse: certi trucchi da strega non si facevano al Principe degli orgogliosi saiyan.


Il cane è malato di rabbia, e abbaia.
Ottimo, curiamolo.


Vittoriosa nella consapevolezza che non le avrebbe torto nemmeno un capello, Bulma s’arrischiò con la manina leggera a tirare giù la zip del giacchetto della tuta che Vegeta indossava, per scorgere le fasciature che lei stessa s’era prodigata a mettergli ed accertarsi delle loro condizioni.
Fare mosse azzardate stava diventando solluchero per Bulma. Vegeta, al contrario, rimaneva incredulo.
«Che intenzioni hai?», le chiese, vedendosi spogliare.
«Nulla, tranquillo, devo solo controllare una cosa.»
Quella sfrontatezza lo stava scioccando. No, non gliel’avrebbe permessa tanta confidenza. Le afferrò la mano per stritolargliela… Sì, gliel'avrebbe spappolata. 
E anche la mano sinistra della scienziata s’aggiunse ai “tenuti in ostaggio dal saiyan”, insieme al povero collo che il bieco non voleva liberare.
«Se non stai ferma te la spezzo! Sappi che faccio sul serio, quindi, non farmelo ripetere.»
«Devo guardarti le bende, sono sicura che vanno cambiate. Non vorrai macchiarti nuovamente i vestiti o farti venire un’infezione?»
«Sei dura di comprendonio? Io non ho bisogno di te! E non mi importa nulla delle tue medicazioni! Ficcatelo in testa!»
Obiettò Vegeta, ostile e un po’ esausto. La loro diatriba stava continuando senza che nessuno dei due provasse ad alzarsi dal pavimento.
«Sì, ma non è una questione di cosa tu voglia o meno, io le devo cambiare. Non fare il ritroso. O magari non vuoi perché ti dà fastidio che lo faccia una donna?»
Questa poi!
Fu l’esclamazione chiusa in una nuvola pensiero di un Vegeta esterrefatto.
Era insistente quella terrestre di cui non voleva ricordarsi il nome ma delle gambe sì; da nausea. Cocciuta forse peggio di lui, fatta di una determinazione impressionante.
Voleva giocare? Ebbene, l’avrebbe accontentata. E con lo stesso tipo di “stregoneria”.
Le avrebbe fatto passare lo sfizio di fare la presuntuosa impertinente.

«E dimmi, avresti voglia di farlo qui?»
La incalzò, avvicinandosi tanto al viso di Bulma che sembrava desiderasse baciarla. Però il programma non era quello.

«Perché se volessimo, potremmo... »

La lascivia di Vegeta era irresistibile; un predatore, un diavolo tentatore a caccia d’anime pure da divorare. Non lo immaginava capace anche di questo.

Non cascarci, conosce la tua posizione, vuole approfittarsene. Fa il docile ma è sul punto di soffocarti. Fa' attenzione!

Certo, a cosa?

Bulma aveva una libido accalorata e scalpitante da soddisfare, se per appagarla doveva vestire i panni della preda indifesa poteva accettarlo. D'altronde, il vestito da coniglietta indossato molti anni fa lo aveva conservato, in più, aveva scoperto d’essere una naïf della recitazione. Già immaginava la scena: lui il cacciatore d’anime pure che la braccava, lei la preda immacolata da violare. E l’ultimo fornicante e movimentato atto a svolgersi nel suo tempio: il laboratorio.
Se l’avessero vista i suoi amici l’avrebbero condannata d’eresia e messa al rogo senza indugi, probabilmente.
Il Diavolo non ama, ma vuole essere amato; Vegeta era il male incarnato, un nefando, in esso non vi poteva esistere il bene. Questa era una legge inconfutabile, un assioma. Ma Bulma era una miscredente e andava fiera della scienza esatta. A suo parere le leggi andavano sempre verificate.
Per la posizione non c'erano problemi, a parte la scomodità d’essere su un pavimento gelido e sporco, si faceva così l’amore.

Spostata e sporcacciona. Accostare un assassino ai sentimenti è aberrazione, renditene conto!
Le bestie non conoscono amore, quel che provi per lui non lo è. Non hai più sedici anni per dar retta a una cotta da adolescente, piuttosto smorza questa orrida creatività e cerca di liberarti!

Bulma si sentì avvampare. Non seguì la coscienza, il cuore le comandava d’arrivare fino in fondo.


E poi... Spifferi poco gradevoli entrarono dal portellone rimasto aperto e per contrasto le fecero battere i denti; la massa informe dei suoi capelli era fredda e umida e i vestiti le si stavano asciugavano addosso. Con quegli sbalzi di temperatura le sarebbe venuto un raffreddore.

«Stai tremando.»
Evidenziò il saiyan.
«Sento freddo.»
«Oppure, hai paura di me?»
«Figurati, nell’inutile tentativo di soccorrerti mi sono completamente bagnata, sotto la pioggia, non lo vedi? Perciò, se non mi lascerai alzare mi beccherò un’influenza e la colpa sarà unicamente tua.»
Oppure potresti darmi un po' del tuo calore.
«Ah, mi dispiace… »
Disse ironico Vegeta, appiattendosi quasi del tutto su di lei per… annusarle i capelli.
Era serio? Le stava giocando un brutto tiro? L’enigma aveva importanza zero per Bulma: il suo cervellino assorbente memorizzava ogni attimo immortalandolo sulla pellicola dei momenti magici, assoluti.
Oramai conosceva il respiro leggero del torvo, il profumo della sua pelle... e stava imparando a conoscere anche la sua massa corporea. Lo sentiva bollente su di lei, era una specie di termosifone ambulante su cui legarsi e scaldarsi. Desiderava raccogliere dati anche sulla consistenza del suo corpo, ma si trovava pressappoco fissata al suolo della navicella. Difficile toccarlo, qualora lui le avesse concesso di farlo.
Posso accontentarmi.
Un contratto non scritto a cui sarebbe stata beatamente dannata, per il resto della vita.
La disturbava solamente non essere al massimo della pulizia e della compostezza. Si chiedeva che odore sentisse il saiyan, a fine giornata e dopo la scossa d'adrenalina – tralasciando i vari agenti atmosferici intercorsi – non credeva di vantare aromi esotici o di profumare come una rosa, ma neanche di emanare puzze tremende.
Spero non si faccia un’idea sbagliata, sono pulita io.
Purtroppo, il momento d’estasi fu breve: Vegeta le sfiorò con la punta del naso una guancia, avvicinandosi pericolosamente alle sue labbra, lei non seppe resistere e ansimò, forte. Il saiyan sogghignò di sghembo.
«Se è per questo, mi tolgo volentieri.»
Il torvo  concluse la sua recita e come d’improvviso aveva schiantato a terra la terrestre, con lo stesso impeto, s’alzò veloce liberandola da ogni morsa.
S’era preso gioco di lei ribaltando la situazione, la giornata aveva riacquistato un senso.
Prima di andarsene, la squadrò un’ultima volta: la ragazzina aveva gli occhi chiusi e la labbra arricciate ad aspettare chissà cosa. Constatò che osservarla dall’alto verso il basso era una visione piacevolmente gratificante.
Dopo, sparì. Evitando di collassare ancora.

 

~ ~ ~

 

Annebbiata dai fumi del suo stravagante e licenzioso spazio onirico, Bulma era rimasta stesa al suolo della capsula spaziale come uno stoccafisso: con le mani raccolte sotto il viso nella parodia di chi vorrebbe discolparsi da una colpa non commessa.
Che è successo? Dov’è andato? Perché non lo sento più?
È successo che s’è stufato di giocare con te e t’ha lasciata come una tonta. Alla fine non t’ha trovata così “anima appetibile”.

Del saiyan non era rimasto nemmeno l’ologramma e lei non l’aveva percepito andarsene. Supervelocità aliena, uno svantaggio.
Sedotta e abbandonata.
Concetto che rimbalzava come una pallina da ping-pong da una parte all’altra nella testa della scieziata, ed era la sua coscienza a schiacciarle i rovesci più difficili da ribattere.
Dovevi aspettartelo, credevi veramente che provasse qualche forma d’attrazione nei tuoi confronti?
Quello è il peggior figlio di buona donna che tu abbia mai incontrato.
Ringrazia che non abbia fatto sul serio. Poteva ucciderti, il disgraziato.

Il rimprovero della vocina cadeva con la stessa risonanza di un inutile monocorde bla bla bla, anche se aveva pienamente ragione: deglutire e respirare le costava fatica.
Bidonata una seconda volta…
Esser stata burlata la toccava, di striscio, ma il vero uppercut arduo da incassare era sentire di già la mancanza del torvo.
Con lui aveva un conto in sospeso e degli obblighi umanitari, non poteva sfuggirle. Inoltre, s’era accorta di un particolare spiacevole: sul volto duro ma perfetto del saiyan sfiguravano brutte occhiaie. Prova inequivocabile di notti insonne.
Qui servono provvedimenti, sta male, se continua in questo modo...
Saperlo a soffrire perfino d’insonnia aumentò la sua apprensione. Ma all'ennesima folata di gelo, Bulma decise di alzarsi. Tra i lividi della scorsa notte e la botta in testa appena presa – urgeva un po’ di ghiaccio sul bernoccolo che sentiva pulsare nella zona occipitale del capo – le doleva ogni centimetro del corpo.
Ecco la risposta a cosa poteva darle una scimmia: traumi e dolori; brividi... e la forza di sentirsi una fiera, di non aver paura di niente.
Non poté fare a meno di massaggiarsi il collo e la mano sinistra che aprì e chiuse ripetutamente per far rifluire correttamente il sangue.
Arrivata alla soglia del portellone, l’assalì la sensazione di essere stata poco attenta, la stessa che s’avvertiva uscendo da un luogo affollato di gente.
C’era qualcosa di sbagliato, di mancante.
Continuò ad osservarsi massaggiandosi la mano: unghie perfette, laccate del solito rosso che le piaceva tanto; il cerottino, che nel giro di un giorno le avrebbe lasciato il segno della colla appiccicosa difficile togliere, pure lui era lì, fermo a coprire l’esito di una piccola distrazione e… Il cappio?! Dov’era il cappio?
Dov’era finito l’anellino arrivato inaspettatamente a scombinarle la vita? Che l’aveva fatta sentire un’immeritevole disgustosa traditrice, il fardello da portare dov’era?
Non c’è più.
Vegeta poteva saperne qualcosa.
Questo le venne in mente. Ma fece una scelta, una conscia.

L’ho perso, l’ho perso io, ed è un guaio.

Dovrebbe dispiacermi... No, non ci riesco.


 


 

Continua…

Note:

1.Ad esergo i loro sguardi: uno schizzo che obbligatoriamente andava infilato per farvi entrare nella loro ottica. E poi, era ora di mostrarvi gli occhi del Principe.
2.Hedy Lamarr? Era un genio, un’attrice. Una donna gotica in tempi lugubri. Come si può non ammirarla?
3. Il papà di Bulma se ne va in giro per la Capsule Corporation con una bici. No, non l’ho inventato: sesto numero del manga, Goku raggiunge la città dell’ovest per farsi riparare il Dragon Radar da Bulma e vediamo il signor Brief comparire pedalando all’interno della grande villa. Sono piccolezze, ma io me le segno.
4.Il vestito da coniglietta è quello che le dà Olong. Che Bulma l’abbia veramente conservato non ne ho idea, a me faceva brodo così.
5. Disegno ufficioso: quella che vedete in basso non è una playmate del vasto harem del signor Hugh Hefner, solo non ho saputo resistere alla tentazione di disegnarla “intera” vestita da coniglietta. Per essere giusti è bene citare anche Christian Louboutin: sì, io adoro le sue scarpe col fondo rosso.
6. Disegno ufficiale: CLICCATE PER VEDERE LA FANTASIA DI BULMA.
Attenzione! Ho scelto di non pubblicare direttamente questo disegno, che non ha nulla di scandaloso – rimaniamo in un rating arancione – ma non si sa mai come potreste prenderla, poiché la scena è esplicita. Cliccando vi assumete automaticamente tutte le eventuali responsabilità.
7.Contente/i? L’anello non è durato nemmeno un pomeriggio, vi lascio la scelta di decidere dove sia finito e come e chi l’abbia fatto sparire.
8.All’interno del capitolo chi è attento noterà frasi prese dalla traduzione italiana dell'anime.

9.Sì, capitolo aggiornato più tardi che mai, inconvenienti si sono frapposti tra me e la mia periodicità.
10.Ringrazio i lettori, i recensori, e chi mi segue.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI - Eclissi di efferatezze serali. ***


 

Pochi preamboli: in fondo alla pagina c’è… “movimento”.Volete vedere?


 

Standby

Capitolo VI – Eclissi di efferatezze serali


 

Un’emicrania, una lieve cefalea da far passare con due dita d’acqua e l’effervescenza di un analgesico dal sapore amarognolo o, più rapidamente e per grazia del gusto, con un confettino dai contenuti ed effetti taumaturgici.
Yamcha l’avrebbe risolta così: rimanendo a cena con i suoi genitori e al fianco del suo fidanzato prossimo alla partenza.
Questo se avesse avuto un filiforme corpo femminile, pelle nivea, capelli azzurri e occhi che al variare della luce e del tempo arrivavano ad assumere le sembianze del cristallo; e naturalmente il più bel paio di tette di tutta West City: non enormi con l’areola dilatata, non flosce e cadenti penzoloni, ma dalla circonferenza equilibrata; tonde e piene non molto soggette alla forza di gravità, perfette.
Lui non aveva quest’aspetto, però aveva la donna che possedeva siffatte grazie ed esattamente sopra all’avaro ed esigente
possedere incideva la disputa interiore che lo stava logorando.

Il bestiame va tenuto nel recinto sotto stretta sorveglianza.

Bulma aveva deciso di saltare la cena… o lo steccato; dipendeva sotto quale luce la si guardava: quella di Yamcha era il riverbero di una timida ma sinistra lampada posta su un tavolaccio a fendere il volto del reo da interrogare. Accesa a sbiadire Bulma in una figura opaca di verità.

Si è sentita poco bene, null’altro.

Dove i suoi occhi non gli permettevano di vedere ci pensava la sicofante diffidenza ad informarlo.

Va vigilato, il bestiame, specie se abigei s’aggirano come avvoltoi pronti a portartelo via.

L’abigeo rapace che svolazzava attorno al suo bestiame era il pidocchioso saiyan.

Me l’ha detto sua madre: "aveva un forte mal di testa, è andata a riposare".

Sicuro: le emicranie le spuntano all’improvviso e la costringono ad evitarmi… A scappare da me che sono il suo padrone.

Ma lo spilungone voleva smetterla di elaborare e seguire queste noiosissime tesi meschine ed assurde – le ubbie createsi nell’arco della mattinata contro la sua donna s’erano disciolte come neve al sole, ormai – purtroppo però, ad impedirglielo, c’era l’inamovibile fissazione di proteggere ciò che gli apparteneva.
La mania s’era presentata appena rimesso piede in casa, dove alloggiava il pericolo: ovvero quel criminale dal becco adunco, libero di far l’uccel di bosco per la Capsule Corporation.
Si chiedeva con quale coraggio avesse potuto lasciare la sua donna da sola per venti lunghi giorni, convinto che l’uccellaccio se ne fosse stato lontano dalla sua proprietà.
Dover assentarsi nuovamente lo agitava terribilmente; Bulma andava messa al riparo dagli artigli di quel condor.

«Adesso si vede?»
Chiese il signor Brief agli unici due spettatori presenti in salotto a consumare la deliziosa cena preparata dalla compagna dello stesso.

Lo scienziato era incastrato tra il televisore ed il muro, intento a smuovere grovigli di fili nel tentativo di riprendere il segnale che l’antenna della TV, come il monitor del laboratorio collegato a quello della navicella spaziale, non captava più. 
L’immagine nel quadro del televisore – un cinquanta pollici che posto su un mobile sovrastava completamente la bassa statura del signor Brief, nascondendolo – s’era bloccata sul mezzo busto di una giornalista rimasta buffamente, e volgarmente ad occhi dissoluti, con la bocca aperta.
«No, ancora niente.»
Rispose desolata la moglie, continuando ad osservare una certamente vecchia otturazione in piombo su uno dei molari inferiori della cronista; Yamcha, invece, era concentrato a recepire altri tipi di segnali, come l’aura di Vegeta che avvertiva debole in un punto impreciso dell’enorme residenza Brief e, soprattutto, quella di Bulma: impossibile da localizzare.
«Sono spiacente, con questa – lo scienziato, dai cavi contorti e risucchiati nel muro, si voltò verso il finestrone per dare un nome al modo in cui la natura stava esprimendosi: per quanto fitta cadeva la pioggia non riusciva a distinguere nulla, a malapena intravedeva le luci degli edifici circostanti; pareva che l’intera Città dell’Ovest fosse stata inghiottita da un’enorme voragine cupa apertasi nel cielo, dalla quale sgorgava nera acqua torrenziale – be', c’è poco da sistemare. Credo che stasera dovremo fare a meno del notiziario.»
Finì con resa, sfregandosi le mani sporche della polvere che irrimediabilmente si depositava insidiosa tra i fili degli apparecchi elettronici. Poi, deluso, spense il televisore.
«E mi sa che dovrò apportare delle migliorie al nostro impianto satellitare. Che ci sia o no brutto tempo, la Capsule non può rimanere isolata dal resto del mondo, non è mai accaduto.»
Concluse costernato dall’insolita anomalia.
«Non preoccuparti tesoro, quando la smetterà di piovere sono sicura che tornerà tutto alla normalità. Ora vieni a mangiare e non pensarci.»
Cercò di consolarlo la moglie che per quanto ne sapeva di telematica, ai suoi occhi, i difetti di un televisore comparati ad una cena a rischio raffreddamento scendevano subito in secondo piano.
Yamcha, ascoltandola, volle confortarsi – ne aveva molto bisogno – capovolse il consiglio per sé: ogni tempesta, anche la più brutta, finiva restituendo il posto alla
normalità.
Sacrosanta ragione.


Non doveva sparire senza avvisarmi.

Se non fosse arrivata la conclusione della turbolenza formatasi tra lui e Bulma avrebbe pensato personalmente a spazzarla via e a far tornare il sereno.

«È un vero peccato che Bulma e Vegeta si perdano una cenetta come questa. Cara mogliettina, lasciatelo dire: sei una maga ai fornelli!»
Affermò il papà della scienziata, gustando la sua porzione di saporita lombata cotta in crosta di sale.
«Grazie! Ed hai ragione, è un peccato. Ma non preoccuparti, metterò da parte qualcosa per entrambi, ricordandomi di abbondare con Vegeta. Quel ragazzone sa avere un grande appetito! Mi sembra identico a Goku... Ma sicuro! Un giorno inviterò anche lui e faremo una bella cena tutti assieme!»
«Già, potresti. I saiyan sono dei mangioni, tu, tesoro, sei un'ottima cuoca. Non potranno rifiutare. E poi mi farebbe piacere rivedere Goku.»

Moglie e marito chiacchieravano fra loro calmi e sorridenti.
Yamcha no: era mesto e pesto d'odio.

Bulma e… Vegeta?

Era la materializzazione mentale – da incubo reale – coagulatasi nella testa dello spilungone, rimasto sbalordito dalla naturalezza con cui i futuri suoceri parlavano dello scimmione appestato.
Tuttavia, il peggio fu sentirsi tagliato fuori: nella microscopica e futile conversazione il suo nome non era stato inserito. Gli era toccato ascoltare, alla pari stregua di unghie fatte scivolare diabolicamente su una lastra levigata, quello del saiyan appaiato insieme a quello della sua donna: una dissonanza rivoltante, da conati per dar di stomaco.
Balzare via dalla sedia e andare a cercarla, questo voleva fare. Ma avrebbe commesso una pessima figura davanti ai suoi suoceri. Era lo scimmione il maleducato, non lui.
«Yamcha, toglimi una curiosità, giochi ancora a baseball?»
Lo colse d’improvviso il signor Brief, mandandogli di traverso il boccone che stava masticando. Il ragazzo si trovò costretto ad aggrapparsi a un bicchiere e tracannare grosse sorsate d’acqua.
«S-sì…»
Ancora in fase soffocamento, si diede due colpi allo sterno e mandò giù l’ostruzione.
«M’è stato confermato oggi stesso che continuerò a giocare come titolare.»
In realtà, non batteva palla dalla casa base del diamante all'incirca da due anni e mezzo. Tuttavia, scelse di non condividere questa verità e gonfiare le vele. Tanto che poteva saperne quel vecchio pazzo di mazze, palle e guantoni in pelle?
«Con i Titan, giusto?»
«Esatto, loro.»
«Sai figliolo, quando ero un ragazzo come te non perdevo nemmeno un incontro, andavo sempre allo stadio. Era la mia seconda passione dopo l’ingegneria.»
«Caro, io direi ossessione – s’intromise la moglie, smascherandolo, per rivolgersi poi allo spilungone – lui non lo dice ma all’epoca se i Titan perdevano una partita si chiudeva nei laboratori finché non gli passava la vergogna.»
«Be', amavo il baseball… lo amo tuttora, peccato che il mio animo si sia affievolito col passare degli anni. Adesso mi limito a seguirlo in tv, quando capita.»
«Era un tifoso dei Titan e non me l’ha mai detto?! Beh, mi fa piacere… Solo mi sembra strano che non preferisca i Wild di West City»
Esclamò lo spilungone, corroborato dall’esser diventato il soggetto del discorso; e mollando di poco la fisima
Bulma è fuggita dal ranch.
«Perché sono originario della Città del Nord.»
Confessò orgoglioso lo scienziato.
«Ma dimmi: sono due anni che non vincete un campionato, se non sbaglio i Giant di South City sono stati gli ultimi ad accaparrarsi il titolo e per voi non è stata nemmeno una bell’annata, vi siete piazzati appena al sesto posto… Insomma, come mai tanta difficoltà?»
Forse il vecchio se ne intendeva più di quanto lo spilungone pensasse. Yamcha iniziò a sentire il bisogno di un inalatore, di spruzzarsi un po’ di salbutamolo – la sua gola si stava annodando – non s’aspettava di dover rispondere a domande tanto frizzanti, era allergico ai giochi della verità.
«Già, quello che ha delineato è il periodo in cui purtroppo la mia frequenza non è stata costante e non ho potuto dare il mio sostegno alla squadra, perciòm non so dirle bene i dettagli mah…»
«Avevi litigato col tuo allenatore? Perché ho sentito dire che è molto autoritario e che esige un certo tipo di gioco. Hai avuto problemi con lui?»
L’insinuazione del signor Brief fu pessima, anche se priva di malignità. Le sue domande avevano pigiato sul tasto sbagliato: l’innesco per un veleno che fermentava tacito nel ragazzo.

No, niente lite, sono stati quei sporchi saiyan a farmi fuori. Non ricorda? Mi hanno ammazzato, da morto è un po’ difficile seguire gli allenamenti e giocare le partite, ma… tornando alle scimmie mannare: se per caso non se ne fosse accorto sua figlia ne tiene una in casa quasi fosse un innocuo animaletto domestico.
Lei e sua moglie probabilmente non mi crederete ma quello, l’alieno che vi fa brillare gli occhi, davanti a voi si sforza di comportarsi in modo civile e fidatevi: la sua è solo una maschera sotto la quale nasconde l’assassino immondo che è.
Quello trama alle vostre spalle. Vi sta sfruttando. Abbiate fiducia, io so quello schifo di cosa è capace.

Caricato da un astio coltivato accuratamente nel tempo e tanto maturo da essere marcio, Yamcha avvertì l’urgenza di sputare fuori ogni singola calibrata sillaba che componeva la sua accusa.
Gli scimmioni galattici avevano calato la scure su di lui e di conseguenza erano finite le arti marziali, le ragazze, le corse in auto, le partite di baseball, la sua esistenza, tutto. Era stato stroncato ingiustamente.
Ma il momento di tornare alla ribalta era giunto: risorto, voleva ricominciare, costruirsi una vita – quella che sentiva di meritare – e nessuno, né i venturi cyborg né alcun’altra putrida scimmia, nessuno avrebbe più interferito col suo destino.
«Diciamo che, sì, ho avuto piccoli screzi col mio coach. Ma nulla di grave, ci siamo chiariti e come le ho già detto tornerò a essere di ruolo.»
Finì, sorridendo e mentendo, senza sputare alcuna goccia della tossina che aveva in circolo. In attesa di colpire nell’attimo opportuno, in cui avrebbe palesato la vera lurida essenza del saiyan, polverizzando gli inspiegabili ed allucinanti riguardi che i genitori della sua donna provavano per quell’abigeo rapace omicida con la coda da scimmia; anche se quest’ultima Vegeta l’aveva perduta.

«Bene, allora ti faccio il mio in bocca al lupo ragazzo!»
«La ringrazio… cioè, crepi il lupo.»

E cerca di crepare anche tu, saiyan.


 

~ ~ ~

 

"Ho sbagliato” o “avrei dovuto agire in modo diverso” non erano locuzioni d’accostarsi ad un guerriero dall’animo ferreo e deciso come Vegeta.
Rimorsi? Non sapeva cosa fossero e non era intenzionato a scoprirlo. Eppure il tarlo di
non essersi comportato nella giusta maniera con la terrestre l’aveva intaccato; per la precisione, sin da quando s’era arreso all’idea di dover accettare vitto e alloggio dalla vagonata di buoni a nulla del pianeta Terra. Purtroppo, fresco di negromanzia, confuso, con la terra fin dentro le orecchie, scaricato da un pianeta all’altro come una valigetta mentre Kakaroth se la sbrigava con Freezer; in queste circostanze, aveva avuto altra possibilità di scelta? No.
Difatti, nel rispetto dei suoi preconcetti – gli ultimi ai quali s’aggrappava con unghie e denti poiché lo facevano sentire ancora un saiyan – Vegeta s’era ripromesso di vivere insieme ai terrestri a patto d’avere pochi e ristretti contatti con loro. E invece di mettere in chiaro sin da subito la questione con la ragazzina, aveva lasciato che gli eventi accadessero.
Volente o nolente, ora, il compromesso era riapparso con effetto boomerang: pur di tornare indietro e tirare il collo a quella femmina era disposto a cedere anche parte della propria forza. Anziché trastullarsi con lei come s’era ritrovato a fare poc’anzi.
Aveva l’impressione che la furbetta, sfruttando le cattive condizioni in cui lui si riduceva dopo ogni allenamento, stava silenziosamente intrufolandosi nei suoi guai, moltiplicandoglieli.
Darle spago, limitandosi a minacciarla ed irriderla, non era stato un buon deterrente: per come l’aveva inquadrata sarebbe riapparsa all’attacco fino a massacrargli la pazienza. L’aveva capita.
Ma allora perché s’era trattenuto? Perché invece di fare il facinoroso, aveva preferito baloccarsi con lei?
Perché Vegeta se n’era accorto e non aveva saputo cacciarla via: aveva fatto caso al modo in cui quella femmina gli girava attorno, ai suoi sguardi da stravolta adorante, alle sciocchezze che gli diceva con i suoi “
io devo, io ti consiglio, io so… Come stai, fammi stare tranquilla… Tu sei affar mio”.

Saputella appiccicosa. Linguacciuta ficcanaso che non sei altro.

Non lo sopportava, non mandava giù ammettere che, sotto metri d’orgoglio, si divertiva ad osservarla scodinzolare vicino a lui.
Lei lo aveva medicato. Addirittura voleva rifarlo. Cose strambe, a sua veduta.
Nel corso del proprio disastroso destino, Vegeta non aveva incontrato nessuno che avesse mai avuto una tanta smisurata e mal riposta preoccupazione per lui.
Per quale ragione la riccioluta si comportasse a tal modo, stava cercando di decifrarlo e già disponeva di due ipotesi: o era una terrestre con le rotelle fuori posto, da non afferrare il rischio che correva a stragli vicino, oppure lo spiava per spifferare tutto a Kakaroth. L’ultima se la sentiva addosso paranoica.
In qualsiasi alternativa però, quella
ficco-il-naso-in-ogni-dove non era normale.

Adesso basta.

Constatò d’aver varcato ed essersi spinto molto a largo dal limite della considerazione che poteva dare a una femmina di razza inferiore come lei. Oltretutto, in sua presenza, gli capitava d’irrigidirsi senza motivo e con fatica le toglieva gli occhi di dosso.
Non era concepibile.
Concluse che doveva disfarsene, cestinare il pensiero di lei, smettere di parlarle e soprattutto di guardarla.
Nel frattempo, tornato nel suo rifugio – la stanza in cui era stato sistemato dai terrestri e unico posto dove poteva star tranquillo – si aggiunse, a quella che lui incominciò a definire “
scocciatura da influenza terrestre”, la fame, che con una catena gli stritolava le viscere di crampi allo stomaco, spossatezza e capogiri.
Non metteva nulla sotto i denti dalla notte passata. Aspettare oltre evitando di piombare per l’ennesima volta in uno stato di incoscienza era impossibile.
A malincuore, Vegeta dovette convincersi di condividere la cena coi terrestri, mandando in fumo l’accortezza che aveva impiegato nell'evitare di farsi sentire e vedere per rientrare alla Capsule C attraverso una finestra del secondo piano lasciata socchiusa.
Fu quasi raggiungendo la sala da pranzo che s’accorse dell’ingombrante presenza del perdente, sinora non notata.
Di colpo, i pensieri che aveva appena deciso di annegare dentro di sé riemersero più dirompenti e pulsanti e presero ad incendiarsi. Come benzina gettata sul fuoco. Era arrabbiato. In collera principalmente per sentirsi in uno stato d’instabilità psicologica a causa di quella strega.
I suoi passi diminuirono di conseguenza, la dubbia voglia di vedere i terrestri si rivelò una non-voglia; in più aveva due orecchie che lo imploravano di non essere importunate dagli schiamazzi della donna bionda tutta prego e cortesia che udiva cicalare a ruota libera nell'altra stanza.

Yamcha, al pari di un radar, percepì il saiyan avvicinarsi. La scoperta lo intirizzì ma, perlomeno, sapeva che Bulma non era con Vegeta.
I coniugi Brief, chiuso l’argomento baseball divenuto spinoso per lo spilungone, discutevano d’aria fritta e Yamcha rispondeva loro con l’attenzione rivolta completamente allo scimmione fermatosi nella stanza accanto, in cucina.
Il ragazzo si sentì montare da una strana euforia, poteva dirsi pronto ad affrontarlo…
a parole, s’intende.
«Yamcha, poco fa ho visto l’anello che hai regalato a mia figlia, è bellissimo!»
Tra i tanti vaniloqui che la suocera blaterava, udire uscirle quella frase lo galvanizzò maggiormente.
Gli aveva dato spunto.

Ora te la faccio sentire io, saiyan.

«Le è piaciuto signora?! Sono contento! Sa, in verità le ho fatto un simile regalo perché credo, anzi ho l’intenzione di fare il passo… e sposare sua figlia. Lo consideri un anello di fidanzamento ufficiale!»
Aveva spiattellato tutto scandendo ogni parola, soffermandosi sui punti chiave e con un tono di voce elevato, sostenuto, sicuro, pieno di sé.
La reazione? Un brodo di giuggiole generale, eccetto una persona.
«Oh che tenero! Perché non ce l’avete detto subito?! Sentito, caro? La nostra Bulma si sposa finalmente!»
«Sì tesoro, ho sentito. Ragazzo sono molto contento per voi! Mia figlia è tosta ma credo saprai sopportarla.»
«Certamente, la ringrazio, eh… Dopo quindici anni passati insieme abbiamo pensato che l'ora di coronare il nostro amore sia arrivata. Non ve l'abbiamo detto immediatamente per farvi una sorpresa, e perché sapete quanto è timida Bulma.»

«Oh, io quasi non ci speravo più. Siamo felicissimi Yamcha! Non vedo l'ora che arrivi un nipotino!»

Nipotino? Ovviamente, signora Brief.

L’approvazione dei suoceri fu ampiamente appagante. La diretta interessata ne era all’oscuro, ma Yamchca non aveva dubbi che avrebbe acconsentito.

Ha detto che mi ama, ha accettato il mio anello. Ora deve sposarmi.

Importante era far capire all'abigeo i suoi limiti, nel caso avesse messo gli occhi sul bestiame sbagliato.
Bulma gli apparteneva e neanche un assassino giunto dallo spazio poteva portargliela via.

Vegeta stava origliando, non con l’intenzione di farlo; solo pura casualità, per carità.
In quel che ascoltò non ci fu nulla di stabilizzante. Si sentì scuotere, piuttosto, da uno strano movimento del sangue, da una vampata di calore arrivata dritta al cervello, qualcosa di simile alla rabbia che provava verso Son Goku e…

«Oh! Cos’è? Un terremoto?!»
Domandò sorpresa la signora Brief, con la voce impregnata di paura istantanea davanti al lampeggiare della luce e al tremare improvviso di quel che li circondava.
«Il brutto tempo cara, non preoccuparti. Se dovesse andar via la corrente abbiamo il generatore d’emergenza!»
Lo scienziato non fu molto esauriente – i temporali non includevano terremoti, lo sapeva, e questi ultimi davano oscillazioni laterali e verticali, non vibrazioni come se ogni oggetto all’interno della Capsule Corporation, e la Capsule Corporation, stesse per saltare in aria – ma per calmare sua moglie, disse la prima che gli sembrò potesse funzionare: avere l’illuminazione era di fondamentale importanza per chi era facile preda del panico, e sua moglie lo era.
La luce lampeggiò per un po’, poi aumento d’intensità. I filamenti di tungsteno divennero più abbacinanti e tre lampadine, avvitate ad un lampadario fortunatamente non sopra le loro teste esplosero.
Pezzi di vetro sparati come proiettili rimbalzarono sul pavimento.
Ne seguì contemporaneamente un urlo della signora Brief che incontrò subito le braccia del consorte a proteggerla; e uno scatto del micio nero che, da una delle poltrone su cui s’era adagiato a sonnecchiare, corse ad aggrapparsi alla gamba dello scienziato fino a saltargli sulla schiena.
Con l’esplosione cessò anche l'anomala vibrazione.
Quaranta interminabili secondi di terrore se ne andarono via come erano venuti.
«E adesso?»
Domandò la donna affannata dallo spavento.
«Niente, è finita tesoro. Cerca di calmarti.»
L’acquietò il marito che molto probabilmente avrebbe ricordato quella sera come un’inconsueta manifestazione di natura indiavolata dai fenomeni fisici sconvolgenti. Il giorno successivo, da rispettabile scienziato che non contemplava coincidenze, avrebbe tentato di trovare la correlazione tra un terremoto e un temporale burrascoso e avrebbe perso tempo inutilmente. La causa scatenante era a pochi metri da lui.

«Sì, si calmi signora, beva un bicchiere d’acqua.»
S’intromise Yamcha, rimasto zitto, tranquillo e gaio lungo il breve fenomeno.
Lui sapeva benissimo chi si nascondeva dietro cotanta dimostrazione.

Che c’è scimmione, non t’è piaciuta la sorpresa? Non so se sai cosa voglia dire sposarsi, ma ti faccio di una certa intelligenza. Quindi fammi il piacere: vattene e togli i tuoi lerci artigli dalla mia Bulma.

Il bieco, maggiormente bieco, aveva concentrato la sua aura senza accorgersene.
Gli urli e lo scoppio delle lampadine l’avevano ridestato in tempo prima che la mole del suo potere andasse ad arrecare seri danni ad una struttura non adatta a sopportarla.

Un sacco di carne e nullità…
Stringeva ancora i pugni e questo era il pensiero che gli galoppava per la testa come un cavallo imbizzarrito.
da prendere a calci.
Non gli era mai interessato però, in quell’istante, aveva seriamente fantasia di farsi un frappé con le cervella dello smidollato. Ovviamente non l’avrebbero saziato – idiota com’era, c’era poco da frullare – ma gli avrebbero dato un certo ed appagante gusto di sadica soddisfazione, il suo piatto preferito.
La tentazione era quella di spaccargli la faccia: di comparire, afferrargli la testa e sentire lo schiocco e lo spostarsi del naso all’impatto col suo ginocchio (ma con contegno, non voleva ucciderlo subito).
Avrebbe visto colare il sangue dalle narici del perdente come l’acqua da un pertugio di una diga: prima piano poi a fiotti. Dopodiché, sarebbe passato ad uniformare il resto del viso, spappolandogli a pugni zigomi e fronte, tanto da non poter più contenere gli occhi che, pure questi, avrebbe schiacciato per ingrandire la frittata che sarebbe diventato il rivoltante muso dello smidollato; ascoltando in seguito il ticchettio sinfonico dei suoi denti cadere dal buco che aveva per bocca come le monetine sputate fuori da una slot-machine.
Et voilà: una poltiglia irriconoscibile di ossa, sostanze vischiose e sangue. Parecchio sangue.
Ci avrebbe messo poca classe, vero, ma un infimo essere andava trattato come un infimo essere.
Tra loro non c’era né paragone né combattimento da farsi; il pestaggio era l’ideale.
Avrebbe anche potuto togliersi il prurito friggendolo con un raggio energetico – pochi secondi e ne sarebbe rimasto un mucchietto di cenere con l’odore di pancetta affumicata – ma gli avrebbe tolto il piacere di vederlo soffrire. Già, lo voleva sofferente e supplicante.
Compiaciuto dalla truculenta visione, il Principe sorrise al riflesso distorto del suo volto sulla superficie in acciaio del frigo. Era una visione che avrebbe potuto facilmente tramutare in succulenta realtà.
Però, non fece nulla di quel che immaginò: dell’astrusa natura dei terresti e dei loro vomitevoli accoppiamenti gli importava meno della morte della sua intera razza.
Schiacciare certi scarafaggi sarebbe stata una vergogna, un
"andare contro i suoi preconcetti"; ragione per la quale si sforzò di placare immediatamente le turbe killer che gli infestavano la mente, estraniandosi dall’ambiente che lo attorniava.
Aveva un obbiettivo di vitale importanza da raggiungere, se la sua vista s'appannava a causa della terrestre con due cosce memorabili tanto da ostacolarlo dal raggiungere il risultato morbosamente ambito, allora poteva anche scegliere di eliminarla, sul serio.
Sì, forse ammazzandola avrebbe scatenato le ire di Kakaroth – se ben ricordava la ragazzina era sua amichetta – e finalmente sarebbero giunti allo scontro della rivalsa.
Si stava quasi facendo prendere dall’entusiasmo al pensiero di macellare una volta per tutte quel rifiuto spocchioso e di togliergli per sempre quell’aria convinta da supereroe.
Sfortunatamente, prima, doveva almeno raggiungere lo stadio di super saiyan e, pertanto, non doveva circondarsi di ammorbanti pensieri come sporcarsi le mani con feccia terrestre.

Goditi la pacchia Kakaroth, finché puoi… Appena sarò diventato un Super Saiyan ti farò vivere l’umiliazione che m’hai inflitto, portandoti alla morte. E vedrai che sarà un’esperienza lunga e atroce.

Eccolo, era di nuovo in sé. Saiyan al cento per cento: un essere belluino assetato di conquista.
Cominciò a quietarsi tornando ad uno stato di calma letale. Distese le braccia e gonfiò d’aria il torace. Si stava rilassando. Rivangare il rancore per il disertore aveva un effetto lenitivo su di lui e tra l’eclissi di un’idea omicida e l’altra s’accontentò di prendere – senza farsi scoprire dall’allegra brigata accanto – dell’insalata di riso, conservata nel frigo in un recipiente di plastica e qualche scatoletta di tonno; più quattro lattine di birra che per gusto mandava giù come acqua.
Stuzzichini che non potevano sfamare il suo famelico languore, ma non gli andava di trovarsi davanti agli occhi il perdente, i genitori della strega e l’animaccia loro.
Aveva il sentore che alla vista non si sarebbe contenuto per la tanta intolleranza che quella sera aveva raggiunto tassi da codice rosso e gli avrebbe fatto compiere uno piccolo sterminio.
Al momento, lo scienziato gli serviva vivo, attivo e amico.
S’allontanò dai terrestri per raggiungere la sua camera, con l'intenzione di tuffarsi nel letto, divorare il poco che aveva raccattato e tentare infine di chiudere occhio come da giorni non riusciva più a fare.

Yamcha, attento alle mosse del saiyan, interpretò la deviazione come una vittoria schiacciante.

Bravo scimmione, così ti voglio: lontano ed emarginato, fuori dalla mia vita.


 

~ ~ ~



Uscire dalla navicella, rimettendo piede sulla Terra, fu per Bulma un traumatizzante ritorno alla concretezza. Aveva respirato poche boccate nel surreale dei suoi sogni, toccandoli e quasi assaporandoli, poi l’incanto s’era infranto in schegge acuminate che l’avevano trafitta e ridestata brutalmente nel miasma di un’arida realtà: con un Vegeta distante e un Yamcha inaspettatamente simbiotico e soffocante.
Farsi per la terza volta una corsa sotto l’ira di Dio funzionò come doccia ghiacciata per un cattivo però efficace riavvio del sistema: doveva darsi una mossa e trovare un escamotage al fine di occultare parecchie cosette che, se fossero state scoperte, le avrebbero dato grattacapi da strapparsi i capelli e diventar pelata come Crilin o Tenshinhan.

Sbadata, aveva lasciato la porta dell’uscita d’emergenza aperta. Un vantaggio, altrimenti sarebbe dovuta rientrare passando per l’ingresso principale, giacché quello della serra – il giardino botanico di sua madre – e le altre quattro uscite d’emergenza erano chiuse.
Nel caso le sarebbe stato difficile passare inosservata.


Il pianerottolo della prima rampa di scale era allagato – l’acqua s’allargava lentamente e gocciolava sui gradini che portavano ai piani sottostanti – lei fece attenzione a non scivolare reggendosi al corrimano. Ogni passo era un'impronta fangosa di cui non si curava: ci avrebbero pensato i robot a pulire quel pantano.

Raggiunto nuovamente il laboratorio di robotica, incominciò a far girare la testa per la quale andava tanto fiera.

Bene, no, malissimo! Ho pochi minuti per far sì che Yamcha veda comparire Vegeta da solo e non con me, sempre“se” lo vedrà. Dopodiché, dovrò iniziare a pregare di non incontrarlo quando s’accorgerà che la mia camera è vuota e penserà di raggiungere i laboratori, perché lo farà, anzi, starà già davanti alla porta della mia stanza. Devo anticiparlo ma… è meglio che prima dia una sistemata al mio aspetto.

C’erano giusto quel paio di buchi sulle calze, più uno strato di sporco che la ricopriva da capo a piedi da camuffare.
Scattante, la scienziata assalì gli armadietti in fondo al laboratorio, nella speranza di trovare qualcosa di suo con cui cambiarsi e un telo per asciugarsi. Ne apriva velocemente uno e, trovandolo pieno di inutile ferraglia e plichi di documenti archiviati, lo richiudeva con rabbia.
«Dove sono i camici?! In questo laboratorio non si capisce più nulla! Sono ciecamente sicura che la colpa è di papà, non è mai contento, deve sempre variare la disposizione d’ogni cosa! Oh, eccoli!»
Trovati i camici, sorrise... Per poco: c’erano
solo camici e neanche erano della sua taglia.
«Eppure ricordo di aver lasciato qui una tuta, tempo fa»
Snervata, stava convincendosi di infilarsene uno come accappatoio quando, tra le uniformi da scienziato, trovò una camicia a quadri blu e grigi insieme a un paio di calzoni marroni; probabilmente era il cambio del padre che sua madre era solita preparargli nel caso pensasse di rientrare a casa sporco d’olio, grasso, vernice o di qualsiasi altra sostanza pericolosa per l’incolumità della casa.
«Colori indecenti, dovrò accontentarmi.»
Presi gli abiti se li rigirò tra le mani, incerta.
Erano il quadruplo della sua small.


Se metto questa roba mi sa che peggiorerò la situazione. Sono troppo grandi, non posso nemmeno fingere che sia un pigiama.

Ragazza, voglio ricordarti che non è una sfilata. Hai poco tempo.

La coscienza era una spinta in discesa.
«Lasciamo stare gli abiti di papà, devo disfarmi di scarpe e calze. Se Yamcha mi vedesse non credo crederebbe alla balla che colta da un raptus mi sia ridotta così per essermi data alla potatura del giardino sotto un violento acquazzone»

La botta che hai perso in testa deve aver funzionato, eh! ... Datti una sbrigata!
Cercò ancora, immergendosi nell’armadietto e, su una mensola interna, trovò delle ciabattine rosa indubbiamente sue. Ma che erano attualmente inutili.
Mentre si sfilava le calze – dopo aver slacciato e tolto le scarpe – avvertì, in equilibrio sulla punta di un piede, un senso di sbandamento che la portò ad urtare con la spalla l’anta aperta dell’armadietto.
«Fantastico, ora non so più stare in piedi! Ah, Bulma, quando te la farai fare una visita completa?!»
Esclamò, senza percepire il lieve tremolio di quel che la circondava, finché le lampade fluorescenti non emisero una luce più intensa accompagnata da forti ronzii.
«C-cosa sta succedendo?»
Era la collera di Vegeta che, circa venti metri sopra di lei, se ne stava furente davanti a un frigorifero a conoscere per la prima volta la gelosia e l’inaccettabilità di provarla.

 


~ ~ ~


 

Congedato il suocero, insieme alla moglie ancora sconvolta, Yamcha si diresse davanti la soglia della camera di Bulma per controllare che stesse bene. Soprattutto che ci stesse. Perfettamente come previsto da lei.
La strada la conosceva, molte volte c’era stato accompagnato dalla sua ragazza.
Poiché la porta che gli si parava dinanzi era chiusa, ci andò di nocche sul lucido legno d’essa e attese una risposta.
Non fece trascorrere più di un minuto prima di alzare la voce e chiamarla.
«Bulma, sei qui? Mi senti? Dai, non farmi preoccupare, rispondi!»
Non gli importò d’aspettare oltre e l’aprì.
«Amore, stai dormendo?»
La camera era buia. A tentoni, cercò l’interruttore sul muro a sinistra e, trovandolo, accese la luce: lei non c’era.
Al suo posto compariva un soqquadro di libri aperti attorno al letto e sotto di questo; una fila di scarpe dal tacco medio-alto sistemata accanto a un grande armadio e una scrivania che sembrava la copia in dimensioni ridotte di quella nei laboratori. A differenza che, sopra questa, oltre ad esserci un'altra calcolatrice, una scatoletta con un set di cacciaviti e un computer portatile; v’erano sparsi un rossetto, quattro tonalità di vernice rossa per unghie e tutto quel che faceva di Bulma una femmina fanatica, come orecchini dalle stravaganti forme e bracciali d'oro e d'argento.
Sotto la scrivania, un cestino gonfio di rifiuti e bisognoso d’esser svuotato mostrava lo show di un vasetto di yogurt ben spazzolato rimanere miracolosamente in bilico tra un foglio accartocciato e il cartone di una confezione di cioccolatini.
La stanza era un ambiente arredato semplicemente ma caratterizzato da un caos che solo lei poteva creare.


Ha scavalcato la recinzione. Sì, lo ha fatto.

«No, non andrò a cercarla, aspetterò che venga. Sicuramente è andata nei laboratori.»
Si disse Yamcha, con la medesima voce che s’userebbe per dissuadere qualcuno dalla brutta realtà dei fatti; non s’aspettava di non trovarla, anche se, prima di entrare, non aveva percepito alcuna presenza vitale.
Con una mano inforcò i capelli mandando indietro il caschetto da damerino che aveva per acconciatura, e si grattò il capo – appena lasciati, i ciuffi neri tornarono subito al loro posto – poi, si spostò in direzione del letto situato sotto la finestra. Era troppo rassettato per poter immaginare che fosse entrata in camera prima di lui e che ci si fosse sdraiata.


“Signora, Bulma dov’è?”

Ah, le faceva male la testa, è andata a riposare. Ma non preoccuparti per lei, resta e cena con noi.”

Non aveva potuto rifiutare per educazione.

… A riposare.

«Devo stare calmo, adesso torna, lo so.»
Era assurdo persino per lui pensarla come se fosse andata chissà dove. La Capsule Corporation era grande, dispersiva, ma non così sconfinata e con abominevoli mostri pelosi forniti di coda acquattati nell’ombra, come la stava vedendo lo spilungone.
Attento a non pestare i libri disseminati a terra, Yamcha s’accomodò sul letto e questo accolse il suo peso con un lamento leggero. Coi gomiti appoggiati sulle ginocchia, lo spilungone iniziò a fissare attentamente la moquette, quasi che Bulma si nascondesse tra le fibre del morbido pavimento e lui stesse tentando di scovarla.

Dove ti sei cacciata…

La sua pazienza andava surriscaldandosi, così, per rilassarsi, si distese indietro restando eretto sugli avambracci.
Il letto era soffice, candido, crudelmente nostalgico.
Gli mancava: sentiva la mancanza di lui sopra con Bulma sotto.
Dopo esser stato resuscitato grazie ai poteri del Dio Drago non l’aveva più toccata come avrebbe dovuto. Avevano perso quell’intimità, non assidua ma nemmeno saltuaria, che prima del suo disgraziato trapasso aveva caratterizzato il loro rapporto.

Forse è per questo che sono arrivate le nubi.

Era certo, però, che la colpa di tale inattività la si doveva pienamente imputare alla sua fidanzata: tornato tra i vivi, Yamcha l’aveva trovata diversa, non eccessivamente strana come la mattinata trascorsa, ma un filo di anormalità  l’aveva già riscontrato quando una sera, pochi giorni dopo la sua rinascita, avevano provato ad immergersi l’uno nell’altra e lei s’era spenta fra le sue braccia liquidandolo con uno schietto “non mi va Yamcha, è troppo presto”.

Quel “troppo presto”gli era rimasto sul gozzo e, tuttora, non riusciva a comprenderlo. Non capiva in quale spazio temporale collocarlo. Se era un troppo presto dalla sua resurrezione, un troppo presto per la digestione o, a questo punto, un troppo presto dall’averci già dato dentro col saiyan.
Ma dopo quella volta, accaduta anzitempo al suo emigrare per gli “
allenamenti dal Maestro Muten”, lui non aveva più tentato di andare oltre l'abbraccio, portando un atteggiamento remissivo e smisuratamente comprensivo verso di lei che, a pensarci ora, Yamcha si dava dello scemo.
Aveva deciso, da idiota, d’aspettare che fosse lei stessa a sciogliere la tagliente lastra di ghiaccio nella quale s’era imprigionata.
Vederla quindi accettare l’anello – comprato per intiepidirla un po’ – e ricambiare vivamente i suoi baci, come lui credeva, questo aveva riacceso in Yamcha la fiducia che le cose potevano aggiustarsi come sperava (saiyan tenuto alla larga obbligatoriamente).

Quel che Yamcha sottovalutava era che il ghiaccio s’era sì sciolto, ma per un’altra persona.

Irritato dall’interminabile attesa, roteò gli occhi lasciandoli cadere sul comodino accanto al letto. Questo aveva un cassetto semiaperto dal quale penzolava la spallina di un reggiseno bianco coi merletti viola.
Guardandolo, un desiderio gassoso e malato trovò modo di uscire dal sarcofago nel quale era stato sigillato.

Controllati, certe cose non le fai più.

Ma la sua mano disobbedì: con due dita aprì meglio il cassetto ed agganciò la spallina tirando fuori il reggiseno. Usando movimenti lenti lo odorò come fosse incenso benedetto, sapeva di lei e d’ammorbidente aromatizzato alla felce.
Le dita gli traballavano, se lo stava godendo.
Il vizietto era un segreto che nessuno conosceva. Yamcha se lo portava dietro da quando, per sbarcare il lunario, assaliva i viaggiatori che attraversavano il deserto sulla strada per i monti Paozu; con il nome di
Yamcha la Iena del deserto.
Lo aveva sviluppato dai tempi in cui faceva il ladro errante con la fobia verso il gentil sesso.
Bulma non s’era mai accorta dei suoi disturbi, tantomeno che, se c’era l’occasione, le rubava qualsiasi capo della lingerie. Le autoreggenti erano le sue preferite, ma i pizzi cuciti sulla soffice stoffa di un paio di mutandine lo mandavano in fibrillazione.


Va bene, l’ho fatto. Ora lo rimetto dov’era, se lei tornando dovesse...


Però, la voglia era un mostro più grosso di lui. Così frugò nel cassetto, brillo d'avere fra le mani la biancheria intima della sua donna che, per un motivo a lui sconosciuto, non toccava da troppo tempo.


Adesso non tornare Bulma, resta dove sei.

 

~ ~ ~

 

Racconciato alla meno peggio il problema “aspetto”, l’avvenente scienziata stava incollata nel centro del laboratorio a concedersi una riflessione di troppo, sgarrando il tempo che s’era autonomamente concessa per riapparire al cospetto del suo carceriere. In un paio di pantofole rosa, con le cosce nude e i capelli ricci che le ricadevano sulla spalle in ciocche mosce ed attorcigliate come serpenti morti; Bulma cercava di elaborare una scusa per motivare la sua fuga… E definirla così non era neanche il termine esatto: non era fuggita, s’era solo momentaneamente assentata dopo aver avvertito la claustrofobica sensazione di aver un cappio annodato alla gola.
In diritto d’aria, la scienziata aveva fatto una passeggiatina per far scivolare il suo collo da una corda ruvida ad una mano calda dalla presa possente, di cui sentiva attualmente la mancanza e per la quale aveva desiderato essere stretta dappertutto.
Ripreso un po’ d’ossigeno, si sentiva pronta a ficcare nuovamente la testa nel nodo e restare in apnea.

Guardandosi attorno, scovò l’astuccio di capsule Hoipoi, quello con dentro l’utilissimo elicottero 87. Stava sopra la scrivania, mimetizzato in mezzo a un subbuglio di roba, a fare inutilmente peso su una risma di fogli. Il suo cervello, nella frazione di pochi secondi, ingegnò un piano.

Ok, sono scesa di sotto perché mi sono ricordata di aver lasciato lì il mio contenitore di capsule, e l’ho fatto perché dentro c’è un progetto importante che domani dovrò presentare in azienda.
Perfetto! Questa dovrebbe reggere. Se mi dovesse chiedere perché sono bagnata basterà ricordargli l’acqua del dopo horrid-park. Sì, mi crederà.

Oh, ti crederà incantato come un bimbo al quale viene raccontata la storiella della fata dei dentini.
Yamcha è stupido, ma non così stupido.

Il suo elaborato mentale era una bagnarola che faceva acqua da tutte le parti; la coscienza stessa la canzonava. Non avrebbe funzionato, sarebbe affondata. Tuttavia, volle convincersi del contrario.
Magari con un sacco e una scorta di buona sorte lo sciocco fidanzato non l’avrebbe messa sotto torchio.
Si mosse, puntando verso la sua stanza. Aveva poca certezza di riuscita ed era inconsapevole della libertà che la madre s’era presa per giustificare la sua apparentemente immotivata sparizione.
Ad attenderla c’era un Yamcha sconosciuto che frugava nei suoi cassetti.

 

~ ~ ~



Udito acuto e sensi attenti lo salvarono dall’essere scoperto e morire di vergogna.
Lo spilungone, percepito uno svelto ciabattare sul parquet dirigersi verso la camera dove si era infilato senza permesso, rimise a posto il paio di mutandine che teneva stretto fra i denti e la lingua, chiuse il cassetto e velocissimo spense la luce. Si nascose a terra, nello spicchio di spazio tra il letto e la parete.
Era lei, ne riconosceva i passi.
Quando Bulma entrò, avanzò nell’oscurità dirigendosi direttamente nel bagno interno alla camera. Lì, accese la luce.
Con la sicurezza di aver anticipato l’aguzzino, e un sorriso che per poco le tagliava in due il viso, si tolse la maglia a righe del suo compianto completino arancione. Pensò di sfruttare il momento e farsi una doccia. In tal modo, se lui si fosse presentato l’avrebbe trovata innocente e pulita a fare una cosa normale.
Lasciò scivolare la maglia ai suoi piedi, ed intanto che tentava di sganciarsi il reggiseno, vide nello specchio davanti a lei l’immagine di un corpo che non sembrava più il suo: i lividi erano ancora tutti lì, più intensi, a marchiarle la pelle chiara con sfumature di viola e verdastro – addirittura, quelli sul fianco s’erano dilatati raggiungendo il ventre – ma la novità stava sul collo: dove strisce e chiazze rossicce formavano un tatuaggio di segni nuovi, ancora lievi, ma che sarebbero diventati presto più scuri. 
Nonostante la loro bruttura, Bulma constatò che il rosso le donava. Davvero. E un campanello d’allarme le suonò alto nella testa, lei lo ignorò e, indifferente, evitò anche d’ascoltare la vocina che l’accusava d’essere una bacata masochista da ricovero urgente.

Per nascondere ogni misfatto, sarebbe bastato indossare un maglione dolcevita e stare attenta a non tirar su le maniche; quella destra in particolare, dove l’impronta della mano di Vegeta era evidente.

«Bulma, ti stavo cercando.»

Credette di morire e le ci volle un lasso di tempo non molto breve prima di appurarsi che il suo cuore non era scoppiato ma continuava a pompare i soliti battiti, solo che ad un ritmo più accelerato.
Connetti, sei mezza nuda con le tracce di un altro uomo su di te, cosa potrebbe pensare?
Istintivamente, prendendo un asciugamano, Bulma si coprì il braccio ed abbassò la testa celando le chiazze che aveva sul collo. Per il resto, pregò vanamente che il suo fidanzato non s’accorgesse di nulla.
«Yamcha! Ma non bussi prima di entrare?!»
«Scusami, non ci ho pensato. Tu invece sta’ attenta a tenere le porte chiuse,
quando ti spogli. Quella della tua camera era aperta, sentendoti in bagno e vedendo che pure questa porta era spalancata, sono entrato.»
Le rispose sornione, permettendosi di rimproverarla. Gli aveva detto bene a non essere stato colto sul fatto.
Bulma trasalì: era trapelato risentimento dal modo in cui le aveva parlato.
«Allora, hai saltato la cena, che t’è successo, come stai?»
Il ragazzo passò subito al sodo, friggeva dal bisogno di sapere cosa diavolo stava combinando la sua Bulma, perché ne era certo: lei gli stava nascondendo qualcosa.
«Sono dovuta scendere nei laboratori.»
Ci andò sciolta, a questa domanda era preparatissima.
«Tua madre mi aveva detto che avevi mal di testa e che hai preferito ritirarti nella tua stanza.»

Cosa? Possibile che quella donna non si faccia mai i fatti suoi? È utile quanto disboscare un terreno a rischio smottamenti, accidenti! Va bene, calma, calma, calma, posso sanare la falla. Ci vuole naturalezza.
«Sì, anche quello, ho un forte dolore, proprio qui!»
Disse, cercando di mimare un malessere che non c’era. Anzi, in verità lo aveva: la sua cute ad intervalli le mandava squisite ondate di dolore. Colpa del saiyan.
Accorgendosi che Yamcha era stranamente attento e poco convinto, Bulma continuò la recita.
«Certo, avrei dovuto riposare, ma non ho potuto. Vedi cos’ho in mano – disse, agitando l’astuccio di capsule Hoipoi sotto il naso di lui – qui dentro c’è un progetto che domani dovrò presentare in azienda, un nuovo prototipo d’autovolante da immettere nel mercato… Credevo di averlo perso, quindi sono scesa a cercarlo nei laboratori. Fortuna che l’ho ritrovato!»
Un’interpretazione penosa, di istrione, ma fu quanto di meglio poté fare prima d’iniziare a sparare a salve.
«Certo, ho capito»
Proferì lui, laconico ma sufficientemente soddisfacente per farle tirare un sospiro di sollievo.

Che bello! Credevo m’avrebbe tempestata di domande. Lassù qualcuno mi ama!
Ma come spesso stava accadendo, le gioie le duravano quanto un battito del suo cuore agitato.
Sul viso di Yamcha non v’era la manifestazione di alcun sentimento, c’erano solo un paio di cicatrici e due occhi da crotalo che le solcavano la pelle, soffermandosi spesso a scontornarle i seni. Lei non si era mai sentita tanto scoperta di fronte lui.
Presumibilmente, non le aveva creduto e stava immaginando chissà quali contorte stranezze.
La stava incriminando.

«Che cosa sono questi?»
Sentirlo riaprir bocca la fece sussultare ancora.
«Come?»
«Cosa sono questi lividi, come te li sei fatti?»
Insistette lui, avvicinandosi a Bulma e indicando le ecchimosi che le macchiavano il fianco.
«Ah, questi… be', ieri ero in laboratorio e inciampando ho urtato uno dei tavoli operativi e parte dell'attrezzatura metallica mi è caduta addosso»
In improvvisazione, la scienziata continuò a tenere stretto l’asciugamano che le copriva l’avambraccio. Almeno gli altri lividi lui non doveva scoprirli.
«Che hai?»
Chiese Yamcha, maggiormente convinto dei suoi dubbi nel vederla letteralmente in difficoltà.
«Niente, perché?»
«Continui a tenere la testa bassa e hai il respiro corto.»
«Davvero? Non so, forse mi vergogno»
Era andata, aveva scarsa padronanza di quel che diceva.
«Ma dai, amore! – esclamò Yamcha, pieno di innaturale entusiasmo – Non è mica la prima volta che ti guardo! Su, avvicinati.»
Disse lui e lei eseguì telecomandata; stando nel torto il suo carattere da pantera s’era ridotto a quello di un coniglio spaventato.
Il ragazzo le baciò le fronte con lentezza, le accarezzò i lividi che aveva scoperto provocandole un solletico molesto, dopo, passò a cercarle le mani… Inevitabilmente, le sfiorò le dita e se ne accorse.

«L’anello…Bulma, dov’è l’anello?»

Il verdetto della giuria dichiara la signorina Brief… colpevole!

Aveva pensato a tutto, ma l’elemento con l’assoluta precedenza l’aveva totalmente scansato dalla testa tanto che voleva sbarazzarsene.
«Non preoccuparti! L’ho tolto solo per mettermi un cerotto al dito. Prima, tagliando le cipolle, mi sono ferita. G-guarda qui – balbettò, mettendo in vista il brutto adesivo marroncino al posto del gioiello che  lui le aveva regalato – l’avrò lasciato sicuramente da qualche parte.»

O almeno spero, perché nemmeno io so che fine abbia fatto.
Yamcha la stava fissando con occhi da crotalo perplesso, indeciso se crederle o schiaffeggiarla.
Scelse la prima. Non era un animale come lo scimmione. Tuttavia, con stretta vigorosa, l’afferrò per le spalle.
Una strigliata, pur se minima, doveva dargliela: far sparire l’anello era troppo…
Troppo!
«Bulma, mi dispiace dirtelo ed infatti non dovrei, ma per regalartelo ho dovuto dare in cambio il mio di anello! Capisci?! – le stava urlando in faccia… Era un sonagli quello che s'udiva vibrare nell’aria? – Ti prego di ritrovarlo. Vorrei che tu lo indossassi, è importante per me.»
A Bulma crollò il mondo, la casa, l’anima e sprofondò all’inferno.
Il gingillo di cui parlava, se aveva ben capito, era quello che Yamcha e gli altri componenti dei Titan avevano ricevuto dopo aver vinto la World League di Baseball.
Quell’anello-trofeo aveva un valore immenso in denaro e certamente un valore smisurato per lui.


Lui, ha rinunciato ad una cosa che gli era cara, per me.
Ed io come lo sto ricambiando? Mentendogli ad ogni parola, ad ogni sguardo e tradendolo con-

«Tesoro, me lo farai questo piacere? »
«Sì, sì, lo farò. Ti prego, scusami.»
Era esattamente quello che voleva da lei: le sue scuse, il perdono per la giornataccia stracolma di bocconi amari che gli stava facendo ingurgitare.


Non te la meriti la mia pazienza. Ho aspettato fin troppo il tuo“troppo presto”. Voglio essere ricompensato.

Yamcha le strappò il cerotto, scoprì il piccolo taglio e premette appena da far uscire altro sangue dalla ferita ancora fresca.

Bulma lo osservava allibita lasciandolo fare, era sconcertata al punto che nemmeno sentiva dolore.

«Amore – sussurrò, lui – io penso che... non sia più troppo presto, tu che dici?»

Le domandò, languido, leccando via piccole gocce di sangue.

A seguire, iniziò la conseguenza ad uno stato di trance: Bulma credeva di avere molto da farsi perdonare.



 

~ ~ ~




Il soffitto era lo stesso su cui una volta, da bambina, le piaceva osservare le luci multicolore di un laser che suo padre aveva costruito appositamente per lei e che proiettava le costellazioni del cosmo.
Ora, il medesimo soffitto che la sovrastava si muoveva, cioè, era lei a non poter rimanere ferma, e non v’era alcuna luce ad illuminarlo; a parte quella dei balenanti bagliori dei lampi che intrusi trapassavano le tende e si rifrangevano lievemente su di esso, illuminando una ballata senza amore e proiettando sul muro la sagoma nera e ondeggiante d’un corpo affannato e di un altro, esile, succube e nascosto tra le lenzuola del letto.
Allo spettacolo luminoso si susseguiva un cigolio cadenzato, che a volte si confondeva tra i boati del cielo ancora colmo d’energia da scaricare.

Sai com’è, lo conosci, vuole arrivarci subito, preso il ritmo in pochi movimenti ha finito.
Era stato così da sempre, ed era meglio: non era costretta a scuotersi sotto di lui.
Qual è l’apice più estremo del disgusto, vomitarti addosso?
Sbrigati a fare quello che devi e togliti.
A Yamcha, momentaneamente, non interessava più sapere cos’era realmente successo al gioiello che le aveva donato, per quale motivo lei avesse i capelli umidi, come le erano usciti i lividi che aveva visto e gli altri di cui si era accorto finendo di spogliarla; e non voleva sapere nemmeno perché odorasse d’erba bagnata anziché di caramella come era abituato a sentire quando la annusava.
Avrebbe pensato poi ai chiarimenti.
L'importante era averla riportata nel recinto. La stava marchiando, riappropriandosene ulteriormente: fughe o meno, lei era s
ua. Si stava prendendo il giusto compenso per esser stato tanto in pena, mollandole un regalino che gli avrebbe assicurato di possederla per sempre. 
La garanzia che, qualunque diavoleria rivoltante quel saiyan tentasse di fare durante la sua assenza, Bulma sarebbe rimasta per forza legata a lui.

Una storia d’amore poteva cancellarsi, un figlio no. Almeno non con altrettanta facilità, e conoscendola, lei non lo avrebbe mai fatto.

«Bulma…»
Le alitò vicino a un orecchio.
«Voglio sposarti»
Furono due battute inserite fra una spinta decisa e il suo momento culminante.
Pareva programmato. A pensarci le veniva da ridere e l’avrebbe fatto se quel che le aveva dichiarato non fosse stata una condanna a morte.
«Non c’è bisogno che tu mi risponda, lo so che mi ami e che lo vuoi anche tu.»
Perseverò lui, scivolando via da lei.
«Domani andrò via all’alba per trasferirmi a North City, è lì che si allena la squadra.»
Rivelò l’aguzzino, accasciandosi ansimante e sudato al fianco della ragazza che, invece, era rimasta paralizzata e non aveva opposto alcuna resistenza.

North City, più di seimila chilometri lontano da me.
Con le lacrime agli angoli degli occhi, Bulma distese le labbra in un sorriso sottile e silenzioso, invisibile nell'oscurità.
«Prometto che ti chiamerò spesso, se ci riuscirò tutti i giorni.»

Oh, perché prenderti questo disturbo.
«Quando avrò modo di tornare, faremo una festa per annunciarlo ai nostri amici, che ne pensi?»
Che ne penso? Lo vuoi sapere?
«Sì... faremo una festa, credo sia un'ottima idea», continuò lui.
Dovrò dirlo anche a Vegeta, dovrò dirgli che mi sposerò… Ma lui non è mio amico. 
«Amore mio, sono felice!»
Sono contenta per te.
«Bulma...»
La chiamò per farla voltare verso di lui.
«Buonanotte.»
Terminò, afferrandole il mento e baciandola ancora sulle labbra.

Le ore che trascorsero furono un perpetuarsi della tortura: Bulma si trovò costretta a subire i ronfi pensanti del suo ragazzo, altresì futuro marito, penetrarle i timpani. Era stanca.
Provare a chiudere occhio? Una barzelletta che non faceva ridere.
Al limite della sopportazione, si scostò da Yamcha sgusciando via dal braccio pesante che la intrappolava.
I suoi quarantotto chili le permisero di rannicchiarsi sul bordo del letto a una piazza e mezza.
Aveva bisogno di ritagliarsi uno spazio per riflettere e mettere ordine dentro di sé, perché un subbuglio impazzito di pensieri contraddittori stava per eruttarle nella testa. Era un tormento lavico e scottante che sentiva scorrere ad alta velocità in ogni canale del suo corpo.


 

Continua…


Note:

1.Ho rettificato il nome della squadra di baseball in cui gioca Yamcha da Taitans in Titan.
2.Le altre squadre presenti son pura invenzione, idem per l’anello-trofeo dello spilungone (particolare rubato al campionato statunitense di baseball);e anche la provenienza del signor Brief è roba di mia scelta, ma se ho deciso di dargli la Città del Nord come città natia è per via di motivi che non vi dirò.
3.Prima che qualcuno arrivi ad accusarmi di aver esagerato nel rendere Yamcha un feticista, voglio giustificare la mia scelta: se ricordate, all’inizio di DB, il ragazzo soffriva di un’esagerata vergogna verso il sesso femminile tanto da rimanerci paralizzato alla sola vista. A mio giudizio non credo sia tanto strano che uno affetto da simili disturbi possa sviluppare devianze e avere problemi di rapporto. E qui chiudo il delicato argomento.
4.Ho modificato un particolare del primo capitolo, ovvero il Dottor Gelo in uno scienziato del Red Ribbon. Nelle note di "Il genio, il torvo, e un po' di sangue" avevo scritto che non avrei rispettato la cronologia esatta degli eventi, ma riflettendoci questo è un dettaglio troppo importante che non può essere variato con leggerezza: nessuno conosce il nome dello scienziato, specie Bulma che lo scopre solo dopo averlo visto e riconosciuto.
5.Quella che vedete in basso è una GIF abbastanza sgranata, l’originale è migliore e più veloce, ma alla rete non posso chiedere miracoli, comunque, chi avesse voglia di vedere il disegno genuino può cliccare qui (è più nitido, si vedono meglio i particolari).
Spero abbiate gradito la piccola sorpresa, anche se semplice e fatta alla svelta (in qualche modo dovevo farmi perdonare la lunga assenza).
6.Se alla fine di questo capitolo avrete voglia di uccidermi per quel che ho combinato risparmiatemi e abbiate fede.
7.Ringrazio recensori, lettori, i Santi che vogliono ancora seguirmi nonostante i miei ritardi e naturalmente i nuovi arrivati che sono sempre graditi (sappiate che di tutti voi non cito mai i nomi per rispetto della privacy).
8.Stavo per dimenticare: ho deciso di variare di poco le fattezze di Yamcha da come, inizialmente, ve l’avevo presentato. In quest’ultimo disegno mi sembra somigli di più all’originale, il vecchio aveva un viso troppo paffuto e bonaccione.

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII – Giaculatoria per un orgoglio senza cuore. L’infedeltà si maschera sinceramente. ***


 

Standby

Capitolo VII – Giaculatoria per un orgoglio senza cuore. L'infedeltà si maschera sinceramente.

 

 

Sottili fili d’erba le accarezzavano le guance e un lieve tepore la riscaldava in un abbraccio affettuoso. Era un’accoglienza gradevole che non le diede il tempo di chiedersi come ci era finita a stare supina su un soffice letto d’erba, a godersi la luce e il calore di un sole che, stranamente, non scorgeva. Allora, Bulma balzò in piedi e confusa fece un girotondo su se stessa. Attorno a lei non v’erano altro che rose gialle dal gambo lungo. Puntavano ritte verso l’alto. Le rose erano tanto luminose che parevano ardere alla luce del sole. Ma non solo queste apparivano così sfavillanti, anche il cielo era di un azzurro intenso ed accecante. L’erba pure brillava. Le pareva di calpestare un’opera d’arte viva e perfetta standosene lì, in piedi, tra quei colori freschi che sembravano essere stati appena stesi dal tocco leggero di un bravo artista.
Tuttavia, la beltà paradisiaca non riuscì a deviarla dall’accorgersi che nelle rose, nascosta nel cuore dei petali, v’era una macchia scura ed informe. Emetteva un insolito lucore. Ma si vedeva appena da non poterne capire la natura.
Bulma non riuscì a stare ferma: curiosa, infilò le dita tra i soffici petali, li dischiuse delicatamente e toccò prima di capire. Un occhio untuoso la stava guardando o, forse, era solo la sua impressione: gli occhi nei fiori non potevano vedere e, indiscutibilmente, i fiori non avevano occhi. Inorridita, ritrasse immediatamente la mano. Troppo tardi: tutte le rose s’apersero a mostrare nugoli d’occhi senza palpebre e ciglia, nudi, con la sclera infiammata e le iridi nere confuse in un monocromo con la pupilla.
La paura le ordinò di scappare da quella mostruosità e, al suo primo passo indietro, i bei petali lucenti si seccarono in brevi secondi, fino a cadere, come se la morte avesse improvvisamente soffiato su di loro.
Anche l’erba morbida che l’aveva accolta mutò in rovi striscianti e al cielo, sino a quel momento azzurrissimo, si sostituì un intonaco vecchio e sbiadito che andava crepandosi in diramazioni profonde.
Bulma iniziò a correre. Era smarrita, sopra la sua testa il cielo si sgretolava e con lui il calore e la luce scomparivano, affievolendosi e lasciando penetrare una bruma scura e fredda, che dal basso saliva ad abbuiare il grazioso eden in cui s’era destata.
Seguita dalla mortifera nebbia e circondata da sguardi arcigni, la scienziata continuò a correre in uno spazio senza uscita. 
Inciampò, cadde e non riuscì a rialzarsi. Nel panico, tentò di gridare. Ma un dolore acuto alla gola non le permise di farlo. Avvertì gli occhi farsi vicini. Ormai l’avevano raggiunta: li sentì rampicarsi sul suo corpo lisci e bagnati, in un contatto viscido che le fece accapponare la pelle. Poi, al gelo e alla sensazione nauseabonda, s’aggiunse l’assenza totale di luce ed un vuoto le crebbe dentro.
Si sentì sprofondare in una caduta spaventosa, finché non toccò il fondo dell’abisso.

 

Con ancora la sensazione di non poter inghiottire ed emettere suoni, la scienziata spalancò le palpebre. Una luce bigia e tagliente la investì, disegnando attorno a lei forme familiari. In principio, vide le sue ginocchia eburnee e magre sbucare dal lenzuolo stropicciato che le intrappolava. Poco dopo, buttando lo sguardo oltre, riconobbe la geometria della sua camera.

Un incubo. Solo un incubo.

Sospirò, in uno sfogo di sollievo che soffocò contro il cuscino quando s’accorse di essere completamente nuda. Rabbrividì, per il freddo e per l’ondata di memoria che, abbattendosi sulla costa dei suoi spiacevoli ricordi, le stava facendo rivivere ogni particolare della notte passata: Yamcha si era infilato fra le sue lenzuola… e lei c’era stata come se le fosse stato gradito, priva di precauzioni.
Si girò, per vedere se le dormisse ancora accanto, come s’aspettava era andato via.

Pensa, se fosse stato ancora qui non avresti avuto il coraggio di incontrare il suo sguardo senza avvertire il peso dei sensi di colpa. E, molto peggio, non ti saresti sottratta alle sue carezze.

Si sedette sul bordo del letto e affondò il viso fra le mani. Le dispiaceva essersi svegliata, avrebbe volentieri continuato a brancolare nel suo incubo, a morirci dentro; lo trovava migliore e più sopportabile della verità che rifiutava.

Non c’è nessun carceriere, non c’è mai stato.
Sono io che improvvisamente ho deciso di vederlo così, lui non ha nessuna colpa.
Mi ama e vuole che io sia sua moglie.


Il rimprovero era una riflessione già iniziata nel corso nella notte malamente trascorsa, che l’aveva portata a considerare, priva di clemenza, il suo comportamento uno sbaglio incompatibile coi sentimenti che provava.

Ho rischiato la vita su Namecc, ho cercato le sfere magiche per farlo tornare in vita, da me.
Non posso rinnegare il mio amore per lui, io devo amarlo.
Lo devo.


Altrimenti? Non ti saresti concessa al suo abbraccio? Sai perché l’hai fatto. Dovevi insabbiare l’incertezza che aveva nei tuoi confronti  prima che arrivasse a capire, per salvare le apparenze, per evitare di essere giudicata, odiata ed essere definita una traditrice. 
Soprattutto per mettere a tacere te stessa.

Non volevo rovinare tutto.

Certo, ora indovina quale sarà l’effetto della tua prodezza: te lo troverai tra le gambe, ancora. E probabilmente una parte di lui crescerà dentro di te.


La coscienza assennata le sentenziò una verità a cui Bulma non osò ribellarsi.

Come ho potuto?

Una cloaca, ecco dove sentiva di essere: nella cloaca in cui scorrevano i liquami del suo comportamento inveterato, insincero, scriteriato ed irresponsabile.
Paradossalmente, rincorrendo Vegeta aveva ottenuto una proposta di matrimonio da Yamcha, e non l’aveva rifiutata.
Il perché di questa contraddizione le rimaneva inesplicabile.
In principio, non voleva fare del male al suo fidanzato, non voleva tradirlo – non l’aveva mai tradito – ma, anche se gli voleva bene, in lei aveva preso consistenza un amore difforme, mai conosciuto, probabilmente unilaterale e tanto feroce da divorare quello secco e stantio che provava per lo spilungone. Se avesse potuto, avrebbe incenerito volentieri tutti i momenti passati accanto al fidanzato fino a sentirsi libera e stare finalmente col saiyan.
Le mancava il coraggio. Sapeva che se lo avesse fatto gli avrebbe causato tanto male e di conseguenza si sarebbe pentita della sua scelta.
Accogliendo l’amore di Yamcha, al contrario, avrebbe chiuso per sempre la minuscola cruna che aveva aperto, e nella quale sarebbe potuta passare, per intrecciare la sua vita a quella del saiyan.
Però, quest’ultima restava una possibilità vaga ed instabile: nulla le assicurava che Vegeta lo spietato, il vanaglorioso Principe dei Saiyan, avrebbe anche solo corrisposto l’ombra dei suoi sentimenti.
Il futuro sicuro era da un lato, Yamcha lo tendeva per lei. Dal capo opposto c’era solo un precipizio da cui lanciarsi, pregando che un miracolo sarebbe intervenuto in salvezza, o che la caduta non le avrebbe arrecato troppo dolore e la morte sarebbe sopraggiunta sul colpo.

Non trovando il coraggio di scegliere secondo la sua volontà, che sentiva perduta, Bulma rimaneva bloccata in un’antinomia irrisolvibile che la esulcerava.

Con molta lentezza, abbandonò il letto per raggiungere il bagno ed infilarsi sotto la doccia. Il tentativo era di rilassare la mente indolenzita da tanto turbamento e di rimuovere la sporcizia che avvertiva insudiciare la sua pelle. Per come si sentiva, non le sarebbe stata sufficiente nemmeno un’abluzione purificatoria a toglierle la costrizione dall’anima.

«Yamcha t’ho ingannato e ho ingannato me stessa più di te.»

Si disse illanguidita, mentre lasciava che un getto d’acqua ghiacciata le scrosciasse violento sul corpo.

Chi vuoi prendere in giro? Sei una donna egoista, Bulma. Una donnaccia. Saresti in grado di sposare Yamcha per farlo contento, partorire suo figlio per farlo ancora più contento, e ficcarti di nascosto nel letto del saiyan per rendere felice te stessa allo stesso tempo.

No! Non potrei mai!


Oh sì, è così che finirai: a cadere nell’adulterio, se non la smetti di pensare a Vegeta. Ti sei innamorata di un’idealizzazione della quale tu sola ne sei l’artefice. Sai benissimo che lui è unicamente sofferenza, sia che ricambi la tua attenzione e sia che la rifiuti. Ormai hai fatto qualunque cosa per mostrare a Yamcha che niente tra voi è mutato. Non l’hai cacciato quando avresti dovuto.
Se non vuoi soffrire devi abbandonare Vegeta.

Che nell’arco di mesi si sarebbe trovata a dover sopprimere i singhiozzi del suo cuore divenuto capriccioso per il saiyan, non se lo sarebbe neanche sognato. Tempo prima considerava Vegeta un pericoloso assassino che aveva portato morte sulla Terra. Un disgraziato da evitare, nulla più. Ma vivendo con lui, nella stessa casa, si era accorta d’avere di fronte un avvenente testardo – se era ancora un assassino andava verificato – che portava dentro di sé una celata mestizia associata ad un’allarmante tendenza al supplizio; e che la faceva sentire bene quando le stava vicino. Un'altra persona. Viva e forte.

«Vegeta – disse, inspirando profondamente aria – sarà come non averti mai incontrato… e sarà doloroso guardarti rimanere solo. Io l’ho vista, ho notato la tua solitudine, la tristezza che nascondi nel tuo sguardo. Stai soffrendo molto… ma non posso e non potrò aiutarti, Yamcha mi sta aspettando. Lui... mi ama.»

Concluse con una perorazione che rasentava addirittura il giuramento; e giurò, guardando l’acqua saponosa sotto i suoi piedi raccogliersi, roteare, gorgogliare e sparire nello scarico della doccia. Come a suggello del patto a cui era arrivata, comparò quel vortice d’acqua torbida,  alla medesima fine che aveva fatto fare all’immagine di Vegeta: 
risucchiato in un buco nero.

Ora te ne sei andato dalla mia testa, per sempre.

 

~ ~ ~




A dimostrazione della forza adamantina con la quale aveva fatto voto di non interessarsi più al saiyan, Bulma decise di recarsi nei laboratori per cercare l’anello che Yamcha le aveva affettuosamente regalato e che le era vilmente sparito sotto gli occhi nel momento meno conveniente. Ma prima di scendere nei luoghi sotterranei che la Capsule Corporation nascondeva sotto la sua struttura sferica, ed iniziare l’attenta ricerca,  si concesse una frugale colazione, o spuntino giacché la sveglia della sua camera segnava le quindici passate di un pomeriggio insignificante.

La casa era deserta, questo la rinfrancò: non aveva voglia di incontrare i suoi genitori e nemmeno le andava di cercarli. Avvertì solo i frastuoni di macchine in movimento provenire dal giardino, però, non se ne interessò.
Giunta in cucina, rifletté che l'ultima volta in cui aveva visto il grazioso gioiello abbarbicato al suo sottile anulare era stata lì, e lì poteva averlo perduto. Mosse gli occhi in ogni punto, sperando di ritrovarlo subito. Purtroppo, non vide nulla di luccicante.
Delusa, decise di farsi un toast. Lo divorò velocemente e andò dove s’era prefissata di scovare l’anello. Nel laboratorio.

I sotterranei pullulavano di persone: quasi tutti i laboratori erano occupati dai dipendenti della Capsule Corporation che si interessavano di portare avanti nuovi prototipi, di testarli e di spedire il progetto base ai stabilimenti industriali dell’azienda una volta appurato che funzionassero come dovevano. Solitamente, quando i diligenti operai s’accorgevano del passaggio di Bulma, quelli che tra loro ci riuscivano, correvano rispettosamente a salutarla. I più giovani non si lasciavano sfuggire l’occasione di mirarla tanto da fantasticare su quanto poteva essere liscia la sua pelle al tatto e sulla morbidezza delle sue forme; ma ogni caldo pensiero rimaneva nascosto sotto l'ombra che il berretto della divisa da lavoro proiettava sui loro occhi affascinati.
Sentirsi così osservata dagli uomini era piacere per Bulma. Equivaleva ad avere tanti specchi incantati che le confermavano quanta concupiscenza donava la sua bellezza, rimpinguando la consapevolezza della sua vanità. 
Poco gradita era invece l’aria lavorativa che per cinque giorni a settimana, dalle otto della mattina fino alle sei del pomeriggio, riempiva quei luoghi da lei considerati come una sorta di intimo e sotterraneo eremo in cui riflettere: avere tra i piedi estranei alacri e celeri come formiche le suscitava un’insopportabile invadenza.

In quell’istante però, nulla toccò la sfera dei suoi interessi – né gli occhioni sognanti né il disturbo delle formiche a lavoro – nulla che non fosse fatto d’oro, di diamanti e non avesse uno zaffiro dello stesso colore delle sue iridi quando v’era poca luce ad irrorarle di colore.
Ripercorrendo il lungo corridoio, la scienziata stette attenta a non farsi sfuggire nemmeno un centimetro quadro del pavimento su cui camminava; ma considerò fosse fatica sprecata: se a qualcuno di quei diligenti operai fosse capitato di vedere un simile tesoro, sarebbe stato onesto con la fortuna e non avrebbe disprezzato di tenerselo.

Bulma entrò nell’ultimo reparto, quello d’ingegneria robotica, e trovò le luci accese, i computer attivi e il laboratorio completamente vuoto di persone – in quel luogo nessuno poteva entrare senza il suo permesso o quello del padre – questo le fece provare un pizzico di sollievo.
Nel laboratorio, ogni cosa era rimasta come l’aveva lasciata: da alcuni armadietti semiaperti, ai fogli a terra, sino alle impronte fangose delle sue scarpe che a seguirle con gli occhi le veniva mal di testa.
Lei le osservò. Pensò immediatamente di pulirle, temendo che se non si fosse sbrigata a farlo i morsi del rimpianto sarebbero riusciti ad acciuffare la sua debole carne per sbranarla fino a divorare in un sol boccone anche l’esiguo e fragile voto di fedeltà che aveva volto a Yamcha.
Ma prima di azionare il robot, indagò che il prezioso anello non fosse adagiato sul pavimento. Rammaricata dal non scovarne nemmeno l’ombra, mise in funzione la macchina per cancellare le impronte della sua clandestina passeggiatina serale. Ed assorta sul da farsi che avrebbe dovuto occupare quello che le rimaneva della giornata, s’incantò fissando il robot lavorare.
La macchina procedeva con movimenti programmati, meccanici e silenziosi, svolgendo mansioni per le quali era stata creata senza intoppi.

Innocuo elettrodomestico… E pensare che in questo momento c’è chi sta costruendo macchine fatte apposta per ucciderci.
Oh, Goku, come hai potuto rifiutare la mia idea di fermare il pazzo che vuole la nostra fine?! Avremmo potuto metterci in salvo senza correre alcun rischio e invece tu e quel gruppo di sconsiderati non avete alzato un dito!
Potremmo rischiare tutti di morire…


L’incertezza sulle future sorti della Terra rimaneva tra le sue preoccupazioni, ma forse lei la stava facendo venire  più in superficie di altre  solo per avere la mente meglio occupata. Ciononostante, aveva il sentore di un disastro imminente pronto ad abbattersi su di loro; e nemmeno Goku, che in lei aveva sempre infuso sicurezza, la rasserenava convincendola che avrebbe potuto rimediare alla minaccia. L’intuito le suggeriva un fato ambiguo, che nascondeva intenti funesti dietro una placidità snervante. 

Non sono al sicuro, non lo sono nemmeno al fianco di Yamcha.
Non voglio addossargli alcuna colpa. Non è a causa sua se ho paura e mi sento così fragile e… sola.


L’ultimo pensiero prese le sembianze di un’illuminazione. Alla solitudine non aveva mai fatto caso, non aveva neanche motivo di averne con una famiglia serena, gli amici e il suo ritrovato Yamcha. Eppure, non trovava altro termine per descrivere l’attuale stato d’animo che l’avvinghiava, facendole male.

Sono capricciosa e viziata. Tra poco mi sposerò, non ho motivo di sentirmi così, sarebbe contraddittorio.

Oppure è il divieto che ti sei imposta a logorarti? Non poterlo avere tra i tuoi pensieri, evitarlo, eludere il suo sguardo, non avere più la possibilità di sfiorare la sua pelle… Sono passate due ore da quando l’hai deciso e già ti pesa.


Sei sicura di essere riuscita a rinunciare a Vegeta?



Devo cercare l’anello, se non lo trovassi, Yamcha non me lo perderebbe mai. Non voglio spezzargli il cuore.

Chiuse la comunicazione con se stessa e si rimise scrupolosa alla ricerca del prezioso oggetto, quasi che trovarlo significasse la sua salvezza morale.
La scrivania divenne l’ennesimo campo di caccia: Bulma la ordinò come mai era accaduto, facendo sparire tutto quello che ne occupava spazio da tempo indeterminato. Mise in diverse cartelle i progetti abbozzati o lasciati incompleti, e quelli finiti li archiviò in fascicoli che pose ordinatamente in un armadio.
Dell’anello neanche l’odore, in caso ne avesse avuto.
Imboccare le scale d’emergenza e proseguire fino all’uscita di sicurezza, era l’ultimo posto di quell’area in cui controllare. Ma anche là, oltre il pavimento sporco, non vide altro.

In giardino, tra i fili d’erba, potrei aver perduto l’anello mentre correvo per raggiungere… 

Potresti controllare nell’astronave, lì sicuramente troverai qualcosa. Lui, ad esempio, da cui non devi andare. Mai più.


S’impressionò di avere una coscienza maleficamente ironica, di possedere un masochismo spietato. Per timore che potesse vacillare di fronte ad una possibile tentazione, ridiscese le scale velocemente, rientrando in laboratorio agitata e ansimante.
Trasalì, quando il telefono attaccato alla parete prese a squillare; in fondo non s’era ancora liberata dell’angoscia che l’incubo le aveva lasciato e qualsiasi evento inaspettato, anche il più banale, riusciva a turbarla.
Con malavoglia, avvicinò l’apparecchio all’orecchio. Dall’altra parte del ricevitore c’era la mamma. Le comunicò di raggiungere immediatamente suo padre.
La signora Brief, naturalmente, non si risparmiò di farcire la breve conversazione con esclamazioni cinguettate. Bulma le zittì premendo il tasto rosso del portatile.

Forza maggiore. Papà è in giardino, mi terrò a distanza dalla navicella.

Uscì direttamente dalla porta d’emergenza, aprendola con la solita difficoltà a causa della spropositata pesantezza che aveva. 

Fuori non pioveva più, però la limpidezza del cielo era ancora sfigurata da alcune nubi che, raggruppate in grappoli, celavano in parte il sole freddo di gennaio. L’aria invernale, che non se ne sarebbe andata ancora per tre mesi buoni, non permettendo alla primavera di accasarsi, le  colpì il viso costringendola a strizzare gli occhi. E la obbligò a portarsi una mano al collo per impedire al vento gelido di trapassare il dolcevita che indossava. Il dolcevita premeditato, col collo alto: utile a nascondere i residui dell’incontro incauto con Vegeta.

Sfiorandosi la gola, Bulma non fu capace di non pensarci.

I suoi doni. Non potrò conservarli, una settimana e anche questi spariranno. E io sarò completamente ripulita.

Sorpassò l’astronave attenta a non alzare lo sguardo su di essa. Nonostante non possedesse la capacità di avvertire le aure, Bulma sentiva la presenza di Vegeta. Lo percepiva lungo tutto il corpo, con un brivido seguito dal cuore che batteva come un tamburo; e con la frenesia incontrollabile di muoversi verso di lui.

Se ieri non mi avessi lasciata sola… Se tu mi avessi… No, non sarebbe cambiato niente. Basta pensarci. Bulma, hai fatto una promessa, ricordatene!

Con passi ampi, si allontanò sempre più dalla navicella. Quasi stesse scappando da essa, e non sapendo in quale punto avrebbe trovato suo padre, seguì gli strepiti e le grida che giungevano dal lato opposto dell’ampio cortile.

Lo spettacolo che le si presentò dall’altra parte della casa fu sorprendente e inaspettato: s’era impegnata tanto ad occludere l’attenzione per Vegeta che, sbadata, aveva serrato anche l’attenzione verso il resto del mondo. Uscendo dai laboratori, non aveva notato nulla di cambiato nel giardino. Ma n
el lussuoso cortile, in realtà, non un albero di palma era rimasto interamente attaccato al suolo, alcuni giacevano sradicati e spezzati, somigliando a giganti morti che mostravano le loro radici come vergogne; e altri palmeti mancavano all’appello: il vento li aveva trascinati via e al loro posto rimanevano solo profonde buche nel terreno.
Dei lampioni che di notte illuminavano l’intero perimetro del cortile, solo due avevano retto alle raffiche di vento e all’acqua. Il gazebo, le sdraio, i tavolini e qualunque cosa avesse occupato la terrazza prima del brutto tempo, si trovava tutto silurato nel suolo del giardino, affondato nella terra, come se all’improvviso la Capsule Corporation si fosse data una sgrullatina per togliersi di dosso piccoli parassiti irritanti.

Al disastro stava rimediando una squadra di uomini, la quale s’adoperava per togliere i cadaveri dei palmeti dal giardino, raccogliere i resti del meraviglioso arredo che una volta occupava la terrazza che la mamma della scienziata adorava, ed anche a raccattare intrusi come cartelloni pubblicitari e pezzi di cose che prima erano e ora non più. Ad esempio, parte di quella che poteva essere stata la struttura di una cabina telefonica.
Nel centro di questo show post tempo bastardo c’era il signor Brief, impiantato dentro stivali di gomma incrostanti di terra e presumibilmente gialli dal poco che se ne intravedeva. Aveva il camicie bianco aperto sotto il giubbotto pesante e fumava parlando vivamente, accompagnato dal gesticolare delle mani, con un uomo più alto di lui, magro e dai capelli brizzolati.
Fin lì, Bulma aveva camminato facilmente sul sentiero asfaltato, ma per raggiungere suo padre non si fece intimorire dall’erba inabissatasi in uno stagno d’acqua e fango. Aveva messo gli anfibi quella mattina, degradando volentieri le scarpe scomode che abitualmente le incastravano i piedi, sentendosi così libera di camminare ovunque e senza difficoltà.

Il padre, vedendola arrivare, non mancò di inserirla subito nel discorso.

«Ah, finalmente! Bulma, diglielo anche tu che ieri sera c’è stato un terremoto. Il collega qui presente è a capo del sistema informativo geologico della nostra zona, dice di non aver rilevato nulla dal sismografo. Eppure qui c’è stato un evento sismico della durata impressionante di quasi un minuto! È impossibile che non possa essere stato rilevato!»

«Brief, ti ripeto che dai dati che sono stati raccolti, e che io ho personalmente controllato dopo la tua telefonata, posso assicurarti che dal sismogramma il suolo non risulta essersi mosso nemmeno di un millimetro!»

Intervenne prontamente l’uomo senza lasciare a Bulma il tempo di suffragare o meno quello che aveva dichiarato suo padre.
«E io ti dico che c’è stato e le vostre apparecchiature semplicemente non l’hanno registrato!»
Insistette il signor Brief.
«Senti, qualunque cosa sia accaduta non è avvenuta sotto la superficie terrestre. E pur ammettendo che sia successa realmente, perché nessuno oltre a voi ha avvertito nulla? A parte il nubifragio ovviamente, questo sì che ha fatto danni: metà della città è allagata e hai visto il vento cosa è riuscito a sollevare!»
Di fronte all’acceso dibattito, Bulma osservava prima il disappunto nello sguardo di suo padre e poi lo sconcerto in quello del geologo. Quando parlavano il loro fiato caldo si condensava in nuvolette bianche che svanivano nell’aria fredda in brevi secondi.
Non vorrei rimanere qui a lungo...
Avrebbe volentieri schivato la situazione, ma afferrato l’argomento di cui si discuteva, la scienziata collegò lo strano tremolio che aveva avvertito attorno a sé, quando si trovava in laboratorio e tentava di recuperare il minimo della decenza, a quello che stava dicendo suo padre.
Era stato davvero un fenomeno particolare, simile ad un terremoto, ma secondo lei non qualificabile come tale.
«Bulma, tu che ne pensi?», le si rivolse il padre speranzoso.
Purtroppo, la scienziata non aveva da supplire più di quanto sosteneva il suo vecchio.
«Potrebbe essere stato un sisma, perché diversamente non sappiamo chiamarlo, però non abbiamo nulla che ce lo confermi. Quando è accaduto mi trovavo nei laboratori e l’ho avvertito lievemente, quasi per niente, perché mi trovavo nei sotterranei. Però, posso assicurarvi di aver assistito ad una vibrazione insolita insieme ad un’alterazione della corrente elettrica.»
Terminò, convinta di potersene andare, aveva dato il suo contributo.
«Come ti dicevo, anche lei conferma quello che t’ho detto fino adesso – ribadì soddisfatto il signor Brief, prima di proseguire – dovremmo controllare i dati dei magnetometri e vedere se almeno lì è stato rilevato qualcosa, come una variazione del campo geomagnetico. Il cambiamento dell’intensità di corrente può essere dovuto dal mutare del campo magnetico della Terra, e il terremoto può esserne la causa principale. Inoltre, prima che accadesse il fenomeno, la Capsule Corporation è rimasta isolata da qualsiasi tipo di segnale.»
Ascoltando la dichiarazione di suo padre, Bulma ricordò la difficoltà che aveva incontrato nel prendere collegamento con la navicella. Ma non s’affrettò a testimoniarlo, anzi, se lo tenne per sé. Intanto, Vegeta si stava rivelando un pensiero immortale.
«Sai bene che non c’è nulla di certo che possa concatenare la variazione del campo magnetico terrestre ad un sisma. E questo, ponendo che ci sia stato, era troppo debole per causarlo. Non ha neanche riportato danni alla vostra Capsule Corporation! Accredita il mancato funzionamento dei tuoi dispositivi al cattivo tempo e non andare a trovare fattori inverosimili!»
Continuò l’esperto geologo, che dava l’impressione di non volerne sapere di ogni ipotesi formulata dal padre delle scienziata.
«E perché no?! Se riuscissimo a trovare un evento scatenante con il quale poter prevenire movimenti tellurici, sarebbe una scoperta grandiosa! Sei d’accordo con me Bulma?!»
La ragazza se ne stava assorta e con la testa china a specchiarsi in una pozzanghera, dietro di lei le nuvole si spostavano rapidamente spinte dal vento. Il tempo le apparve scorrere rapido, inutile.

L’anello, devo trovare l’anello. Qui sto solo perdendo tempo.

Inconsapevolmente aveva ragione: a parte il nubifragio, tutto era stato causato dal saiyan, di cui nessuno sospettava. Il povero signor Brief era destinato a non dormirci per giorni.
«Sì, papà, ma se non c’è altro me ne torno in laboratorio. Ho molto da fare. Signore, è stato un piacere conoscerla.»
Disse, rivolgendosi al geologo, pensando poco dopo di non avergli neanche stretto la mano appena l’aveva visto e pertanto non trovò la necessità di farlo in quel momento.
S’allontanò cogitabonda, strusciando i passi e tenendo la testa bassa per scovare il gioiello, forse perduto nell'erba.
«Ah, Bulma! – la richiamò il padre - prima che tu te ne vada, devi farmi un favore: ti ho fatta chiamare proprio per questo. Ecco, ieri sera, quando eri tornata insieme Yamcha, dovevo dirti una cosa importante che però ho dimenticato mentre stavo per riferirtela, ricordi?! Dunque, devi dire a Vegeta di uscire dall’astronave. La navicella ha bisogno di una piccola manutenzione, c’è una perdita d’ossigeno che non mi convince, me ne sono accorto da giorni ma mi è passato di mente. E dovresti iniziare a sistemarla tu, io ti raggiungerò appena avrò finito col nostro caro collega, ok?!»
Ascoltando le parole di suo padre, Bulma sentì di trovarsi intrappolata in una cospirazione o nel gioco perfido di chi si divertiva a metterla alla prova; come se l’avessero infilata in un vagone e le stessero facendo percorrere una rete di binari diversi ma tutti con un’unica destinazione che portava il nome Vegeta.
Andare da lui, vederlo, parlargli, respirare la sua stessa aria… Neanche morta, o forse sì: qualcuno ce l’avrebbe portata fuori dalla sua volontà e non sarebbe stato peccato.
«Me ne sono accorta anch’io – confermò, ricordando lo strano odore che aveva sentito quando era entrata nella navicella per soccorre il saiyan – e stavo giusto per dirtelo, ma che tempismo ricordarlo ora, papà!»
«Davvero?! Allora saprai già come provvedere al guasto!»
«Certamente, no! Dovrai sbrigartela tu, te l’ho detto che ho da fare. Nel caso te ne fossi scordato nei nostri laboratori abbiamo una trentina di operai da controllare assolutamente!»
Disse nervosa, tenendo gli occhi serrati mentre glissava l’inconveniente offertole dal padre. Quando li riaprì, però, s'accorse che il suo vecchio le dava le spalle: il signor Brief si stava vantando col geologo di aver creato un mostro di astronave, in grado di raggiungere distanze inimmaginabili in pochissimo tempo, e quello lo stava ascoltando ricoprendolo di finti panegirici.
Sentendosi del tutto ignorata, Bulma si defilò con la pazienza a secco; rientrò in casa convinta che solo lì avrebbe trovato quello che cercava. O probabilmente pure questa era un’altra scusa per sfuggire ad una forza attrattiva che s’ostinava ad inibire.
Ma a pochi passi dall’ingresso principale della Capsule Corporation, vide sua madre camminare verso di lei con in mano un vassoio su cui poggiavano quattro tazzine colme di caffè, poste ognuna su piattini di ceramica decorati con fantasie floreali.
«Bulma, è da ieri sera che non ti vedo! Stamattina ti volevo parlare ma non ho voluto disturbarti. Anche se passato mezzogiorno ho iniziato a preoccuparmi. Starai bene spero?»
Sei stata tu la prima a dire che ero malata. E non immagini quanto stia soffrendo ora.
Fu una risposta pensata e naturalmente non detta.
«Sto bene, avevo solo bisogno di dormire. Ho dormito.»
Non era vero. Ovviamente, era rimasta sveglia tutta la notte in una veglia pesante e meditabonda. Gli occhi li aveva chiusi quando aveva sentito Yamcha cominciare a svegliarsi, poi era iniziato l’incubo.
«Meno male. Sai, ieri mi sono presa uno spavento terribile con il terremoto. L’hai sentito?»
«Ovvio che l'ho sentito! Piuttosto, volevi dirmi qualcos’altro di importante?»
«Sì…Guarda che disastro ha combinato il tempo, bisognerà ripiantare ogni albero, per non parlare della terrazza e… Va bene, non ci girerò intorno: cara, la tua mamma è felice! Avresti dovuto dirmelo subito che tu e Yamcha avete deciso di sposarvi! Sai quanto ci tengo. E pensare che per un attimo ho creduto  ti fossi innamorata di Vegeta! Evidentemente avevi ragione tu a dirmi che mi sbagliavo. Se ti vedevo pensierosa era per questo, vero? Non sapevi come dare la bella notizia ai tuoi genitori. Sono contenta, sono contenta! Stamattina Yamcha se ne è andato via prestissimo, non ricordo esattamente l’ora, ma mi ha raccomandata di dirti di non stare in pensiero per lui. Ha detto che ti chiamerà appena arriverà nella Città del Nord, e devi sapere che addirittura non voleva partire per aiutarci a sistemare questo disastro! Un tesoro, quel ragazzo è un tesoro! L’ho sempre pensato!»

Sì, è tutto vero, mi sono innamorata di Vegeta, sono preoccupata per lui, penso solo a lui…

Rapita dalla commiserazione per se stessa, la scienziata non valutò nemmeno l’azione dello spilungone: Yamcha aveva parlato del loro matrimonio senza farlo insieme a lei; un'azione grave a cui Bulma però non stava badando, credeva che il suo onesto fidanzato avesse annunciato le loro nozze quella mattina e non prima e privo del suo consenso.
Rimase silenziosa e composta ad ascoltare le fantasticherie della madre persuasa dal matrimonio e più convinta di lei.
«Hai già pensato all’abito che indosserai? Perché ho in mente di portarti in una raffinata boutique che confeziona abiti da sposa su misura. Già ti vedo con addosso uno stupendo vestito bianco! Oh, mia figlia si sposa, come sono emozionata!»
«Mamma calmati, non abbiamo ancora deciso la data, mi sembra presto per pensare al vestito!»
«E cosa vuol dire? L’abito è importante, lo indosserai nel giorno più significativo della tua vita, va scelto con cura, ti ci devi sentire a tuo agio. Non è da sottovalutare. E poi non fremi dalla voglia di guardarti in uno specchio vestita come un principessa? Non era uno dei tuoi sogni?»
Sua madre era una raffica, lanciava dardi alla cieca e tutti colpivano il bersaglio. Ogni punto dolente della scienziata veniva torturato dalle spensierate premure materne.
«Sì, lo era.»
«Allora andiamoci subito!»
«Impossibile – disse Bulma, sentendosi messa alle strette da quell’insistenza esagerata – Non hai sentito che la città è sott'acqua? Non credo potremmo andare senza incontrare disagi. Mi ci accompagnerai un’altra volta.» 
«Hai ragione – constatò dispiaciuta sua madre – l’avevo dimenticato. Vorrà dire che andremo quando le cose si saranno sistemate.»

Ed io spero che mai accada e che l’intera città venga sommersa e sparisca per sempre!

Che... che razza di pensiero ho avuto?! Cosa mi sta accadendo?

«Adesso vado, il caffè si è quasi freddato… l’ho fatto anche per te Bulma, lo vuoi?»
«Sai che non lo bevo più.»
«Oh, che sbadata! Avevo dimenticato anche questo. A proposito, prima che mi passi di mente, mi ha detto tuo padre che devi andare da Vegeta per avvisarlo di uscire dalla navicella, perché deve fare dei controlli. Ci stai andando?»
Questo non te lo scordi!
«Ho già detto a papà che dovrà sbrigarsela da solo, non ripetermi le stesse noiosissime cose!»
Rispose la scienziata che, incavolata nera, si diresse spedita verso l’entrata di casa, lasciando sua madre molto perplessa.
«Continuo a non capire perché ogni volta che le nomino Vegeta se la prende così tanto.»


Bulma entrò in casa bisognosa di proteggersi dal mondo esterno, alla pari di un chirottero sorpreso improvvisamente dalla luce del giorno, stordito e in cerca di un riparo abbastanza buio.
La vita intorno a lei si muoveva con un ritmo fastidioso, non serviva nemmeno a distrarla. Addirittura, l’aveva posta indirettamente di fronte alla possibilità di ricadere nell’errore. Era esausta di una giornata cominciata tardi, da ogni punto di vista pessima e tediosa, che aveva avuto il solo compito di orientarla necessariamente verso la razionalità. 
Bulma raggiunse il salotto e scivolò sul divano, sprofondandoci arresa. Si sfilò gli anfibi che calciò più in là, e s’abbandonò all’infruttuosa osservanza di quello che nel corso di due giorni le era accaduto.
Il terremoto c’era stato davvero, almeno per lei: aveva odiato Yamcha scoprendo di amare Vegeta. Una scoperta che l’aveva portata a fare cose sordide. Non riusciva a smettere di pensarci.
«Sei triste? Lo devi solo a te, Bulma. Se amassi Yamcha, come l’hai sempre amato, saresti felice. Su, fallo, è semplice!»
Parlò sottovoce, non aveva timore o imbarazzo che qualcuno la sentisse impegnata in soliloqui – nonostante nessuno avrebbe potuto udirla, poiché oltre lei la casa era vuota – ma era l’argomento che esternava a non dover essere assolutamente ascoltato.
Poi, sentendosi fissata, la ragazza lasciò momentaneamente le sue riflessioni: a guardarla era la scimmia che Yamcha aveva vinto per lei. Il peluche era rimasto come lo aveva abbandonato il giorno prima: appoggiato al bracciolo opposto del divano dove lei stava sdraiata, con la testa reclinata da un lato e due occhi neri di plastica che la intercettavano obliquamente.
Quel peluche le aveva fatto provare tenerezza e una forte voglia di fare una capriola all'indietro, nel passato; ma in quel momento lo sguardo immoto e vuoto della scimmia le appariva sinistro.
Avvertiva, fissandolo a sua volta, la medesima sensazione che aveva provato nell’incubo che l’aveva svegliata di colpo, con quegli occhi cattivi che le erano strisciati sul corpo.

È inutile che tenti di fare la parte della pentita addolorata, so cosa provi… Per quanto tu ti stia sforzando non riesci ad abbandonarlo”.

Il messaggio era giunto dal peluche, o così le piaceva credere.
«Sì che posso, e poi tu sei una scimmia che vuoi saperne… »
Rispose proterva, sentendo la necessità di difendersi da quell’accusa, naturalmente prodotta dalla sua fantasia, che purtroppo sapeva le calzasse su misura.

Mettiti alla prova, dimostra che non provi nulla per lui. Oppure vuoi rimanere a piangerti addosso, magari per il resto della tua vita?”

La sfida, o scoraggiante previsione futura formulata dalla scimmia, la frastornò con lo stesso effetto di una sostanza oppiacea. Non sapeva che fare, aveva bisogno di suggerimenti ma la sua coscienza faceva silenzio di tomba. Non sentendola decise di istinto: con volontà brusca, s’alzò dal divano su cui era figurativamente deceduta, andò verso la finestra che dava sull’entrata della Capsule Corporation e studiò la situazione: suo padre era ancora in compagnia del geologo di poca fede, e la mamma li stava intrattenendo entrambi con una delle sue tipiche ciance.
Nessuno era andato a fare da guastafeste al saiyan. Appuratolo, Bulma rimase in piedi sullo stesso punto per alcuni minuti. I secondi le passarono con la stessa rilevanza del count-down che precedeva il lancio di uno shuttle verso lo spazio. Trascorsi, partì grintosa per raggiungere una meta precisa.


 

~ ~ ~
 


La Capsule Corporation disponeva all’incirca di una quindicina di stanze per gli ospiti, ma solo alcune erano arredate a camere da letto. In fondo al corridoio del terzo di quattro piani, c’era la porta di una di queste camere. Era lì che avevano sistemato il saiyan. La camera di Bulma invece si trovava al secondo piano e dal lato opposto a quella di Vegeta.
Cosa la scienziata andasse a fare lì non era noto nemmeno a lei, nel cammino aveva accumulato svariate scuse per zittire la sua coscienza – tornata tempestivamente per infastidirla – e lasciare ampio spazio alla sua determinazione.
Dirigersi là era forse una via traversa per arrivare in uno stesso punto: un faccia a faccia col saiyan si presentava mostruosamente impegnativo, una prova da affrontare con la consapevolezza di uscirne vinta; aggirarlo decidendo di esaminarsi in un luogo collegato a lui, ma senza di lui, era un surrogato più conveniente e le dava maggiori possibilità di scampo.
Tra i moventi che la comandavano c’era l’anello: era convinta di poterlo trovare nella camera di Vegeta.
Se credi una simile assurdità dai per scontato che lui te l’abbia rubato per chissà quale motivo e, ancora più assurdo, credi che invece di farlo sparire lui l’abbia nascosto nella sua camera sempre per lo stesso inspiegabile motivo.
Strambo o paranormale che fosse stato, lei non si fermò.
Stai commettendo un grosso sbaglio. Non aprire quella porta, non aprirla, gira i tacchi e vattene! Se ti scoprisse cosa faresti?!
Mutata in bastian contrario di se stessa, girò il pomello della porta e lo fece scattare. Timorosa, infilò il suo cespuglio azzurro oltre la soglia, e i suoi occhi grandi si mossero guardinghi da destra a sinistra e ancora una volta da sinistra a destra. La camera era libera come immaginava: il torvo stava ad allenarsi e data l’ora ne avrebbe avuto ancora per molto. Anche se c’era la possibilità che qualcuno avrebbe potuto costringerlo a lasciare in anticipo la sua ginnastica indefessa, Bulma obliterò prontamente la probabile ipotesi. Credeva di poter risolvere la faccenda in poco tempo, senza venire scoperta.
Entrata definitivamente, la ragazza richiuse la porta alle sue spalle, facendo il minor rumore possibile.

Quella stanza era interamente per lei. Ricordò di esserci entrata in tutto due volte: una, prima che fosse deciso che lui sarebbe stato ospitato lì, un’altra per invitarcelo. Dopo si era tenuta opportunamente lontana, per rispettare la privacy del saiyan e perché sì, inizialmente, non conoscendo i comportamenti di Vegeta, provava per lui una saggia diffidenza.
La camera poteva appartenere a chiunque e non era così disordinata: le coperte del letto erano rimboccate quel tanto per farlo apparire sistemato, la scrivania era completamente vuota di oggetti, a parte una sveglia, e alcuni indumenti erano piegati e appoggiati ai braccioli dell'unica poltrona presente nella stanza. Be', almeno la si poteva considerare vissuta. Eppure, lì non ci dormiva un terrestre, ma un alieno con niente che ne facesse apparire la differenza. L’assenza di riconducibilità a Vegeta si mostrava crudele sotto ogni aspetto: nulla gli apparteneva, a parte i vestiti – che tuttavia non erano stati scelti dal saiyan ma da Bulma e da sua madre – e lui stesso non apparteneva a niente.

Potrebbe anche sparire e nessuno se ne accorgerebbe.

Il lugubre pensiero la smarrì, provocandole una preoccupazione e un diniego angoscianti, i quali iniziarono a rosicchiarle l’inconscio.
Soffermandosi a guardare gli abiti sulla poltrona – un maglione e un paio di pantaloni –  Bulma ricordò l’amena camicia rosa che dietro portava stampigliata la scritta “badman”. Lei gliel’aveva acquistata personalmente per stuzzicarlo; e quando gliel’aveva messa sotto gli occhi, lui s’era limitato a fissarla con sdegno, passando successivamente a rifilarle la stessa occhiataccia, per poi infilarsi la camicia quasi avesse voluto strapparla nel farlo. Dopo tale incidente, Vegeta le aveva espressamente chiesto indumenti che non fossero più chiari del rosso, nulla che fosse suo derivato e assolutamente niente rosa. Il pensiero simpatico le provocò un mezzo sorriso, che s’allungò di più al ricordo della faccia indispettita del saiyan.
Sposata credo non potrò neppure procuragli dei vestiti.
Anziché preoccuparsi della convivenza, poiché, una volta maritatasi, la presenza di Vegeta a condividere lo stesso tetto con Yamcha sarebbe stata sconveniente – anche se la Capsule Corporation era talmente grande che si rischiava di non incontrarsi mai –  Bulma faceva caso e dava importanza a piccole cose, banali, le quali però erano entrate nelle sue abitudini colmando una routine che si stava rivelando indispensabile. L’idea di mettere il saiyan fuori dalla porta non la sfiorò nemmeno. La casa rimaneva sua, decideva lei cosa farne dei suoi ospiti, Yamcha avrebbe trovato un limite alla sua giurisdizione di marito.

Bulma tentò di iniziare l’indagine al fine di ritrovare il suo gioiello. Non riuscì a staccare le spalle dalla porta su cui si era appoggiata dopo essere entrata. Nella stanza c’era un odore che la costringeva a restare ancorata dov’era. Era l’odore di lui, o così era convinta di sentire. Unica traccia del saiyan, una traccia invisibile.
L’odore l'aveva aggredita appena aveva messo piede in camera e allo stesso modo di quando lei e Vegeta si erano respirati addosso. Le sembrava che fosse realmente lì, vicino a lei, a sovrastarla col suo corpo possente e caloroso.

Se volessimo… potremmo”

La voce di Vegeta era una malia che non avrebbe dovuto ricordare.
Basterebbe aprire la finestra e mandarlo via.
Pensò la scienziata, ma desiderò il contrario: se quell’odore avesse avuto consistenza, lei lo avrebbe colto per conservalo allo stesso modo di una sacra reliquia da tirare fuori e venerare nei momenti di duro sconforto.
S’era promessa di rompere con lui; ora si sentiva una fedifraga, una pietosa fedifraga in cerca di risposte che credeva avrebbe trovato varcando la porta di una stanza. Ma averlo fatto si stava rivelando nocivo, ogni pensiero la proiettava verso una felicità che si esacerbava e moriva lasciando il posto ad un asettico nulla.
Tuttavia, era questa la strada della redenzione: provare che non le interessasse, che non le costasse nulla abbandonarlo e amare Yamcha, veramente.

Io… cosa sto facendo qui?

L’anello… non è questo che cerco, non è questo che lui mi ha rubato. È il mio cuore ad essersi smarrito.

Tu, Vegeta, me l’hai rubato!


Ogni sua intenzione si annichilì, lei si piegò sulle ginocchia sotto la spinta schiacciante di un amore voglioso di nascere e di essere corrisposto.

Ho bisogno del mio cuore per amare. Ne ho bisogno per amare Yamcha.

La tristezza le inondò gli occhi e discese calda bagnandole le guance; presto, un impasto cremoso di lacrime e trucco le appannò la vista, il naso diventò umido ed insopportabile. Si trovò costretta a raggiungere il bagno interno alla stanza per rimediare allo spampanamento.

Sciacquatasi il viso, Bulma si appoggiò al muro, strusciò la fronte sulle mattonelle fresche che ricoprivano la parete del bagno, in cerca di tenue sollievo. Quella situazione di sconforto e annientamento destinata a non mutare, se non in peggio, perché si stava rendendo conto d’aver varcato il punto di non ritorno senza potervi rimediare, cambiò quando la sua attenzione venne attratta da un cumulo di asciugamani sporchi lasciati a terra, vicino al box doccia. Avvicinatasi, Bulma ne sollevò uno con mano tremante, lo analizzò sincerandosi di quello che credeva lo imbrattasse e rimase più inorridita scorgendo sotto di esso un rotolo di bende finito e fasciature fatte a brandelli, zuppe di sangue; ne erano tanto intrise che il sangue quasi luccicava di freschezza.

Che significano queste? Deve essersi medicato da solo. Oh, ha perso molto sangue! Si è aggravato e non ha chiesto aiuto!

Potrebbe anche sparire, nessuno se ne accorgerebbe”

Il pensiero le si propagò nuovamente nella testa, con lo stesso rintocco di una campana funebre. Un terrore latente la scosse come fosse stato elettricità passata in lei ad alto voltaggio. La prospettiva che Vegeta stesse rischiando la vita a causa dei dissennati allenamenti, associata alla constatazione che nessuno ci avrebbe fatto caso e che, tantomeno, a nessuno sarebbe importato se lui fosse morto; la fecero precipitare nel terrore, scolorendole il viso fino a farlo divenire più pallido di quanto già era per natura.

È solo. Ha bisogno di me.

Di corsa, tornò in camera ed alzò le coperte del letto: le lenzuola erano macchiate di sangue come pensava. Si chiese se non fosse un segno del destino trovarsi lì, a vedere prima che Vegeta o i robot domestici rimuovessero quella bruttura prova degli sforzi a cui il saiyan si sottoponeva.
Non posso abbandonarlo. Sarei una egoista.
Tornarono a farle visita i civili ed onesti obblighi umanitari che precedentemente aveva scelto di mettere in castigo, e si convinse che lei, solo lei, era in dovere di fermarlo. A smuoverla c’era anche l’amore per lui… Soprattutto l’amore clandestino che non poteva esistere, pernicioso, che più lo pressava contro quello ufficiale sano e ricambiato, maggiormente ne usciva ingigantito e forte da arrivare ad un’imparità incolmabile.
Defezionando il giuramento fatto ore prima per rispettare la fiducia che Yamcha aveva in lei, promettendosi di non avere, in futuro, alcun contatto con il saiyan; Bulma decise di rimanere lì, ad aspettare il ritorno di Vegeta. Doveva parlargli assolutamente, e cercare di convincerlo a curarsi.


 

~ ~ ~

 

Gli rodeva, era scocciato oltremisura; essere interrotto durante gli allenamenti lo mandava in bestia;  non s’era potuto ribellare in nessuno modo. Era stato lo scienziato in persona a dirgli di uscire dalla navicella spaziale, avvisandolo di doverla necessariamente revisionare. Vegeta si fidava ciecamente delle parole del dottor Brief ed aveva acconsentito avvertendolo però che non avrebbe sopportato una lunga attesa. Ad ogni modo, il saiyan era sicuro che l’improvvisa interruzione fosse un subdolo piano architettato dalla ficco-il-naso-in-ogni-dove, per intralciarlo e costringerlo a riposo. La conferma l’aveva avuta dal padre della stessa, che l’aveva informato della conoscenza del guasto anche da parte di Bulma.
Sì, secondo lui era un piano; gli veniva da sospettare che nel momento in cui l’aveva lasciata sola nell’astronave, lei l’avesse manomessa di proposito.
Ucciderli uno per uno, era un'idea che Vegeta aveva ancora vivida nella mente. Ora, l’affronto aveva raggiunto l’incommensurabilità. Lei lo stava istigando, spingendolo a comportarsi da saiyan invasore e non da saiyan caritatevole che non uccide solo perché impegnato in cose più eccitanti. Secondo i suoi canoni, sarebbe dovuto andare dalla terrestre e fargliela pagare, minacciando di ucciderle il padre se lei avesse continuato a frapporsi tra lui e l’allenamento per raggiungere e sopraelevarsi a Kakaroth. Ma, contrariamente a quanto era spinto a fare, Vegeta decise di ritirarsi nella sua stanza e approfittarne per darsi una rinfrescata e riposarsi.

Giunto davanti alla porta di quello che sarebbe dovuto essere un rifugio lontano da qualsiasi genere di seccatura, il saiyan si bloccò sospettoso e non entrò.

Qui c’è qualcuno, lo sento bene, non mi sto sbagliando.

Sorpreso d'aver avvertito una presenza nella sua camera, Vegeta volle assicurarsi di essere al terzo piano e di non aver sbagliato stanza. Così, ripercorse il corridoio per controllare meglio. Accertatosi di stare nel posto giusto, aprì la porta, curioso di scoprire chi si era intrufolato nel suo rifugio. Comunque non gli era difficile immaginare chi vi avrebbe trovato.
Non se ne stupì, infatti, ma ora aveva una bella seccatura da risolvere: lei era lì, adagiata sul suo letto, gli dava le spalle.
Vegeta la osservò, forse più del necessario. 

Fatta per essere uccisa.

Non aveva altra definizione. E più la guardava, rasentando la contemplazione mista all’intenzione dell’agguato, più la collera ascendeva pervadendolo violentemente; o così credeva dovesse definire quello che la terrestre gli stava ispirando. Si convinse davvero che trovarla sul suo letto fosse l’ennesima parte del piano, il quale cominciava a farsi estremamente subdolo.
Di chiederle in cagnesco cosa ci facesse nella sua camera, e sopra la sua alcova, era d’obbligo, però, non disse nulla per un motivo inesplicabile anche a se stesso.
Si avvicinò a lei, girando attorno al letto, per sincerarsi di un viso che credeva di sorprendere addormentato. Gli sobbalzò l’animo, e solo quello, per il resto rimase immobile, nello scoprire due occhi iridescenti mirare intensamente il sole fattosi occiduo. Ma l’evento sorprendente fu quello di trovarsi nel campo visivo della ragazzina senza però ricevere da lei nemmeno uno sguardo. Stava rivelandosi parecchio arduo comprenderla; non sapendo come avrebbe dovuto interpretarla, non aveva le forze per farlo, il saiyan tagliò corto:

«Tu. Perché sei qui?»

Bulma era affondata in un’apparente indifferenza, utile a mascherare la trepidazione che di lì a poco l’avrebbe bruciata viva. Non sapeva se cominciare dal convincerlo a disertare gli allenamenti o dal chiedergli di restituirle il cuore.
Indecisa, la scienziata rimase immobile, continuando ad osservare il sole sfiorare i grattaceli di West City nel suo silenzioso e naturale decesso. Solo dopo alcuni minuti, nel corso dei quali Vegeta non le tolse gli occhi di dosso e lei, di rimando, li evitò, le venne il coraggio di pronunciarsi.

«Non lo so.» 

«Bene. Vattene.», disse caustico il saiyan, in replica alla stranezza da lei mostrata.

«Ti do così fastidio?»,  domandò lei.

«Sì, mi dai fastidio.», confermò Vegeta, che di fastidio ne provava molto, da avvertire la temperatura del suo corpo farsi più calda.

«Ieri non sembravo dispiacerti.»

Controbatté Bulma, in un sussurro carico di amarezza, alludendo alla confidenza che era nata tra loro ma che, da quel che percepiva, s’era dispersa nel corso di pochissimo tempo.

«Non so cosa intendi e voglio che tu te ne vada. Subito.»
Vegeta invece aveva capito bene a cosa lei stava riferendosi, semplicemente non desiderava esserne coinvolto. Ne aveva di pensieri per la testa, tra cui lei, che ne aveva preso un’ampia fetta e che, appositamente per questo, non doveva andare oltre.
Pensare che irretirla e spaventarla, come aveva fatto nell’astronave, non era stato abbastanza sufficiente per intendere i confini che la scienziata non avrebbe più dovuto oltrepassare, si era mostrata una tesi esatta. Il saiyan aveva bisogno di cambiare tattica, pensò ci volesse distanza.

«La tua ferita perde ancora sangue, forse è il caso di chiamare un medico.»
Riprese Bulma, arrivando finalmente al problema che la turbava di più e senza curarsi dell’invito a sgomberare il campo.
Se Vegeta credeva di averla scoraggiata si sbagliava. Bulma s'alzò, sicura di sé, e incontrò gli occhi del saiyan, rimanendo di fronte a lui che la osservava astioso ma anche rapito.
«Ieri ti avevo avvisato, dovevi essere nuovamente medicato ma, a quanto sembra, oltre ad essere scappato sei anche peggiorato!»

«Questo non ti riguarda. Sono stato abbastanza chiaro a proposito delle mie condizioni di salute. Non ripeterò ciò che ho già detto. E comunque sto bene. Adesso, vattene.»

«Ho visto le bende in bagno e queste – gli apostrofò lei, tirando via la coperta e scoprendo così le lenzuola insanguinate – Lo vuoi capire sì o no che hai bisogno delle cure di un dottore?! Io non posso ricucirti, non sono in grado, e tu non puoi continuare a perdere sangue!»
Di primo acchito, Vegeta si sorprese per l’improvvisa irruenza della terrestre. Un istante dopo, valutò che quel tono con lui non poteva essere usato.

«Devi farti i fatti tuoi, ragazzina! Se tra pochi secondi non sarai fuori di qui, ti costringerò io con la forza! Stavolta, non riuscirò a trattenermi. Ti ho avvisata!»
La minacciò, dando aria di non scherzare. Era stanco di lei, lo esauriva; in verità era già esaurito, consumato dagli allenamenti, dai desideri di rivalsa che gli divoravano l’animo, dall’impazienza di sanare l’orgoglio ferito e oltraggiato nell’attesa di diventare diverso e migliore di quello che era. Di colmare la sua insufficienza e rimuovere l'onta con cui Kakaroth lo aveva sfregiato. Discutere con lei era l’ultima delle situazioni a cui voleva assistere e soprattutto partecipare, sia perché avvertiva che stavolta l’avrebbe uccisa in uno scatto d’ira incontrollato; ma chiudendo gli occhi per farlo, poiché guardarla ammansiva ogni sua intenzione in modo inaccettabile; sia perché sentiva un torpore iniziare ad espandersi in tutto il suo corpo. Vegeta stava per svenire, lo sapeva. Era sul punto di perdere i sensi e curiosamente succedeva sempre quando lei era presente o nei paraggi. Dentro di sé imprecò affinché non accadesse e sperò vanamente che lei capisse e se ne andasse evitando storie.
Bulma, al contrario, gli berciò contro arrabbiata ed invelenita da un dispetto che lui non comprendeva.

«Ah, bravo, insisti a non darmi retta, vuoi fare l’eroe, vuoi continuare a sottoporti alle tue torture nonostante sai benissimo di non essere nelle condizioni per farlo! Di’ un po’, credi di essere migliore degli altri comportandoti in modo così cocciuto, eh?! Dove pensi di poter arrivare conciato come sei? Guardati, a malapena ti reggi in piedi!»

Non la tollerava più.

«Io devo… devo assolutamente sconfiggere Kakaroth, tu non... non-»
Ed intanto, un ronzio simile ad uno sciame di api, che non lasciava presagire nulla di diverso da quello che s’aspettava, cominciò a propagarsi offuscandogli l’udito. Successivamente, la vista si distorse e l’immagine della femmina straccia pazienza che gli era davanti si moltiplicò in modo fantasmagorico: tre bocche, sei mani, tre teste e altrettante paia di gambe. Triplicata nella sua intera forma. Il saiyan chiuse gli occhi, se li stropicciò con una mano, ma riaprendoli la visione rimase intatta. Dopo, sentì la terrestre impicciona gridare il suo nome, chiedergli cosa gli stesse prendendo ed infine solo ronzio, e pace.
Pochi secondi lo portarono dallo stare lontano da lei ad esserci a contatto.

«La tua ostinazione... a cosa ti sta riducendo. Io te lo avevo detto. Devo portarti immediatamente da un medico, hai perso troppo sangue!»

«No, non è necessario… Non immischiarti... »
Il saiyan era tornato immediatamente cosciente, anche se con un filo di voce; sentiva distintamente il respiro di lei carezzargli l’orecchio, si era reso conto di avere le braccia sottili di Bulma aggrappate alla sua schiena, e di tenere la fronte appoggiata sulla piccola spalla della terrestre. Un simile contatto non gli era mai capitato, quella gentile e pura effusione di calore umano con cui lei lo stava avvolgendo era per lui tanto misteriosa quanto pericolosa, da destabilizzarlo a tal punto che la equiparava ad un avversario difficile da affrontare. La sua tempra non resistette: lui abbassò la guardia sotto la spinta di lasciarsi andare.
Bulma dal suo canto non sapeva se essere felice di averlo fra le sue braccia o di essere in pena per come era malconcio.
Lo sto solo aiutando. Sì, questo non è un abbraccio, lo sorreggo altrimenti potrebbe cadere e non rialzarsi più, non voglio che accada.
Lui ha bisogno di me
.
Ma il saiyan riusciva ancora a stare in piedi, altrimenti sarebbero caduti entrambi, solo che Bulma continuava lo stesso a tenerselo vicino, come a volerlo difendere dai mali che lo torturavano dalle le piaghe della pelle sino a quelle dell’anima.
Se avessi trovato il coraggio di respingere Yamcha…
Se lo teneva stretto sempre di più, dispiacendosi mortalmente, consapevole che non sarebbe mai stato suo.
Devo rinunciare a te. Devo rinunciare a te. Devo rinunciare a te. Devo, devo…
Nel deliquio che le stava sciogliendo le viscere, le sue labbra cercarono impulsive quelle di Vegeta.
Lui, che si stava rendendo conto di quanto lei potesse essere inaspettatamente forte di un potere sconosciuto, scostò di scatto il volto prima che ella riuscisse ad arrivare alla sua bocca; ritrovando così il suo orgoglio di guerriero scemato come niente in brevi attimi di languore e carne fattasi improvvisamente sensibile.

«Non toccarmi! Sta’ lontano! Sono il Principe dei Saiyan e tu sei una terrestre, un essere inferiore di una razza che avrebbe dovuto estinguersi. Non ho bisogno di te, non voglio niente da te, specialmente la tua rivoltante compassione!»
La respinse aggressivo come una belva, con le parole scappategli di bocca strozzate e cavernose. Era l’effetto collaterale per essersi sentito impreparato, disarmato; Bulma ne aveva tutta la colpa.

«Scusami, Vegeta, io volevo solo aiutarti… »

Cercò di ridimensionare l’avventatezza avuta. Ma ormai il danno era irreparabile.
Dovevi solo persuaderlo dall’autodistruggersi, non provare a baciarlo. Guarda come è adirato, ora sarà un miracolo uscirne vivi.
A condannarla arrivò anche la vocina adorata.

«Aiutarmi?! Come te lo devo far capire che non sono debole come voi terrestri?!»

«Non ho detto che sei debole, ma stai male. Non vorrai negarlo anche davanti all’evidenza?»

Gli fece notare lei, esattamente mentre lui, facendo qualche passo indietro per ricreare spazio tra loro, tentò di appoggiarsi alla poltrona per sorreggersi e non cadere. Resosi conto di non poterla controbattere, Vegeta scelse di cambiare campo di battaglia arrivando dritto al nocciolo della questione.

«Dimmi, sciocca terrestre, perché sei così insistente, eh? Quale è il tuo piano, cosa speri di ottenere da me? Non vedi che sono malvagio?! Che nel mio cuore alberga unicamente l’ambizione e la cattiveria! Che… che se volessi potrei ucciderti, adesso!»
Ma le parole del saiyan, anche se gravi e intimidatorie, suonarono alle orecchie di Bulma come inutili giustificazioni per essersi sottratto al piacere di un suo bacio. Quella ritrosia era completamente dovuta all’orgoglio. Quello che Bulma non immaginava era fino a che punto l'orgoglio era importante per Vegeta.

«… Potresti, lo so, me l’hai detto anche ieri. Ma non credo che nel tuo cuore non ci sia nient’altro. Tu sei solamente arrabbiato e fai male ad incolpare te stesso e gli altri. Sono sicura che anche tu hai un lato buono, però a causa del tuo orgoglio non riesci a mostrarlo e credi che a possederlo siano soltanto le persone deboli, come me.»
Gli disse tutto d’un fiato, non dando importanza alla reazione che ne sarebbe potuta scaturire.
Il saiyan la fissò con l’espressione di chi non riusciva a capacitarsi di come un segreto tanto nascosto fosse stato scoperto con estrema facilità. Nessuno mai l’aveva scandagliato così in profondità, nessuno gli aveva mai letto l’anima, perché era sempre stato bravo a nascondere i suoi sentimenti; li aveva inumati nelle profondità del suo spirito tanto che era convinto di non averne più, perché un saiyan puro non poteva averne.
Invece lei li stava resuscitando dalle tenebre in cui erano rimasti a giacere, mettendogli in luce quanto stesse soffrendo la sua anima e addirittura accusandogli l’orgoglio. Cagione che lui non avrebbe mai ammesso tanto che, incredulo, scuoteva la testa in disapprovazione, considerando quanto detto dalla terrestre un perfetto sofisma.

«Non voglio più sentire le tue assurdità, è troppo. Tu non mi conosci, non sai niente di me e ti sei messa in testa un mucchio di sciocchezze. Adesso esci!»
La intimò ancora, camminando nella stanza per tentare di sfuggire ai grandi occhi di lei che non smettevano di seguirlo. Quanto detestava essere fissato.

«È perché dico la verità che mi cacci via?»
No, tu non dici la verità. Tu lo fomenti a farti del male, e questo non ci pensa due volte a farti secca!
L’avvertì la santa vocina; sfortunatamente Bulma non capiva il rischio che stava correndo e, sicura di aver finalmente fatto breccia in lui, insisteva.

«No, lo faccio perché non ti voglio, fuorché fuori di qui.», rispose il saiyan, con fermezza di piombo ma al limite dell’autocontrollo.

E se ti dicessi che ti amo, mi cacceresti via lo stesso, Vegeta?
Lascia perdere! Peggioreresti la situazione, pensa a Yamcha, pensa alla promessa che hai fatto, pensa che hai buone probabilità per aspettare un figlio da lui!

«Non mi vuoi o non ti è concesso volermi? - continuò Bulma, per nulla intenzionata a frenare la lingua e pienamente convinta che dichiarandosi si sarebbe sbarazzata dell’enorme macigno che la schiacciava – Vegeta, tu credi che le mie attenzioni per te siano merito della compassione. Ma in realtà… io mi sono-»

«Illusa!»

Il saiyan la troncò prontamente, come se le avesse letto il pensiero, aveva intuito in quale direzione lei stava precipitando, il fine ultimo del subdolo piano, la spiegazione delle tante premure da lei mostrate; e non voleva assolutamente sostenerla.
Proseguì, non permettendole di riprendere parola.
«Cercherò nuovamente di spiegarti un concetto a cui sembri non arrivare – ora, le stava parlando dandole le spalle – Io sono una macchina da guerra fatta apposta per distruggere. Non nutro sentimenti verso nessuno, non ho pietà, faccio del male e godo nel farlo. Tu, debole illusa terrestre, ti sei improvvisamente infatuata di una fantasia lontana dalla realtà e che non ha nulla a che fare con me... Non mi interessi né come donna né in nessun altro ruolo. Ora che sei a conoscenza della situazione, non hai più nulla da fare qui. Sparisci.»
Finì. Era stato crudele e perentorio, aveva giocato la sua ultima carta per liberarsi di lei evitando di scatenarsi. 
Sembrò funzionare: con la coda dell’occhio, la vide retrocedere.

Bulma si sentì dissolvere. Intorno a lei avvertiva solo spazio vuoto: il pavimento, le pareti, Vegeta stesso, tutto s’era disfatto. Come era accaduto nell’incubo stava sprofondando senza appigli né luce, minuscola ed impotente.

Quindi, aveva capito... se ne era accorto.

Era prevedibile, adesso ne hai la conferma. Lui è dolore. Non ti vuole. Vattene.

Era vero, la caduta faceva male e nessuno era intervenuto per salvarla; si era buttata dal precipizio e ne era uscita in forma di carne macellata.
Di fronte alle sferraglianti e crudeli parole appena udite, non c’era nessun amore da confessare, solo la resa.

«D’accordo, ti lascio la solitudine se è questa che vuoi. E se ti accadrà qualcosa farò finta di nulla, non verrò a soccorrerti. Spero davvero che tu non ne abbia mai bisogno. Ma te lo devo dire: sei tu l’illuso se credi che il tuo orgoglio, l’odio e l’essere il Principe di un popolo scomparso potranno garantirti di arrivare a questo Super Saiyan. Non riuscirai mai a superare Goku se non dai al tuo cuore la possibilità di migliorare!»

Silenzio.

Era quasi senza fiato, aveva urlato, lo aveva aggredito ma non era sua intenzione ferirlo, solo quando fu troppo tardi Bulma s’accorse di avere esagerato. Vide Vegeta voltarsi di scatto e puntarla con uno sguardo indicibile. Lei tentò ugualmente di mantenersi cheta, per avviarsi in direzione della porta che le sembrò essere lontanissima.

Le parole della terrestre furono per il saiyan un colpo d’accetta talmente forte da spezzare violentemente la corteccia dura del suo orgoglio e farlo sanguinare.
La scienziata già gli dava le spalle quando lui, fuori controllo, le si accanì contro con la carica di un leone, avventandosi con le mani nervose alla sua gola. Vegeta ardeva nell’urgenza di difendersi dall’insinuazione di Bulma. Il guaio maggiore era sospettare che fosse la verità: anche lui ci aveva pensato a quello che lei gli aveva appena detto, poteva essere una delle cause del suo ritardo.
Ma quella donna non poteva avere ragione. Un conto era sospettarlo in solitudine, un altro sentirlo pronunciare dalle labbra tumide e rosse di lei.

Nella brevità di un secondo, Bulma si ritrovò attaccata al muro e coi piedi sollevati da terra. Non ebbe neanche il tempo di gridare che già le usciva difficile respirare. Lui era forte, bestialmente forte, a contatto riusciva a percepire la potenza terribile che possedeva e aveva intenzione di ucciderla, non c’erano dubbi: gli occhi gli erano mutati in uno sguardo più aspro e atro di quanto finora lei avesse visto. V’era affiorato il male puro.

«Come osi parlarmi in questo modo, come ti permetti di dire che sono inferiore a Kakaroth solo perché lui a mia differenza è tanto buono e misericordioso. Pensi sia merito di questo che lui è un Super Saiyan e io no?»

«Vegeta, n-non intendevo dire-»

«Fa’ silenzio! Sta’ zitta! È per colpa tua se mi sono ridotto così, tua e di Kakaroth se mi ritrovo a sputare sangue su questo pianeta di inetti per tentare di recuperare la dignità che quel servo insulso si è divertito a calpestare! E tu, tu… sei come lui, ti prendi gioco di me, mi deridi alle spalle compiacendoti del mio fallimento. Ma credimi, finirà, per tutti e due, per mano mia!»
Scosso, colpito nell’orgoglio, Vegeta stava tramutando parte dei suoi pensieri paranoici – che se fosse stato lucido mai li avrebbe presi in considerazione – in odio ruggito.
Se poco prima aveva preso Bulma come un singolare ed irritante caso di stoltezza terrestre, per di più invaghitasi di lui, adesso la collera gliel’aveva sfocata nell’immagine del nemico, mescolandola con il rancore nutrito contro Goku. La povera Bulma non riusciva a capire la logica delle accuse che le venivano urlate in faccia e, scioccata, non trovava parole per quel turbine di ira che voleva strangolarla. L’avrebbe uccisa. Sì, questo era l’assassino, freddo, indifferente, perduto. Disperato.

Le mani del saiyan non trasmettevano più il calore piacevole che l’aveva fatta sognare ad occhi aperti, tutto era stato offuscato dalla sua ferocia incontenibile.
Stavolta è finita Bulma. Che credevi, a giocare col fuoco prima o poi si va in fiamme.
Quello che credeva di aver scorto nella navicella spaziale – l’uomo minaccioso ma affascinante, e allo stesso tempo tanto triste da instillarle la voluttà di amarlo – era scomparso… o forse non era mai esistito. Al suo posto era emerso un mostro inaspettato, sconosciuto, inavvicinabile, intrattabile, sordo, accecato dalla vendetta e dal rancore.

«Credi davvero che non lo abbia capito? – riprese ad aggredirla Vegeta – So bene perché sei sempre così curiosa di vedermi, è per correre da lui e riferirgli quanto stia cadendo in basso il suo Principe. Sai che faccio adesso? Ti accontento subito.»
Tenendola ferma con una mano a stritolarle la gola, con l’altra il saiyan si strappò gli abiti che indossava e le bende che lo fasciavano; le mostrò il suo corpo martoriato e deturpato. 
Lei conosceva la sua pelle nuda, l’aveva osservata attentamente quando l’aveva medicato ed aveva già notato la moltitudine di cicatrici che la sfiguravano, ma era sconvolgente e doloroso vedere come in poco tempo non ci fosse più parte sana. Il torace del saiyan era pieno di graffi, lividi, gonfiori, ustioni, ferite che perdevano sangue e che sicuramente andavano cucite con urgenza. Vederlo in quelle condizioni era talmente straziante che Bulma non riuscì a sostenere la vista e volse gli occhi altrove.

«Devi guardarmi!», le ruggì Vegeta.

«Che ne pensi, è abbastanza soddisfacente? Questa sera andrai da lui e lo farai sorridere di più, eh?»
Le domandò con voce sardonica e sinistra.

Perché fai così, cosa c’è che non va in te?
È l’ossessione per Goku la causa di tanto odio o c’è dell’altro che tieni nascosto?
Quanto hai sofferto per diventare quello che sei?
Oh, Vegeta, se potessi guarirti o almeno alleviare le tue pene darei anche la mia vita per te, ma tu sembri non volerlo capire.

La scienziata non si capacitava di come il suo amore potesse essere stato degenerato in qualcosa di tanto cattivo e vituperante. Non le pareva possibile che l’astio lo avesse abbagliato a tal punto da renderlo orbo e senza speranza.

«Non dici niente? Non era quello che t’aspettavi? Desideri vedermi morto, vero?», le sibilò raggelante.

«Tu sei pazzo! Va bene, come vuoi... È vero, penso tutto quello che hai detto e sì, parlo di te con Goku e sono come lui, non ti sbagli. Vuoi ammazzarmi? Se questo può darti conforto, fallo! Incomincia da me, mostrami quanto sei malvagio… io non ho paura!»
La voce di Bulma era stata un traballio di parole. Per rispondergli aveva fatto uno sforzo sovrumano, perché lui continuava a tenere strette le dita sul suo collo e le toglieva l’aria.

«Non hai paura…»

Rimarcò Vegeta, da lei non si aspettava una reazione tanto decisa e coraggiosa. Se era una finta, doveva ammettere che la terrestre sapeva mentirgli abilmente.
La loro era una gara di sguardi: lei sentiva di non aver più nulla da perdere, lui credeva che ammazzarla non l’avrebbe scalfito in alcun modo.

«Tu non mi fai paura.»

Rispose Bulma, irremovibile e caparbia, con gli occhi rossi per la mancanza di ossigeno e perché quella situazione la stava portando di nuovo alle lacrime. Ma non una sola goccia sarebbe dovuta cadere davanti al saiyan.

«Cosa aspetti a uccidermi?»

Gli domandò sfruttando la poca aria che le attraversava la gola e tenendo sempre gli occhi cerulei fissi in quelli picei e corruschi d’ira del saiyan.

«Ho capito, sei tu ad avere paura… Sei tu il codardo.»

Lo sfidò ancora. 

Folle presuntuosa terrestre... tu non sai quello che stai dicendo.

Vegeta doveva togliersela da sotto gli occhi immediatamente, ancora una parola di troppo da parte della scienziata e l'avrebbe strozzata senza neanche accorgersene. Se ne liberò scaraventandola indietro, facendola rovinare sul letto, forse per non farle troppo male. Ma il materasso aveva contribuito a darle un’altra spinta, che finì per schiantarla a terra.
Nella camera s’udì il tonfo forte delle ginocchia di Bulma schiacciarsi sul pavimento senza moquette. Peccato che quello destro era andato ad urtare anche l’angolo appuntito della scrivania posta dall’altra parte del letto. Ora, la scienziata se ne stava con i palmi aperti a toccare il pavimento freddo e con uno zigomo per nulla contento della nuova dolorosa esperienza, aveva picchiato anche il viso.

Calma, respira, niente panico, non hai paura. Ed anche se ti fa male tutto non ce l’hai il tempo per pensarci. Devi andare via, subito!

Si comandava, quasi strisciando nel tentativo di non mettere il peso sulle ginocchia, erano quelle che più le dolevano. Operazione complicata che la obbligava ad avere una posa da sirena morente. 
La scienziata cercò di raggiungere la porta per fuggire da lì, come se bastasse a fermare il saiyan e metterla al sicuro.
Alla porta ci arrivò, al pomello per aprirla no.
S’allungò, lo sfiorò, tentò di girarlo. Poteva provare a mettersi in piedi però aveva paura di peggiorare la situazione e le mancava il fiato. Anche se non c’erano più le mani del saiyan a toglierle aria, il panico non le permetteva di alternare momenti di espirazione a quelli di inspirazione in modo regolare. Tentò ancora una volta, ma nulla. Poi, dopo vari tentativi, un piede del saiyan le si piazzò a pochi centimetri dal volto.

Oh, no, mi prende a calci e mi disintegra la faccia, oppure mi schiaccia la testa. E se mi rompesse solo il naso?… Mi rovinerà comunque, avrò bisogno di un chirurgo.

Bulma si chiuse come un riccio, pronta a patire i dolori più atroci, finché non udì lo scatto del pomello girare e i cardini della porta cigolare mentre questa veniva spalancata: Vegeta le aveva aperto la porta.
Ne rimase sorpresa, ma non alzò lo sguardo su di lui. Continuò ad avanzare con addosso una paura convinta di non avere ma che l’aveva fatta sudare tremendamente.
Varcata la soglia della camera, la scienziata udì gli stessi rumori a nastro riavvolto: gemito della porta prima, scatto del pomello dopo… più due mandate di chiave.
Scoppiò a piangere, era inevitabile, e si tappò la bocca per soffocare i singhiozzi, non voleva farsi sentire da lui.

Se sua madre fosse passata e l’avesse vista in quelle condizioni le sarebbe preso un infarto.
Pensò di doversi togliere immediatamente da lì raggiungendo in fretta la sua camera. Ci impiegò alcuni minuti, dovette prima aspettare che le passasse lo shock. Fatto questo, s’alzò in piedi e claudicante arrivò nella sua stanza. Lì valutò le sue condizioni.

Lo zigomo che aveva picchiato contro il pavimento si stava deformando gonfiandosi come un palloncino, aveva bisogno di metterci subito del ghiaccio; per quanto riguardava il collo, nemmeno controllò, ormai a quello ci era abituata. Sapeva già cosa ci avrebbe trovato, l’impronta dettagliata delle mani di Vegeta.
Poteva andare peggio, molto peggio.
Le ovviò la coscienza, la ragazza non le diede torto. Poi, s’accorse del ginocchio destro, quello che aveva incontrato il mobile puntuto:

Perdo sangue...

Constatò, aveva riportato un taglio profondo che s’apriva simile ad una bocca felice di dissanguarsi ad ogni passo che compiva.
Cercò di premere contro la ferita prima a mani nude poi con una maglietta presa in fretta dall’armadio, ma il sangue non si fermava. 
Spaventata all’idea che qualcuno avrebbe potuto trovarla in quelle condizioni, Bulma scelse di andare in ospedale. Così, stando attenta a non farsi vedere dai suoi genitori, arrivò faticosamente all’esterno della Capsule Corporation, schiacciò il pulsante dell’Hoipoi che aveva preso dal suo astuccio, la lanciò a pochi metri da lei ed attese che da un gas rosa e grigio si materializzasse il suo elicottero 87.
Salita a bordo, mandò i motori al massimo con destinazione Ospedale Generale della Città dell’Ovest.

Malgrado Bulma avesse fatto molta attenzione a non farsi scoprire, qualcuno s’era però accorto di lei: era il saiyan, affacciato alla finestra della sua camera, imbalsamato nel simulacro dell’afflizione e con gli occhi tetri, quelli del mostro che aveva compreso di aver fatto del male alla sua vittima solo dopo averla ferita.
Vegeta rimase a guardarla, finché lei non divenne un punto nell’orizzonte.

Stammi lontano, è meglio per te, Bulma.
 


~ ~ ~


 

Arrivare in ospedale non fu difficile: la scienziata sfilò traffico e strade allagate grazie al suo elicottero. Sotto di lei scorreva il disordine lasciato dalla natura, che aveva allagato interi quartieri e dissestato le strade. Vedendo ciò, Bulma desiderò malsanamente di trovarsi al posto delle persone che lì sotto chiedevano aiuto; con la voglia di avere un altro nome, un’altra faccia e un’altra esistenza.
Al Pronto Soccorso il caos trovava sempre posto: v’era un andirivieni di ambulanze, di gente in attesa di essere visitata e ricoverata, di bambini che piangevano e di chi tossiva continuamente; più una fila di persone infreddolite che chiedevano coperte. C’era abbastanza scompiglio da poter distrarre chiunque, ma non Bulma e non dopo quello che aveva passato.
Col codice che le assegnarono dopo essersi fatta registrare, andò nella sala d’attesa prima di essere medicata. Passati tre quarti d’ora – trascorsi nell’assenza totale di cognizione del tempo e con la testa dolorosamente vuota come un utero sottoposto a raschiamento – si occuparono di lei. L’infermiere di turno le ricucì il ginocchio con quattro punti, del suo operato di sarto professionista in tessuti umani, Bulma non percepì nulla. Lo squarcio profondo l’aveva nell’anima, le faceva male e per esso non c’era sutura che rimediasse.
Quando i medici le chiesero come avesse fatto a ferirsi e ad avere uno zigomo tumefatto come se le avessero dato un pugno, lei rispose distrattamente di essere caduta dalle scale, fregandosene delle facce diffidenti dei dottori, e quasi scoppiando a ridere nervosamente nel momento in cui un’infermiera le prese una mano per consigliarle di sfogarsi e di denunciare chi l’aveva ridotta così. Se le avessero visto anche i segni sul fianco, l'avrebbero indubbiamente spedita in un centro di assistenza sociale.
Finito di farsi ricucire, e convinti i dottori che le cose erano andate davvero come dichiarava che fossero accadute, Bulma non volle rientrare a casa. Sentiva di dover metabolizzare quanto era successo standosene sola, e per perdere tempo, con un po’ di monete che aveva in tasca, si avvicinò al distributore automatico di bevande e snack posto in fondo ad uno dei corridoi del Pronto Soccorso. Prese una camomilla, sperando che questa potesse calmarla, ma dai distributori automatici non c’era d’aspettarsi mai nulla di buono: quella che assaggiò era insipida acqua bollente.
Diede uno sguardo al suo orologio da polso, notò che le nove di sera erano passate da un pezzo e stranamente nessuno l’aveva ancora cercata.
Doveva venirci lui qui, era lui quello ferito non io.
Pensò, stringendo le dita attorno al bicchiere caldo; se non altro, la finta camomilla riusciva a trasmetterle un po’ di calore.
Che ti serva da lezione, almeno ti convincerai definitivamente a stare lontana da lui.
Ma la mente della scienziata era gremita da dubbi più grossi delle constatazioni scontate della sua coscienza.

Voleva davvero uccidermi?

Pazza, certo che voleva! Cos’altro deve accadere per far sì che tu ti convinca a lasciarlo stare?!
No, la colpa è stata mia, non avrei dovuto dirgli quelle parole.

Sicuramente si è trattenuto… O forse sono stata fortunata che in quel momento non avesse molta forza?

Ipotizzò, anche se a lei era parso sufficientemente letale.
Mentre le domande non finivano di aggredirla, si avvicinarono a lei un ragazzo e una ragazza poco più che ventenni. La ragazza aveva un piede fasciato e una benda che le circondava la testa, il suo compagno aveva il viso incerottato. Potevano essere il risultato di una spericolatezza in moto, ma quello che colpì la scienziata fu il modo in cui i due camminavano verso il distributore: lei si sorreggeva al suo compagno passandogli un braccio dietro al collo e lui stava attento che lei faticasse il meno possibile. Erano l’una affidata alle braccia dell’altro, malconci, ma uniti. Bulma assistette al loro avanzare difficoltoso, che terminò quando il ragazzo prese in braccio la sua compagna senza farselo chiedere e la adagiò sulle sedie vicino al distributore, aspettando che questo, dopo averlo azionato, gli lasciasse due bicchieri ricolmi di cioccolata calda. Con la cioccolata fra le mani, il ragazzo si chinò di fronte alla sua compagna per porgerle il bicchiere e rimanere lì, chinato di fronte a lei, come se le stesse facendo una dichiarazione d’amore.
Poi, i due si scambiarono un timido bacio prima di sorridere sinceri e con le labbra lucide di cioccolato.
La scena lasciò Bulma incantata. Non provava invidia nei loro confronti, avvertì solo una fitta nel cuore morto che Vegeta le aveva restituito.
Se avessi battuto la testa e fossi svenuta, mi avresti soccorsa?
Ti saresti preso cura di me?
Lo avresti fatto, Vegeta?
Stai sognando! Ti ha dato la prova micidiale di essere un errore, un fuori percorso, un abbaglio piacevole finché rimaneva confinato fra le tue fantasie!


Bulma finì la sua acqua ormai tiepida e buttò il bicchiere di plastica nel cestino a fianco al distributore. Con l’amore in lutto, uscì in fretta dall’ospedale, per quanto le era possibile: i punti al ginocchio si facevano sentire tirando la pelle ed ogni parte del suo corpo era ancora indolenzita. Fuggì soprattuto dal bagliore accecante che quei ragazzi emanavano, il bagliore di un amore che lei non avrebbe mai potuto ottenere.

Essere felici è una scelta, come non esserlo.

Pensò, e prese il cellulare dalla tasca del suo cappotto. Era pronta a dare una piega definitiva alla sua vita.
Aprì la rubrica, cercò un numero e nell’istante in cui stava per avviare la chiamata il cellulare le squillò fra le mani.
Rispose.
«Bulma, sono Yamcha!»
Una coincidenza…
«Yamcha... ti stavo per telefonare.»
«Davvero? Che bello! Be', scusami amore, sono arrivato qui nel pomeriggio e non ho potuto chiamarti subito, ho avuto da fare con la squadra. Comunque va tutto bene, abbiamo già cominciato gli allenamenti e… Bulma sei ancora lì? Mi senti?»
«Sì, ti ascolto.»
«Ma che hai? Sei arrabbiata perché non ti ho telefonato appena sono arrivato come t’avevo promesso?»
«No, non sono arrabbiata per questo.»
«Lo sei perché stamattina non ti ho salutato? Be’, ho preferito lasciarti dormire. Sarebbe stato un peccato svegliarti.»
Come sei dolce, Yamcha, lo sei perché tu mi ami. E non mi faresti mai del male.
«Yamcha, non sono arrabbiata nemmeno per questo, anzi, non sono arrabbiata per nulla.»
Iniziò a tremarle la voce.
«Bulma, ti sento strana, non stai bene? Ma sei a casa?»
«Non proprio... »
«Che vuol dire non proprio? Sei a casa o no?»
«Lascia stare dove mi trovo, devo parlarti, ascolta»
«Bulma, mi fai preoccupare, che è successo?!»
«Ascoltami»
«Lo sto facendo! Ma almeno fammi capire cosa sta accadendo! Mi stai facendo preoccupare!»
Passarono alcuni minuti prima che la scienziata decidesse di continuare.

Dai Bulma, è finita, anzi non è mai iniziata… Tu ci hai provato, ma Vegeta non se ne fa niente delle tue cure… e dei tuoi sentimenti, lui non ti vuole.

Mutilando una parte di sé che elemosinava un amore inesistente, non corrisposto da Vegeta, Bulma confessò.
«Voglio essere felice…»
Sì, è questa la cosa giusta da fare, è così che deve andare. Senza rimpianti.
«…E voglio esserlo insieme a te, Yamcha.»
Le sue ultime parole spinsero lo spilungone ad assumere un’espressione di giubilo, mista a cocente soddisfazione che purtroppo, o per fortuna, Bulma non poté vedere.
Sapevo che sarebbe tornata da me. Ti ho sconfitto, brutto scimmione.
«E lo saremo presto, te lo prometto. Ti amo, Bulma.»
«Anch’io... »


Voglio essere felice.

 

Continua…

Note:
1.Partiamo dai doveri: un grazie enorme va a tutti coloro che hanno avuto costanza e hanno deciso di non mollarmi. Non si lasciano le storie a raccogliere polvere per mesi, è una scorrettezza, me ne rendo conto. Vi chiedo perdono.E già che ci sono, do un caloroso benvenuto ai nuovi arrivati!
2.Tralasciando la mia assenza, questo capitolo è stato vittima di molti miei ripensamenti. L’ho incentrato completamente su Bulma ed è venuto su carico di monotonia, una roba deprimente e poco sopportabile; ma io volevo farvi vivere la sua soffocante condizione di stallo e indecisione portata all’estremo.
3.Se per caso aveste scordato l’episodio in cui il padre di Bulma dimentica cosa aveva da dirle, o aveste voglia di verificarlo, tornate al Capitolo IV- Dementia: è un’emorragia.
4.La camicia rosa è quella che Vegeta porta durante l’atterraggio di Freezer, ce la ricordiamo tutti. E sappiamo che c’è scritto BADMAN.  Ho preferito attenermi al cartone animato che ce la presenta in un rosa spaventoso (io credo sia semplicemente bianca, anche se una volta mi capitò di vedere un’illustrazione in cui era proprio rosa, purtroppo non ricordo se sia stata realizzata dalle manine brave di Akira o da un bravissimo imitatore). Ma i pantaloni che ci indossava sotto non sono di quel giallo canarino che ci fanno subire nell'anime! Nel fumetto sono passati a china, per cui si può solo immaginare che così facendo Toriyama abbia voluto rappresentare un colore scuro!
5.Vegeta pensa che la difficoltà che incontra nel trasformarsi in Super Saiyan sia dovuta all’assenza di bene, affetti e tante belle cose che in lui sono carenti se non assenti. È vero, lo si apprende dall’ultima parte del manga che l’autore riserva per la crescita di questo molteplice personaggio, quando Goku è tutto preso ad affrontare Bu e il nostro Principe ammette che esiste un numero uno e che non è lui ma il servo (... Vegeta, perché l'hai fatto? Noi ti volevamo dannato a vita!!!).Quello che credo, è che a questo abbia sempre pensato (che l’amore verso qualcuno genera una forza sorprendente) ma essendo pregno d’orgoglio non l’ha mai ammesso prima del fatidico momento che vi ho evidenziato.
6.No, non mi sono dimenticata dell’anello, anche se l’ho lasciato in sospeso.
7.Alcuni dialoghi li ho costruiti sgraffignando da quelli presenti nel cartone animato.
8.Nel prossimo capitolo assisterete ad uno stacco e alla comparsa di altri personaggi, ci tenevo ad anticiparvelo.
9.In ultimo il disegno: vi piace?

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII - La foresta brucia. Salvate il lupo. ***


Troverete in fondo alla pagina, dopo le note, quattro nuove illustrazione da me realizzate. Buona lettura.
 

Standby

Capitolo VIII - La foresta brucia. Salvate il lupo.

 

Quella mattina, l’oceano era calmo, di celeste molto pallido; e il cielo si presentava limpido, quasi da confondersi con l’acqua.
Nell’aria c’era sterile pace, il vento non portava con sé la terra di alcuna battaglia, né sangue né odore di carne bruciata, alla speranza era ancora concesso profumare di salsedine.

Un gabbiano stava volando alto nel cielo, probabilmente era in cerca di cibo, iniziò a planare appena avvistò un’isola, l’unica sotto di lui.
Questa emergeva minuscola fra le onde che ne carezzavano appena la battigia con cadenza ipnotica, rilassante.
Era un’isola molto piccola, un insignificante mucchietto di terra, tuttavia, riusciva a dare spazio ad una casa sistemata esattamente nel suo centro.
La casa, tinta di rosa, era chiusa in alto da tegole rosse, belle da farla assomigliare ad una fragola gigante adagiata su di una sottile fettina di marzapane, tanto esigua appariva la spiaggia che la circondava.

Kame-House! Era dipinto in vernice rossa a grandi dimensioni sulle assi di legno poco sopra l’ingresso della dimora.

Il gabbiano atterrò, puntellando le zampe palmate sull’anemoscopio fissato al comignolo della casa; la banderuola a forma di gallo oscillò appena spinta dal peso del pennuto, e lì, appollaiato, il gabbiano rimase curioso ad osservare: c’era un ragazzo, un giovane ragazzo che se ne stava in piedi sulla riva, teneva gli occhi chiusi e le sopracciglia lievemente aggrottate in un’espressione seria e meditabonda.

«Crilin, sei ancora lì? Su, vieni a fare colazione!»

Gridò qualcuno. Una delle finestre della casa fu rumorosamente spalancata. Da questa, si affacciò un vecchio in canottiera ed occhiali da sole.
Il ragazzo digrignò appena i denti, la sua fronte grondava sudore.

«Avanti, Crilin! Il tuo stomaco sta brontolando dalla fame, si sente fin qui.»

Seguitò il vecchio uomo, ma Crilin, il ragazzo, manteneva convinto la sua posizione. Lo stomaco, al contrario, ne tradiva l’ostinazione.

«Dai, continuerai ad allenarti dopo. Il caffè è pronto e ci sono le omelette calde!»

Crilin buttò fuori il fiato, ruppe lo statico cogito, il gabbiano volò via.

«Accidenti, Maestro! Lo sa che devo allenarmi seriamente e il tempo passa così in fretta che potrebbe non essere sufficiente a prepararmi adeguatamente contro gli androidi!»

«Ancora con quest’ansia dei cyborg, piantala!»

Lo rimbeccò il Maestro, ovvero il vecchietto smilzo dall’apparenza cagionevole, che  però si faceva chiamare Eremita o Genio delle Tartarughe, nonché sapiente custode delle arti marziali la cui fama era giunta sino alle folte folle del torneo Tenkaichi; quindi, il Maestro.

Crilin rimase senza parole, estremamente contrariato. Dal suo mentore non se lo aspettava.
Sentiva di essere il solo ad aver preso sul serio il dramma delle ventura minaccia, ad aver annusato in anticipo la puzza di guai grossi.
Anzi no: erano stati in due ad aver capito, lui e Bulma, ma nessuno aveva voluto ascoltarli.

«Sono settimane che ti vedo mangiar poco. Essere inutilmente pignoli non serve, manca più di un anno e mezzo all’arrivo di quei robot, ne hai di tempo per allenarti e fare colazione di certo non te lo toglierà. Anzi, saziato l’appetito ti sarà più facile rimanere concentrato. E questo non è un consiglio, ma un ordine del tuo maestro.»

«Be’, Genio, se la mette così, non ho altra scelta, vero?»

«No, non ce l’hai, ragazzo».


Seduti attorno al chabudai, il fiero Eremita della Tartaruga e il suo giovane allievo rassegnato si godettero il piacere di una colazione modesta ma nutriente. Abitavano insieme da anni, con loro c’era anche una centenaria tartaruga di mare, la quale mangiava lentamente da una ciotola colma di alghe fresche.
«Crilin – riprese il Genio – cerca di non farmi preoccupare, lo sai che una sana alimentazione è necessaria se vuoi sottoporti a duri allenamenti.»
Il ragazzo deglutì un sorso di caffellatte, dopo, rispose: «Mi scusi, ha ragione, è che... non so davvero cosa aspettarmi, non riesco neanche ad immaginare che possano esistere esseri più potenti di Freezer o addirittura più forti di un Super Saiyan, è qualcosa che non riesco a capire, credevo d’aver incontrato il male assoluto su Namecc, – Crilin fece una breve pausa, aveva abbassato lo sguardo e si era passato una mano sul fianco, stava ricordando l’agghiacciante, spasmodica e dolorosa sensazione mentre Freezer lo trapassava più e più volte con una delle sue lunghe corna –  a quanto pare, non c’è mai limite al peggio», concluse e sfogò la sua frustrazione addentando con rabbia un grosso boccone soffice e zuccherato. Alle omelette, il Genio aveva aggiunto anche dei cornetti al miele scaldati velocemente nel microonde.
L’espressione dell’eremita si fece più seria; i suoi allievi erano come dei figli e purtroppo lui non poteva essere d'aiuto, non più, e non avrebbe potuto aiutarli ad alzarsi. Ma certo era che non si sarebbe tirato indietro nel consigliare loro come evitare di cadere.

«Crilin, non dimenticare che non combatterai solo, ci saranno gli altri e ci sarà Goku, sono sicuro che insieme ce la farete... »

«Sì, però quel ragazzo ha detto che Goku si ammalerà e non potrà combattere, io mi alleno ogni giorno e... ha visto anche lei i risultati... »

«Non dovresti essere tanto pessimista – lo rimproverò il Genio – Ti ricordo che Goku ha ricevuto da quel ragazzo la medicina adeguata, potrà curarsi, vedrai che tutto si sistemerà, lui non ci abbandonerà!»

I due si scambiarono uno sguardo consapevole: non era mai capitato, Goku era sempre stato una garanzia, era una sorta di messia giunto sulla Terra per proteggerla, Goku rappresentava quella speranza che odorava di salsedine, di hosomaki, di libertà, di vita, quella di tutti i terrestri ignari ed anche immeritevoli; eppure, stavolta, a spegnersi avrebbe potuto essere la vita dal saiyan naturalizzato terrestre. Una malattia avrebbe potuto cancellargli il sorriso in un attimo e di conseguenza avrebbe spazzato via la loro speranza.

«Maestro, non volevo farla agitare, mi perdoni.»

«Dai, non ci pensare, dobbiamo essere coraggiosi, Crilin, e non disperare.»

Il Genio fece per alzarsi, ci voleva un’altra tazza di caffè per tirarsi su ma, sollevandosi, rimase bloccato. Restando mezzo chino su se stesso. «Aah! La mia schiena! Se solo fossi più giovane lotterei con voi, maledetta vecchiaia! Prima o poi arriverà il momento in cui non sarò più in grado di stare in piedi e di andare in bagno, ah, finirò ad usare schifosi barattoli, a farmela addosso!», bofonchiò, strappando però un paio di sorrisi al suo allievo.
«Genio, non dica così, lei nonostante la sua età ha tuttora una tempra inossidabile e gode di buona salute!»
«Fai lo spiritoso? Gli anni passano anche per me, cosa credi! Se devo dirla tutta sono molto stanco... Guarda, guarda questa casa, è un porcile!»
Cambiare argomento era forse ciò di cui entrambi avevano bisogno; il Genio comunque faceva sul serio. Rifilò un’occhiataccia di rimprovero a Crilin, per sottintendere che le pulizie erano solo una mansione che spettava al ragazzo.
«E sono stanco di mangiare la tua sbobba!»
Aggiunse, dimenticandosi che la colazione quella mattina l’aveva preparata lui e non era cattiva.
Crilin sorvolò, meglio lasciarlo sfogare, perché quando il Genio s'arrabbiava diventava insopportabile e bizzoso.
«Ci sono! – riprese con nuovo impeto il maestro – C’è solo una cosa che può tirarci su! Crilin, svelto, piglia il telefono!»
«Come? Perché il telefono? Che c’entra il telefono?»
Domandò il ragazzo, sgranando gli occhi disorientato, non capendo e iniziando a temere gli sviluppi della situazione.
Forse, il Genio voleva chiamare Goku, così si sarebbero allenati tutti insieme, di nuovo, come una volta. Questo non gli sarebbe dispiaciuto. Però, le intenzioni del vecchio maestro sembravano altre.

«Be’, non ci arrivi da solo?! – Crilin scosse la testa, e non fece in tempo a dare un’ipotesi di risposta che il Genio lo zittì – Ma è ovvio: arrostiremo un po’ di carne sul fuoco, faremo festa. Sì, ho bisogno di carne, di cosce nude e profumate, di seni pieni e tondi e… Perché mi guardi così? Cosa credi che alla mia età non abbia alcun bisogno? Io sono un uomo e tu non immagini come mi senta solo! Ah, quanto ci farebbe bene avere una donna qui con noi, sono stufo di vedere la tua zucca pelata! Avanti, l’agenda è lì, tra il televisore e la lampada. Telefona a Tenshinhan e digli di venire con Jiaozi e di portare anche Lunch, soprattutto lei. Se ci riesci rintraccia Goku. E poi, ovviamente, chiama Bulma... e Yamcha.»
Preso dall’impeto, con un balzo, il Genio era finito sul tavolo; Crilin, invece, era completamente stravolto dal tono deciso del Maestro e dal suo brusco cambio d'umore.
L’incombere dei cyborg era passato in secondo piano, quasi scomparso, pareva che la soluzione risiedesse tutta tra un paio di cosce di donna e qualche salsiccia arrostita. E non lo si poteva biasimare, una donna da amare e desiderare mancava anche a Crilin e l’idea di morire per mano degli androidi, restando così vergine e asciutto di esperienze, non lo entusiasmava.

 

 

       ~ ~ ~

 

 

C’era qualcosa che non andava nello specchio davanti a lei, eppure, il riflesso che vedeva era il suo; era la sua faccia quella imbellettata con le labbra rosse atteggiate in una smorfia simile ad un sorriso, erano i suoi occhi quelli che, circondati da ciglia lunghe e nere, la stavano guardando spaesati… e non c’era dubbio: quel corpo stretto in un corsetto che le fasciava la vita, e che scendeva a coprirle le gambe con strati di veli bianchi fino ai piedi, era il suo.
Tuttavia, ciò che stava vedendo la ingannava: più che uno specchio quella lastra riflettente davanti a lei doveva essere una vetrina con dentro un manichino in abito da sposa. Un manichino bello, perfetto, ma in egual misura finto, vuoto, senza respiro, senz’anima.
Sì, una finzione, una messinscena: quella plastica vestita non era lei, le somigliava soltanto.
«La lunghezza… tesoro, secondo te la lunghezza va bene?»
La domanda di sua madre le giunse alle orecchie fastidiosa e ronzante. A Bulma venne arduo rispondere. Per quanto le importava, l’abito poteva essere di qualunque misura; tanto ne era certa, non lo stava indossando.
«Tesoro, la lunghezza?!»
Ripeté la signora Brief, ma la scienziata continuava a stare zitta.
Solo quando avvertì qualcuno arruffarle le trine del vestito, Bulma si degnò e abbassò lo sguardo: notò la sarta affaccendata con ago e filo, presa nel tentativo di mostrarle come sarebbe stata la gonna dell’abito se fosse stata accorciata di tanto.
Con l’ennesimo punto, la donna finì l’imbastitura e si allontanò dalla scienziata per farle vedere il risultato.
Bulma alzò gli occhi in cerca dello specchio, quest’ultimo le rivelò un’immagine a suo parere maledetta: raso, seta, organza, merletti, tutto cucito insieme a formare un’opera d’arte impeccabile che le metteva in risalto le forme del corpo e la inondava di un’aura luminosa e illibata. Un’aura così pura che però stonava con le tinte inquiete del suo animo.
Distolse subito lo sguardo dalla lastra stregata, aveva paura che a forza di guardarla il riflesso estraneo cominciasse sul serio a confondersi con lei al punto tale da farle dubitare che ci fosse davvero lei imprigionata nello specchio.
«Bellissima! Questo ti sta a meraviglia!»
Affermò convinta la signora Brief, fattasi più zuccherosa del solito.
«Sua madre ha ragione, di tante spose che ho visto lei è assolutamente perfetta! La sua è una rara bellezza, se l’avesse scelta come professione, sarebbe stata una modella di successo!»
Aggiunse la sarta, forse con parole troppo ridondanti; ma era orgogliosa del lavoro svolto, e che avvalorava il corpo di Bulma. La scienziata, comunque, non ebbe reazioni, i complimenti colarono giù nel nulla: non un sorriso, non un segno di assenso albeggiò nei suoi occhi, anzi, le parole della malcapitata sarta la disturbavano suonando come inutile retorica: lei era la migliore e non aveva bisogno di sentirselo dire, specie da una donna con un rossetto arancione spalmato oltre il contorno di labbra sottili e rugose, truccata con due pois fucsia per dare forma a zigomi assenti, e con una ricrescita bianca su una chioma rossa opaca di capelli crespi, tinti e consumati; pareva che in testa indossasse una vecchia parrucca da clown e che in faccia portasse anche il trucco da pagliaccio, mancava solo il naso rosso.

La questione era un’altra: a Bulma mancava il respiro, colpa del corsetto. Strano, molto strano. Non poté fare a meno di chiedersi come potessero le visioni dare sensazioni così reali. E mentre rifletteva su cosa fosse reale o, invero, su cosa includere a piacimento nella realtà e cosa no, sua madre si reiterava nell’attesa di un consenso.
Furono gli occhi impazienti della sarta, e il desiderio di non avere quella donna ancora tra i piedi, che convinsero la scienziata ad aprir bocca.

«La lunghezza è perfetta, solo che…», sussurrò, in una frase interrotta dal mozzarsi del respiro che non lasciava presagire nulla di buono.
Sia la signora Brief che la povera sarta rimasero in attesa, sospese, come in procinto di cadere in avanti.
«Solo che?»
Tentò di sollecitarla sua madre.
«Il vestito non mi piace.»
Si abbatté un inevitabile secco silenzio.

La sarta era caduta in lutto, avvilita: la sua opera era stata uccisa in cinque parole, e quella non era nemmeno la prima vittima della giornata, la scienziata ne aveva stecchite quasi una decina.
«Cara, è il nono abito che provi, possibile che non ce ne sia uno che ti piaccia veramente? Questo ti sta benissimo!»
Le rammentò la mamma, stanca quasi quanto la sarta.
«No, nemmeno uno.»
Confermò nuovamente Bulma, rifilando un’altra coltellata spietata alla donna agonizzante.
«Ma sarebbe un peccato non sceglierlo – insistette sua madre – questo ti sta d’incanto e sono sicura che anche a Yamcha piacerà!»
Sentendo il nome del suo promesso sposo, lei cambiò espressione: diventò drammatica.
Nella
 testa di Bulma regnava ancora quell’antinomia irrisolta: un’esigua percentuale della sua volontà si mostrava insofferente all’idea del matrimonio, destabilizzando in questo modo la scelta palesatasi come unica soluzione utile a non far soffrire nessuno: né Yamcha né Vegeta, e nemmeno lei.
O così credeva.


«Scusate se mi intrometto – intervenne la piccola donna occhialuta – forse non le piacciono i vestiti bianchi e che abbiano colori chiari. Potremmo provare con qualcosa di più acceso o scuro!»
La sarta
 non ne voleva sapere di crepare una volta per tutte, doveva trovare un abito per quella ragazza ricca e viziata. Ne valeva del suo orgoglio di sarta con anni di esperienza alle spalle, non era mica una cucitrice qualunque.
La dichiarazione assunse le sembianze di un’illuminazione. Nel salotto della Capsule Corporation, temporaneamente adibito a boutique per spose, sembrò diffondersi una luce diversa, calda, divinatoria.
«Oh, credo che lei abbia perfettamente ragione! Bulma, forse è proprio il colore il problema!»

Certo.

Un abito diverso. Per un funerale.

Non mi dispiacerebbe.

Non c’era da girarci intorno: l’abito da sposa, che Bulma sentiva quasi corroderle la pelle, era solo la punta di un iceberg che la scienziata si ostinava a tenere forzatamente immerso in placide e immote acque.
Eppure, non volle cedere, diede una misera speranza alla sarta e una a sé stessa: ne provò uno rosso.
Risultato: le sfumature vermiglie le donavano, ma con tutte quelle balze sembrava pronta per un ballo in maschera.
Cambiò con un altro, questo era blu. Niente da fare, la sensazione del “manichino somigliante” non l’abbandonava, men che meno il prurito sentendosi inguainata tra veli e trame di pizzi spinosi.

Cosa c’è che non va?

Domandò a se stessa.

Questo matrimonio...

Bloccò subito la coscienza trattenendo il respiro e strizzando gli occhi.

«Allora, figliola, che ne dici? Ti piace?!»

Era il momento di dimostrare quanto fosse ferrea la sua convinzione: voltò gli occhi allo specchio, ingoiò saliva, passò una mano a lisciare il vestito sull’addome e rilassò le labbra in modo che le guance divenissero più prominenti e il suo viso assumesse una sembianza ilare.
Stava sorridendo a se stessa veramente… o forse stava veramente mentendo.
La sarta, vedendo la positività sbocciare sul volto di Bulma, resuscitò dalla buca in cui era stata buttata e gettò insieme alla signora Brief un sospiro di sollievo.
Era fatta, per loro.
«Credo che questo sia-»
Squillò il telefono, Bulma non finì di parlare.
«Vado io a rispondere, non preoccupatevi»
Disse la signora Brief, muovendosi in direzione del cordless.
«Qui è la Capsule Corporation, con chi ho il piacere di parlare?»
Dall’altra parte del ricevitore un ragazzo timido chiese della scienziata.
«Certo, è qui, ora te la passo. Cara, è per te, ti vogliono, è il tuo amico quello... Accidenti, me l’ha detto adesso come si chiama… Vuoi che gli dica di richiamare più tardi, così finiamo di provare il vestito?»
«Passamelo subito!»
Bulma prese il telefono quasi strappandolo dalle mani di sua madre. Si aggrappò a quel piccolo apparecchio con la stessa veemenza di una naufraga nell’oceano avvinghiata ad un’asse di legno, l’unica a separarla dalla morte. Ascoltò l'amico non come Crilin, quale era, bensì come un mantra, una specie di esorcismo recitato per telefono che le suggeriva di tornare in sé, di lasciare stare lo specchio maledetto, la sarta – maledetta pure lei – e sua madre che, non contenta delle innumerevoli volte che Bulma aveva rimandato l’uscita shopping matrimoniale, quella mattina l’aveva incastrata apparecchiando una sartoria in casa.
L’esorcismo funzionò: un sì continuo fu la repentina risposta a tutto ciò che Crilin diceva, fino a riagganciare il telefono senza nemmeno salutare il ragazzo dall’altra parte della cornetta.
«Allora, Bulma, stavi dicendo che il vestito ti piaceva, vero?»
Riprese la signora Brief.
«Me ne sto andando.»
Suonò come un addio prima di prendere il largo per non far più ritorno.
«Cosa?! Come te ne stai andando?! Tesoro, dobbiamo scegliere ancora le scarpe, l’acconciatura e, e... il vestito, questo ti piace?!»
«Scegli tu per me, grazie. Adesso devo sbrigarmi, in tre ore dovrò essere alla Kame-House.»
Bulma si liberò in fretta dell'abito che la impagliava. Senza preoccuparsi di poter essere vista dall’ospite alieno mezza nuda, fuggì dal salotto scaricando con nonchalance le due donne disperate.

«Signora Brief, cosa facciamo: sua figlia lo vuole questo vestito sì o no?»
Domandò la sarta inacidita.
«Signora Brief, il vestito?! »
Ripeté.
«Mi scusi, ha ragione. Dunque, questo sembrava le piacesse, vero? Oppure quest'altro? Magari il penultimo che ha provato? Be’ se devo scegliere io, vada per un abito bianco».

 

Bulma era tornata vispa come da tanto non accadeva, sembrava una piccola ape in cerca di miele; andare via dalla Capsule Corporation le stava infondendo buonumore.
Sul letto, uno zaino aperto faceva da canestro per tutti gli oggetti e indumenti che la scienziata vi lanciava dentro. Con una telefonata Crilin aveva spezzato l’apatia annientante che s'era impadronita di lei, ed anche se l’uscita sarebbe stata breve e le avrebbe occupato solo il weekend, la Kame-House era il giusto palliativo; aveva bisogno di un cambio d'aria, la Città dell'Ovest era ancora molto fredda, un po’ di sole l'avrebbe aiutata a bilanciare il rapporto tra serotonina e melatonina: ultimamente dormiva troppo, era diventata pigra ed ipersensibile e si commuoveva spesso, come le era capitato pochi giorni addietro, quando aveva incontrato un cane che le era parso essere randagio e per il quale aveva provato il desiderio irresistibile di portarselo immediatamente a casa. Non l'aveva fatto solo perché, poco dopo, il padrone era sbucato fuori fischiando e richiamando il cane a sé. C'era stato il lieto fine ma, vedere quel cane andarsene, abbandonarla, l’aveva resa molto triste.

«Lo spazzolino da denti c'è, la biancheria di ricambio pure... – si allontanò per analizzare meglio il piccolo zaino: dava l’aria di un bagaglio per un viaggio di sola andata – Sarà meglio alleggerirlo, così non credo riuscirò a chiuderlo... Oh, ecco, dimenticavo il costume! È un’isola dell'emisfero sud, in questo periodo lì fa caldo e potrò fare il bagno. Ma dove l’avrò messo?»
Mise a soqquadro l'intera stanza, frugò ovunque, finché l’armadio le sputò fuori qualcosa di cui aveva dimenticato la presenza: sgualcita e sporca, era la felpa di Vegeta.

Quella gettala via. Subito.

Ordinò prontamente la coscienza, ma lei non si mosse, era come ammaliata, non se lo aspettava.
La adagiò al suo petto, lentamente.

Non farlo.

La strinse, forte, tanto, quasi che la stoffa logora potesse trasmettergli qualcosa, una verità, uno stato d'animo di cui era alla ricerca, perché i lividi erano spariti, la ferita che aveva sfregiato la sua carne perfetta si era rimarginata. Faceva male il ricordo delle parole, quello che si erano urlati in faccia le colpiva lo stomaco fino a farle perdere l’appetito.
Poco più di un mese era trascorso dal violento episodio avuto con lui, poi, non era accaduto più nulla, niente che fosse riuscito a cambiare la situazione, come se il tempo si fosse stancato di andare avanti, lasciando la scienziata nell’agonia di un’inutile attesa per l'arrivo di qualcosa di ineffabile.
Lei ci aveva provato, aveva tentato di cambiare la sua vita: era partita verso la felicità, da Vegeta, e proprio sulla frontiera era stata avvistata. Ferita da quella che credeva potesse forse essere la sua salvezza. Respinta. Quindi riportata a marcire nel luogo da dove era evasa, ma che l’aveva ricongiunta a Yamcha.
Vegeta, da allora, era sparito, nelle ore diurne non si faceva vedere e lo stesso accadeva al calare del sole. Sembrava che il saiyan si impegnasse minuziosamente al fine di non incontrarla.
Coraggio per andare da lui, per sincerarsi che almeno stesse bene, non v'era più.
Proibito ed impossibile, era tutto così irrimediabilmente finito.

La condizione migliore per entrambi.

Continuava a ripetersi. 
E l’unico a darle notizie del saiyan, a creare ancora un flebile ed invisibile contatto durante il corso dell’atroce mancanza, era suo padre: le aveva parlato di una particolare richiesta di Vegeta a proposito di macchinari che potessero amplificare il livello di difficoltà dei suoi allenamenti.

“Non gli basta più! Ha detto che la camera gravitazionale è diventata insufficiente! Ti rendi conto?! È fuori di senno! Non so dove voglia arrivare… Io non ho problemi ad esaudire le sue richieste, ma lui sta mettendo a rischio la sua vita!”

Le aveva detto così grave da spaventarla. 
Tuttavia, nonostante Bulma avesse capito quanto fossero estremamente pericolosi quei marchingegni, pur non avendoli mai visti nemmeno su progetto, non aveva battuto ciglio. Si era odiata per questo. Purtroppo però, nulla la riguardava più, non erano affari suoi. Doveva rimanere al suo posto.


Divisi dalla natura che li aveva fatti opposti… lui ci era finito accidentalmente a casa sua, anche se in realtà lo aveva ospitato lei.
Il loro incontro era stato un incidente, se ne era fatta una ragione.
In compenso, Yamcha si prendeva cura di lei, a distanza, mistificando la sua vera essenza nel ruolo dell’uomo innamorato e devoto: la chiamava regolarmente, una volta al giorno, alla pari di un dottore a cui erano stati affidati degenti da tenere sotto osservazione; un ritmo così non l’avevano mai avuto nel loro rapporto e Bulma non poteva negare che le piaceva essere oggetto d’apprensione altrui. Soprattutto quando dentro era satura di vittimismo.
Le domande che Yamcha le porgeva per telefono erano repentine, a volte fuori luogo e nel momento esatto in cui lei iniziava a chiedergli come si trovasse nella Città del Nord.
Fosse stata lucida, si sarebbe accorta che il continuo voler sapere delle sue condizioni di salute, da parte di Yamcha, non era semplice sincera e disinteressata preoccupazione.

Devo buttarla.

Tornò alla felpa. L’avrebbe gettata nel primo bidone della spazzatura trovato appena oltrepassato il cortile della Capsule Corporation. Se l’avesse fatto in casa, avrebbe avuto il tempo di ripensarci e riprenderla. Il taglio l’aveva dato netto e andava rispettato, soprattutto per mantenere una necessaria integrità mentale.

Pronta, uscì impettita senza salutare i suoi, c'era il rischio che la madre assieme alla sarta le togliessero altro tempo.

La giornata era bella, le temperature molto basse. Bulma si sentiva forte e si fidava di se stessa. Poteva affermare di essere guarita dalla follia di raggiungere quell’aliena  felicità: la felpa insanguinata non occupava più il suo armadio, era solo pattume. Vegeta non aveva più potere su di lei. Azionò i motori del suo elicottero, la Capsule Corporation diventò presto piccina e la navicella in cui il saiyan ogni giorno rischiava di morire divenne insignificante.

 

 

~ ~ ~

 

Il grasso della carne sfrigolava sulla griglia infuocata, una ragazza dai lunghi capelli biondi si preoccupava di cuocere bene bistecche, spiedini, salsicce. Era un compito impegnativo ma facile da svolgere, se nel mezzo non ci fosse stato il Maestro Muten.
«Lunch, è da tanto che non ci vediamo – esordì il Genio, avvicinandosi ai fianchi della ragazza – da quando hai deciso di andare via con Tenshinhan mi hai lasciato in un vero pasticcio, sai: Crilin non sa cucinare, è un disastro!»
Il Maestro Muten era la metà di Lunch, lei poteva guardarlo dall’alto con i grandi occhi verdi. 
Addosso,
​ la ragazza aveva solo un paio di mini-shorts e due pezzi di stoffa che tenuti insieme con degli esili laccetti le coprivano a malapena i seni. Dai quali il Genio non staccava lo sguardo nascosto sotto gli occhiali da sole.
«Davvero, mi siete mancate... Ehm, cioè, mi sei mancata, Lunch!»
La ragazza ascoltò, ignorando la chiarezza del riferimento. E, silenziosa, girò nuovamente la carne per evitare di farla bruciare.
C'era un bislacco accordo tra le salsicce ardenti, che durante la cottura rilasciavano del liquido bianco e schiumoso, e i seni evidentemente sudati e bagnati di piccole gocce brillanti che finivano a raccogliersi preziose nello spazio scuro che li separava. Secondo il Genio quell'accordo, propriamente quella visione così umida, appariva sublime.
«Soprattutto la tua cucina, Lunch, non vedo l’ora di mangiare quel che stai preparando.»
«Un po’ di carne cotta al barbecue non è nulla di speciale.»
«Sì, ma tu hai il tocco della cuoca, di femmina... »
Il Maestro non riusciva a scollarle gli occhi di dosso. Fece cadere una delle posate che Lunch non stava usando e lei, non accorgendosi che era stato fatto apposta, si chinò per raccoglierla. Il vecchio poté così godersi lo spettacolo dei seni prosperosi ora ciondolanti. Lo spazio tra loro era diventato un ponticello stretto sotto il quale il Genio avrebbe voluto intrufolarsi ed occuparlo.
«Lunch, cara, hai un insetto qui, proprio qui, lascia che te lo tolga... ecco... »
Una mano morta sfiorò un seno, il quale ballonzolò invitante, quasi contento. Un secondo dopo, una forchetta rovente andò a conficcarsi su quella stessa mano, ora viva e dolorante.
«Ahi! Ma sei impazzita?! Che fai?!»
«Tieni quelle mani a posto, intesi!»
«Tenshinhan – gridò il Genio in direzione del ragazzo presente anche lui sull’isola ma in quel momento lontano dalla sua Lunch – che hai fatto a questa ragazza?! Perché è diventata così violenta?! Sul serio, cara, ti preferisco con i capelli blu, più calma e dolce!»
Nessuno però diede attenzione al Maestro, sapevano che se le andava a cercare.


«Crilin, sai se verrà anche Goku?»
Domandò Tenshinhan.
«Purtroppo, sia lui che Piccolo e Gohan non ce la faranno. Ho parlato al telefono con Chichi, mi ha detto che attualmente si sono allontanati da casa per allenarsi, nemmeno lei sa dove sono, e figurati, mi ha detto che nel caso riuscissi a sentirli, devo rimproverare Gohan, dice che deve tornare immediatamente a casa, sai, i compiti.»
Tenshinhan sorrise, «Ah, che peccato, mi era sembrata un’ottima occasione per incontrarli e capire come stia andando il loro allenamento, mi chiedo infatti che tipo di esercizi stiano facendo quei tre insieme.»
«Sì, bravo, anche io me lo chiedo. Goku ormai è un Super Saiyan, ma mi auguro che allenandosi possa diventare ancora più forte.»
Disse Crilin, ripensando alla discussione avuta col Genio.
«Già. Siamo fortunati che lui sia diventato un Super Saiyan – alla conversazione si aggiunse anche il piccolo Jiaozi – Ragazzi, quindi mancano solo Bulma e Yamcha?»
«Esatto – confermò Crilin – Comunque, se non fosse stato per Lunch non vi avrei rintracciati, meno male che non eravate molto lontani da- ahiii!»
«Fate finta di non sentirmi, eh?!»
«Genio! Ma... Perché mi ha colpito col suo bastone?! Che ho fatto?!»
«Vergognati, non si prende in giro il proprio maestro!»
«Come? Perché avrei dovuto prenderla in giro?»
«Finiscila di contraddirmi, sai cosa è accaduto poco fa, la mano mi fa male pure per colpa tua.»
«Mia? Cosa c’entro io?...»
«Fai silenzio, piuttosto, vedo che non siamo tutti, dov'è Bulma?»
«Maestro, le ricordo che Bulma si trova quasi dall’altra parte del pianeta, le ci vorranno sicuramente delle ore per arrivare!»
«Pensi che io sia stupido?! So dove abita Bulma!»
«Ma perché se la prende con me?!»
«Non rispondermi così.»
Crilin guadagnò un altro colpo alla testa. Tutti ridacchiarono.
Poi: «Oh, guardate sta arrivando qualcuno!»
Notò Jiaozi, indicando un punto preciso nel cielo sopra di loro.
«Quello è l’elicottero di Bulma, è arrivata!» confermò con entusiasmo Crilin.
«Sì, finalmente un altro paio di tet-»
Il genio non finì, lo sguardo assassino di Lunch gli imbavagliò automaticamente la bocca.


 

«Bulma ci hai messo pochissimo a raggiungerci!»
Crilin fu il primo ad accoglierla.
«Ah ah, cosa credete, ho i miei mezzi! Posso arrivare ovunque, allora, come state?»
«Benissimo, grazie.»
Rispose Jiaozi, Tenshinhan si limitò a sorriderle.
«Bulma, da quanto tempo! Me lo dai un bel bacino qui, dai!»
Questo invece era il benvenuto del Genio. Che le sorrideva mettendo in vista la dentatura mancante e indicava alla ragazza la guancia da baciare.
«Scordatelo!»
«Uffa, sei antipatica pure tu oggi, ma che v’è preso a voi donne?»

Ora andava bene, in compagnia dei suoi amici nulla avrebbe potuto rattristarla. 

«Bulma, come mai Yamcha non è con te? Pensavamo venisse anche lui.»
Nulla poteva, a parte questo.
Era stato Tenshinhan a farle il dispetto.
Sfortunatamente per lei, la domanda era indiscutibilmente lecita: Yamcha era loro amico e il suo ragazzo. 
Sulla sua faccia iniziò a ramificarsi il disappunto, che germogliò in fastidio e – «Già, mi avevi detto sì per telefono, che sarebbe venuto con te.» affermò Crilin – e sbocciò presto in rabbia, così furiosa da imporporarle vistosamente le guance.
Acchiappò nervosa uno dei suoi ricci e lo inviò dietro l’orecchio sinistro, dove avrebbe voluto nascondere volentieri anche il pensiero di Yamcha e Yamcha stesso. Lì, tra il lobo morbido e la farfallina che fermava il suo orecchino.

«Yamcha è partito, si è trasferito nella Città del Nord. Ha ricominciato a giocare a baseball un mese fa, non lo sapevate?»
Fu breve, precisa. Inaspettatamente calma. Velenosa.
«Be’, scusaci, l’avessimo saputo non te lo avremmo chiesto.», a Tenshinhan non era piaciuta la risposta scocciata.
Crilin, al contrario, sgranò gli occhi  in modo troppo evidente, facendo un passo indietro. La reazione non rimase inosservata all’attenzione di Bulma.

«Che hai Crilin
«A-ah, no, nulla, mi sorprende il fatto che abbia ricominciato a giocare, tutto qui.»
«Dai, basta con le chiacchiere – si intromise il Genio – peggio per lui se non c’è.  Lunch, ho voglia di assaggiare la tua carne, è pronto?»

 

 

 

~ ~ ~

 

Il signor Brief stringeva fra le labbra una sigaretta, raramente dava qualche tirata, la lasciava consumarsi da sola mentre avvitava l’ennesimo bullone per chiudere i circuiti d’accensione dell’alternatore di gravità.
Vegeta era dietro di lui, attendeva a braccia conserte e leggermente infastidito dalla puzza di fumo che si stava diffondendo nell’ambiente.

«Spero che questo basti, ma ti ripeto, deve occuparsene mia figlia, sono sicuro che lei troverebbe una soluzione appropriata, ed eviteresti di interrompere i tuoi allenamenti ogni volta, oltre a rischiare di far saltare tutto in aria... e morire carbonizzato.»
Disse lo scienziato, poco ironico ma estremamente calmo.

«Non fa niente, mi basta il suo di lavoro», puntualizzò Vegeta.

«Dico sul serio, aspettiamo che torni Bulma, so che è andata a far visita ai suoi amici ma starà fuori solo per il weekend, nel frattempo tu potresti riposarti, sembri averne molto bisogno, mi pare che le nuove apparecchiature che ti ho fornito ti stiano mettendo a dura prova... Se vuoi posso limitarne le funzionalità.»

«Non devo aspettare nessuno, le apparecchiature vanno benissimo così come sono, anzi le voglio più potenti.»

Il saiyan si mostrava testardo, nulla di nuovo.

«D’accordo, io ho finito, spero tu non abbia altri problemi, ma mi spiace non poterlo garantire, la tua forza è aumentata tanto da essere incontenibile e c’è il rischio che salti via la riparazione che ho appena concluso... »

Lo scienziato raccolse la cassetta degli attrezzi appena usati, poi, incerto, cercò il micio nero che portava sempre con sé. Si stupì nel vederlo fare le fusa al saiyan. Gli si allargò un sorriso sotto i baffi.
Vegeta invece non se ne era accorto: le sue pupille fissavano il nulla, apparentemente. Eppure vibravano, inseguendo il modularsi contorto dei suoi stessi pensieri.

Non va, non sta funzionando.

Perché?

Kakaroth, maledetto, tu, come...

Meriti di essere fatto a pezzi.


«Su, ora vieni con me – il signor Brief prese in braccio il gattino – bene, Vegeta, puoi azionare la gravità appena saremo fuori, ad ogni modo, per essere più sicuri proverò a telefonare e spiegare il problema a Bulma».

Lo scienziato uscì. Vegeta era nuovamente solo.


Bulma...


Pensò.
Per un’accoppiata di volte, il vecchio aveva pronunciato il nome di quella donna e udirlo accostato alla parola problema, poi, aveva sortito un reminiscente effetto.

“Vegeta, tu credi che le mie attenzioni per te siano merito della compassione. Ma in realtà… io mi sono-”

“Illusa!”

Le aveva risposto così, lei si era illusa. Lui no.

“... Non riuscirai mai a superare Goku se non dai al tuo cuore la possibilità di migliorare!”

Si guardò le mani, tremavano. E osservò le sue braccia, vistosamente provate dagli allenamenti. Nessuna illusione. Era tutto vero.


Io... sono il Principe...


Strinse i pugni, di più, con maggior forza. Facevano male.


... dei Saiyan. Sono un saiyan, Bulma.


Ecco l’illusione.

 

 

~ ~ ~

 

 

A migliaia di chilometri di distanza dalla Capsule Corporation, il pomeriggio era trascorso tranquillo; con emollienti risultati per la giovane scienziata, che: aveva indossato il costume, aveva fatto il bagno in acqua insieme agli altri, aveva dato due sberle meritate al Genio delle Tartarughe, aveva dimenticato di stare per sposarsi, soprattutto di annunciarlo ai suoi amici; inebriata dall’effluvio della salsedine, tutto era stato bellissimo, scivolato via. Facile. Come i cinque spritz  bevuti uno dietro l’altro.

Il gruppo di amici era in casa, adesso. Con l’arrivo della sera le temperature si abbassavano d’una decina di gradi ed il vento non era  più così piacevole. Avevano pertanto deciso di continuare a banchettare al caldo, nel salotto accogliente del Maestro Muten.
Ma seduti tutti attorno al tavolo, fu inevitabile, iniziarono a discutere di strategie, di come avrebbero potuto affrontare i cyborg valutando le possibilità di vittoria, se ce n’erano.
Bulma si teneva lontano dall’argomento e vicina al prossimo spritz, scambiava giusto qualche parola con Lunch, che era pronta a versarle da bere. La serata per lei doveva concludersi in modo perfetto: essere alticcia tanto da addormentarsi e ricordare nulla al mattino dopo.
Ci stava quasi riuscendo: giocherellava inebetita con la cannuccia rosa del suo bicchiere, e mescolava inutilmente due cubetti di ghiaccio pressoché sciolti.
La sua testa era un container vuoto di pensieri con in fondo una carta bianca dipinta ad acquerello chiaro. E uno fra i suoi amici pensò bene di vuotarci dentro e sopra tanta sporcizia:

«Bulma, proprio perché ne stiamo discutendo, da molto tempo io e Yamcha non ci vediamo, oggi speravo di parlarci, di confrontarmi con lui... è soprattutto per questo se sono venuto, desideravo parlare anche con Goku. Ma entrambi non ci sono e... »
«Sì, non ci sono, purtroppo... che dispiacere.»
Ripetè lei a pappagallo, lasciando
Tenshinahn interdetto. 
«Be', quello che vorrei chiederti riguardo Yamcha è... Insomma, spero non si stia allenando solo per giocare a baseball. Tu non sei in grado di capire il suo livello di forza, però sei la sua ragazza, lo avrai visto impegnarsi, mi auguro. Possiamo sempre contare su di lui? Si sta allenando anche per affrontare i cyborg, vero? »

Ok, l’acquerello chiaro e delicato era stato sfregiato con schizzi di caldo catrame, pesante. Appiccicoso da staccarsi le dita. E la testa era di nuovo invasa dai rifiuti. La domanda bitume l’aveva mesticata Tenshinhan. Con questa erano già due le volte che il ragazzo la pungolava sullo stesso argomento.
Alla prima, le venne difficile inghiottire quel poco che era riuscita a succhiare dalla cannuccia, e che ormai non sapeva più di spritz.
Alla seconda, scossa da un brivido causa insolazione, Bulma s’accostò meglio la felpa blu che Lunch le aveva prestato.
Poi, l’alcol, ch’era salito a fare il suo dovere, l’aiutò definitivamente a non comprendere il soggetto della domanda, o a ignorarlo.
La guardavano tutti.

Bisognava correggere il brutto guazzo nero che le aveva sporcato l’acquerello felice.
Sorrise inclinando la testa da un lato come la più perduta e ispirata delle amanti.

«Oh, sì! Vi posso giurare che Vegeta si allena tutti i giorni, senza sosta, dovreste vederlo! E sta diventando molto potente, più di come lo ricordate, ne sono sicura.»

Ora andava meglio, era perfetto. Lei sorrise. Non lo fecero gli altri.
Ma lo sbigottimento crebbe e questo la insospettì.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?», accompagnò il suo stupore con una risatina vanitosa. Forse, era davvero ubriaca.

«Hai appena parlato di Vegeta, io ti avevo chiesto di Yamcha.»
Chiarì il ragazzo dai tre occhi, sbalordito e schifato di qualche tacca.
«Ah… – fece, sorpresa – Davvero? Ma sei sicuro di non aver nominato Vegeta?»
Cercò di riprendersi. Era confusa, refrattaria.
«Sì, Bulma, hai appena detto Vegeta», le tolse il dubbio Crilin.

«Se dici che quello si sta allenando, significa che è ancora qui sulla Terra e per di più è tuo ospite.»

Tenshinhan aveva appena raggiunto il podio dei tre passi falsi.

«Certo, è mio ospite, perché, ci sono problemi?»

La scienziata cercò di tenersi composta, le risatine erano sparite. Sapeva di non avere la forza per affrontare quella discussione.

«Assurdo, come fai a tenertelo a casa? E vale lo stesso per Yamcha, con quale fegato accetta una simile situazione? Quel saiyan dovrebbe andarsene dal nostro pianeta, immediatamente!»

Avvertì la carta del suo acquerello delicato strapparsi.

«Oh, mamma mia, credete che possa farci ancora del male?!», domandò Jiaozi, con voce fattasi squittente dalla paura.

Voi... non lo conoscete.

Il bitume era troppo, le finì in gola, le impedì di parlare.

Sta soffrendo. Lui soffre ogni maledetto giorno.

«Non preoccuparti, Jiaozi. Noi non siamo più gli stessi di quando arrivò sulla Terra insieme  all’altro saiyan. Che ci provi, il bastardo, stavolta saremo noi a mandarlo all’altro mondo! Gliela faremo pagare!»

«Basta! Vi prego!... V-Vegeta può rimanere alla Capsule Corporation quanto vuole. Non è un problema, non c’è alcun problema!»

Catrame o meno, Bulma quasi affogò nelle sue parole.

«Stai scherzando?! Stiamo parlando dell’infame che voleva distruggere la Terra! Io sono morto, Jiaozi è morto, Piccolo è morto, Yamcha, il tuo ragazzo, ha perso la vita e tu l’hai visto con i tuoi occhi! O te ne sei dimenticata?!»

«No, lui combatterà con voi e vi aiuterà, ne sono certa.»

«Cosa?! Credi, che si stia allenando per difenderci?! A lui interessa solo diventare più forte per poterci annientare!»
Tenshinahn batté un pugno sul tavolo, astioso, guardava Bulma con occhi iniettati di collera.
Nessuno disse nulla però. Nemmeno Lunch rimasta spiacevolmente sorpresa dall'ira del proprio ragazzo, soprattutto dal modo con il quale si stava rivolgendo a Bulma. Ma in fondo, non poteva nascondere di essere d’accordo con lui: Vegeta era un pericolo per tutti.

Gli occhi della scienziata si velarono. Il saiyan era indifendibile.

So bene cosa è accaduto in passato.

Ma adesso, lui non è più...

«Tenshinhan, calmati, è passata, non c’è bisogno di agitarsi così. Bulma è gentile verso chiunque, lo sai… E adesso Vegeta non rappresenta più una minaccia, ricordati che dalla nostra abbiamo un Super Saiyan, lui non può competere con Goku, non è alla sua altezza.»
Intervenne Crilin, tentando di rabbonire l’amico senza però curarsi dell’effetto opposto che provocò in Bulma.

«No!»
Gridò lei, stufa e nauseata da tutte quelle accuse.
«Vegeta ce la farà!»
Rimasero tutti a bocca aperta.
«Non immaginate nemmeno quanto si stia allenando... Lui diventerà un Super Saiyan e vi farà vedere quanto-»

Cosa?

Gli farà vedere quanto è potente, mostrerà loro di poterli uccidere?

Questo volevi dire?

La coscienza terminò per lei. Si era alzata in piedi, stringeva i pugni, i suoi amici la fissavano con occhi strabuzzanti. Anche Crilin che, per quanto avesse mantenuto un’aria d'imparzialità nei confronti delle affermazioni di Bulma, non poteva negare che la sua amica si stava mostrando strana.
Una mano a coprirle la bocca non bastava a nascondere quanto aveva affermato, ce ne vollero due, con le quali nascose metà del suo viso impaurito dalla reazione che avevano suscitato le proprie parole.
Lo leggeva sui volti dei suoi amici, lo vedeva limpidamente, prendevano le distanze, la traditrice era lei, aveva difeso l'assassino, era passata dalla sua parte.
Aveva tradito Yamcha.
Eppure, quest’ultimo pensiero era meno eminente dell’urgenza incontrollata che l’aveva spinta a proteggere Vegeta.

«Scusatemi... »

Mormorò impercettibile e si inginocchiò di nuovo sullo zabuton, senza aggiungere altro.
Nessuno provò a rassicurarla, come se il castigo le fosse necessario.

«Ad ogni modo, non capisco come mai Goku abbia deciso di risparmiarlo, pensa che io avrei potuto dargli il colpo di grazia.», riprese Crilin, totalmente incurante di continuare a mettere il dito nella piaga.
«Già me lo chiedo anch’io, perché non l’hai fatto?» rincarò la dose Tenshinhan.
«Perché mi ha implorato di non attaccarlo, diceva che c’era qualcosa di buono in Vegeta, non mi dire dove e in cosa. E poi che desiderava affrontarlo di nuovo, da solo stavolta. Gliel’ho concesso, dovevo, era un suo diritto, anche perché senza di lui il nostro pianeta sarebbe stato spacciato.»
Concluse Crilin, ricordando il dramma della feroce battaglia contro i saiyan.
«A me continua a fare tanta paura.»
Piagnucolò ancora Jiaozi.
«È vero, non possiamo fidarci di lui, dobbiamo rimanere in guardia, potrebbe attaccarci da un momento all’altro, ci mancava anche questa, proprio quando bisogna pensare a difenderci dagli androidi.»
Terminò la predica 
Tenshinhan.


Maldicenze.


Bulma li guardava, erano maiali ingordi pronti a riempirsi la bocca di cattiverie. E Crilin poi, era stato grazie all’idea di Vegeta ch'era tornato in vita, come osava parlare del saiyan in quella maniera calunniatoria? 
Una parte di lei li stava detestando, compresi Genio e Lunch che non si erano pronunciati a riguardo.

Troppo facile giudicare solo il passato, erano degli ipocriti.

Falsi. 


Vedendo che nessuno sembrava più intenzionato a continuare la conversazione, il maestro Muten, che mal sopportava le liti, prese il telecomando e accese la tv. 

Un’interessante sorpresa comparve inaspettatamente:

«Ragazzi, c’è Yamcha in televisione, guardate!»

Sei paia di occhi increduli si indirizzarono immediatamente verso il quadro animato.    
In televisione c’era davvero Yamcha e c’erano tanti microfoni pronti ad amplificarne la voce registrando quel che diceva.
«È vero che la tv ingrassa», disse Genio, tirando una boccata dalla sigaretta appena accesa.
«No, io lo trovo benissimo», proruppe Jiaozi.
«Ma perché è in televisione e lo stanno intervistando?» chiese Lunch.
«Oh, insomma, fate silenzio, vorrei ascoltare!», urlò Bulma, rimasta più di tutti disorienta. Le stava sfuggendo qualcosa. Perché Yamcha non le aveva detto che sarebbe apparso in tv?
«Ha giocato una partita meravigliosa, allora è vero che il destino dei Titan si regge tutto sulla sua prestanza, crede che riuscirete a vincere il campionato quest’anno?», domandò uno tra la folla di giornalisti.
«Oh, non mi azzarderei a prendere ogni merito, il baseball è un gioco di squadra, io e i miei compagni siamo una squadra e senza di loro non potrei fare molto. Per quanto riguarda vincere il campionato, siamo solo alla prima partita ed anche se l’abbiamo vinta è presto per giudicare o fare previsioni.»
«Ma può darci la sicurezza che resterà a giocare fino alla fine della stagione?»
«Su questo ci potete contare, sono tornato e sono tornato per vincere!»
«Ecco il solito spaccone.», commentò Crilin.
«Ehi, che succede? Chi è che spinge?», nell'inquadratura si fece spazio un’avvenente ragazza: aveva i capelli rossi, un décolleté coraggioso, le labbra erano voluttuose, rosa, volgari.
Si piazzò davanti all’inquadratura e a favor di telecamera, impudicamente, baciò un Yamcha completamente imbambolato.
Scattarono una moltitudine di flash e dopo parecchie domande.
«Chi è lei, signorina? Lo conosce?»
La ragazza stava per mostrare la mano sinistra, ma Yamcha, accortosi del gesto, tentò fulmineo di nasconderla afferrandola con forza.
Lo sciame di giornalisti impazzì e continuò a scattare centinaia di foto della ridicola lotta.
«Yamcha, ma che ti prende? Lasciami subito andare!»
Si lamentò la sconosciuta che continuava a dimenarsi, finché riuscì quasi a mostrare la sua piccola verità.
«Oh, ma quello è un anello!»
Qualcuno se ne accorse.
«Mr. Yamcha, questo significa che presto si sposerà con questa ragazza? È una sua fan? Ma lei non è fidanzato ufficialmente con l'ereditiera della Capsule Corporation, Bulma Brief? Vi siete lascia-»
La tv venne spenta da Crilin con un colpo di mano, lo stesso che avrebbe volentieri dato sulla bocca dell’oca starnazzante apparsa sullo schermo, più uno fatto bene in faccia al suo amico.

«Accendi quel televisore.»

Ordinò Bulma, stracciando il silenzio sceso su tutti come un sudario.
Avere visto una donna baciare il suo promesso sposo in diretta televisiva era grave, ma avere riconosciuto qualcosa che somigliava molto all’anello che credeva di avere perduto lo era ancora di più. Non ne era completamente certa, però la somiglianza era troppa per essere solo una coincidenza.
Crilin non ubbidì.
«Accendilo subito, fammi vedere!»
Il ragazzo nascose il telecomando.
«Ma perché vuoi continuare a farti del male?!»
«Ho capito, ci penso io.»
Bulma s’alzò in piedi e riaccese lo schermo direttamente premendo il tasto di accensione della tv.
Il canale era lo stesso ma Yamcha non c’era, l’identità dell’anello era scomparsa. Le notizie sportive erano passate ad altro.
Nessuno sapeva cosa fare, come muoversi, erano tutti sconvolti e senza aiuto da poter dare alla povera Bulma che uscì in fretta, prendendo con sé due bottiglie di birra dal tavolo.
Le avrebbe aggiunte agli spritz bevuti, voleva sbronzarsi di brutto. 


«Ragazzi questo sì che è un guaio... », mugugnò Jiaozi.
«Già, chi la sente ora.» mormorò il Genio.
«Aah, vado a farle compagnia.» disse con più risolutezza Crilin, e la seguì fuori.

 

 

«Stai esagerando, questa non ti serve.»
L’ammonì il ragazzo, bloccando il gomito di Bulma a mezz’aria, impedendole di mandare giù la birra che lei voleva scolarsi in fretta.
«Oh, che impiccione! Non sono una bambina, anzi ho due anni in più di te, non puoi dirmi cosa devo fare!»
«Questa non risolverà il problema e non ti aiuterà a sentirti meglio, lasciala a me.»
Crilin le tolse di mano la birra e si sedette sulla sabbia accanto a lei.
«Che ne sai tu di cosa ho bisogno…»
La scienziata parlava amareggiata rivolgendosi all’oceano, non guardava il suo amico negli occhi.
«Bulma, mi dispiace.»
«E di cosa? Lo sanno tutti… È stato sempre così, non è cambiato. È rimasto esattamente uguale a prima che morisse - ci fu una pausa, puntualizzare la condotta invariata di Yamcha la portò a pensare a Vegeta: lui era cambiato, a lui la morte aveva davvero giovato - Non è la prima volta che accade, non finirà mai di umiliarmi.»
Yamcha aveva rovinato tutto, vero, ma l’afflizione nasceva da un’aggravante che prima non si era mai presentata.
«No, vedi, io intendevo che...  – riprese il ragazzo –  intendevo che mi dispiace non averti detto una cosa... e cioè che, non è mai venuto qui ad allenarsi... Quando tu sapevi il contrario. Sono stato ingiusto e vigliacco a non avvisarti, ti chiedo scusa, Bulma. Non credevo che le cose sarebbero precipitate in questo modo.»

Lo sapevo. L’ho sempre saputo.

Sei stata stupida ad ignorarlo.


«Crilin, tu non volevi tradire la sua fiducia e non volevi ferire me. Credimi, ti capisco.»

«Lo lascerai?»
Le domandò lui.
Bulma non rispose.

Se sono incinta...

Abortirai per punire Yamcha?


Maledisse il giorno in cui aveva scelto di smettere d’assumere il contraccettivo orale.
Istintivamente, si toccò il ventre, dopo l’amplesso avuto con Yamcha, non aveva più avuto mestruazioni, era perfettamente in ritardo di un mese e poco più, però, terrorizzata dallo scoprire la verità, aveva evitato il test di gravidanza.
Sì, Yamcha le aveva messo un cappio attorno al collo. Ora, quel cappio era diventato stretto e implacabile.
Aver assistito alla squallida scena in tv era stato come sentire i suoi piedi cadere e ciondolare nel vuoto. Destinata a morire.
Lo amava? No, non provava più alcun sentimento, nemmeno l’odio.

Crilin non l’aveva mai vista così rassegnata, in analoghe situazioni sarebbe stata isterica. C’era qualcosa di storto in lei. Non la riconosceva. Non sapeva se chiederle o rimanere in silenzio. Scelse la seconda: non aveva parlato quando avrebbe dovuto, interessarsi a guaio compiuto sarebbe stato disgustoso. 
Però, osservare Bulma era irresistibilmente piacevole: la scienziata stava seduta sul bagnasciuga con le gambe e i piedi nudi, illuminata dalla luce violacea del tramonto che ormai s'era spento. La brezza marina le spingeva indietro i capelli da sirena; dal viso sembrava più adulta, e non perché avesse rughe, al contrario, la sua pelle era giovane e perfetta. Era l’espressione ad esserle mutata, non era la stessa Bulma irascibile e capricciosa d’un tempo.
Nel tentativo di difendere Vegeta, i suoi occhi avevano brillato di consapevolezza e pietà. Crilin se ne era accorto.
Era una donna ormai.
Yamcha, un vero stupido.

Il ragazzo arrossì un pochino e abbassò subito lo sguardo imbarazzato, si poteva perdere facilmente la testa per lei.

«Crilin, ti dispiace se vado un secondo in bagno, sperando che il Maestro Muten non mi spii mentre tiro giù le mie mutandine?»

«Ah, ah, non credo che lo farà, le ha già prese da Lunch.»

«Benissimo».

 

Rientrando in casa, tutti si voltarono a guardarla. Ancora.
Li odiò.
Cosa aspettavano di vedere, ovvie lacrime perché tradita per l’ennesima volta dal ragazzo e per giunta in tv?!
Li ignorò nauseata e si chiuse nell’angusto bagno.
C’era uno specchio sopra il lavandino, Bulma guardò di sghembo il proprio riflesso. Non c’era niente che le piaceva. Si concentrò quindi a fare quello per cui era venuta. E...

 

Oh...


Solitamente, i miracoli erano una falsa speranza con cui nutrire cervelli idioti e di certo non avvenivano in un minuscolo gabinetto con risme di riviste pornografiche poste dietro il wc e con le scope e gli stracci appoggiati alla doccia.  Nonostante, stava accadendo.
Un ritardo di un mese aveva gettato la scienziata in una dimensione di panico. Yamcha l’aveva aiutata a considerare tutto una maledizione. Era stata poco fortunata.
Ma quando mai il suo ciclo era stato regolare? Solo, non ci aveva sperato.
Vedere la stoffa delle sue mutandine bianche intrisa di quell’umore che mensilmente e dannatamente colpiva il sesso femminile, la fece sentire alla pari di una graziata dalle mani di un’entità invisibile.
Rosso su bianco. Funzionava. Quello era lo stendardo della sua libertà, la prova.
C’erano delle grida nella sua testa, le udiva molto forti e le venne il dubbio che potessero sentirle anche gli altri. Bisognava fare piano e tornare a casa, subito. Doveva andare da Vegeta. Era libera, adesso, doveva farglielo sapere.

Il saiyan non ti vuole.

C’era una motivazione e una soluzione a tutto, se lui l’aveva trattata come un’appestata era stato per orgoglio. Che Vegeta poneva dinnanzi alla sua stessa vita.
Pure lei aveva le proprie colpe: non aveva calibrato l’uso delle parole.
Sì, poteva aggiustare il tiro e rimediare agli errori. Ne era convinta.
Diede un altro sguardo allo specchio, il suo mascara si era sciolto ai lati degli occhi, lo aggiustò con un polpastrello che al contrario ne aumentò la sbavatura. A lei sembrò impeccabile.
Era perfetta, doveva giusto rimediare un assorbente, nulla di più, ricordava di tenerne sempre uno di riserva in una minuscola pochette nella tasca esterna della sua borsa.
Uscì dal bagno come sarebbe uscita da un sepolcro. Rinata. Nuova di zecca.

«Ragazzi, me ne sto andando.»

Era la seconda volta in quel giorno che lo diceva, pareva una preghiera di iniziazione, un nuovo ciclo stava per cominciare, e a lei il ciclo era venuto.
«Come, te ne vai? Avevi detto che saresti rimasta con noi per l’intero weekend!» affermò il Genio dispiaciuto.
«Sì, lo so, infatti mi dispiace, ma ho ricordato di avere un impegno urgente. Oggi sono stata benissimo, dovremmo vederci più spesso.»
«Ma... Sei sicura di sentirti bene? Sono molte ore di viaggio, arriverai domani mattina… Vuoi che ti accompagni?»
«Scherzi Crilin?! Col mio elicottero superveloce sarò a casa in meno di tre ore. E poi sto benissimo, non preoccuparti, qualche bicchiere di spritz non può farmi male… Non fate quelle facce.»
«E che ti vediamo allegra improvvisamente, prima avevi un muso così giù che temevamo ci inciampassi sopra. Tu sei davvero sicura di sentirti bene?», Crilin era dolce, premuroso, un uomo da sposare.
«Mai stata meglio – Bulma sorrise, niente più finzione – Ho capito: temete che dopo aver visto Yamcha io sia spinta a fare gesti estremi, è così?»
«Più o meno… ma speriamo non lo sia», confermò Genio.
«Suvvia! Come potrei sprecare la mia vita per un idiota del genere! – dichiarò, rifilando un’occhiata intrigante a Tenshinhan, il quale abbassò presto lo sguardo – Basta con queste preoccupazioni infondate, vi chiamerò appena sarò a casa, promesso!»
Gli amici non ebbero nemmeno il tempo di salutarla, con una cabrata immediata il suo veicolo era già volato via.

 

 

~ ~ ~

 

 

Impiegò tre ore, non un minuto di più.
Ubriaca della sua felicità, le era scappato da ridere lungo tutto il viaggio. Finalmente il laccio emostatico non c’era più, il suo collo era scivolato via dalla corda stretta e tesa. Il sangue le fluiva libero portando ovunque ossigeno.
Oltre le montagne scure che vedeva all’orizzonte c’era West City, la sua città, lo scrigno caotico che nascondeva il suo segreto felice.

Ma quando passò quel confine, sfilando le poche nubi e sorpassando le vette innevate, ad accogliere il suo ritorno, un incubo fattosi terrore e vampe la aspettava sulla soglia della disperazione.

«Un incendio?! Oh, no! Non saranno i cyborg?! Non è possibile, ma-manca più di un anno e mezzo!»

Dalla città si innalzava alta e mostruosa una colonna di fumo nero. Vista l’entità del danno, e sapendo che certi eventi potevano essere opera di mani aliene o di esseri con super poteri, le venne automatico credere ad un attacco da parte dell’Esercito del Fiocco Rosso.
Peccato per l’anticipo: possibile che il ragazzo venuto dal futuro avesse sbagliato non solo la data ma addirittura la città che gli androidi avrebbero attaccato?
Pure se spaventata, Bulma decise di avvicinarsi, doveva capire. Avanzò a bordo del suo elicottero, ancora, sino ad avvistare la Capsule Corporation.

Ora la vedeva e non avrebbe saputo dire se interamente o in parte, perché la nuvola nera le impediva la visibilità, però, era la sua casa quella che stava bruciando.

«Oh, no! Calmati Bulma, cerca di stare calma!»

Le mani cominciarono a tremare talmente tanto da non permetterle di tenere bene la cloche.
All’angolo della sua coscienza, una visione s’era palesata, la realtà era lì, data e completa: girare attorno alla Capsule Corporation, per sorpassare la nube e vedere da cosa essa fosse generata, significava solo aggiungere dettagli al tragico già immaginato.
Non erano stati i cyborg: il grande incendio si sviluppava lì dove una volta la navicella spaziale era posizionata. La navicella non esisteva più, al suo posto c’era una voragine da cui le fiamme si dipanavano intense e pericolose.
Pezzi di lamiera fumante erano sparsi ovunque nel cortile; uno enorme, in combustione, si trovava conficcato contro la parete ovest della Capsule Corporation.

Bulma continuò a guardare, ma non bastava, ragionava - sempre che potesse definirsi ragionare il convincersi che la pelle dura i saiyan ce l’avevano - sì, stava cercando i resti del corpo di Vegeta. Trovarli equivaleva ad un ok, è morto; non trovarli suonava peggio: Vegeta poteva essersi disintegrato o carbonizzato fino alla cenere, non avrebbe avuto nulla su cui piangere.

Quando il fumo diventò leggermente rarefatto, in quel punto la scienziata riuscì ad accorgersi della presenza dei vigili del fuoco. C’erano tre ambulanze più altre due in arrivo a sirene spiegate. 
Poi, vide un serpentello di medici e soccorritori venir fuori dal fumo: con loro trascinavano via una barella. Non era vuota.
Bulma si sentì strappare il cuore dal petto.
Iniziò a pregare.

 

 

Continua…

Note:

1. Ho deciso, dopo più di sette anni dalla pubblicazione dell’ultimo capitolo, di concludere Standby, iniziata il 25 marzo 2011. 
La scelta non è giunta grazie alla serie Super che ha rimpolpato l’attenzione sulla saga ma ha svuotato il manga, la sua storia originale, di quella serietà che ci piaceva e di senso (a parte alcune scene fra Bulma e Vegeta, e qualcosina qua e là, non riesco ad accettare il fan-service, il produrre per il mercato. E il mercato non vuole mai sentire la parola fine). 
Dunque, tutto è mutato, DB, voi, io, non so se ci sono ancora i vecchi lettori, ma sarò contenta di ritrovare loro e voi nuovi che avete scelto di leggere la mia storia.
Ringrazio chi per tutto questo tempo l'ha conservata fra le preferite, scelte e ricordate.

2. Qualcuno non sarà contento degli sviluppi della storia, ma tranquilli che non ho intenzione  di scadere nel romanzetto rosa, aspettate a giudicare. Non prendo decisioni a caso.

3. Non invento nulla: il dissapore fra Tenshinhan e Vegeta c’è, manga n. 28, all’arrivo di Freezer e di suo padre, Tenshinhan sfida Vegeta dicendogli di voler sfogare su di lui la sua rabbia e aggiunge di non capire Yamcha che vive sotto lo stesso tetto del saiyan. Quello che invento è che questa cosa viene detta a Bulma nella situazione in cui io l’ho cacciata.

3. In realtà, Goku non dice a Crilin che percepisce in Vegeta qualcosa di buono, ma solo che è un peccato perderlo così e che entusiasmato dalla sua forza vorrebbe combattere nuovamente con lui. Manga n. 21, se vi va di sfogliarlo.
Io faccio poco diverso: non mi viene strano pensare che Goku veda in Vegeta molto di più e una possibilità di redenzione. Ma questo lo credo io e mi sta bene così.

4. La navicella in cui Vegeta si allena esplode solo nell’Anime, episodio 124, tra gli episodi filler.

5. Ho realizzato una serie di illustrazioni che stavolta ho deciso di raccogliere in un filmato che trovate qui sotto. Spero vi piaccia. E se non riuscite a caricare il video, ho comunque inserito tutte le illustrazioni

 

Video, clicca qui.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX - Organizzare un omicidio in una camera iperbarica. Amore a parte, senso civico ovunque. 

 ***


A fine pagina, dopo le note, troverete una nuova illustrazione da me realizzata.
 

Standby
 

Capitolo IX - Organizzare un omicidio in una camera iperbarica. Amore a parte, senso civico ovunque. 

 

“L’hanno portato via, cara, non abbiamo potuto far nulla, non ci hanno fatti avvicinare.”

Aveva detto il signor Brief alla figlia. Bulma non riusciva a cancellare l'immagine di sua madre che soffocava i singhiozzi premendo contro il viso un fazzoletto bianchissimo in forte contrasto con la cenere che cadeva ovunque come prillanti coriandoli lanciati ad una festa.

Il fato era stato tanto generoso con lei quanto arido con Vegeta. Cos’era il contrappasso? Una legge fisica. Se le avessero posto il quesito, avrebbe saputo cosa rispondere, ma non chi ringraziare.
Tossì. Non si era preoccupata di coprirsi la bocca, aveva respirato molto fumo. La sirena intanto ululava roteando senza sosta il suo occhio di luce rossa. Lei doveva vomitare.
Ricordi cosa pensasti un mese fa?
Il saiyan è un negletto; se sparisse, non se ne accorgerebbe nessuno.
È colpa tua.
Rammentava la coscienza.
L’entusiasmo che l’aveva accompagnata fino a West City era sfumato nell’aria, arso nelle fiamme; la libertà poco assaporata, nella chiara e arridente cognizione di dovere nulla a Yamcha, da entusiasmante consolazione si era rovesciata in una ferita in suppurazione. 
«Signora Brief, stiamo per arrivare, dovrà seguirci subito in Pronto Soccorso», disse il medico a bordo, la scienziata non rispose. Sentiva i suoi vestiti puzzare di bruciato. Il fuoco forse le aveva ridotto Vegeta in qualcosa di irriconoscibile e poi... Divenne pallida: c’era una domanda repentina che la tormentava: perché i soccorritori avevano urlato? Gridato come se avessero dovuto proteggersi?

“Respira, respira!
A-Aahrg!
Oh, mio Dio, fermatelo!
Aiuto, fermatelo!”

Cosa era accaduto a Vegeta?

«Se non si sente bene, possiamo trasportarla in barella.»
Parlò ancora il medico, Bulma trasalì, non si era neppure accorta che l’ambulanza si era fermata. E non si mosse.  Restò seduta, sprofondata nell’atassia: le sue gambe erano giunchi secchi pronti a spezzarsi al primo passo. Tentennò. Prendere a calci quel pompiere che non l’aveva fatta passare, salvandola dalle fiamme ma impedendole di vedere il saiyan, l’aveva sfinita.
«Portate qui la barella, non ce la fa!», ordinò il medico ai suoi uomini. I diligenti soccorritori si mossero solerti per costringerla a stendersi sulla portantina. Quando uno di loro la sfiorò, Bulma si sottrasse ferocemente: «Fermi! Non toccatemi! – alzò la voce, Vegeta era giunto in ospedale prima di lei, non lo vedeva, glielo stavano nascondendo – Lasciatemi!»
«Signora, deve calmarsi! Comprendiamo la situazione, ma non ci hanno ancora comunicato se sarà possibile-»
«È lei! È arrivata! Quella è Bulma, la figlia del dott. Brief!»
Il medico venne interrotto, tutti si girarono: c’era un’armata di giornalisti inferociti assediata all’ingresso dell’ospedale; e qualcuno aveva appena riconosciuto la scienziata e stava barbaramente incitando gli altri a muoversi per assalirla. L’opinione pubblica purtroppo si era scatenata: l’incidente aveva gettato nel panico l’intera Città dell’Ovest, mettendo in fuga più di un quartiere a causa dei fumi velenosi e del grande incendio ch’era divampato; avere uno scatto testimonianza della proprietaria artefice dell’accaduto, magari ferita, sarebbe stato sciacallo, ma succulento per accompagnare i già vociferati titoli di prima pagina che avrebbero capeggiato infami sui quotidiani locali e non:

La Capsule Corporation brucia, l’ennesima follia Brief colpisce la città; Fermiamoli! West City non è un laboratorio!

I dottori però si comportarono bene: riuscirono a salvare Bulma bloccando in tempo l’indomita orda di giornalisti; le fecero attraversare velocemente il Pronto Soccorso sottraendola agli scatti repentini delle reflex dalle grandi lenti vogliose di immortalarla, e la mescolarono a un immenso campionario di urgenze e lunghe attese. Bulma si arrese, affidata ad un’infermiera si lasciò trasportare tra lenzuola, piedi, tubi, polsi, aghi, flebo. Si guardava intorno alla ricerca di lui, con inquietudine, e sollievo quando non lo riconosceva in alcuno dei degenti incontrati nel nosocomio.
«Attenda qui, le farò cenno quando e se sarà possibile farla entrare.»
Disse l'infermiera, che sino a quel momento non si era degnata di elargire a Bulma alcuna parola o frase rassicurante.
L’infermiera sparì dietro una grande porta smerigliata, lasciandola sola. Sopra la porta era infissa l’insegna della rianimazione. Impossibile non notarla. Rianimazione: rossa, luminosa, incisiva in un ambiente totalmente bianco. No, quelle tinte non avevano nulla di rassicurante e di liberatorio, non come lo erano state per la scienziata sull’isola del Genio. Difficile sostenerne la vista, l’ingresso sarebbe stato foriero di brutte notizie. Bulma si voltò provando a concentrarsi su altro, le finestre. Ne trovò una lunga fila alle sue spalle, percorrevano il lato sinistro del reparto, lei si affacciò. Davano su un cortile interno all’ospedale: desolato, non c’era nessuno; così, i suoi occhi andarono oltre il perimetro della struttura, verso le luci lontane di West City, e la vide, poteva scorgerla laggiù, la Capsule Corporation, la sua casa, che ancora albeggiava di fuoco, visibilissima in quella notte tremendamente buia.

D’un tratto, le sembrò di sentire qualcuno muoversi alle sue spalle, forse era l’infermiera di ritorno; ma quando si girò, trovò l’ingresso alla rianimazione ancora chiuso, ancora inaccessibile, sempre più allarmante. Un brivido la percorse in ogni particella del corpo, finendo per accumularlesi nello stomaco. Aveva paura. Oltre a lei, la sala d’attesa era vuota e il corridoio alle sue spalle deserto. Di Vegeta nessuna notizia. Eppure, si sentiva come spiata. Oppressa in mezzo a una trincea. In trappola. 
E quaranta minuti trascorsero lenti, altri cinque in più parvero incepparsi; solo dopo l’infermiera tornò facendo capolino dalla porta.

«Ora può venire, il Primario la attende.»

Il cuore riprese a batterle forte, Bulma attraversò l’ingresso del reparto quasi ne fosse risucchiata. Avanzò guardinga nella terra di nessuno, ed eccolo, il dottore stava in mezzo al corridoio stretto e lungo che gravava in una penombra azzurro grigia. Era alto, magro, sembrava incarnare lo stesso punto esclamativo spaventoso con cui la scienziata aveva gridato il nome del saiyan, così tante volte da squarciarsi la gola, ingoiando pezzi di vetro ad ogni urlo.
In quello spazio asettico, l’odore forte del disinfettante era terribilmente aggressivo da graffiarle i polmoni.

«Signora Brief, molto piacere, sono il Primario dell’ospedale responsabile del reparto di anestesia, rianimazione e chirurgia. Lei è la moglie?»

Il dottore la accolse prima ancora che Bulma potesse pronunciarsi, la accolse e la frastornò.

Moglie?

Avrebbe ottenuto quel titolo se fosse rimasta accanto a Yamcha, per questo la parola non le piaceva. Ma adesso, lo stesso termine assumeva un significato diverso, straordinario, performativo, le conferiva una sorta di potere. Consorte del saiyan era un appellativo delizioso per la fame dei suoi sogni. Però, il dottore aveva detto lei è la moglie?, non solo moglie, la domanda intera stonava melodrammatica, era sottinteso che il primario stava riferendosi a Vegeta, ma nei panni del paziente, del ferito, malato, morto.
Era morto?

«I-io...», tartagliò.

«Quello è suo marito? Lei è la moglie?»

Il dottore ripeté nuovamente la domanda e le indicò con la mano inguantata nel lattice la stanza davanti a loro. Bulma seguì la direzione del braccio teso vestito in camice bianco. La traiettoria andava oltre una parete trasparente, la cornice scialba di un triste scenario. E il colpo agli occhi arrivò, la prese in pieno, come una palla da bowling lanciata contro la sua fantasia e la sua speranza fattesi cristallo. Finì per fracassare entrambe: il saiyan era lì, distrutto, e lei non era la moglie.

«Vegeta!»

«Si fermi! Non può entrare!»

Severo il dottore. Bulma lo guardò supplichevole, aveva gli occhi già colmi di lacrime.
«Sono sua moglie, mi lasci andare da lui... »
«Mi dispiace, durante la prima fase della rianimazione non sono ammesse visite, e comunque, ho bisogno di parlarle, Signora.»
Il primario la invitò ad avvicinarsi per poter conversare in modo tranquillo. Bulma, tornando ad una adeguata distanza utile all’ascolto, tentò inutilmente di tenere lontana l’evenienza che l’avrebbe portata ad essere presto la vedova. Vegeta era irriconoscibile.
«Suo marito è stato fortunato, i soccorritori sono intervenuti immediatamente, salvandolo dall’incendio. C’è stato un forte boato, una brutta esplosione, di certo è stato il peggior incidente mai avvenuto all’interno dei vostri stabilimenti. Tornando a quel che mi compete, io mi limito a misurare i danni presenti sul corpo delle persone e come avrà visto sono arrivati in ospedale molti fra quelli rimasti intossicati – il dottore fece un sospiro, preparò la voce per argomentare il resto – per quanto riguarda suo marito, siamo riusciti a bloccare una emorragia esterna
. Nonostante, egli ha perduto molto sangue. Per questo stiamo eseguendo una trasfusione, ergo, stiamo tentando di eseguire una trasfusione perché... Come posso spiegarle...  Suo marito possiede un gruppo sanguigno inesistente, sconosciuto. E non sappiamo come sia possibile. Stiamo provando lo zero rh negativo, di maggiore compatibilità e con poche possibilità di rigetto... – altra pausa, il medico primario osservò attentamente Bulma, dopo, riprese – sfortunatamente, a gravare sulle condizioni del suo coniuge c’è anche una severa intossicazione da monossido di carbonio che gli sta provocando una grave insufficienza respiratoria. Stiamo procedendo con l’ossigeno terapia, tuttavia, non le nego che potrebbe essere previsto un trattamento nella camera iperbarica.»

Guardalo, sembra dormire profondamente.

«Signora?»

Lei era rivolta al dottore, ma il suo sguardo sfuggiva verso Vegeta.

Hai mai visto un saiyan in quello stato? Mortalmente inoffensivo, non trovi?

«Signora Brief?!»

Bulma non rispondeva. Ascoltare il dottore era sfiancante, ogni parola diventava un pugno, la scienziata non faceva in tempo a riprendersi che le arrivava addosso l’ennesimo gancio, senza però avere la possibilità di cadere al tappeto e porre fine alla continua tortura. Il peggio doveva ancora arrivare e il primario, ne era convinta, si stava trattenendo.

«Dottore, se c’è la cattiva notizia, smetta di evitarla.»

Bulma non era stupida. Il medico ne restò sorpreso e interdetto. Dopo, si guardò intorno e facendosi più vicino alla scienziata proseguì a parlare:

«D’accordo. Non ci girerò intorno, c’è una domanda imprescindibile che devo farle: suo marito, e la prego di essere sincera, ha mai manifestato un comportamento violento?»

Come, prego?

Odiava avere ragione quando i presentimenti affioravano infausti. Ma questa, decisamente, non se l’aspettava.
Per un breve attimo, le ballarono davanti i ricordi: Vegeta, il suo arrivo da saiyan conquistatore, la Terra aveva tremato a causa sua; Namecc: l’affascinante ragazzo tramutatosi in un viscido mostro, Vegeta lo aveva trafitto con un sol pugno e fatto esplodere. Poi c’era una cicatrice sul suo ginocchio destro. I soccorritori che urlavano.

È un saiyan, comportamento violento è relativo.
Dottore, scommetto che nessuno la ha mai accusata di essere un macellaio, eppure incide la carne, la ricuce, asporta, anastomizza...

Sarebbe stata la risposta, tuttavia, l’istinto le suggeriva che in quella sorta di psicoanalisi che il medico primario stava tentando di iniziare, ci stavano rientrando anche le sue reazioni. Curioso sarebbe stato scoprire perché il dottore fosse passato dal parlare della salute di Vegeta al chiedere giudizi e chiarimenti sul comportamento del saiyan.

«Cosa sta cercando di dirmi?!», esclamò Bulma, bellamente incredula.

«Signora, le condizioni di suo marito sono stabili, non deve preoccuparsi, però vogliamo capire ed essere certi che si sia trattato solo di un caso, ed escludere la possibilità che suo marito possa essere un pericolo per lei e per gli altri.»

Un saiyan può essere un pericolo per chiunque, basta non farlo arrabbiare.

«Dottore, non sto capendo nulla, sono preoccupata, agitata, probabilmente sull’orlo di una crisi di nervi e lei continua a farmi domande strane quando dovrebbe solo darmi risposte e rassicurarmi!»

«Perfetto. Non mi dilungherò ulteriormente. Mi ascolti molto bene: suo marito ha spezzato un braccio e ha spaccato la mascella a due dei barellieri che lo hanno soccorso.»

Così aveva senso, eccome, doveva immaginarlo. Era stato Vegeta a farli cantare.

Si sentì sollevata, non si trattava di altre brutte notizie per lui, ma stette attenta a non darlo a vedere. Infatti, non fiatò; e il dottore, interpretando il silenzio come una conseguenza allo shock, continuò ad accusare Vegeta: 
«I soccorritori hanno detto che non voleva farsi toccare. Quando i pompieri l’hanno portato via dalla fiamme, era in un forte stato confusionale, certo, ma nonostante le gravi condizioni, suo marito è riuscito lo stesso a... be’, dovrebbe fare una visita al reparto di chirurgia qui a fianco, e vedere in che stato li ha lasciati. Uno di loro rischia di perdere il braccio... Non glielo nascondo, volevamo avvisare immediatamente la polizia, non l'abbiamo fatto perché sapevamo che c'eravate di mezzo voi della Capsule Corporation. Ma la prego di essere sincera. Glielo domando ancora una volta, può confermarmi che suo marito non ha mai avuto comportamenti violenti?»

Statica come una statua, lapidata dal dottore, Bulma era incerta sul da farsi: l’intervento della polizia sarebbe stato un grosso problema. Non c’era da sperare che da quel dì la faccia di Vegeta non fosse stata registrata negli archivi segreti della sicurezza mondiale; due alieni che arrivano dallo spazio e commettono una carneficina non si dimenticano facilmente.
La scienziata era stanca. Il primario no, con le domande, le illazioni moleste, l’atteggiamento ostile, le sbatteva in faccia un ragionamento pari a quello che gli amici avevano sfoderato contro di lei, ed accadeva nella medesima serata. Sembrava che tutti si fossero messi d’accordo al fine di intralciarla. Si sentiva minacciata.

Bulma osservò meglio il dottore, ripensò a quanto le aveva detto poc’anzi sull’inesistenza del gruppo sanguigno di Vegeta. No, non le ispirava fiducia, doveva liberarsene, non avrebbe abbandonato suo marito nelle mani dei medici: polizia a parte, prima o poi, questi si sarebbero accorti che la temperatura perennemente alta che egli aveva non era dovuta a febbre da infezione, bensì, era la normale temperatura del saiyan; e che sul fondoschiena Vegeta non aveva una cicatrice ma l’inizio di una coda di scimmia. 
A tutti i costi, la scienziata avrebbe impedito che lo usassero come un interessante campione di studio. Vegeta non era la loro cavia!

«Può stare tranquillo, Dottore, mio marito non mi ha mai sfiorata, nemmeno con un dito, avrà reagito d’istinto, vede, è un esperto di arti marziali, sarà stato un tentativo di difesa. Lo ha detto pure lei: era in uno stato confusionale... Però, mi dica almeno che non è in coma!»
Neppure lei sapeva da dove era riuscita a tirar fuori tanta persuasiva loquacità. Era allo stremo e non aveva un buon odore, sembrò comunque venderla bene, il dottore parve rasserenarsi.
«Coma farmacologico – rettificò prontamente il primario – per motivi legati alla prognosi, oltre che alla sicurezza. Era un obbligo per noi avere la certezza che una volta sveglio suo marito non avrebbe fatto del male a nessuno.»

Lo tenete a nanna, quindi.

«E quanto crede che ci metterà a riprendersi?»
«Mi astengo dal risponderle, non voglio illuderla, per il momento bisognarà aspettare.»

Intende, il tempo necessario per effettuare le giuste "analisi", Dottore?

Bulma non si fidava. Non era un medico, però, da scienziata sapeva riconoscere la febbricitante euforia che si celava dietro gli occhi grigi del primario, una specie di ebbra follia che pregustava anche lei nel momento in cui comprendeva di aver fatto una scoperta eccezionale o di aver creato qualcosa di straordinario.

«Signora Brief, se per questa notte vuol rimanere in ospedale, non ci sono problemi, avviserò il personale paramedico, ma come le ho già detto, non potrà entrare, per cui devo chiederle di seguirmi fuori.»

Non c’era molto da fare, la scienziata dovette arrendersi, momentaneamente.
Rammaricata, diede un ultimo sguardo a Vegeta, lo accarezzò con gli occhi, non poteva toccarlo.

Ti prometto che ti porterò fuori di qui, resisti!

 

 

 

Il medico primario se ne andò lasciandola nella sala d’attesa del reparto.
C’erano solo sedie su cui appoggiarsi, scomode.  Ma così esausta, Bulma sarebbe crollata persino su un tappeto di chiodi. Non avrebbe comunque chiuso occhio,  doveva escogitare un piano per far uscire Vegeta da lì, in salute possibilmente, senza effetti collaterali causati da strane sperimentazioni. E prima che fossero riconosciute la faccia del saiyan e la sua provenienza aliena.

Non stai dimenticando qualcuno?

Giusto, pensò fosse arrivato il momento di contattare i suoi genitori, non si era nemmeno preoccupata di avvisarli e chiedere loro come stessero. Quando prese il telefono, però, Bulma notò che sul display del cellulare appariva un’allarmante notifica: trentadue chiamate non risposte, da parte di Yamcha.

Per esempio lui.

Non ne rimase sorpresa, la scienziata semplicemente non si spiegava il perché di tutte quelle telefonate. Era talmente avanti con la testa che oramai lo spilungone non alloggiava più in alcuna delle sue preoccupazioni. Doveva ufficialmente lasciarlo, questo sì, comunicargli il nuovo status di libero scapolone. Gli faceva un favore. Lei non era arrabbiata, semmai anestetizzata a qualunque emozione. Interagire con Yamcha in quel momento le avrebbe dato la stessa trepidazione provata nello scrivere un reclamo all’ufficio postale.
Il telefono squillò a vuoto per quattro volte, lo stava chiamando, poi le arrivò una risposta, ma alle sue spalle:

«Bulma! Grazie al cielo, ti ho trovata!»

La scienziata non riuscì a crederci, lui era lì, davanti a lei, sbucato dal nulla con tempismo angosciante. Restò arida di parole, ciononostante, la sua espressione doveva mostrare tanto di quello stupore che Yamcha esplicò presto la sua comparsa.

«Oh, tesoro, la notizia ha fatto il giro del mondo, non ho esitato un attimo e sono partito. Ero passato alla Capsule Corporation, e quando i tuoi mi hanno detto che ti avevano portata in ospedale mi sono precipitato. Ho creduto fossi rimasta ferita! Stai bene, vero?! Non ti sei fatta male?!»

 Ma come ha fatto ad entrare e arrivare qui? I dottori non permettono a nessuno di- No, non ci provare, non avvicinarti!

Yamcha fece per abbracciarla.

«Fermati!», lei mise le mani avanti.

«Che... Che succede?!», lo spilungone era incredulo. Ma già aveva un sinistro dubbio, lo mascherò male.

«Yamcha, posso accettare che tu mi sia venuto a cercare perché ti sei sentito preoccupato per me, però... »

«Certo che sono preoccupato! Sei la mia donna, sarai mia moglie!»

Le aveva parlato sopra, non facendola finire, certificandosi come il classico prepotente.
Nessun problema: Bulma ebbe il tempo di ingoiare saliva e non strozzarsi.

«Appunto, è qui che ti sbagli.»

Era il momento della verità.

«Cos-? Amore, che vuoi dire con questo?!»

Che ti sto scaricando e mi dispiace non avere avuto il coraggio di farlo prima.

Brava! La tua audacia ci piace. Ma dovresti aggiungere che è facile fare i duri quando non ci sono più bambini da partorire. E che immaginarsi essere la moglie di Vegeta è molto più elettrizzante che fingersi la serva di un terrestre infedele.
I dettagli.

La sua coscienza non conosceva mezze misure.

«Yamcha, ti prego, guarda, sono calma e possiamo pacificamente restare amici.»

Amici lontani, lontanissimi.

«Ma di che cavolo stai parlando?!»

Ecco il tono che non le piaceva, alto, autoritario. E a lei toccavano sempre le spiegazioni.
Poteva farla breve: «Ti ho visto in tv e ho visto la ragazza che ti ha baciato, e l’anello. Il mio anello.»
Aveva elencato i dati, sommandoli uno ad uno, tirando fuori un risultato che per Yamcha equivaleva ad un salato conto da pagare.
Lui sorrise beota, cifra esosa. Abbassò la testa e si passò una mano fra i capelli, come da abitudine per far scemare lo stress. Pensò di poterla risolvere, la sua Bulma era solo gelosa. Sì, era meglio non svelarle che averla trovata sana come un pesce non gli era piaciuto, e lo aveva disgustato vederla ad ascoltare il dottore preoccupata per quel bastardo, che di un soffio non li aveva graziati liberandoli dalla sua parassitica presenza.

«Ho capito, posso spiegare.»

«No, è chiaro. Non devi delucidarmi su nulla.»

«Bulma, ascoltami! Non so chi sia quella donna, mi è saltata addosso, sarà forse una mia vecchia fan, io-»

«Non importa, ti ho detto che per me è finita.»

Era diventata pazza?
Poteva trattarsi di un brutto incubo per lo spilungone, suo malgrado, il tintinnio provocato degli orecchini indossati dalla sua donna ricalcava perfettamente il vero: lei articolava le labbra in un continuo apri e chiudi, a seconda delle parole pronunciate, e muoveva il viso accompagnando il modulare del discorso; gli orecchini oscillavano seguendo questa stressante danza facciale. E facevano rumore, un rumore fastidioso. Che andava corretto con un ricordo gradevole: gli orecchini della sua Bulma tintinnavano allegri quando lei continuava ad indossarli mentre lui la piegava contro le sue spinte.

«Quello non era il tuo anello! Sei tu che lo hai perduto!»

«No, Yamcha! Quell’anello te lo sei ripreso e hai montato su questa balla, non so perché l’hai fatto, non voglio saperlo! Possiamo lasciarci senza problemi.»

«Come fai a parlare così?! Bulma, sono io, il tuo Yamcha! Ci sposeremo e presto avremo un bambino!»

«Finiscila! Se tu vuoi continuare a divertirti fai pure, non ti giudico e non ti odio per questo. Ma Yamcha... io non ti amo più.»

L’aveva detto, la dichiarazione precipitò veloce e tagliente come una ghigliottina, che finì a decapitare il sogno ameno di un Yamcha anch’esso acefalo di senno. La scienziata serrava la bocca coriacea, non lo guardava, pensava solo a quanto tempo aveva sprecato e lasciato inutilmente scorrere prima di arrivare ad eseguire quella necessaria esecuzione.

«Bulma... Perché non vuoi credermi? – Stronza, non farmi arrabbiare – È a causa sua, vero?»

Anche per lo spilungone era giunto il momento di propinare quella convinzione lasciata a fermentare nell’odio: il sospetto dall’ombra scimmiesca non se ne ara mai andato.

«Che stai dicendo?»

Si giocava a carte scoperte, ora.

«Lo so, da quando lui è arrivato, tu sei cambiata. Sì, è stato quel saiyan a portarti via da me.»

«Ti sbagli, Vegeta non c’entra nulla, sei tu a non-»

«Guarda come ti piace dire il suo nome! Che bugiarda, perché non me la dici tu la verità?!»

L’ acredine traboccava, sembrava che Yamcha potesse spruzzarla in giro, pari a veleno. 
Bulma indietreggiò come se avesse dovuto evitarne gli schizzi, allontanandosi da lui che le stava camminando contro con le più cupe intenzioni a infestargli il volto.
Pochi passi ancora e si sarebbe trovata spalle al muro.

«Stai alzando la voce, calmati.»

«E che hai paura di svegliarlo? Dai, dimmelo, da quanto va avanti, eh?»

«Non sono affari che ti riguardano, non c’è nulla!»

Lo spilungone non resistette, era accecato dalla rabbia, intasato, tutta quella che non era riuscito a sfogare stava per trovare un buco da cui vuotarsi. Furioso fino al midollo, acchiappò Bulma per le braccia: lei era impazzita, c’era una scimmia nella testa della sua Bulma; la scimmia andava defenestrata. Cominciò a scuoterla per liberarla dal primate alieno.

«Guardami negli occhi e dimmi la verità!»

«Mi stai facendo male! Fermati!»

«Te lo stai scopando vero?!», la scuoteva avanti e indietro, gli orecchini pendenti si scontravano violenti.

«Non ti permetto di parlarmi così!», divincolarsi per lei era impossibile.

«Ti stai facendo sbattere dal mio assassino!», più energico, sconquassandola. Ma la scimmia non usciva.

«Vegeta non ti ha ucciso! Sei tu a non essere stato abbastanza forte da arrivare ad affrontarlo!»

Lo spilungone rimase a bocca aperta, non ci credeva. Bulma, la sua Bulma... faceva schifo, come poteva  difendere quel balordo?
Doveva staccarle la testa.

«Lasciami! LASCIAMI!»

«Che sta succedendo?! – ma un infermiere arrivò in tempo, Yamcha si fermò – Questo è un ospedale, bisogna mantenere il silenzio!»

L’infermiere cercò gli occhi della scienziata.

«Tutto bene Signora?»

«Sì, la Signora sta bene, io me ne stavo giusto andando.»

Rispose lui, impedendo a Bulma di proferire  parola.

«Bene, se ne vada, non sono ammesse visite a quest’ora, la Signora ha un permesso speciale, ma lei non può stare qui.»

Ribadì l’infermiere. Yamcha lasciò andare Bulma, senza smettere di fissarla, a farle intendere che tra loro non era finita. Poi, se ne andò veloce, sbattendo la porta dietro di sé. 
Appena lo vide sparire, la scienziata si lasciò andare sul pavimento tenendosi la testa tra le mani per assicurarsi di averla ancora attaccata al collo.
Crollò tutta la sua resistenza. 
L’infermiere le accorse in aiuto: «Si sente bene?!»
No, non stava bene. Al suo ex era esplosa la bussola e chissà che diavolo avrebbe potuto farle.
«Grazie, non si preoccupi.»
«Se vuole, posso portarle qualcosa di caldo da bere»
L’infermiere aveva intuito il genere di situazione a cui aveva assistito, ma restò discreto.
«No, grazie... Però, la prego – Bulma provò ad avanzare una  richiesta – mi conceda di vedere mio marito, mi lasci entrare.»
La disperazione spesso riusciva a generare consenso, e agli occhi profondi di Bulma era difficile dire di no.
«V-va bene – l'infermiere acconsentì – 
le darò dieci minuti non di più, se ci scoprissero verrei licenziato. E mi raccomando, non tocchi nulla, è di vitale importanza».

 

Nella piccola sala di rianimazione una macchina dava voce al battito del cuore di Vegeta, una eco regolare ma molto lenta, troppo umana.
A lei cadde l’occhio su un tubo che finiva in una sacca che gocciolava liquido rosso. Lui era orribilmente immobile.

Perdonami, se ti fossi rimasta accanto, se avessi lasciato Yamcha sin da subito, forse tutto questo non sarebbe accaduto.

Ah, sì! E come lo avresti impedito? Togliendogli il giocattolo pericoloso?

Le veniva da piangere.

Sei ridicola Bulma.

Vegeta aveva le braccia fasciate, la testa con un enorme cerotto sulla tempia destra, i polsi invasi da aghi e il torace con applicati diversi elettrodi che sembrava ci fosse un insediamento alieno. Altri alieni, e lui così simile ad un uomo terrestre. Debole. Indifeso.
Il resto del corpo era coperto dal lenzuolo.
Bulma si accostò al letto, accertandosi prima che l’infermiere non fosse in procinto di tornare. Sembrava di no. Così, si chinò sul saiyan. La mano di Vegeta era lì, inerme ma caldissima, lo scoprì toccandola. Non era possibile baciarlo, la mascherina per l’ossigeno era una barriera deterrente e fastidiosa. 
Bulma si accontentò: appoggiò impercettibilmente le proprie labbra sulla fronte di Vegeta. In un intimo e segreto contatto. Il primo rubato al saiyan.

 

 

 

~ ~ ~

 

 

Yamcha non era andato via. Attendeva fuori dall’ospedale.
Quando era iniziato a piovere, al fine di non sgualcire il completo dandy che indossava, aveva trovato riparo nella sua automobile. Aspettava di vedere Bulma uscire.

I giornalisti erano quasi spariti, forse qualcuno ancora attendeva al Pronto Soccorso. Ma Yamcha era furbo, sapeva che Bulma pur di evitarli sarebbe uscita da un passaggio secondario. Lui la aspettava nel parcheggio riservato ai medici e posteriore alla struttura ospedaliera.
L’auto era accesa e i tergicristalli ripetevano il loro movimento meccanico, monotono, quasi lamentandosi; reiteratamente spostavano da una parte all’altra l’acqua che dal cielo cadeva e si schiantava sul parabrezza dell’automobile in moto.
Lo spilungone era aggrappato al volante, l’unico oggetto che come sempre continuava ad infondergli una illusoria parvenza di controllo su se stesso e sulla situazione. Aspettava, con la ragione diluitasi nell’odio e tramutatasi in una aspra e irragionevole giustizia da applicare.
Finché  la riconobbe, anche se le gocce di pioggia ne distorcevano l’immagine, che però veniva ricomposta ad ogni colpo dei tergicristalli e che subito dopo si frantumava nuovamente disgregata dal cadere della pioggia sul vetro anteriore dell’auto. Fine, questa, accaduta anche all’opinione che Yamcha aveva a proposito della sua donna – per lui ancora tale – divenuta però una figura deforme, astratta, manchevole di sincerità, multipla. Traditrice.
La spiò, osservandola uscire dall’ingresso secondario dell’Ospedale Generale di West City, fra le mani stringeva un piccolo ombrello giallo per proteggersi dalla pioggia forte che grondava a catinelle.
La cadenza dei passi della scienziata, agli occhi di chi la stava osservando con la lente dell’errato giudizio, cioè Yamcha, poteva essere equiparata all’avanzare ingessato e cupo di chi stava allontanandosi da un sepolcro dopo averne letto il triste epitaffio. Quell’accorato dolore era dedicato alla scimmia comatosa.
Yamcha maledisse Bulma, desiderò che l’anatema su cui si stava concentrando la colpisse immediatamente; facendogliela cadere proprio lì davanti, sulle scale che lei stava scendendo, bisognosa sotto i suoi occhi.

Mi rimpiangerai, Bulma. Un giorno verrai da me e mi implorerai di perdonarti.
Avevamo un futuro da costruire insieme, io avevo un futuro… Come hai potuto?!

La vide lanciare una capsula Hoipoi. Aspettò che salisse sul mezzo comparso e abbandonasse il parcheggio dell’ospedale, lei non si era accorta di lui. Sicuro di non essere stato visto, Yamcha spense l’automobile e la fece sparire riportandola alla forma di capsula.
S’avviò in direzione del reparto di rianimazione dell’ospedale.

Sto arrivando, saiyan.

 

 

~ ~ ~

 

 

L’unico modo per sottrarre Vegeta alle grinfie dei medici era guarirlo completamente e subito. Non capì come aveva fatto a non pensarci: una cura speciale dall’effetto immediato esisteva. Ed era conservata in un piccolo tempio nascosto tra le nubi del cielo. Era il santuario di Karin, situato in cima a una torre. Bulma era diretta da quella parte.
La scienziata ricordava a stento la strada per il tempio che una volta Son Goku le raccontò aver percorso durante la lotta contro l’armata dell’esercito del Red Ribbon. Fortunatamente, non era un luogo troppo lontano da West City e quando vi arrivò, a bordo del suo elicottero, trovò in cima all’obelisco un candido eremo. Il sole stava nuovamente sorgendo in quella zona della Terra e illuminava di luce calda il marmo freddo della struttura, rendendola visibile e colorata.
Bulma atterrò senza problemi, non aveva idea di chi avrebbe potuto aiutarla, e non si sarebbe mai aspettata di essere ricevuta da... Yajirobei, era lui, con il chimono marrone, la pancia e i capelli arruffati, e l’aria tremendamente scocciata. Probabilmente, la scienziata lo aveva svegliato.

«Tu che cosa ci fai qui?! Sei l’amica di Goku, ti conosco! Non lo sai che è vietato venir qui senza aver scalato la torre?!»

«Davvero? Mi dispiace, come puoi vedere, sono una dolce e debole signorina, non avrei mai potuto scalare a mani nude una torre così alta!»

«Infatti, significa che questo posto per te è vietato e non sei la benvenuta!»

«Oh, insomma! Non essere scortese, se sono qui di certo non è perché avevo voglia di vedere il tuo brutto muso!»

«Come ti permetti?! Arrivi all’alba senza avvisare, mi insulti e pensi di essere accettata!»

«Faccio quello che voglio, come voglio! Non ho bisogno del tuo consenso!»

«Che cosa?!»

«Basta, silenzio!»

Una terza voce si aggiunse alla discussione, Bulma si girò e trovò davanti a sé un paffuto e bianco gatto parlante.

«Tu sei Bulma.»

«Esatto.»

«So perché sei venuta, vedo molte cose da qui.»

La scienziata rimase sorpresa a quell’affermazione, ma presto smise di stupirsene. Aveva a che fare con una specie di divinità.

«E sembrerebbe essere una nobile causa la tua – proseguì il gatto – ma sei sicura di non stare facendo un errore seguendo il tuo egoismo?»

«Perché parla di egoismo? Io sto solo-»

«Sfamando un tuo desiderio, assecondando un tuo sentimento.»

«Si può sapere che state dicendo?!»
Domandò turbato Yajirobei, che era andato a sedersi poco lontano da loro.

La faccia di Bulma si fece molto seria: «Ha bisogno di cure, immediate.»
Fu laconica, perché tempo per altre chiacchiere inutili non lo aveva.

«Lo so – riprese Karin – tuttavia, se si è ridotto così è colpa sua, deve imparare dai suoi errori, e poi, non vi è alcuna positiva motivazione in lui. Egli è accecato dall’odio, questo lo sai.»

Bulma parve vacillare, tutti le evidenziavano l’empietà di Vegeta.

«Io devo salvarlo! Mi aiuti, almeno lei.»
Il gatto rimase in silenzio, parve rifletterci. Era affascinato dalla determinazione pura della scienziata.
«Aspettami qui», le disse.
Tornò poco dopo che stringeva tra le zampe un vaso in terracotta.
Si avvicinò a Bulma e lo protese verso di lei che ci guardò dentro.
«Terra?»
«Sì, e c’è anche quello che stavi cercando, sboccerà a breve, dovrai conservarlo in un luogo asciutto e buio.»
«Quindi mi sta aiutando?»
«Sì, però è meglio che tu te ne vada subito, perché potrei ripensarci. La persona che vuoi salvare non si è mai comportata be-»
Bulma abbracciò il Maestro Karin. Gli diede anche un bacio sul muso.
«Oh, che fai? Così mi metti in imbarazzo!»
«Grazie!»
« ... Va', sbrigati!»

La scienziata prese il vaso, aveva una speranza, bisognava solo attendere che sbocciasse. Se ne andò.


«Da quand’è che ti lasci intenerire dalle ragazzine?!»
Chiese Yajirobei, infilandosi un mignolo nel naso, che usò come una sonda alla ricerca di qualcosa nella sua narice sinistra.
«Ma che dici?! Sono solo un tenero gatto, non mi lascio intenerire.»
«Be’, le hai dato una pianta di Senzu.»
«Nascerà un solo fagiolo.»
«Per chi era?», domandò Yajirobei
«Ti ricordi quel saiyan? Quello venuto dallo spazio, poco più di un anno fa?»
Il ragazzo smise di ispezionare il suo naso.
«Hai combattuto anche tu contro di lui.», sottolineò Karin.
«Cosa?! Non vorrai dirmi che il fagiolo magico è per quel coso scimmione... Ehmm, Vegeta?!»
«Esatto!»
Yajirobei quasi svenne.
«Come? Ma è matta! Vuole aiutare quel mostro! E perché tu glielo hai dato?!»
Il gatto sorrise.
«Per motivi che non capiresti.»
«Cioè?!»
«Non te ne sei accorto? Lei lo ama.»
«Ma come si fa ad amare quel coso brutto e peloso?»
Yajirobei ricordava ovviamente e solo la scimmia mannara con la quale aveva combattuto e a cui aveva tagliato la coda, rimembrava bene persino il tonfo forte di quella carne tosta e irsuta che nulla aveva potuto contro la sua katana affilatissima. Di questo andava ancora orgoglioso.

«Yajirobei, non possiamo metterci contro il destino, dobbiamo assecondarlo. Quel ragazzo deve nascere.»

«Eh? Chi deve nascere?»

 

 

~ ~ ~

 

 

 

Yamcha era un esperto di arti marziali tra i terrestri e un mediocre fallito se comparato con un saiyan. Del suo grado di esperienza si servì per fregare i primi ed entrare nel reparto di rianimazione dove stava rinchiuso e dormiente il secondo. La fortuna girava anche dalla sua parte, oltre alle macchine che monitoravano il saiyan, nessun infermiere o medico era presente in quella stanza, ma questa condizione favorevole non sarebbe durata ancora per molto. Doveva sbrigarsi, se voleva servire ottimamente la sua Regina Vendetta.
Si avvicinò a Vegeta, lo guardò con il grado di sprezzo più alto che possedeva.
«Volevi farci sparire dalla faccia dell’universo, e ora sei steso su un letto, bello e addormentato, e noi terrestri ti prestiamo assistenza. Assurdo, vero? Purtroppo non ho molto tempo da dedicarti, quindi, cercherò di fare in fretta. Peccato che non stai abbastanza a pezzi da essere tenuto completamente in vita da queste macchine. Avrei staccato la spina e sarebbe stato più comodo per entrambi, ma vorrei anche evitare che qualcuno se ne accorgersse in tempo da salvarti cosicché  tu la faccia franca un’ennesima volta.»
Yamcha tolse con forza la maschera di Venturi che forniva l’ossigeno a Vegeta. I laccetti  che la tenevano salda al volto del saiyan rimbalzarono come schiocco di fruste. La buttò accanto alla  spalla del saiyan, abbandonandola a rilasciare inutilmente particelle di ossigeno.
Lo spilungone, sicuro di sé, prese i cuscini su cui era adagiata la testa di Vegeta.
«Non saresti dovuto tornare in vita, ma è successo. Pazienza, correggerò io questo sbaglio. Libererò il mondo dalla tua pericolosa presenza. Soprattutto, libererò Bulma e me. Credevi che te la lasciassi senza fare nulla? Oh no, lei è mia. E non mi interessa se adesso è diventata pazza e non mi vuole, so che la colpa è tua, le hai fatto perdere la ragione. Lei odiava quelli come te, e non capisco come tu sia riuscito ad incantare pure i suoi genitori, ma io non ci casco. Metterò a posto ogni cosa. E finalmente vivremo felici, senza di te, perché per te, qui, non c’è posto.»
Calò energicamente i cuscini sul volto addormentato del saiyan, tendendo le braccia e schiacciando le mani una sull’altra con tutta la forza che aveva, per assicurarsi che nemmeno una molecola d’aria riuscisse a passare.
«Sarai pure uno dei guerrieri più forti dell’universo, ma nelle condizioni in cui ti trovi non te ne fai niente della tua maledetta forza! Buon viaggio all’inferno, saiyan!»
Presto, i  bip dei battiti del cuore di Vegeta rallentarono. Yamcha li ascoltò come candida eufonia, godé vedendo Vegeta inerme ed immobile sotto di lui. Quando non sentì più nulla, finalmente, qualcosa scivolò via. Si era liberato del mostro che gli aveva rovinato la vita, aveva fatto ciò che Goku non si era preso la responsabilità di compiere. L’avrebbero applaudito, lo sapeva, i suoi amici l’avrebbero ringraziato e già vedeva Bulma correre da lui per baciarlo e gridargli di amarlo perché l’aveva fatta guarire dalla pazzia e liberata dal demone scimmia.
«Spero t’abbiano sbattuto nel girone più basso dell’inferno!»
Rimise i cuscini al loro posto, sotto la testa di Vegeta, e in malo modo gli risistemò la mascherina sul volto.
Doveva andarsene, perché di lì a poco molti uomini vestiti in azzurro e verde scuro avrebbero circondato il mostro ammazzato nel vano tentativo di rianimarlo, era meglio per lo spilungone non farsi vedere lì in quel momento. Ma appena Yamcha avanzò con un piede, allontanandosi dal letto del  saiyan, si sentì bloccato. Il suo braccio era tirato per il polso e  gli impediva di procedere.  Cosa poteva essere tanto forte da fargli sembrare di avere la mano come inchiodata? Dietro di lui non c’era cosa o persona, Vegeta era ormai un corpo senz’anima sdraiato su un letto. Ragionamento sensato, però lo spilungone aveva escluso volontariamente il suono elettrico di una macchina riprendere i suoi bip; e aveva sapientemente occultato il tatto di una mano d’acciaio che lo aveva agguantato.
Non voleva girarsi a vedere, se la stava facendo nei pantaloni.
«Impossibile, io l’ho ucciso…»
Passi, tanti passi prodotti da più di tre paia di gambe si stavano avvicinando alla sala di terapia intensiva.
Voltò la testa, il saiyan aveva gli occhi sigillati.
«Tu sei morto, lasciami subito! Lasciami!»
Suonava quasi ironico  mentre chiedeva ad un cadavere di lasciarlo andare. I passi intanto si facevano pericolosamente adiacenti.
Con un energico strattone Yamcha tentò di liberarsi e niente. Riprovò ma, addirittura, la morsa, oltre che a bloccarlo  lì, si stava facendo dolorosa.  Era diventato un bagno di sudore, sudore che rendeva i suoi capelli più lucidi, li ungeva e glieli  appiccicava sulla fronte. Il suo viso era diventato rosso per lo sforzo. Voleva urlare per il dolore, non poteva.
«Lasciami andare!»
Niente, il morto non mollava.
Gli sfuggivano i lamenti  tra i denti che teneva serrati in una brutta smorfia.
I dottori stavano arrivando, erano lì, forse erano già entrati e lui non se ne rendeva conto. Non c’era più tempo. La paura di venire scoperto lo portò a tirare con tutta la sua forza, avvertì le ossa della sua mano rompersi, schiacciarsi, deformarsi. Ma fu libero. La mano sinistra aveva una forma innaturale, dolorosa al solo guardarla, avrebbe pensato dopo a sistemarla. La nascose infilandola nella tasca della giacca e scappò via. Sentì qualcuno gridargli contro mentre apriva la porta dell’uscita d’emergenza e saltava dalle scale antincendio, verso il vuoto, volando via.

 

 

Continua…

Note:

1. Vi pare che con Vegeta ci sia andata giù pesante?! No, io non credo, in fondo, nell’anime lo vediamo a letto e attaccato a delle bombole di ossigeno dopo l’esplosione della navicella spaziale. Io l’ho semplicemente spedito in ospedale.

2. Sì, è accaduto. Bulma e Yamcha sono arrivati alla rottura. Mi auguro di aver orchestrato il susseguirsi della vicenda in modo interessante (non è finita), non scrivo plausibile perché il comportamento di Bulma non è stato per nulla plausibile, piuttosto incomprensibile e difficile. Ognuno reagisce a modo proprio e io non sto qui a rendere lineare ogni personaggio che tratto, purché questo resti IC, ovviamente. Specie, non voglio annoiarmi.

3. Yamcha è un uomo che non sta capendo più nulla, è disperato. Vede i suoi sogni svanire, la sua ragazza difendere il saiyan, e lei addirittura lo taccia di non essere stato all’altezza di combattere contro Vegeta. Ma la scienziata ha ragione di farlo, perché effettivamente Yamcha non ha perso la vita per mano del saiyan. Ok, tralasciamo che Vegeta avrebbe comunque eliminato tutti i terrestri se Goku non fosse intervenuto. Ma così non è stato. E poi, consideriamo che Bulma ora vede tutto con altri occhi, che vi piaccia o meno.

4. Ringrazio tutti i lettori che mi stanno seguendo. Sarebbe un piacere conoscere la vostra opinione, se accadrà ne sarò lieta.

5. Ammetto che questo capitolo ha la particolarità e coincidenza spiacevole di essere in qualche modo in tema con quanto stiamo vivendo. Per cui, meglio averlo tolto subito dalle scatole. La storia in bozza era già completa con questa parte, e non ho voluto modificarla.

6. No illustrazioni. Recupererò più avanti. Ci tenevo a pubblicare il capitolo ad un preciso mese di distanza dall’ultima pubblicazione.
L'illustrazione c'è. Appena fatta. Ore 18:27 del 17-04-20. Mi dipsiaceva lasciare il capitolo senza. Comunque, potrei aggiungerne altre.

7. Piccola parentesi sul nome di Bulma: io faccio parte di chi ha la cattiva abitudine di chiamarla Bulma Brief, usando Brief come cognome. È sbagliato. A me fa comodo così, ma è sbagliato. Lei è solo Bulma, Brief è il nome del padre. Punto. Non esiste il cognome. 

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Capitolo 10
*** Capitolo X - Noli foras ire. Anamnesi pericolose. ***


Disegno a fine pagina. 
 

Standby
 

Capitolo X - Noli foras ire. Anamnesi pericolose.


 

Imbavagliare quattro sandwich alti come torri e ripieni di carne sapida accomodata fra strati di formaggio affumicato, salsa speziata e insalata croccante, le scarabocchiava in viso la letizia di una molesta intenzione: li avrebbe condivisi con Vegeta quei panini, imboccandolo con le proprie mani, sfamandolo, perché il rancio dell'ospedale, a confronto, era micragnosa minestra riscaldata. Lui avrebbe dovuto ringraziarla, per il servizio.
Dov'era l’intenzione, la molestia? Infilata e nascosta sotto le unghie rosse e distesa nel sorriso formato dalle labbra carnose e aggettanti della scienziata: il suo amore andava nutrito e la bocca del saiyan, ancora libera e impervia landa da conquidere, sarebbe stata appagata e saziata direttamente dalle sue mani minute di femmina terrestre. In un atto di proterva invasione.
Bulma arrossiva e si compiaceva al pensiero di consumare il pasto con Vegeta, di infarcire la bocca del saiyan di pappa-amore imbeccandolo come un pulcino... di indirettamente possedere e vedere dischiudersi a lei le labbra del saiyan.
Sì, era un bel ghirigoro immaginifico con il quale convincersi di poterlo avere sottomesso, perché per lei le labbra di Vegeta erano ancora chiuse al pari di freddi cancelli. Quelli d’una gabbia utile a recidere aliena concupiscenza inibita, che era meglio non scatenare, secondo la scienziata. E se così poteva definirsi ciò che tra lei e Vegeta non era capitato in ospedale.
Ci stava ripensando, non doveva, perché la sua determinazione veniva punta e le finiva miseramente a terra, come un palloncino che perdeva preziosissima aria.
Bulma aveva  bisogno di mostrarsi determinata. Una roccia viva, di lì in avanti.

Fece un nodo intrecciando le maniglie flosce del sacchetto ecologico in cui aveva sistemato le sei torri sandwich. Era tutto pronto. Anche il discorso e l’accordo da proporre al medico primario. Non aveva chiuso occhio per arrivare a quella soluzione. A dirla tutta, non dormiva regolarmente da quando Vegeta era stato ricoverato e... fatto prigioniero. I sandwich sarebbero stati meschino strumento di ricatto. Be’ il saiyan se l’era meritato. Ma soprattutto, i sandwich erano parte del piano che Bulma stava per innescare.

 

 

~ ~ ~
 

 

Un giorno dopo l’incidente. Tre mattine prima alla preparazione delle leccornie che la scienziata aveva da poco finito di infagottare.


 

Nella Città dell’Ovest, l’Ospedale Generale era la più grande struttura ospedaliera presente sul territorio, ma non l’unico nosocomio, ce n’erano altri minori e in uno in particolare, nel Westkong Hospital, un medico molto attento aveva appena letto la richiesta di assistenza inviata dall’Ospedale Generale: si richiedeva una urgente raccolta per rifornire le emoteche di sangue raro, sconosciuto. I dati specifici erano inseriti nel file allegato.
Il dottore lesse una volta ancora. Credeva di vedere doppio, così si sfilò gli occhiali e li pulì con un lembo del suo camice bianco.
Dopo, con mano quasi tremante, li inforcò nuovamente adagiandoli sulla prominente gobba del suo naso.
Ci vedeva benissimo, i valori riportati da quel gruppo sanguigno non erano nuovi per lui.
Allentò il nodo della sua cravatta. Quanto era passato da allora, un anno, uno e mezzo, forse due? Non se lo ricordava di preciso, ma quei valori non li avrebbe mai dimenticati. Né mai avrebbe dimenticato il paziente anomalo.
Per rinfrescare la memoria gli bastava cercare nell’archivio la cartella clinica del vecchio paziente: il dottore aprì il database del suo computer e sulla tastiera digitò piano un nome: Son Goku. Trovato. Non aveva obliato nulla. Riaprire quella cartella, però, gli accapponava la pelle: in quella occasione le radiografie avevano riportato le tracce di una struttura ossea disintegrata, qualunque uomo normale si fosse trovato in un simile stato sarebbe morto. Invece, il dottore aveva visto quel paziente rimettersi in piedi e andar via con le proprie gambe in poco più di un mese.
Il medico proseguì con la consultazione, arrivò alle analisi che gli interessavano, quelle del sangue: erano identici, i rispettivi valori richiesti dall’Ospedale Generale di West City e quelli di Son Goku erano eguali.
A parere del dottore i casi potevano essere due: o Son Goku era finito nuovamente in ospedale, e chissà per quali cause, oppure era spuntato fuori un altro possessore di sangue anomalo. Ed entrambe le eventualità lo terrorizzavano.
Son Goku era stato ridotto in poltiglia dagli alieni, Son Goku, lui stesso, non era normale. Chiunque avesse posseduto un’identica composizione sanguigna, con gli stessi antigeni, non poteva essere diverso da lui.

Alieni. Di tipo umanoide. Sicuro, poteva trattarsi di extraterrestri.

Il dottore voleva vederci chiaro. Iniziò a scrivere una lettera di risposta all’Ospedale Generale, rivelando di avere avuto già a che fare con quell’anomalia e di essere l’unico a conoscere un potenziale donatore. Questo se non si fosse trattato ancora di Son Goku.

Molto presto, il dottore avrebbe trovato manforte confrontandosi con qualcuno in cerca di risposte come lui, ma con scopi alquanto differenti.

 

 

~ ~ ~

 

Nel medesimo giorno, distante dal Westkong Hospital e dal medico sospettoso, comunque a West City.


 

Bulma aveva fatto ritorno alla Capsule Corporation con il prezioso dono che il saggio Karin le aveva concesso. Lo teneva stretto con l’aria di chi sarebbe stata capace di uccidere, se qualcuno avesse provato a farle cadere dalle mani il vaso di terra.
Moribonda di aspetto, la scienziata avanzava a stento in quel che rimaneva del cortile spento e incenerito. C’erano volute più di dieci ore per estinguere il fuoco, e i pochi resti della navicella spaziale erano stati accatastati e giacevano ordinatamente in una parte del giardino scomparso.
Nonostante l’incidente, la Capsule Corporation era rimasta in piedi. Presentava solo una spaccatura nel muro, lì dove un pezzo di lamiera era andato a disintegrarsi. Il foro era così grande che si potevano vedere gli interni della casa arredati, come una ferita aperta, uno squarcio, come se la casa mostrasse dolorosamente i propri organi. Era il risultato di una guerra, una guerra che Vegeta aveva perduto contro se stesso.  Del restauro dell’edificio se ne stava occupando un team di uomini che costruiva ponteggi tutt’intorno alla struttura ovoidale.
I Brief avevano la fortuna di possedere tanti soldi da potersi permettere di rimediare tempestivamente a qualunque incidente. E infatti, per rimuovere i gas velenosi che avevano inquinato l’aria, erano stati impiegati i nuovi depuratori mangiafumo. Così, ai residenti delle zone circostanti alla Capsule Corporation era stato permesso di far ritorno nelle loro abitazioni.
Ciononostante, l’aria portava ancora il lezzo dei rottami carbonizzati. Una puzza di cui Bulma non riusciva a liberarsi.

La scienziata proseguì, camminando a fianco del muro annerito, per arrivare all’ingresso. Giunta in prossimità dell’entrata, vide gruppi di giornalisti accampati attorno a suo padre, che parlava calmo rivolgendosi a uno di loro e a un altro che teneva in mano una telecamera.

«Dott. Brief può dirci se si è trattato di un esperimento finito male? E nel caso, cosa stavate sperimentando?»
«Oh, no. Assolutamente! Vede, io e mia figlia abbiamo costruito una navicella spaziale in grado di percorrere distanze come anni luce in pochissimo tempo e- ah, cara, sei tornata!»
Lo scienziato non concluse la sua spiegazione, Bulma, raggiunto il gruppo di persone, si frappose bruscamente fra lui e il giornalista, afferrò il suo vecchio per un braccio e lo allontanò dai microfoni. Mancava solo che venisse fuori la storiella di Namecc.
Il vaso di terra lo passò temporaneamente e con cura tra il fianco e il braccio che lo cingeva tenendolo come un melone di coccio.

«Non si è trattato di alcun esperimento! – ringhiò lei – Fatevi i fattacci vostri, non avete alcun diritto di venire qui ad inveire su di noi, lasciateci in pace!»

La folla non mancò di fotografarla e registrarla. I giornalisti non aspettavano altro e un idiota calcò la mano osando provocarla.

«Signora Bulma, non era lei ad essere rimasta ferita? Se permette, vorremmo chiederle se ci sono state vittime. Oltre alle persone intossicate è stata vista arrivare un’ambulanza con un ferito in condizioni gravissime, perché lo state nascondendo? O forse a causa vostra il poveretto  ha già perso la vita?»
Alla domanda si unirono anche gli altri giornalisti, che fecero coro rincarando l’accusa con altre che includevano il risarcimento dei danni che la Capsule Corporation doveva ai cittadini coinvolti.
Bulma rimpianse di non possedere alcun potere saiyan. Altrimenti si sarebbe liberata di quei seccatori in poche mosse.
«Ma lei chi crede di essere, un agente di polizia?!»
Era a corto di pazienza e parole.
«Sto facendo solo il mio lavoro!», replicò quello, arrogante.
«Tesoro, Bulma, calmati! Possiamo tranquillamente spiegare a questi signori che si trattava-», suo padre tentò di chetarla armeggiando intorno a lei, in modo pacifico.
«Papà, per favore, sta’ zitto!»
Inutile. Il dott. Brief era troppo ingenuo per arrivare alla lungimiranza di sua figlia. Bulma temeva si spargessero notizie tali da calamitare troppa attenzione su Vegeta. Stava già accadendo. Doveva assolutamente evitare che divenisse di pubblica conoscenza la fine dei poveracci che il saiyan aveva spedito in chirurgia e soprattutto che diventasse pubblica la faccia di Vegeta. C’era il rischio che venisse riconosciuto e quindi di far saltare fuori, alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti, i precedenti da assassino extraterrestre... quelli del suo primo arrivo sulla Terra. Nel caso, sarebbe scoppiato il panico e sarebbe stato impossibile allontanare quella gente...
 I ficcanaso avrebbero fatto festa come nugoli di mosche sopra i resti di una carcassa.

«Se non ve ne andate chiameremo la polizia, perché questa è proprietà privata e voi la state deliberatamente occupando! Vi avverto che la Capsule Corporation è dotata di videocamere, nel caso saremmo in grado di  riconoscere e denunciare ognuno di voi!»
Bulma parlò convinta. Momentaneamente, la cacciata coatta funzionò. Alcuni giornalisti iniziarono indietreggiare verso l’uscita del cortile.
La scienziata riacchiappò suo padre e lo portò con sé. Insieme varcarono l’ingresso della Capsule Corporation senza mai dare le spalle ai giornalisti. Poi, l’entrata principale venne bloccata a qualunque visitatore.

L’appartamento in cui la famiglia Brief viveva non era stato danneggiato ed era ancora agibile. Padre e figlia raggiunsero il salotto dove certamente li aspettava la signora Brief.
«Oh, cara, finalmente sei qui!» la accolse la mamma, alzandosi dal divano su cui era seduta.
La tv era accesa e il notiziario stava mostrando proprio le brutte immagini dell’incendio che aveva flagellato la loro casa.
La mamma la abbracciò forte, «Come sta... come sta Vegeta?! Sei riuscita a vederlo?!».
Bulma annuì mesta e andò a sedersi su una delle poltrone malvacee del salotto. Il vaso era ancora fra le sue mani.
«Le sue condizioni sono stabili, però...  è in coma.»
«Oh, povero Vegeta!» piagnucolò subito la signora Brief, esasperandosi e unendo le mani al petto per il duolo.
«Mi dispiace tesoro – disse suo padre sconsolato, poi si accese una sigaretta – ... E i dottori, loro che ti hanno detto?», le domandò aspirando un’intensa boccata di fumo.
«Che bisogna aspettare – replicò Bulma – Ma non importa.»
«Come?», suo padre non stava capendo.
«Non siate tristi – riprese lei con entusiasmo – la soluzione è proprio qui fra le mie mani!»
Stupefatti, i suoi genitori seguirono le braccia alzate della ragazza che sollevava il vaso ricolmo di terra come un ambito trofeo.
«Stavo per chiederti cosa fosse.» affermò il dott. Brief.
«Hai mai sentito parlare dei Senzu, papà?»
«Senzu... questa parola non mi è nuova. Ah, ma certo! Se non sbaglio sono fagioli magici, Goku li mangiò per riprendersi velocemente e partire alla volta di Namecc. E con la navicella spaziale che costruii per lui. Correggimi se sbaglio.»
«Non sbagli, sono loro!»
«E come ne sei venuta in possesso? Te li ha dati il tuo amico Goku?», domandò lo scienziato alla figlia.
«Non esattamente, lasciamo stare, la cosa importante è che con questo possiamo guarire Vegeta.»

Se per padre e figlia tutto era chiaro, la signora Brief invece osservava incerta il vaso che la figlia osannava come uno scrigno magico.
«Gli faremo mangiare la terra, cara?», domandò seria.
«Ci mancherebbe mamma! Vegeta mangerà solo il fagiolo che tra poco sboccerà!»
«Ah, ok... Be’, continuo a non capire. Basta che Vegeta riesca a riprendersi e tornare a stare qui con noi!»
All’idea di rivedere il saiyan, la mamma di Bulma aveva già assunto le sembianze del caramello sciolto granellato al cioccolato bianco.

«Cara, sai quanto tempo la pianta impiegherà a crescere?», domandò il dott. Brief.

«Purtroppo non con precisione, papà. Ma avverrà presto, per questo volevo chiederti di portare il vaso in laboratorio, va conservato in un luogo sicuro.»
Suo padre acconsentì afferrando il vaso dalle mani della figlia.
«Mi raccomando, papà.»
Lasciato il vaso, la boa che la teneva a galla, la scienziata avvertì le sue energie finire del tutto. Aveva bisogno di riposo, di mangiare, farsi una doccia. Tornare da Vegeta.
Stava per alzarsi con l’intenzione di raggiungere la sua camera e recuperare quelle sembianze che la rendevano se stessa, ma venne bloccata: «Bulma! Mi sono dimenticata di chiederti di Yamcha! Ieri notte era venuto qui, proprio un attimo dopo che l’ambulanza ti portasse via. Era così preoccupato, siete riusciti a incontrarvi?»
Neanche l'avessero spinta; la scienziata ricadde indietro e affondò la schiena contro la modanatura morbida della poltrona. Buon per lei che il vaso l’aveva affidato al padre, sennò le sarebbe potuto sfuggire dalle mani.

Dovresti aggiornarli.

Anche no.

«No. Non ho visto Yamcha. Forse non lo hanno fatto entrare in ospedale.»

Ha un che di buono, la tua bugia. E di furbo.

Se avesse aperto la conversazione a tal riguardo, non avrebbe toccato letto per le ore a seguire. E come avrebbe potuto dire a sua madre che il matrimonio era annullato senza darle spiegazioni? Le conveniva eludere la situazione.

«Oh, che peccato... Comunque tesoro stai tranquilla perché il tuo vestito è salvo! L’incendio non è arrivato a danneggiarlo.»

«Di quale vestito stai parlando, mamma?»

«Il vestito del tuo matrimonio!»

Bulma rimase a bocca aperta, aveva totalmente e debitamente depennato quella roba.

«Ah, vero, il vestito... Ora però vorrei riposarmi un po’ e dopo, papà, desidererei chiarire con te la causa dell’incidente.»

L’esplosione della navicella era il problema da risolvere, perché qualcosa non aveva funzionato e non sarebbe dovuto accadere.
Le sobolliva il sospetto che l’incidente potesse essere stato causato dalla propria negligenza, quella mantenuta al fine di tenersi lontano dal saiyan. Nonché un modo veloce per seppellirsi di nuovi sensi di colpa.

«Certo, figliola. Vai a riposarti, nel frattempo preparerò una diagnostica che poi ti farò vedere e analizzeremo insieme.»


 

~ ~ ~


 

Due giorni dopo l’incidente. Una mattina prima all’attuazione del Piano Sandwich.

 

L’infermiera entrò nello studio: «Dottore, abbiamo trovato ciò che cercava, le metto qui i documenti» disse, e lasciò sul tavolo un plico di fogli.
Dopo averla ringraziata, il primario invitò l’infermiera ad uscire lasciandolo solo.
I documenti arrivavano dall’ospedale stesso, erano chiusi in una busta di plastica sigillata.  Il medico la aprì. Dentro c’era la cartella clinica di pronto soccorso di Bulma Brief. La data di ingresso risaliva a un mese prima. Il primario lesse molto velocemente.
Scoprì che la donna si era recata presso l’Ospedale Generale con una lacerazione al ginocchio sinistro ed era stata dimessa il giorno stesso. L’anamnesi riportava come causa una caduta dalle scale.
Nulla di ché. Fin troppo inutile per qualsiasi piano.
Il primario rimise in ordine i fogli e riaprì la cartellina per infilarceli dentro nuovamente.
Stava per chiudere la busta, quando un altro documento allegato, di cui non si era accorto, scivolò sotto i suoi occhi. Lo prese prima che toccasse terra.
Gli bastò leggere una riga del referto per iniziare ad avere certezze e qualcosa a cui attaccarsi:

“la paziente presenta ecchimosi estese attorno al collo, non ne giustifica la causa. Dall’osservazione non si esclude un tentato strangolamento.”

Questo era un risultato.

Aveva ordinato alla sua equipe medica di raccogliere qualsiasi dato a disposizione dell’ospedale riguardante la scienziata, se ce ne fossero stati, e ci aveva preso; perché quella donna aveva detto tutto tranne la verità. Non si fidava di lei, né dell’uomo violento di sangue anonimo che era steso in rianimazione, e che qualcuno, la sera stessa del ricovero, aveva tentato di assassinare.
Ma pur di fronte a un quadro tanto borderline, il primario non aveva chiamato la polizia e aveva costretto il suo personale medico a tacere sul filmato dell’aggressione registrato dalle videocamere. Ordinando pure di non spifferare alla stampa dei due soccorritori aggrediti spietatamente dal paziente in coma prima che egli venisse ricoverato.
Il caso Brief aveva l’aria di scottare di scandalo e di essere penalmente perseguibile. Ma in ballo c’era una giovane ereditiera miliardaria, altresì genio a capo della più alta tecnologia esistente sul pianeta; forse il dottore avrebbe potuto volgere la vicenda a suo proficuo vantaggio. E a vantaggio dell’esercito di cui segretamente faceva parte.
Lasciare quella donna libera di agire ancora un po’ era stata una scelta mirata. Agevolarla nella sua caduta, un piano perfetto.

 

 

Ventidue ore dopo.

 

Quando il telefono personale di Bulma squillò nel cuore della notte, la scienziata era tornata a casa da circa un’ora, così sfinita dall’ennesima giornata trascorsa in ospedale, la seconda e mezzo per la precisione, che era crollata in una istantanea e profonda letargia sulla prima superficie morbida incontrata e offertale dal comodo divano del salotto.

La suoneria e la vibrazione del telefono la spaventarono come il terrificante segnale di una sirena antiaerea.
Sarebbe ritornata in ospedale la mattina seguente durante l’orario di visita, a vegliare Vegeta, ma si era raccomandata con l’infermiere di essere contattata per qualunque evenienza.
Sfilò il cellulare incastrato nella tasca dei suoi jeans. Accettò la chiamata e istantaneamente  riconobbe  la voce dell’infermiere:
«Suo marito ha ripreso conoscenza!» disse quello, terminando la telefonata senza dare a Bulma la possibilità di rispondere.
L’infermiere era lo stesso intervenuto salvandola da Yamcha, l’ex momentaneamente scomparso. L’infermiere era una persona gentile di cui Bulma sentiva potersi fidare. Ma l’infermiere aveva parlato di fretta, con la voce di chi era intento a confidare velocemente un pericoloso segreto. E aveva parlato troppo vicino al ricevitore che le parole erano state trasmesse impastate di brusio. Tuttavia, non era il momento di indagare: Vegeta si era svegliato molto prima di quanto lei stessa si era immaginata, contava solo questo e doveva sbrigarsi ad andare da lui.
La scienziata si rimise presto in piedi, cercò di tenersi in equilibrio spinta com’era dai fumi del sonno che ancora le annebbiavano la volontà.
Si mise le scarpe, saltellando prima su un piede poi sull’altro, acchiappò la borsa e raccolse dal pavimento le chiavi dell’hovercar lasciata fuori in giardino. L’elicottero lo aveva sistemato in un altro astuccio di Hoipoi, non aveva tempo per cercarne la capsula.
Decise di non avvisare i suoi genitori, li avrebbe informati appena possibile. Doveva prima sincerarsi da sola delle condizioni di Vegeta.

Saltò in macchina ed inserì la chiave nel motorino di avviamento.

Non ci saranno danni gravi al cervello, riuscirà a parlare e a muoversi normalmente.

Pensava.

«Avanti, parti!»

Disse, provando ad incoraggiare l’hovercar che singhiozzò un paio di volte prima di entrare in funzione.

Vegeta cerca di stare calmo, sto arrivando!

Accese le luci, fece retromarcia e infilò la strada per l’Ospedale Generale.

Soprattutto, non uccidere nessuno!

E cosa ti fa credere che sarai capace di renderlo mansueto?

Il più ovvio nulla.

 

~ ~ ~

 

 

Provò a poco a poco ad aprire gli occhi. Le palpebre erano secche, come ricoperte e incrostate di sabbia. Anzi, erano talmente dure che parevano cucite fra loro. Dolorose.
Con sforzo, strappando quei punti invisibili che le univano come due labbra di ferita, Vegeta riuscì a spalancarle completamente. La vista tornò a funzionare appannata: c’era un soffitto basso e bianco sopra di lui. Di un bianco divino e sepolcrale. Forse, era l’ennesima porta dell’Inferno aperta ad accoglierlo. Che Inferno subdolo doveva essere. Troppo identico alla realtà da sentire ancora una forte pressione sul petto e il conseguente bisogno di aria.
Lui c’era stato all’Inferno. Era sfuggito ai suoi diavoli un attimo prima che gli divorassero l’anima.

No. Era maledettamente vivo per poter credere di essere nell’aldilà, possedeva ancora la memoria e i suoi annessi e nefasti pensieri. Gli sembrava piuttosto di essersi fatto un giro in un purgatorio stretto e sudicio che lo aveva privato di ogni energia prima di risputarlo fuori.

Il saiyan tentò di acuire i sensi e recuperare l’orientamento. Il posto in cui adesso si trovava non era la Capsule Corporation. Ma niente, non distingueva alcuna forza spirituale, nemmeno l’egocentrica e tracotante aura di Kakaroth.
Così debole e rintontito, gli pareva aver perso conoscenza per almeno un’eternità. Ed erano passati quasi tre giorni, di oblio assoluto.

Tentò di muovere una mano fino a toccarsi la faccia, con l’intento di spostare il tubo di plastica collegato alla sua bocca. Qualcosa di insopportabile gli stava pizzicando la pelle del viso; colpa degli elastici stretti che gli tenevano ferma la mascherina sul volto.
Riuscì a malapena ad aprire e chiudere le dita e piegare il polso. Le membra erano molli, non ubbidivano.
Continuò lo stesso a provare, muovendosi appena, e quando il lenzuolo gli scivolò poco sotto la cintola scoprendo il pube e il pene dormiente, s’accorse pure di essere nudo.
Nello stesso istante, udì alcune voci manifestarsi adiacenti alla stanza in cui era rinchiuso. Tese l’orecchio in ascolto e con fatica tentò di recuperare immediatamente il decoro, nascondendo la carne ignuda sotto il lenzuolo sfuggente.

«Mi raccomando Signora, non gli faccia troppe domande. È molto debole. E sarebbe meglio che si tenesse a distanza da lui.»

Suggerì l’infermiere a Bulma, mostrandole un’aria talmente preoccupata e spaventata che alla scienziata il quesito insorse spontaneo: non avrebbe dovuto essere positivo il fatto che Vegeta avesse riaperto gli occhi? Altra strana incognita da risolvere. Lei se lo stava chiedendo e avrebbe tempestato di domande il giovane infermiere se il desiderio di rivedere Vegeta vigile e cosciente fosse stato di minore urgenza.
Solo un attimo dopo, rifletté che i medici erano ovviamente terrorizzati. Quelli al reparto chirurgia non li invidiava nessuno.

L’infermiere le toccò delicatamente il braccio, come a volerle fare una confidenza, e ammise: «Se si sentisse in pericolo, mi chiami immediatamente, sono pronto ad intervenire per sedarlo.»
Bulma fece un sorriso incerto. Un’altra dose di barbiturici la spaventava, l’idea che i medici potessero a loro piacimento rendere docile e inoffensiva una fra le creature più potenti dell’universo non la tranquillizzava.

Dovrebbe essere il contrario, dovresti temere tu Vegeta. Ma sappiamo che sei pazza.

Sono innamorata, non sono pazza.

«Non si preoccupi... A me, lui non farà del male.»
Rispose come avrebbe fatto il padrone di un animale feroce. Sicura che la belva non l’avrebbe morsa. A lei no, agli altri sì. E ci infilò pure uno sghembo ammiccamento.

Sorrideva ancora, quando entrò nella stanza quadrata. Ma una volta all’interno e chiusa la porta alle sue spalle, il sorriso le si dissolse sulle guance come un fiore derubato dal vento dei suoi fragili petali.
Non v’era nulla di divertente lì. Non cercò gli occhi di Vegeta, non immediatamente. Per quanto sentisse il proprio cuore volerle schizzare fuori dal petto e spruzzare via sangue e emozione, Bulma si soffermò fintamente calma a controllare le condizioni in cui i medici avevano lasciato il saiyan: letto al centro, lenzuola pulite, macchine attorno che gli monitoravano gli organi vitali, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa. E la frequenza respiratoria. Ogni impulso vitale di Vegeta lasciava una traccia sonora o luminosa, regolare.
Non c’era nulla di strano.
La scienziata proseguì la verifica analizzando ciò che le lenzuola lasciavano intravedere uscire sotto di esse: lunghe radici... erano piccoli ciondolanti tubi in plastica di diverso colore. Cambiavano a seconda del contenuto che scorreva in essi: uno rosso, uno trasparente, uno di... lucido ocra.
Orribile. Nauseante. 
Erano tutti particolari che la scienziata aveva già visto mentre lui era in coma; ma ora Bulma sentiva avergli invaso l’intimità. Aveva paura di turbarlo con la sua presenza. Lui era sveglio, potenzialmente attento a ciò che gli occhioni azzurri della ragazza osservavano con evidente repulsione.

Evitò ancora di incontrare lo sguardo di Vegeta. Se lo immaginava certamente segnato da quelle sopracciglia perennemente in conflitto sopra due iridi cupe e lucide come petrolio.

Non guardare in basso.

Bisbigliava la coscienza. Essere là equivaleva ad attraversare un dirupo in equilibrio su di una corda sottile, che legava due confini lontanissimi, con il saiyan minaccioso di tranciarle la fune da un momento all’altro.

Lo faresti ancora, vero Vegeta? Mi lasceresti cadere...

Se ricordava bene, l’infermiere le aveva sistemato all’angolo della stanza una sedia. Bulma pensò fosse meglio usarla per stare accanto al principe nel modo più discreto. La prese e per poco non le scivolò dalle mani lievemente tremanti.
Altro che sedia: necessitava anche di una cintura di sicurezza, di un airbag, e perché no di un paracadute e di un elmetto?
Riuscì a posizionarla di fronte a un lato del letto. Stette attenta a non intralciare uno dei tubi che vedeva terminare dentro di lui.
Si sedette, senza cadere nel dirupo. Nessuna fune fu tagliata.
Però, non raggiunse l’altra sponda e rimanere in equilibrio sulla corda era pura agonia.
Ciononostante, era giunto il momento: poteva ricucire lo strappo tra la trama e l’ordito delle loro due vite. Yamcha non avrebbe più potuto in alcun modo, e senso, infilarci di mezzo l’uncino.

Questa volta sono innocente...
Lo sono sempre stata.
Io.

E Vegeta non la stava guardando.
E nulla le faceva intuire che l’avesse fatto prima.
Questo era disarmante.
Mandava alle ortiche ogni suo positivo intento.
Il Principe dei Saiyan fissava insistentemente il soffitto, lo oltrepassava  arrivando dove Bulma non sarebbe riuscita a raggiungerlo.
Non aveva riportato danni cerebrali, non era ridotto a uno stato vegetativo, di proposito Vegeta non la degnava di attenzione trattandola come insignificante materia invisibile.

Davvero non me lo merito.

Era disturbante nel suo silenzio, raccapricciante nella sua immobilità.
Titanico anche il solo pensare di rivolgergli la parola. Non le usciva neppure un insipido tiepido “come ti senti”.
Di fondo, tra i due, circolava una consapevolezza scomoda e dolente a entrambi. La verità: Vegeta aveva fallito, come da lei era stato preannunciato, e Bulma aveva ottenuto una ragione che la onorava ad essere nemica premonitrice, una parca.

È solo una barriera più alta.

O forse un fallimento certo...

«Se te lo stai chiedendo sei in ospedale, la navicella è esplosa e tu sei rimasto gravemente ferito nell’incidente... »
Esordì lei, totalmente inconsistente. Fastidiosa a lei stessa.
Vegeta non reagì. Non si lasciò scappare un battito di ciglia in più. Aveva riconosciuto la voce della scienziata sin da subito, prima che lei comparisse. E per un labile attimo se ne era inaspettatamente rincuorato. Ma era durato veramente poco: nauseato  all’idea di venir scoperto da lei in quelle paralitiche vesti, aveva presto schifato il pensiero di averla lì. E sull’essere in ospedale e non all’inferno, ci era arrivato da solo.
Ora, non ce la faceva a guardarla, men che meno starla a sentire.
Però, chiedersi perché lei fosse lì, perché fosse così dannatamente, irrimediabilmente ossessionata da non lasciarlo andare; domandarsi questo gli era inevitabile.

«Credi di poter rimanere in silenzio per l’eternità? O forse sei troppo debole per riuscire a parlare?»
Proseguì lei.
Come c’era da aspettarsi, la ficco-il-naso-in-ogni-dove non aveva perduto le proprie capacità provocatorie. Sarebbe stata capace di far fiatare anche i sassi e Vegeta, in quella forzata staticità, era tenera pietra costretta a restituire la battuta.

«Se avessi ottenuto l’eternità, ora tu non saresti qui a parlare.»

Punto numero uno: che si inchinasse di fronte a lui. Che scappasse lontano senza dimenticare di avere davanti a sé il saiyan più crudele.
Non la guardò in faccia.

Bulma se la prese con la tracolla della borsa ancora appesa alla sua spalla. Ne stritolò il rigido cuoio, frustrata dal trattamento che Vegeta le stava rifilando e dalla fredda affermazione che la sbatteva di nuovo a largo dalla riva su cui credeva di poter approdare.
Le regole tra loro non erano cambiate, la distanza da mantenere restava obbligatoria.
Ma arrivati a quel punto, tutto stava diventando esasperante e le lacrime erano vogliose di tracimare.
Non solo quelle, pure un’accoppiata di meritati insulti dedicati a lui.

«Non sono venuta per litigare con te, vorrei solo tirarti fuori di qui.»

Pronunziò concisa, ma morta dentro. Come di chi, allo stremo della resistenza, agita esangue uno stendardo bianco, desiderando l’armistizio. O forse gli stava solo chiedendo clemenza.
Di qualunque tentativo si trattasse, Vegeta era intenzionato a stracciarlo.
«Non ne ho bisogno, non te l’ho chiesto.»
Rispose lui. La voce sporca di raucedine.
«So che sei arrabbiato.»
«Se sei così brava a capire, perché non te ne vai?»
«Perché tu hai bisogno di me.»
«Non essere assurda... »
«Assurdo è vedere un saiyan forte come te in un posto come questo. Ma sappiamo entrambi perché sei ridotto così. Ti sei fatto costruire delle macchine mortali. Volevi ammazzarti e ci sei andato vicino... Hai proprio bisogno di me.»
Rimarcò lei, iniziando a mostrarsi più dura e sicura delle sue affermazioni. Senza pietà, pari a lui. Era brava ad 
urtare infallibilmente l’orgoglio di Vegeta.
«Non provare a farmi la predica, non la accetto.»
«Perché? Sai di avere sbagliato.»
«No. Io e te ne abbiamo già parlato, terrestre. Se ci tieni alla tua pellaccia, sparisci. O non ti è bastata la lezione?»
Vegeta stava riferendosi a quello scatto d’ira che per pochissimo non lo aveva reso omicida anche dell’amica di Kakaroth.
La tensione tra loro era in libera ascesa.
Bulma capì e non rimase zitta: «Potrei farti la stessa domanda: a te è bastata?... Finché non ti sarai ripreso, che ti vada a genio o no, dimenticati dei tuoi allenamenti.»
«Non osare parlarmi con quel tono, io non accetto ordini da te!»
«Ma non capisci di aver quasi perso la vita?!»
Lei urlò. Era l’emozione, i sentimenti che saltavano in aria. Gridargli contro, tuttavia, non sanava lo strappo tra loro e Vegeta era particolarmente in difficoltà per mantenere lucidità e raziocinio.

«Non riesci a respirare e sei immobile su un cavolo di letto di ospedale!»
«Non alzare la voce con me!»
«Guarda in faccia la realtà per una buona volta, Vegeta!»

«CHIUDI QUELLA BOCCA!»

Una delle macchine prese a segnalare impazzita i battiti di un cuore frenetico. Vegeta, anche lui, aveva tuonato contro di lei, più che poteva, fino a sgolarsi e adesso gli mancava il respiro.
A quel punto Bulma si rese conto di avere esagerato.

Sentendo le forti grida e le macchine inviare impulsi di allarme, l’infermiere si precipitò in soccorso.
«Signora, che sta succedendo?! Sta bene?! Ha bisogno di aiuto?!»
Irruppe spalancando la porta.
Bulma era diventata una lastra di ghiaccio, si voltò appena per rispondere:
«Mi-mi scusi, stavamo solo parlando, ci siamo un po' agitati.»
L’infermiere li analizzò, muovendo
gli occhi da lei a Vegeta come sfere all'interno di un flipper.
Appurato che il paziente era vigile e la scienziata intera, si tranquillizzò leggermente.
«Bene, ma posso concederle qualche altro minuto, non oltre.»
Bulma stava per ringraziarlo, quando il saiyan si intromise: «No! Questa donna ha finito con me, può andarsene adesso!».
Replicò lui, adirato. Rinnovando l’espulsione.
L’infermiere non sapeva cosa fare. Certamente, si fidava di più dei limpidi occhi di Bulma che dell’uomo bieco e latrante. Da sveglio, gli incuteva davvero molta paura.

Le macchine trillarono nuovamente allarmanti. Bulma vide Vegeta entrare in affanno, cercare più aria di quella che la mascherina riusciva a dargli. Doveva farlo calmare e c’era poco spazio per respirare anche per lei.
Decise saggiamente di uscire dalla camera.

 

...

«Non so come fare...»
Mormorò tra sé e sé una volta fuori. Si coprì il volto con le mani.
L’infermiere non se ne era andato, restò accanto a lei. La osservava attento.
«Mi permetta di dirle che forse, suo marito, ha bisogno di restare solo.»
Le disse.

È proprio questo il problema, lui è solo.

«Le dovrebbe bastare averlo visto riprendersi in poco tempo. Al di là di ogni nostra previsione.»

E non resterà qui a lungo, ve lo giuro.
Ma... Deve smetterla di trattarmi così!

«Non ho finito con lui. Devo rientrare.»
«Di nuovo? Signora, non posso permetterle di-»
«È solo arrabbiato, gli passerà. La prego, ci lasci soli ancora un pochino. Ho bisogno di parlare con mio marito
L’infermiere la fissò rapito da tanta tenacia, e bellezza.
«Va bene. Ma le do questa.»
Il ragazzo acconsentì e tirò fuori una lucida scatolina di metallo dalla tasca dei pantaloni, la aprì e con due dita, facendo molta attenzione, prese e passò nelle mani di Bulma una piccola siringa di vetro piena di liquido blu. La siringa era poco più lunga della larghezza di un palmo.
La scienziata la guardò esterrefatta.
«Una dose così può uccidere un uomo... ma non suo marito, immagino...»
Le disse l’infermiere lasciando Bulma priva di risposte. Quell’apprensione nei suoi confronti iniziava ad essere troppo insistente. E nondimeno sospetta.
Bulma aspettò, non disse nulla che poteva confermare o negare l’insinuazione. Lasciò la mano aperta e la gelida siringa sopra di essa.
«Potrà entrare solo se la porterà con sé. D’accordo?»
La scienziata fissò l’infermiere. Poi la siringa, e tornò all’infermiere.
«Mi... – le guance del ragazzo arrossirono leggermente – mi sentirò più sicuro se la avrà lei.»
Non se lo sarebbe mai aspettato, ma quello si stava prendendo una visibile cotta per lei.
Bulma annuì. Se per avere nuovamente udienza da Vegeta, doveva accettare le insolite avance di un ragazzino di circa ventitré anni, non c’era motivo di farsi altri problemi.
Il ragazzo in camice aspettò che lei nascondesse la siringa e, successivamente, le aprì la porta.

Vegeta li aveva sentiti parlare, non aveva capito cosa si fossero detti ma non gli garbava. Non gli piaceva la confidenza che quel ragazzino sembrava prendersi liberamente con la terrestre. E gli dava fastidio provare quella sensazione.

«Mi raccomando.»
Disse ancora l’infermiere, prima di richiudere la porta dopo aver lasciato che la scienziata vi entrasse nuovamente, ma armata.

Bulma si risistemò sulla sedia. Con più cautela. Forse perché sapeva di avere addosso una sostanza molto pericolosa per lei. Aveva paura che in qualche modo potesse togliersi il tappo che isolava l’ago e che questo, in un’altra inspiegabile maniera, potesse poi infilarsi nella sua candida carne, lasciando al liquido la possibilità di colare e spargersi nel suo sangue.

«... Ancora qui?»

C’era Vegeta a farle dimenticare della minacciosa siringa.

«Non avrei dovuto dire quelle parole. Mi sono lasciata andare. Perdonami...»

Scusarsi era sempre una buona scelta, e la scena muta a seguire il suo tacito assenso.

«Potresti girarti, guardarmi in faccia almeno? O non sono degna nea-»

«Terrestre, a te che importa?»

Domandò lui inaspettatamente, senza gridare e voltandosi finalmente per guardarla negli occhi. La sorprese. La sconvolse. I loro sguardi si incontravano dopo molto tempo, erano entrambi tristi e riflettevano il medesimo specchio rotto, con le stesse nubi sospese che si erano lasciati alle spalle più un mese fa. 

«Che intendi?»

Bulma avvertì un singulto allo stomaco.
Vegeta sospirò pesantemente, tanto quanto gli era permesso dai suoi polmoni malati.
Ripetersi non gli era mai piaciuto, dovette sforzarsi parecchio.

«Se io sono qui, a te che importa?»

Ad ogni parola la mascherina si appannava generando tracce del suo respiro stanco.
Bulma raccattò i pensieri sparsi dappertutto in quella stanza, come resti di meteoriti smembrati dopo un forte impatto.
Aveva gli occhi annegati in quelli scuri del saiyan.
Stava tornando il desio.

Come se tu non lo sapessi... 

«Non voglio vederti rischiare la vita... È anche colpa mia se tu sei qui, quelle macchine avrebbero dovuto funzionare diversamente.»

Era la verità. Una parte della verità. Ma non abbastanza per Vegeta.

«Non stai rispondendo alla mia domanda... Se io morissi a te che importerebbe? Cosa vuoi da me?»

Lui andò più a fondo. La stava mettendo alla prova. Ed era sleale.
Bulma temporeggiò ancora, senza rispondere, pensando che quella situazione non le era nuova. Ci erano già passati e lei ne era uscita sconfitta ed illusa.

«Te lo domando per l’ennesima volta perché di qualunque cosa si tratti... guardami: non ho nulla da darti.»

Era insolitamente... rassegnato? 
Bulma non lo aveva mai sentito parlare così. C’era un diverso accento. Forse, veramente, iniziava ad intravedersi quel cuore, sicuramente vivo e caldo, che era stato nascosto nell’atroce e tenebroso abisso in cui lui lo aveva annegato.
Sì, non aveva nulla da darle. Apparentemente. Ma lei avrebbe trovato il modo di prenderselo. Anche a costo di scavare a mani nude nell'oscurità.

«Sì, niente dovrebbe importarmi di te, è vero-», «Perfetto, non hai motivo di stare qui – lui le impedì di finire, sembrava offeso adesso – tornatene a casa, vattene dai tuoi amici terrestri, raggiungi Kakaroth... Lasciami solo. Non ho tempo da per-»
«Ne ho abbastanza!», fu lei stavolta ad interromperlo. «Smettila di decidere al mio posto! Non provare a ripetermi che sei il Principe dei Saiyan e io una terrestre... come fosse un problema, non lo fare.»

Disse solenne, però invasa dal cordoglio; e colta da un forte slancio, desiderosa di cancellare i loro ruoli antagonisti e la differenza di razza, accorciando ogni distanza, Bulma si sbilanciò verso di lui arrivando a posare la mano su quella del saiyan.

«Mi importa di te, è qui che voglio stare, Vegeta. Qui! Perché tu... Tu sei caro a me

Quelle parole lo stordirono.
Vegeta  abbassò lo sguardo sulle loro mani, si stavano sfiorando. E
rano più vicini di quanto lui le avesse permesso.
E la loro pelle a contatto si rivelava essere la superficie scabra di un profondo ardore.
Bulma fece lo stesso seguendo gli occhi di Vegeta. Se ne rese conto anche lei. 
Ebbe paura del gesto scappato al proprio controllo. Provò a togliere la mano, ma Vegeta non le permise di farlo. 

«Attenta a quel che dici»

Le sussurrò lui, senza smettere di osservarla, senza lasciarla. Serissimo e letale.

«Posso farti del male. Ricordi? Te l’ho già fatto.»

«Starò attenta. Non ho paura, te l’ho già detto

«Eppure la tua voce trema quando ti avvicini a me.»

«Non trema di paura.»

«E se io non li condividessi i tuoi sentimenti?»

La guardava fisso, quasi la stesse misurando, pronto a smascherarla qualora tentasse di compiere un passo falso.

«In tal caso, non sarebbe un tuo problema.»

Vegeta non sorrise, ma gli piacque la risposta.

«Aiutami a togliere questa.»

Le disse, lasciandole la mano per concederle di aiutarlo; abbandonandola sospesa sulla constatazione di essersi dichiarata, liberata senza possibilità di tornare indietro. Con lui non si poteva.

«Come farai a respirare se... ?», gli domandò lei, che non vedeva buona la scelta di rimuovere una fonte certa di ossigeno.

«Toglimela!»

Insisté il saiyan deciso.
Bulma non indugiò ulteriormente, fece come le era stato detto onde evitargli un’altra crisi.
Quei laccetti erano stati stretti tanto da solcare la pelle fino a fargli venire i lividi. Doveva essere stato un animale chi gli aveva fatto una simile cortesia.

Liberato della museruola, Vegeta fu presto percorso da un rapido sollievo; avvertì subito l’effluvio dolce di lei.
Da parte sua, la scienziata poté rivedere il profilo affilato del saiyan, con una leggera ombreggiatura di barba su mento e guance che non guastava la vista. E le labbra. Facili. Non più dietro una barriera ma pericolosamente accessibili.

«Va meglio, Vegeta?», domandò, timidamente.

Il saiyan tornò a fissarla. Si tese provando ad alzarsi, non riconosceva il suo corpo, la sua forza non accennava a tornare. Era ancora impossibilitato a muoversi.

«Avvicinati, come hai fatto prima.»

Le ordinò mandandola letteralmente in panne.
Bulma non sapeva dove mettere le mani. Lui era strano. E lo slancio che lei aveva avuto poco prima era sparito completamente.

Che mi succede?
Sto tremando?
Ha ragione lui, ho paura... che devo fare?


«Avvicinati.»

Ripeté Vegeta.
L’esito di quella richiesta era a lei chiarissimo e la sconquassava, proprio ora che stava accadendo non sapeva se desiderarlo veramente. 

Forse dovrei togliermi le scarpe, prima.
Non voglio sporcare le lenzuola.

Poggiò leggera una mano sul letto; timorosa delle prossime conseguenze; Vegeta la catturò, attirandola a sé, di nuovo, con tutta la possibile veemenza che riuscì a metterci. Facendosi male a causa di un ago che per l’avventato movimento finì per staccarsi facendogli uscire un copioso rivolo di sangue giù per il polso.
Bulma lo guardava spaesta, a pochi centimetri dal suo viso, appoggiata appena al suo petto. Le era mancata quella situazione di prigionia, si scoprì vergognosamente in astinenza di lui. Il sangue del saiyan le scorreva caldo sulla pelle.
La penetrò con lo sguardo, poi parlò.

«... Non so se ho davvero bisogno di te, Bulma.»

Pronunciò il suo nome.
Lei avvertì un forte senso di vuoto, quasi fosse in caduta libera e il suo cuore avesse deciso di migrare verso la gola per scappare via.

Vegeta l’aveva sempre saputo, la terrestre era lì a offrirgli l’anima, e lui non riusciva a non approfittarne per infilarci dentro le lame di ferro della propria spietatezza. E non poteva continuare a far finta che non lo fosse, era attratto da lei. Stregato dalla forza misteriosa e dal coraggio che quella donna  mostrava avere nei suoi confronti. Totalmente ammaliato dagli insensati sinceri sentimenti che la terrestre nutriva per lui e che vedeva riflessi nei delicati e specchianti occhi chiari. 

Non la baciò, non la toccò, non più di quanto aveva già fatto.
La respinse quando sentì qualcuno avvicinarsi veloce alla porta ed irrompere nella stanza.

«Deve andarsene da qui, ora!»

Era l’infermiere, arrivò sudato e in fibrillazione.
La scienziata era ancora aggrappata alle parole del saiyan, dispersa nel suo sguardo.
«Mi sta ascoltando, Signora? Non può più stare qui, mi segua!»
L’infermiere afferrò Bulma per un braccio, con l’intenzione di volerla strattonare lontano dal mostro.
Vegeta lo guardò come volesse scannarlo, e non perché le mani del ragazzino erano addosso a Bulma, ma perché lo schifoso lo aveva interrotto e continuava a insinuarsi nella sua camera come un ratto...

Ratto...

Il pensiero lo fece trasalire, ebbe una sorta di déjà vu.
Un ratto, mentre lui era in coma... Stava rimembrando qualcosa, ma non riusciva a mettere bene a fuoco i ricordi confusi.

«Un attimo, cosa sta succedendo?! Mi lasci!»
Bulma tornò in sé.

«Non ho tempo per spiegarle, dobbiamo visitare il paziente e fare altri accertamenti, non può rimanere qui. La accompagno nella sala d’attesa. Non si preoccupi, la chiamerò quando potrà tornare da suo marito!»

Marito?

Vegeta venne scosso quasi avesse sentito un boato. Questa la terrestre avrebbe dovuto spiegargliela. Ma la vide sparire troppo velocemente  per guardarla un’ultima volta negli occhi. L’infermiere la portò con sé, lontano da lui.

 

 

Continua…

Note:

1. Innanzitutto, scusatemi per il ritardo prima di questa pubblicazione. Veramente grazie per la vostra pazienza. Ero indecisa se prolungare il capitolo, ma è meglio averlo completato in questo modo. Altrimenti troppa carne al fuoco.

2. Westkong Hospital: non me lo sono inventato, questo ospedale esiste davvero, andate a rileggere il manga nel momento in cui Goku, dal luogo in cui ha combattuto con Vegeta, viene portato in ospedale. Akira ci presenta, usando sempre la stessa vignetta con vista da lontano o più ravvicinata per circa tre quattro volte, questo edificio dal nome We--kong Hospital, dove la S e la T mancanti sono coperte da una struttura architettonica utile a sorreggere una sopraelevata. Se due più due fa quattro, e Goku si trova nella città dell’ovest ecco fatto: Westkong Hospital.

Quello inventato è l’Ospedale Generale.

3. Anche il dottore del Westkong Hopsital esiste nel suo breve cameo per soccorrere Goku.

4. Sì, il padre di Bulma sa dell’esistenza dei senzu. Non me lo sono inventato. Dice parlando a Goku: «sei già guarito?! Allora i senzu hanno un’efficacia davvero meravigliosa!»

5. Se ricordate nel capitolo settimo, Bulma va all’ospedale per farsi ricucire.

6. Mi farebbe piacere leggere un vostro parere, sperando vi vada di lasciarlo e abbiate il tempo di farlo. Grazie per avere letto il capitolo.

7. Il disegno lo pubblicherò più avanti. Pubblicato  il 17 luglio 2020
8. Alcune battute di Vegeta contro Bulma le ho prese a mio gusto e modificate a mio gusto dall'Anime.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI: Rottweiler idrofobi e bambine che li salvano.  ***


Per chi se lo fosse perso: c'è un nuovo disegno a fine capitolo. Divertente, da vedere. ^^


Standby

 

Capitolo XI - Rottweiler idrofobi e bambine che li salvano. 

 

 

A stomaco vuoto solo dolore e saliva si rendevano incontenibili.

“Signora, lei è una donna molto intelligente. Sono sicuro che saprà comprendere perché ho scelto di invitarla qui, nel mio studio.”

Bulma cercò di espellere il vuoto dalle sue viscere. Era arrivata a raschiare il fondo dello stomaco. La bile nera galleggiava ripugnante sotto i suoi occhi.

“Non le sto facendo un torto né un tentativo di estorsione ma, come sa, una mano lava l’altra e a fronte della precaria e scomoda situazione di suo marito e di quanto le ho mostrato in quel video, per il quale non voglio assolutamente far parola alla polizia o crearle altri problemi con la stampa... Vede, capisco quanto possa essere complicato tenersi fuori dai riflettori di quegli ignavi seccatori...”

Si alzò in piedi, le girava la testa. Un sapore disgustoso inondava la sua bocca. Aprì il rubinetto per rinfrescarsi il viso e sciacquare via il gusto acido dei succhi gastrici.
Schizzi d’acqua le bagnarono il cardigan rosso e irrorarono di piccole gocce alcune carte poste accanto al lavabo. La scienziata si preoccupò di spostarle.

“Ho qui i documenti che dovrà firmare. È l’accordo con il quale la Capsule Corporation si impegnerà, coprendo ogni tipo di spesa e fornendo la tecnologia necessaria e più all’avanguardia, per portare avanti alcune nostre specifiche ricerche. In cambio, suo marito continuerà a ricevere la dovuta assistenza e nulla di quanto accaduto a lui e al nostro personale medico verrà reso pubblico o denunciato da terze parti. Avrà la totale protezione della nostra struttura sanitaria.”

Arrotolò i fogli e col dorso della mano s’asciugò l’acqua al lato della bocca.

Ti sei fatta fregare.

Non era lui, non posso crederci.
Tu non vuoi crederci. Hai visto con quale velocità si muoveva, le videocamere di sorveglianza hanno ripreso appena la sua immagine.
Non era Yamcha. Lui non arriverebbe mai a...
Perché no? Il motivo glielo hai servito tu stessa, un cadeau da appendere sulla testa. L’hai fatto arrabbiare.
Doveva prendersela con me.
Ci ha già provato, se non fosse arrivato l’infermiere... Potrebbe riprovarci.
Lui non è un assassino.
Ma è un uomo che hai fatto impazzire.
E poi, sarebbe un problema avere a che fare con un altro omicida?

Avrebbe potuto infilare la testa in un tritacarne e le avrebbe fatto meno male di quanto in quel momento sentisse il suo cranio comprimerle il cervello.

“Il personale infermieristico ha confermato che chi si è intrufolato nel nostro ospedale possa essere la stessa persona che era stata vista insieme a lei la sera del ricovero di suo marito... Dalla sua reazione, Signora, credo che lei conosca bene quella persona, ma non voglio indagare. Sappia solo che per il momento, suo marito sarà trasferito in un reparto diverso, lo metteremo in isolamento finché non si sarà totalmente ripreso. Attualmente, potrebbe essere a rischio di ricadute, sa, il suo sangue non si è perfettamente depurato dalle tossine e le complicanze a livello respiratorio sono ancora presenti.”

La comprensione di Bulma non riusciva ad ingurgitare alcuna delle verità scoperte.
Almeno, uno tra i sospetti che aveva avuto si era rivelato esatto: il primario dell’Ospedale Generale era un uomo losco e truffaldino.

Dicesi criminale.

Dopo essere stata allontanata da Vegeta, l’infermiere l’aveva lasciata per un paio di ore nella sala d’attesa prima di tornare e rivelarle che il primario truffaldino desiderava riceverla.
Era rimasta disgustata dal discorso, dall’opportunismo sfacciato e dall’averlo visto tanto sicuro di sé, così convinto che lei avrebbe venduto facilmente l’azienda di suo padre in cambio del silenzio e dell’incolumità di Vegeta.

Schifoso.

Aveva tante domande, in numero sufficiente per gremire una piazza, e sarebbe stata una folla di rivoltosi perché erano domande irrequiete.
Dove era finito Yamcha? Doveva chiedergli spiegazioni, non poteva credere che fosse arrivato a tanto; epperò, l’idea di cercarlo l’angustiava. La ferita era troppo fresca, ci voleva tempo, almeno per far calmare le acque...

Ha provato a ucciderlo.

Questo la faceva vomitare. Più del viscido medico ricattatore.

E perché non le era stato mostrato il video subito? E per quale motivo i medici avevano deciso di spostare Vegeta in un altro luogo dell’ospedale ora che il saiyan aveva ripreso conoscenza e non immediatamente dopo l’aggressione escogitata dal suo ex?
Oltre alle domande, c'era un’impressione: a parte il volerla incastrare, il primario aveva mire granguignolesche. Voleva fare del male a Vegeta. Ne era certa.

Uscì dal bagno della sua camera. Era tornata alla Capsule Corporation, le avevano impedito di rimanere in ospedale. Ad ogni modo, era tornata per trovare una risoluzione al complesso pasticcio in cui erano finiti lei e il saiyan.

Questo è il da farsi: lo porterai via da lì. Se il dottore idiota proverà a minacciarti, Vegeta lo sistemerà come merita.

Vegeta non si regge in piedi.

Voleva strillare. Piangere. Aveva bisogno di aiuto e non poteva rivolgersi a nessuno. Gli amici erano fuori discussione, nessuno si sarebbe mai proposto di soccorrerla se la persona da salvare fosse stata il saiyan.
La scienziata poteva francamente risparmiarsi il loro sdegno, ne aveva già fatto incetta a casa del Genio.

Forse Goku...

Lui sarebbe potuto intervenire, sicuramente non le avrebbe negato la mano.

Vegeta vi ucciderebbe entrambi. Togliti dalla testa questa scemenza.

Sì, sarebbe stata un’idiozia coinvolgerlo. Il perché era evidente, le bastava ripensare con quale livore Vegeta le aveva sputato addosso il nome dell'amico in lingua saiyan.
Circolava troppo odio nel principe. Un rancore patologico che lei stessa non avrebbe saputo come affrontare. E non immaginava quanto questo rancore avrebbe nel tempo segnato le loro esistenze.

Al diavolo tutti!
Posso farcela da sola.

Si recò in laboratorio, dove suo padre le aveva detto di aver sistemato il vaso di terra di Karin.

Sarà sufficiente?

Si chiese, osservando un esile gambo verde che si ergeva contorto per circa una ventina di centimetri. Al suo alto apice, un baccello oblungo del medesimo colore accoglieva una visibile protuberanza. La pianta di senzu aveva dato il suo frutto, ma a Bulma sembrava troppo piccolo: era corto quanto la metà di una falange del suo dito mignolo. Ancora acerbo, probabilmente. Forse non avrebbe funzionato o sarebbe stato molto meno taumaturgico di quanto previsto.
Non poteva coglierlo. Con la paura di sprecare inutilmente un’ottima chance per far guarire Vegeta, lasciò il senzu all’interno del protettivo baccello. La strada da percorre si stava delineando essere un’altra.

 

 

 

~ ~ ~

 

 

Due giorni dopo l’incidente. Otto ore prima del risveglio di Vegeta.


 

«Prego, si accomodi.»

Invitato a sedersi, il dottore appena venuto dal Westkong Hospital, dopo un lieve imbarazzo, del genere che prende alle gote, che dà ad esse una fastidiosissima sfumatura rubiconda per poi allargarsi fino a rendere la persona  che ne è affetta un inutile pacchiano soprammobile messo malamente al centro del più sobrio e ordinato tavolo di gabinetto tra potenti;  dopo essersi sentito così, il dottore decise di prendere posto. Sollevò indietro la sedia, piccola e leggera rispetto alla monumentale poltrona di pelle del primario. Accomodatosi, il dottore continuò a sentirsi superflua suppellettile.
La brillante carriera del collega che aveva dinanzi a sé trasudava mostruosa abilità a partire dalle pareti. Ogni titolo di studio, certificato, dottorato, premio per la ricerca,  era tutto appeso ai chiodi, dietro lucidissimi vetri infissi in cornici dorate.
Il primario dell’Ospedale Generale aveva più esperienza, ricchezza, conoscenza, e potere rispetto all’invitato dottore che per tre volte la settimana lavorava in nosocomio e per due giorni si recava presso un piccolo studio privato operando come medico generale. Arrotondava.
«Dunque, dalla sua risposta inviatami ieri, sembra che lei ne sappia... Molto.», cominciò il primario.
«Ho avuto a che fare con questo caso un’unica volta.»
«Certo... Non ha pensato di tenersi in contatto con il paziente?»
Il modo in cui il primario gli stava parlando era equiparabile a quello di una maestra intenta a palesare al proprio alunno quanto mediocre era stato nel compito in classe, e che la sufficienza sarebbe stata un regalo fin troppo magnanimo.
«Sfortunatamente non è stato possibile, il ragazzo ci scappò sotto gli occhi... Mi prenderà per pazzo, ma non era normale.»
Il primario fissò deluso il dottorucolo dinanzi a lui. Lo sguardo era di maestra cattiva.
«Ha con sé la cartella clinica del paziente?», domandò. Cercava la giustificazione per i compiti non fatti.
Sopraffatto da altra sbadataggine, il dottore tirò fuori a fatica i fogli freschi di stampa a toner.
«Le confesso di avere ancora dei grossi dubbi su chi in realtà fosse quel ragazzo... » disse, stringendo ancora i documenti tra le dita. Era un dato privato quello che il dottore stava per condividere. Non avrebbe dovuto farlo.
«Ricorda il forte terremoto e la scomparsa della Città dell’Est di circa due anni fa? Sul luogo venne identificata una sorta di sfera, un’astronave proveniente dallo spazio... Le autorità confermarono che eravamo stati attaccati dagli alieni. Ecco, il ragazzo, proprio perché le dicevo che non era normale, ha combattuto contro di loro e... E temo potrebbe ancora avere a che fare con questi extraterrestri.»
«Sì, sì – fece il primario, senza degnare di importanza quanto detto dal dottorucolo; l’unica cosa che voleva era mettere le zampe su quei vecchi referti – mi faccia vedere.», lo esortò a mollare la presa. E il dottore lasciò.
Il primario andò subito a vedere la composizione sanguigna riportata dalle analisi. Accorgendosi che erano identici, il sangue del suo paziente e di quello riportato su carta, cominciò a schiacciare spasmodicamente una penna rossa a scatto. Azione inquieta che dava da sudar freddo al povero dottore.
«Sì, non ci sono dubbi. Sono uguali.», affermò il medico primario.
«Non mi ha detto chi è il vostro paziente, parliamo della stessa persona, quindi?», volle sapere il dottorucolo.
Il primario tornò indietro, all’inizio del plico di fogli. Effettivamente, aveva dimenticato di vedere l’identità dell’individuo che era stato ricoverato al Westkong Hospital.
Riprese la prima pagina e guardando il nome e la foto impressa sulla carta, venne colto da un guizzo di orba rabbia: spezzò la penna, sdegnato.
Il dottorucolo sobbalzò. La maestra aveva rotto la bacchetta.
«C’è...  C’è qualcosa che non va?»
«Affatto no.»
«Quindi, si tratta dello stesso paziente? Voglio dire, il mio paziente è il suo attuale paziente?»
Il primario sorrise, mostrò le gengive scure: «Mi spiace. Non so proprio chi sia questo Son Goku.»
«Bene! Significa che abbiamo un donatore! Se riuscissimo a rintracciarlo, otterremmo sangue per il suo paziente!»
«Non ce n’è bisogno – replicò il primario, soverchiando totalmente il piccolo impotente dottore –  Il problema della trasfusione lo stiamo risolvendo in altro modo. La ringrazio per essere venuto. Le chiedo solo di lasciarmi una copia del referto, ed immagino che questa lo sia perché non ha il timbro originale del vostro ospedale.  Servirà per i nostri studi. È stato davvero esauriente e indispensabile, la ringrazio per il contributo, collega.»
«Ma è sicuro che non vuole-»
«La accompagno alla porta, per qualsiasi evenienza ora sappiamo a chi rivolgerci, la contatteremo se dovessimo avere bisogno di lei. Ora, se permette, devo iniziare i miei turni di visita.»
Il dottore venne impedito e non poté aggiungere altra opinione. Non chiese nemmeno di essere ricompensato per quelle preziose carte. La maestra lo aveva promosso per rimuoverlo e allontanarlo.

Son Goku, cancellasti la gloria della mia carriera. La potenza del nostro esercito. Saperti vivo e sapere che esistono vermi simili a te, mi ricorda che il tempo della vendetta è vicino.

 

 

 

~ ~ ~

 

 

Piano Sandwich: libera interpretazione di un tentativo di fuga... e di conquista.


 

Spinse veloce l’ultimo bottone nell’asola. Il décolleté della camicetta lasciava comunque intravedere l’erotico fiordo segnato dai seni su cui molti uomini avevano insinuato lo sguardo desiderando esplorarlo.
La camicetta era di color minio chiaro. La scollatura un probabile mezzo di corruzione, se si fosse presentata l’occasione.
Si passò un filo di rossetto ispessendo il contorno delle labbra. 
Con il contratto nella borsa, e i sei sandwich sistemati nel sacchetto appeso alla piega del gomito, Bulma si presentò in ospedale preparata alla guerra: il Principe dei Saiyan era suo, lei sarebbe stata la donna che lo avrebbe salvato.
Credici Bulma, credici.
L’obiettivo principale era individuare la nuova stanza in cui avevano parcheggiato Vegeta.
Tornò alla sala d’attesa del vecchio reparto e lì incontrò chi sperava di vedere.
«Buongiorno, Signora Brief!», la accolse l’infermiere circa ventitreenne e ancora di turno.
«Buongiorno, sono venuta a far visita a mio marito.»
Iniziava a prenderci gusto,  mio marito stava diventando un piacevole vezzo; peccato avrebbe dovuto presto abbandonarlo, o forse no.
Il ragazzo si mostrò fugacemente smarrito. Poco dopo, provò a spiegarsi: «Non sa che suo marito non è più qui?»
Antipatico guastafeste.
«Ho parlato con il Primario. So che è stato trasferito! Ma vorrei vederlo. Lei può indicarmi la strada?»
«In verità, questo non posso farlo. Mi spiace.  Ora è necessario avere un permesso speciale concesso direttamente dal responsabile sanitario. Il primario non la ha informata?»
No, nessuno me lo aveva reso noto. Il tuo capo si è impegnato tanto a farmi capire che è un delinquente e il mio ex un potenziale omicida, che probabilmente questa autorizzazione se la sarà scordata.
Ma grazie mille per l’informazione.
«Assolutamente sì! – finse – però, prima di scomodare il “responsabile sanitario”, perché immagino ci voglia tempo, non si potrebbe fare una piccola eccezione? Sono pur sempre la moglie e poi vede, ho qui un pensierino per lui.»
Alzò il sacchetto ecologico per farlo vedere all’infermiere e agli altri due colleghi presenti in sala.
«È stato il primo desiderio che ha avuto appena si è svegliato, davvero, mangiare degli irresistibili panini con tanto formaggio!»
Gli infermieri rimasero attoniti. Per colmare il silenzio castrante, Bulma continuò a raccontare la sua storia.
«Ascoltatemi, se non lo sfamate come si deve, se non gli date da mangiare a sufficienza, dovreste cominciare a preoccuparvi per la vostra incolumità. Dico veramente.»
E s’era fatta molto seria.
Appoggiò un braccio sul bordo della scrivania alta dietro cui l’infermiere la guardava spaesato. Si avvicinò di più a lui per rendersi maggiormente convincente, sfruttando il magnetismo intenso del proprio sguardo.
Gli altri due medici presenti la fissarono curiosi e sorpresi. Non capivano se quella ragazza stesse facendo sul serio o stesse scherzando come sembrava. L’unico che poteva bersela era il giovane infermiere, il quale conosceva il caso da cima a fondo.
«... Signora Brief, lei sa perché sono state prese queste misure precauzionali. Mi spiace ripeterle che assolutamente non possiamo farla passare priva di autorizzazione e tanto meno possiamo somministrare ai nostri pazienti cibo che non proviene da-»
«Senti ragazzino! – Bulma fece qualcosa di cui non si sarebbe mai creduta capace: vicinissima all’infermiere, lo afferrò per il colletto della divisa, come una teppista, e lo spinse verso di sé – questo non è un gioco.»
Abbassò la voce, gli sussurrava alle orecchie. Ai colleghi parve soltanto che i due se la intendessero come due vecchi conoscenti.
«Ora tu mi farai entrare e mi porterai da mio marito. Sto già pagando le spese di un accordo che puzza di ricatto,  redatto proprio dal tuo simpatico e disponibilissimo primario. Ho qui le carte firmate, penso quindi di meritare di passare senza chiedere ulteriori permessi. E poi... Scommetto tu non voglia fare la fine dei tuoi colleghi finiti sotto i ferri, giusto?»
Con questa, gli mise addosso una bella paura.
«Quando lui si riprenderà, perché si riprenderà, fossi in te mi toglierei dalla sua lista nera. Ricordi? Per ucciderlo non basterebbe neanche una dose di quella schifezza che mi hai lasciato ieri. Ma per uccidere voi, a lui basterebbe muovere un dito. Se vogliamo evitare la strage, facciamo che adesso tu mi aiuti, ok?»
Si stava divertendo a spargere terrore sfruttando la temibile reputazione del saiyan. Farlo le infondeva una soddisfacente sicurezza. E chi avrebbe potuto contraddirla? L’infermiere, fortunatamente, si dimostrò abbastanza perspicace:
«V-va bene, Signora, la accompagno, ma dopo andremo insieme a richiedere l’autorizzazione per lei, mi segua.»

 

Passato un altro corridoio e l’ennesima porta, aperta con un badge che il ragazzo appoggiava su un apposito lettore, i due raggiunsero la camera del saiyan.
Se da una parte le faceva piacere vedere come si fossero attrezzati per metterlo al sicuro, in gabbia, dall’altra vedeva quanto tutto fosse completamente inutile. Se Yamcha avesse voluto ritentare la bravata, una porta o due non lo avrebbero fermato. Non era forte come un saiyan ma era uno dei più potenti guerrieri della Terra.
Quella sorta di prigione, invero, era un impedimento solo per lei. Non sarebbe stato facile farlo uscire da lì, legalmente.


«Siamo arrivati... Mi-mi prometta che non farà nulla di strano!»
«Tranquillo, non scapperò. Dopo dovrai accompagnarmi dal capo, no?»
L’infermiere annuì, era d’accordo anche se per nulla calmo.
«Le apro la porta.»
«No, aspetta! – di punto in bianco, Bulma perse ogni aggressiva certezza – Come sta? È sveglio? Si muove?»

Riesce a essere il solito avvenente scorbutico testone?

«Stabile.»
«Che significa?»
«Cosciente ma ancora non in grado di alzarsi.»
«Ah... Be’, non rimanere fermo, apri la porta!»
Disse la scienziata, riacchiappando risolutezza.
«La aspetterò fuori.»

 

Il posto era poco più grande della precedente stanza e perennemente privo di finestre. Da sicura claustrofobia.
Un miglioramento però c’era stato: dalla mascherina erano passati alle cannule nasali. Beh, potevano almeno evitare di tenerle ferme con tutto quel nastro adesivo. Così le sembrava di avere a che fare con un collage vivente.
«Vegeta, mi senti?»
Il saiyan aprì gli occhi appena la sentì parlare. Le sembrò troppo docile e malconcio. Non ancora guarito, forse peggiorato.
«... Sei tornata? Non hai nulla da fare?»
Gli sviluppi tra loro però andavano squisitamente oltre ogni immaginabile aspettativa: addirittura le parlava senza che lei dovesse cavargli le parole di bocca! Certo, un’accoglienza mandata avanti con i piedi, ma stavano facendo progressi.
«Anche tu non mi sembri così impegnato.»
«Non significa che io voglia passare il mio tempo con te.»
«Cambierai idea.»
Si mosse disinvolta: tolse il cappotto di pelliccia sintetica che indossava e, in quel bianco invadente che li attorniava, la sua camicia calda spiccò come un piccolo accecante sole mattutino. Anche lui sembrò notare l’effetto sole nascente e le punte dei seni visibili come due minuscoli ricami sartoriali, sui quali la seta della camicia s’ancorava creando quelle grinze che davano più forma alle sinuosità della scienziata.
Ma Bulma, sotto sotto, era tesa come la corda di un arco che stava per scoccare la sua freccia.
Non aveva avuto il tempo per assimilare quanto era accaduto tra loro che, prima i medici e poi l’infelice scoperta su Yamcha, l’avevano strappata dalle braccia del saiyan.

I tuoi occhi... Ho visto l’abisso nel tuo sguardo, dicevi il mio nome, mi guardavi, mi divoravi.
Voglio rivedere quell’abisso.
Mostramelo ancora.

Scartò i panini di fronte a lui e il rumore crepitante della carta accartocciò i suoi pensieri suadenti.
Fece attenzione a non sporcarsi, girò il tovagliolo attorno a un sandwich evitando così di far scappare il cibo. L’odore di prelibatezze cotte e speziate si espanse come un’esplosione di polline a primavera.
«Questi sono per te, li ho preparati io», disse, orgogliosa del suo impegno.
«Che cosa pensi di fare?», Vegeta era molto più concreto di quanto lei stesse comportandosi.
«Nutrirti.» disse, abbondando di pura e ingenua volontà.

Anche l’assassino più minaccioso dell’universo deve mangiare, alla faccia di voi che lo odiate e lo volete morto.

Farlo ti fa sentire potente?

Sì.

Perché sei una squilibrata. Dovresti pensare a come farlo evadere prima che la situazione si complichi. No trastullarti di assurde manie.

Sì, dopo.

Dopo?

Dopo.

Adesso non interrompeteci. 

Dobbiamo mangiare.


Bulma osò, voleva tornare ad avere le redini del cavallo del re. Senza paura, senza tremare. Si sedette direttamente sul letto – poteva farlo oramai, o così credeva – favorendo al saiyan la vista del suo décolleté. Ma questo non lo fece apposta, essere carina non era una colpa da poterlesi additare.

È record! In poche ore sei passata a saltare sul suo materasso. Prossima mossa un su e giù veloce con lui? Magari in ospedale?

«Sei impazzita?»
Sì, digli sì.
Vegeta non era abituato a certe confidenze, specie se non era lui ad elargirle.
«Apri la bocca.» disse Bulma.
«Non scherzare.»
Oggi lo pensano tutti.
«Non lo faccio, ti sto solo dimostrando che hai bisogno di me. Ieri dicevi di non esserne sicuro... »
Vuoi approfittarti di un uomo malato?
Lo vizio.
Se avesse la sua forza te lo sogneresti di guardarlo dall’alto verso il basso.
Strappò con le dita un pezzo di sandwich e allungò la mano verso la bocca di Vegeta.
Lui ammutolì. Che si era messa in testa di fare?
«Prima mangi, prima ti riprenderai. Avanti, non credo tu vada pazzo per ciò che ti rifila l’ospedale?... Guarda che non voglio avvelenarti!»
Insistette, sporgendosi maggiormente verso il saiyan.  Il petto le si abbassava ed alzava seguendo il moto della respirazione e i seni sporgevano avanti, sopra l’argine di un merletto blu. Un panorama gratuito. Lo stava innervosendo. Se credeva di poterlo irretire stava commettendo un brutto errore.
Vegeta le bloccò il polso a metà strada, prima che le dita della terrestre si avvicinassero troppo alla sue labbra, e i seni alla sua faccia.
Bulma sbiancò vedendolo inasprirsi. Non era quello che si era aspettata di ottenere.

Te lo sei scelto psicopatico, ora che vuoi?

Aveva insistito troppo: voler dar da mangiare il suo zuccheroso lecca-lecca al rottweiler incazzato, e digiuno di carne cruda, era stata una pessima trovata. Adesso, il cane idrofobo avrebbe potuto staccarle la mano a morsi.

Un tocco di salsa rosa, dopo essere rimasto sospeso a lungo aggrappato come poteva alla viscida insalata, colò sul petto nudo del saiyan.
«Ti pulisco subito.» fece lei, arrabattandosi in cerca di altri tovaglioli.
L’aveva arginata.
Vegeta mollò la presa. Lei si sentì una idiota.
Gli pulì via la salsa appiccicosa. Dopo, tornò a guardarlo, ma non sedeva più sul letto accanto a lui. Era scesa dalla sella. Niente cavalcata selvaggia.

«Non sopporto vederti qui, speravo di farti recuperare le energie facendoti tornare l’appetito. Voi saiyan avete sempre molta fame, no? – Vegeta non disse nulla – Ok, volevo solo essere gentile. Ti lascio i sandwich, mangiali. Sono buoni, sicuramente più di quello che ti propina l'ospedale .... – ancora silenzio – Bene, me ne vado.»
«Non sei obbligata. Posso fare a meno della tua gentilezza.»
Eccoci, alle solite.
«Consideralo un piacere che faccio a me stessa. Tu non c’entri nulla.»
Bulma prese la borsa, se ne stava andando.
«Terrestre»
La chiamò, lei si era già diretta in direzione della porta e gli dava le spalle.
Non mi piace quando non mi chiami per nome.
La scienziata non accennò a fermarsi.
«Bulma»
Ora ragioniamo. Tutta tua, Principe.
«Cosa?»
Si voltò verso di lui con la più bella faccia da schiaffi imbellettata che possedeva e gli occhi adoranti che la tradivano.

«Non sono tuo marito.»

E lo schiaffo le arrivò.
Da chi poteva averlo sentito? L’infermiere, certamente.
Bulma divenne rossa scarlatta, bruciando rapida come pellicola al nitrato di cellulosa.
«Certo che non lo sei! Ma tu cerca di stare al gioco. È l’unico modo che ho per starti vicina, altrimenti non mi farebbero entrare.»
Vegeta parve rifletterci.
«Ricordati cosa hai detto», aggiunse dopo.
«Ora non ti capisco, di che parli?»
«Quello che provi, resta un tuo problema, non coinvolgermi.»


Forse abbandonarti in compagnia del primario non è poi una così brutta idea. Dopotutto.

 

 

 

~ ~ ~

 

 

L’infermiere aveva guidato Bulma verso l’ufficio del responsabile sanitario per ottenere l’inutile foglio di via.

La scienziata sedeva ora in attesa nell’anticamera adiacente allo studio. L’infermiere invece era rimasto fuori, chiamato in reparto per una urgenza. Le aveva detto che sarebbe tornato per riaccompagnarla verso l’uscita dall’ospedale. La imbestialiva quell’esasperato controllo.

Bene, Bulma, ripassiamo il discorso.

T
irò fuori il contratto dalla borsa. Anche se aveva detto di averlo già firmato, in realtà, non vi aveva apposto alcuna firma. Mai lo avrebbe fatto senza aver prima capito e pattuito alcuni dettagli con il primario. Innanzitutto, voleva sapere quali sarebbero state le ricerche da finanziare; e inoltre, erano da ritrattare la durata e i costi del trattamento. Come ad esempio l’impegnarsi ad esaudire le richieste dell’ospedale a patto che suo marito venisse dimesso sano e in tempi ragionevoli decisi da lei stessa. Non più di due settimane. Margine scelto non a caso: era perfetto per non dare adito a sospetti e permettere al senzu di maturare quanto bastava. Dopodiché ci avrebbe pensato il saiyan a fare il resto. Se fosse stato necessario.

La scienziata aveva personalmente scritto un altro accordo da far vidimare al primario, una garanzia sulla garanzia. E se si fosse mostrato restio a collaborare, lei aveva già un altro asso nella manica che il dottore non avrebbe potuto rifiutare: Bulma avrebbe triplicato l’ammontare dei fondi previsti. A patto che si accettassero anche le sue di condizioni. Dopo, avrebbe pensato a come recuperare i soldi che si stava facendo estorcere di sua volontà.

Vedremo chi è il genio.

Trascorse un’oretta. Dalla porta chiusa davanti a sé non era venuto nessuno a chiamarla.
Stufa, si alzò in piedi e andò a bussare.
«Scusate, è permesso? Sono la Signora Brief!»
Non ricevette risposta e poiché aveva esaurito anche le riserve di pazienza, aprì la porta.
L’ufficio era vuoto. C’era un computer acceso sulla scrivania e la finestra era aperta. Lei si azzardò ad entrare. Varcata la soglia, notò che a fianco a uno degli armadi presenti nello studio c’era un’altra porta.
Era accostata, delle voci provenivano da lì.
Si avvicinò cauta e silenziosa. Felina. E sbirciò appena cercando di carpire il discorso.
Erano due uomini a parlare. Di uno vedeva solo la schiena coperta dal camice bianco l’altro invece lo riconobbe immediatamente: era il primario.

«Le assicuro che questo ci porterà ad avere risultati incredibili.»
«Mi fido di lei, altrimenti non le avrei conferito la carica di primario. Mi raccomando però, che nulla diventi rischioso per il nostro ospedale.»
«Non c’è alcun pericolo. Il paziente è stato spostato e messo in una zona di quarantena, continueremo a somministrargli il farmaco e resterà inoffensivo. Così avremo tempo per studiarlo.»
«Ma so che si è svegliato.»
«Ha ragione, non ce lo aspettavamo, infatti è più resistente di un normale essere umano, perché come le dicevo non è un terrestre. Ovviamente, abbiamo cambiato le dosi da somministrargli. Starà buono vedrà, ho ordinato di iniettargli un anestetico molto potente.»
«Non lo uccida, cerchi di lasciarlo in vita.»
«Questo sa che non dipenderà da me, però pare sia un osso duro.»
«Bene. E la Signora Brief?»
«Di questo non si preoccupi, ho già sistemato anche la ragazza, la Capsule Corporation pagherà ogni spesa.»

Un rumore inatteso interruppe la conversazione tra i due uomini. Pareva provenisse dalla stanza accanto. Il primario andò a controllare. Non trovò nessuno. Solo una finestra aperta dalla quale il vento entrava e soffiava su alcune carte sistemate sopra la scrivania.

 

 

~ ~ ~

 

 

Non lo stanno curando... vogliono ammazzarlo!
Vogliono ammazzarlo!

Correva più che poteva. Aveva la vista offuscata dalle lacrime. I corridoi dell’ospedale, un lungo labirinto da cui era impossibile salvarsi.
Doveva raggiungere la camera di Vegeta. Subito. E, nel mentre, recuperare anche un badge di accesso.
Attraversò un’altra porta, salì una rampa si scale, finché le si parò davanti l’entrata del reparto di quarantena dove il saiyan stava rinchiuso. Non c’era nessuno nei paraggi.
Come posso... come-
La porta si sbloccò di fronte a lei. Ne uscì un infermiere, il suo infermiere.
«Tu!»
Lo colpì con una sberla avventandosi contro di lui.
«Bastardo, sapevi tutto! Non lo state curando lo tenete apposta così! Volete ucciderlo!»
«Signora, la prego-»
Lui tentò di calmarla cercando di tenerla ferma.
«Non toccarmi! – gridò Bulma con poco fiato in gola, aveva corso troppo – Porterò via mio marito!»
«Cosa ha in mente di fare?!»
«Esattamente quello che ho detto e non sarai tu a fermarmi!»
Il badge che le serviva lo vide appeso al collo dell’infermiere, Bulma lo staccò rubandoglielo. Scappò.
«No, Signora Brief, si fermi!»
Giunta di fronte alla camera del saiyan dovette passare più di una volta il cartellino sul lettore perché quello sembrò non leggerlo. Sbloccata l’entrata della stanza, la scienziata si precipitò dentro.
«Vegeta! Dobbiamo andarce-»
Impallidì. Il saiyan aveva gli occhi aperti, fissava il vuoto e  sembrava orribilmente morto. Era arrivata troppo tardi.
«Oh, no! Vegeta, che ti prende?!»
Cercò di smuoverlo, lui non reagì. Aveva le pupille piccole come capocchie di spillo. Sembrava aver subito un’overdose.
«È questa robaccia che ti iniettano nel sangue, vero?!»
Stravolta dal panico, prese a staccare le diverse flebo, tirando fuori gli aghi infilati nei polsi del saiyan. Gli tolse anche le cannule dal naso. E gli elettrodi attaccati al petto. Alcune macchine iniziarono a inviare segnali di allarme.
Fatti venire un’idea Bulma!
Ora! In questo momento!
«Vegeta, ti prego, torna in te!»
Lo scosse ancora. Nulla.
Si guardò intorno in cerca di un modo per fuggire.
Una sedia a rotelle!
Ne vide una vicino all’altro fianco del letto.
Provò ad aprire la carrozzina. Era inceppata. La prese a calci, si fece male al piede spezzandosi anche un’unghia della mano. Però riuscì nel suo intento.
Il più era fatto, ora doveva solo caricarci su il saiyan.
Sono una donna forte.
Accostò la carrozzina accanto al letto.
«Bene, basterà metterlo qui e scappare.»
Fu molto facile a dirsi. Non sapeva da che parte prenderlo. Lo tirò per un braccio. Era troppo, immensamente pesante per lei. 
«Lasci a me, la aiuto io.»
Qualcuno entrò nella stanza. L’infermiere l’aveva raggiunta. In mano aveva un altro badge.
Il ragazzo spense le macchine per evitare che qualcuno accorresse.
«Che vuoi fare? Non avvicinarti a lui o io-»
«Si calmi, voglio aiutarla.»
«Davvero? E come faccio a fidarmi?»
«Se avessi voluto, avrei chiamato la sicurezza e l’avrei fatta arrestare. E fino a prova contraria, non ho fatto altro che portarla da suo marito ogni volta che me lo ha chiesto, violando gli ordini a me impartiti.»
Bulma rimase asciutta di parole. Il ragazzino aveva ragione, e aveva una cotta per lei.
«Su, dobbiamo vestirlo, così desteremo meno sospetti.», disse l’infermiere che sollevò il lenzuolo e scoprì Vegeta.
Lei non vi aveva fatto caso prima: il saiyan era completamente nudo.
Si voltò da un’altra parte, una forte caldana le arrossì pure le orecchie.
«In quel mobile ci sono dei pigiami che mettiamo a disposizione per i pazienti, potrebbe prenderne uno, per favore?», ordinò l’infermiere indicando a Bulma il punto dove cercare.
Lei, senza fare storie, si sbrigò ad esaudire la richiesta. 
Non sei una verginella.
«E-eccolo, questo può andare?»
Lo passò all’infermiere allungando il braccio e tenendo il viso girato altrove. Il ragazzo la fissò dubbioso.
«Signora, però deve darmi una mano con suo marito.»
«Ce-certo, infatti che sto facendo!»
«Va bene, mentre io lo sollevo per le spalle lei cerchi di far scorrere su i pantaloni.»
Non ci posso credere.
Sta accadendo realmente?
Non si trattò solo di un contatto visivo a cui non era pronta, c’era anche un odore molto forte, magari lo percepiva solo lei, però le piaceva. Era sicuro: si sarebbe rotolata con Vegeta, se avesse potuto. 

Sistemati i pantaloni, la maglia si rivelò un’impresa più facile: infilate le braccia nelle maniche bastò chiudere i bottoni. Se ne occupò sempre lei.
Vegeta, durante la veloce “vestizione”,  non cambiò di una virgola l’inquietante stato obnubilato. Bulma ogni tanto buttava un occhio per assicurarsi che fosse ancora incosciente.
«Ma siamo sicuri che stia bene?»
«È l’effetto del narcotico, scomparirà in qualche ora.»
«E può sentirci?»
«Di sicuro ci vede.»

Benissimo, se non altro avremo di che parlare.

«Adesso mettiamolo sulla carrozzina.  Lei si preoccupi delle gambe – l’infermiere afferrò il saiyan sotto le ascelle e lo sollevò, Bulma si occupò delle ginocchia – ecco così, perfetto, attenzione ai piedi.»
Gli misero anche delle pelose e morbide ciabatte da camera.
«La accompagnerò io fuori di qui. Non dobbiamo dare dell’occhio. Si fidi di me e cerchi di stare calma, è pieno di telecamere di videosorveglianza, se la vedessero sola si insospettirebbero subito. E non abbiamo molto tempo.  Ho sentito che il primario voleva venire  a far visita a suo marito.»
«Se lo può scordare!»
«Cerchi di recitare la parte. Prenderemo l’ascensore, faremo prima.»


Il reparto di quarantena era vuoto. L’infermiere, Bulma e un Vegeta imbalsamato su una sedia a rotelle attraversarono il primo corridoio e raggiunsero l’ascensore privi di difficoltà .
«Grazie per l’aiuto, ma quale è il piano dopo aver preso l’ascensore?»
«Scommetto non sia venuta qui a piedi?»
«No, ho con me una hovercar chiusa dentro una capsula.»
«Appunto, la accompagnerò nel parcheggio sotterraneo, ci arriverà scendendo una rampa e da lì potrà andarsene indisturbata.»
«Sembra perfetto, ma tu come farai? Dalle videocamere sapranno chi è stato ad aiutarmi.»
«Posso manometterle, in ogni caso le registrazioni restano visibili per un massimo di due giorni. Ed è arrivato il momento che qualcuno fermi le orribili attività che il primario dirige in questo ospedale.»
«Perché? Cos’altro ha fatto?»
«... Da quando è arrivato stanno sparendo molte persone, si dice che conduca degli strani esperimenti sui pazienti.»
«Oh, ma è terribile!»
«Sì, e tra le varie voci pare ce ne sia una che conferma la sua passata relazione con una grossa organizzazione criminale. Forse la più potente del mondo.»
Bulma provò un tuffo al cuore.
«Quale organizzazione criminale?»
Non voleva veramente scoprirlo. Ma c’era un nome che le ronzava in testa.
«Questo purtroppo preferirei non dirlo.»
Gli fu riconoscente,  decisamente non voleva saperlo, anche se esperimenti su esseri umani e chirurgo criminale erano una coppia di elementi che messi insieme la spaventavano e la facevano ripensare al futuro predetto dal quel ragazzo.
Sarebbe stato un cerchio perfetto, che si chiudeva purtroppo in modo sensato ma terrificante. E se l’organizzazione criminale fosse stata quella del Red Ribbon? E il dottore lo scienziato che voleva eliminare Goku e vedere bruciare il mondo?

L’ascensore arrivò, annunciando la sua fermata con un trillo delicato. Le porte parafiamma si aprirono davanti a loro.
Dentro, però, trovarono un medico. Bulma strinse i manici della carrozzina, l’infermiere le fece un cenno per farla stare calma. Constatato che il medico non doveva scendere, entrarono.
«Che piano?» domandò quello.
«Dobbiamo raggiungere gli ambulatori,  piano meno due, grazie.» disse il ragazzo.
«Prego.»
Nessuno aggiunse nulla, l’ascensore parve metterci secoli.
Il medico osservava con interesse il saiyan. L’infermiere lo notò e cercò di correre ai ripari.
«Ha appena subito una gastroscopia, da sveglio.»
«Accidenti, deve essere un temerario lei! Io non ho mai avuto un paziente tanto coraggioso, i miei quando li mando a fare questo tipo di esami sperano sempre di poter essere addormentati.»
Il saiyan naturalmente non rispose.
«Lo perdoni, durante l’esame purtroppo gli sono state toccate le corde vocali, per questo non riesce a parlare.», fu ancora l’infermiere a tentare di rendere la situazione credibile.
«Capisco, sono incidenti che possono capitare... E lei signorina? Ha un viso conosciuto... », il medico passò a stuzzicare anche Bulma.
«Io-»
«La Signora è la moglie del nostro paziente.»
«Ah, mi scusi, sembra così giovane, non pensavo fosse già sposata!»
A Vegeta scivolò un gomito mezzo morto oltre il bracciolo della sedia, il braccio ora oscillava come filo a piombo, privo di vita. Bulma se ne accorse e gelò. Il medico non ci fece caso, così la scienziata finse di raccogliere qualcosa da terra e lo rimise al suo posto.
Finalmente, l’ascensore si fermò.
«Bene, allora buona giornata.», li salutò il dottore.
«Grazie, anche a lei!»
L’infermiere completò abilmente la recita.
«Senta?»
Ma non era finita.
«Sì, mi dica»
«Che tipo di esame farete in ambulatorio?»
«L’esame? U-una risonanza magnetica... »
«Dopo una gastroscopia? E non sa che il reparto che se ne occupa si è spostato al primo piano?»
L’infermiere  venne colto impreparato. 
Bulma era arrivata al limite della sopportazione. Stava saltando la loro copertura. Guardò davanti a sé: la porta dell’ascensore era aperta, piano meno due, in fondo al corridoio vedeva la svolta a destra con la segnaletica verde che indicava l’uscita.
Ce la fai Bulma. Vattene!
Spinse la carrozzina fuori dall’ascensore con tutta la forza che aveva, pregò che Vegeta non cadesse in avanti e iniziò una corsa disperata.
Medico e infermiere rimasero stupiti. Di più il dottore, l’infermiere ne approfittò per pigiare il tasto del terzo piano e uscire fuori dall’ascensore un attimo prima che le porte si chiudessero. Abbandonando il medico dentro.

In ambulatorio diverse persone erano in fila, con i loro ticket in mano, Bulma si tuffò come una terrorista tra la gente.
«Qualcuno fermi quella donna!»
Era arrivata all’uscita.
«Vegeta, tieniti!»
Il saiyan non poteva risponderle, aveva la testa che oscillava ad ogni scossone.
«Ci siamo – era fuori, stava scendendo la rampa di cui aveva parlato l’infermiere, alla fine di questa c’erano solo auto parcheggiate – eccoci, dove è la capsula? Oh, trovata!»
Fece scattare il pulsante e lanciò l’hoipoi poco lontana.
«Bene, ce l’abbiamo fat- ah!»
La scienziata sentì la sua spalla scricchiolare, le scivolò la presa dalla carrozzina.​ Qualcuno la aveva immobilizzata piegandole il braccio dietro la schiena.
«Se ne voleva andare così presto, Signora?»
Non doveva tirare a indovinare, sapeva chi le stava parlando.
«Avrà i soldi per restare in silenzio, ma mi lasci subito!»
«Non pensa che ora i soldi siano insufficienti? Stava tagliando la corda con un paziente sotto la nostra tutela e responsabilità, è un reato non può farlo.»
«Non dica idiozie, so quali sono i suoi piani. Lei è un criminale!»
«Eh eh, sarebbe dovuta rimanere al suo posto e lasciarmi lavorare. Questo preziosissimo alieno appartiene a me!»
La spalla. 
Non svenire.
La spalla... mi  fa male!

«E pure lei mi appartiene, i suoi soldi e l’azienda di suo padre che finanzierà tutte le mie ricerche!»
«Se le infili nel culo... le sue ricerche!»
Il saiyan intanto giaceva seduto sulla carrozzina, che lentamente era scesa dalla rampa finendo in mezzo al parcheggio delle auto.
Ti prego riprenditi Vegeta! Fa' fuori questo bastardo!
«Devo ammettere che ha un bel visetto, potrei sbucciarle via la faccia e utilizzarla per una delle mie bambole! Sarebbe perfetta.»
«Mi lasci andare se non vuole lei fare una brutta fine!»
«Non ci speri, l’alieno non si muoverà per le prossime ore, nel frattempo io e lei  ci divertiremo indisturbati.»
Non voglio, non toccarmi!
Il dottore la trascinò verso un altro ingresso che collegava l’ospedale al parcheggio.
«No! Aiutateci! Aiut-»
Le tappò la bocca con una mano.
Vegeta sempre immobile.
«I suoi occhi azzurri saranno la prima cosa che prenderò!»
Il primario tirò fuori un bisturi e l’intenzione di eseguire una enucleazione seduta stante.
No no no no no!
Le avvicinò la lama alla pelle.
«Non lo sentirà neanche entrare.»
Il bisturi la stava per aprire; lei ebbe un lampo, un ricordo limpido e la consapevolezza di poter agire: con un gesto rapido della mano sinistra rimasta libera, prese e piantò con tutta la sua forza quella siringa che l’infermiere le aveva dato per proteggersi da Vegeta e che lei aveva conservato nella tasca dei suoi jeans. Beccò il collo senza mirare. Premette lo stantuffo e sparò tutta la dose nel sangue del dottore.
«Maledetta, cosa mi hai fatto?!»
Quello cadde indietro e lei riuscì a divincolarsi.
Intanto, li raggiunse l’infermiere.
«Oh, mio dio! Sta bene?!», esclamò, stupendosi nel vedere il primario contorcersi a terra con una siringa infilata in gola mentre brandiva fra le mani un bisturi che muoveva con gesti sconclusionati.
Bulma si toccò la faccia in cerca di sangue.
Non mi ha ferita, sono intera. Sono ancora io.
C'era mancato poco così.
«Io... io, sto bene, sì.», 
«Non si preoccupi, è finita, ora lei  prepari l’hovercar.»
«O-ok...»
Anche il gesto più semplice le sembrò complicato. Le tremavano le gambe, aveva rischiato di perdere un occhio, dovevano almeno darle il tempo di riprendersi.
Recuperò l'auto, aprì la portiera e salì a bordo. Accese i motori.
L’infermiere, che nel frattempo aveva ripreso il saiyan, la aiutò a sistemare Vegeta all’interno del veicolo.
Gli allacciarono la cintura.
«Ce la fa a tornare alla Capsule Corporation?»
«Penso di sì.»
«Perfetto, allora se ne vada, tra poco qui sarà pieno di poliziotti e chiami un medico per suo marito. Ci penserò io a sistemere questo casino. Il dottore ha finito con le sue attività criminali, f
ortunatamente, non sono il solo a volere un po’ di pulizia qui dentro. E non si preoccupi, in nessun caso sarà fatto il suo nome. .»
Bulma gli sorrise sincera, l’infermiere arrossì.
«Grazie», pispigliò, recuperando un minimo di self-control nel guardare Vegeta salvo e seduto accanto a lei.

«Signora, ehm... Bulma – l'infermiere la fermò nuovamente prima che lei se ne andasse – Stia attenta a quell’uomo, quello del video, ha tentato davvero di uccidere suo marito.»

 

 

Continua…

Le note le trovate sotto il disegno.

Note:
1. Sarò breve: non vi confermo che il primario, cattivissimo, sia il Dott. Gelo o Gero, as you like, se lo state pensando; anche se vi ho dato diversi indizi per arrivarci. Capitolo 9: ha gli occhi grigi e Bulma sente a pelle qualcosa di strano, ebbra follia,  ci può stare un pazzo. Capitolo 10: avrebbe potuto ottenere qualche vantaggio per lui e per l’esercito per cui lavorava ricattando Bulma. E poi aggiungiamo tutto quello che accade in questo capitolo, come anche il citato odio per Goku. Insomma, io posso fare come voglio e creare un personaggio “fittizio” e rompiscatole che può far venire i dubbi a Bulma e a voi, e che in qualche modo si ricollega alla trama principale. Anche se lascio delle incongruenze, perché se veramente fosse il dott. Gelo dovrebbe già riconoscere Vegeta e non stupirsi della sua forza. O forse era tutta una farsa. Ciononostante, visto che  nel passato di Goku lo scienziato non viene mai nominato, come lo fa spuntare fuori Toriyama, anche io posso divertirmi a infilarlo dove voglio o a creare un altro scienziato che ha lavorato per il Red Ribbon, nel caso un chirurgo. Voglio dire, nessuno sa se sia esistito solo il dott. Gelo, era un’organizzazione criminale bene estesa con innumerevoli unità, uomini e mezzi, potrà esserci qualche altro dottore pazzo imbestialito a morte con Goku che lo ha reso disoccupato mandando in fumo tutti i loro piani. No? Potrebbe essere lui o probabilmente no. Chi se ne frega. Tanto io mi sono divertita lo stesso.

2. Il disegno, come accaduto per il capitolo precedente, lo pubblicherò più avanti (ho troppe cose da fare!). A proposito, chi non lo avesse visto.Il disegno c'è.

3.Grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo e mi sostengono, e ai nuovi che intraprenderanno la lettura di Standby dall’inizio. Dal 2011 con affetto per voi. Attendo vostre opinioni, impressioni emozioni se ve ne lascia. A presto!

4. Dimenticavo: come già ribadivo in capitoli precedenti, per quanto riguarda l'utilizzo del nome del padre di Bulma come cognome per la sceienziata, Brief, a me fa comodo usarlo come cognome. Una mia scelta.

5. Sì, come dice il dottore del Westkong Hospital, la Città dell'Est viene rasa al suolo, e sappiamo da chi (Nappa). Fu avvertito un forte terremoto e trovata la navicella di Nappa sul luogo della strage, ed è quella che poi Bulma farà esplodere per errore in diretta televisiva.

 

Chi volesse leggere altre mie storie, in questo caso one-shot ve le metto qui sotto:

Birre,  scimmie o Signori Orsi. - cliccare qui per leggere

«Papà, tu sei arrabbiato con me?»

Domandò la piccola, con la vocina tenera e singhiozzante.

«No, Bra. Papà non è arrabbiato. Papà... ha avuto paura.»

 

Zabaione e confessioni - cliccare qui per leggere.

L’incubo rosa è finito. 

Bulma ha preparato una festa. Al termine di questa, la scienziata scambia un breve discorso col suo amico più fidato.

Brevissima, delicata. Quasi intima. Buona lettura.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo XII - Solve et Coagula. ***


Standby
 

Capitolo XII – Solve et Coagula.

 


Bubbolii lontani riecheggiarono nel vuoto.
Un piccolo veicolo si stava allontanando ad alta velocità inseguito da accecanti scariche elettriche.
Lei le vedeva serpeggiare, invadere il cielo. 
Nello specchietto retrovisore, il riflesso dell’ospedale diveniva via via una innocua miniatura inghiottita dalle nubi incombenti. Eppure, il ricordo faceva ancora paura. 
Come l’occhio grifagno d’un orco che s’apriva e chiudeva all’incombere dell’oscurità, sbiancato dai lampi, il nosocomio lumeggiava spiritato. Bisbigliava all’aria un non ti scordar di me. E Bulma non se lo sarebbe dimenticato.

Avanti a sé, la scienziata guardava il giorno venir sconfitto sulla linea dell’orizzonte in sottili lacerazioni grigie e viola. Accelerò. Temeva che da un momento all’altro, nel bel mezzo della strada e fra le vibrazioni del temporale in arrivo, potesse sbucarle davanti un bisturi. E il suo padrone. E Yamcha. Anche lui, che desiderava... Ucciderla? Strangolare lei, o lui ? Farli fuori entrambi, magari aiutato da quel pazzoide.


Un incubo alla volta, per favore.


Sopra di loro, infilzate com’erano su quei grattacieli sottili al pari di stuzzicadenti, le nuvole avrebbero vuotato il loro contenuto di lì a momenti. Tanto per complicare la situazione o renderla più drammatica.
Bulma guardò alla sua destra: Vegeta era seduto accanto a lei, veniva illuminato di tanto in tanto dai caldi lucori provenienti dalla strada. L’aspetto tetraplegico però non migliorava. Gli strinse la mano una terza volta, velocemente, assicurandosi che non fosse gelida. Non lo era, tuttavia, neanche sembrava così calda come avrebbe dovuto essere la mano di un saiyan.
La scienziata toccò la manopola del riscaldamento. Era al massimo e non era sufficiente.
La sua giacca di pelliccia finì a coprire le gambe di Vegeta.

Era conscia di ciò che aveva fatto. Perché Vegeta non era morto. Lo aveva salvato. Era merito suo, lei era l’artefice, il suo gesto avrebbe donato al mondo un nuovo protettore.
Cacciatore saiyan. Alieno spietato.
Lui avrebbe combattuto, difeso la Terra.
Per se stesso.
E nessuno avrebbe compreso.
Il tuo amore è delirante.
Vegeta stesso le avrebbe detto che stava riponendo speranza nel santo sbagliato, che avrebbe dovuto guardare meglio le sue mani e accorgersi ch’erano assetate di sangue, bramose di cogliere quello del fratello traditore.
Non ascoltare. L’idea è perfetta.
Ma la verità poteva essere elusa. E poi, c’era una speranza più grande alla quale Bulma aspirava aprire le gambe.
La scienziata mosse le labbra verso l’euforia.


Quando il cielo cominciò finalmente a piangere il proprio carico di insofferenza nei confronti dei due fuggitivi e di West City, la nenia dei tergicristalli si unì al silenzio del viaggio.
Ferma ai semafori, sulle strade stranamente sgombre – quasi che gli abitanti della metropoli fossero stati avvisati del loro passaggio e avessero deciso di nascondersi – Bulma ne approfittò per osservarlo ancora, incredula di averlo accanto, vicino. Addormentato. Suo. Nel bene e nel male. Tanto male, per gli altri; molto bene, per lei.
Ne percepiva l’odore sporco di ospedale: un misto di sudore e abluzioni mal eseguite dal personale ospedaliero. Però, sfiorargli i capelli era una tentazione implacabile. Abbassargli il colletto sgualcito del pigiama che indossava l’inizio di qualcos’altro. Spogliarsi. Fare una doccia. Con lui. Anche lei era sporca.

Pensa a guidare.

Sarebbe stata una colpa di cui vergognarsi, prima. Un volere impossibile a cui inginocchiarsi, dopo. Ma lei aveva scelto da che parte stare, adesso. Era la sua missione. E l’unico modo, per avvicinarsi a colui che dell’universo aveva fatto una pira su cui bruciare vivo ogni avversario, era incarnarsi nella sua indispensabilità. Il destino avrebbe agito indisturbato e lei, in punta di piedi, avrebbe tenuto in grembo la serpe che gli altri le avrebbero consigliato lasciar bruciare nelle fiamme.
La metamorfosi ormai era iniziata. L’albedo era vicina.

Bulma continuò a guidare. A guidare per lui.

 

 

~ ~ ~

 

 

Vegeta riprese conoscenza quasi alla fine del percorso verso la Capsule Corporation. La scienziata lo vide risorgere dalle nebbie mortifere nelle quali avevano tentato mutilargli lo spirito.
Il saiyan aprì gli occhi e la scoprì accanto a sé: un’angelica pazza ancella onnipresente nel suo tortuoso processo di rinascita.
Gli offriva ora un timido accenno di sorriso.
Era disarmante.
La pioggia prese a cadere più potente e scrosciante, isolandoli dal resto del mondo che mai li avrebbe capiti o voluti assieme.
«Stiamo tornando a casa.», gli disse. Vegeta udì l’ultima parola. Questa non gli apparteneva, ma stava avvinghiandosi a lui. Stava scavando sotto la superficie cutanea del saiyan, annidandosi come il peggiore dei parassiti. Lo voleva far suo. Lo voleva dominare.
Doveva eliminarla, prima che...

 

 

~ ~ ~


 

 

«Non ci ha dato più notizie.», ammise  il dott. Brief, carico di sconforto.
«Tesoro, pensi che sia peggiorato?», chiese sua moglie.
«Non ne ho la minima idea, cara, spero di no. Era tornata di corsa, mi aveva chiesto quel vaso... Credevo volesse cogliere il senzu. Invece lo ha lasciato lì... », lo scienziato si grattò la testa cercando di decifrare il comportamento mostrato da sua figlia. Appoggiò il manufatto in terracotta sul tavolino che aveva davanti a sé, dopo, si sedette sul sofà dietro di lui e incrociò le braccia al petto. Il gattino nero allora ne approfittò per acciambellarsi sulle ginocchia del padrone.
Con la teiera bollente stretta fra due presine ricamate a mano, la Signora Brief s’avvicinò al tavolino basso e versò attenta il tè in due capienti tazze.
«Credi sia il caso di andare in ospedale a vedere?», domandò.
«Cara, sei molto premurosa, ahimé, hai sentito Bulma: ci ha detto di non muoverci da qui prima del suo ritorno. Dobbiamo aspettare.»
Scontenta, la signora Brief si arrese e prese posto sedendosi accanto al marito.
Nessuno dei due coniugi parlò ulteriormente, le loro voci si spensero rimpiazzate dal cadere incessante della pioggia e dal ticchettare dell’orologio appeso alla parete.
L’attesa diventò un tappeto di sabbie mobili su cui sprofondare lentamente. Fin quando lo scienziato si alzò dal divano muovendosi in prossimità della finestra.  Dal giardino, aveva udito provenir un borbottio a lui familiare, di motore capriccioso ma reso da lui stesso funzionante e resistente come nessuno.
«Tesoro, dammi un ombrello.»




Bulma accese la luce nel piccolo abitacolo dell’auto, era alla ricerca di un ombrello nascosto che, al lato del suo sedile, non c’era più. Poteva controllare nel portaoggetti del cruscotto, ma le ginocchia del saiyan ne intralciavano l’esigua apertura.

La pelliccia non basterà per tutt’e due. Ci bagneremo.   

Non volevi fare la doccia con lui?

Non era la maniera in cui lo aveva immaginato. L’ingresso della Capsule Corporation distava una quarantina di metri da loro; pur se la distanza era breve, la pioggia non li avrebbe risparmiati. L’acqua parve persino aumentare. Questo le ricordò la stessa difficoltà affrontata quando aveva deciso di incontrare Vegeta di nascosto, quando Yamcha costituiva un ostacolo che ancora meritava rispetto.
Quel che però Bulma stava volutamente ignorando, brancolando alla ricerca di un ombrello, era trovare un modo con il quale poter trasportare il saiyan dall’auto fino a casa. All’apparenza, Vegeta sembrava debole, coi sensi ancora sopiti, teneva gli occhi socchiusi. Forse la tetraplegia era passata ad uno stato di paraplegia. Lei lo aveva visto riprendersi per un momento e ricadere subito dopo nell’incoscienza.
La scienziata tirò un sospiro. Neanche l’idea di chiamare i suoi le piaceva, sua madre non sarebbe stata utile nemmeno a tenere aperto un ombrello. Il padre era troppo vecchio per aiutarla a sostenere Vegeta.
Non v’era altro da fare: decise di rimanere nell’auto finché lui non si fosse ripreso. E avrebbe aspettato godendosi quegli attimi di tacita pace insieme al saiyan.
Sganciò la cintura di sicurezza e indietreggiò col sedile. Aveva bisogno di spazio. E per rendere l’occasione maggiormente fruibile, pensò di sbloccare anche quella che assicurava il saiyan al sedile dell’auto: premette il pulsante, fece scattare il meccanismo e ascoltò la cinghia venir risucchiata nel riavvolgitore. La sentì frusciare sul pigiama azzurro di Vegeta e la vide arrestarsi ostacolata dal braccio di quest’ultimo.
Bulma si sporse avanti, intenzionata a farla scorrere oltre l’arto. Gli sfiorò il braccio. Stava diventando una consuetudine interagire con le parti del corpo del saiyan. Lo faceva con spigliata naturalezza.
Ecco, c’era quasi e...

«Non muoverti. Ucciderei un qualsiasi verme con questa mano e una donna ficcanaso con quest’altra... Anche adesso, se mi impegnassi, potrei farlo.»

Un palmo aperto era a pochi centimetri dalla sua gola, due occhi spalancati e funesti la tenevano sotto tiro. Vegeta non le aveva dato il tempo di lanciare alcun gridoo di ribellarsi. L'aveva spaventata.

Non le piacque affatto l’esemplificazione, calzava a pennello non solo su di lei.
Se non fosse stata felice di notare che l’effetto dei narcotici stava svanendo in via definitiva, restituendole così il saiyan loquacemente pericoloso, lo avrebbe aggredito. 
Eppure, paradossalmente, Bulma stava per ridere. Era il suo inconscio conquistatore a solleticarle la risata.
Si trattenne per evitare che il saiyan potesse interpretare l’ilarità in maniera sbagliata.

«Ne...  sono certa. Vegeta. Non lo metto in dubbio. Stavo solo liberandoti dalla cintura di sicurezza, non avevi più bisogno di tenerla... Be’, giacché ti sei svegliato, avrei io necessità del tuo aiuto. Purtroppo, da sola non sarò in grado di accompagnarti in casa.»

Sì, io ti ho riportato a casa.

Bulma indicò l’ingresso della struttura. Gli aveva parlato con voce chiara, fintamente controllata, quella che s’userebbe per dissuadere un assassino dai suoi intenti, perché Vegeta la stava guardando davvero come se lei fosse una reale minaccia. Inoltre, non era facile far apparire una cortesia, che Bulma stava per elargirgli – perché l’aiuto in realtà serviva a lui – come una richiesta di soccorso per lei stessa. Ma se la scienziata desiderava ottenere dal saiyan un briciolo di collaborazione, quello era il linguaggio da usare. 
Avrebbe dovuto mantenere il silenzio di lì in avanti, per salvaguardare la vergogna e l’osso del suo collo. Se le fosse sfuggito di averlo salvato, con quali cause e quali modalità, l’orgoglio di lui avrebbe dichiarato per lei la pena di morte. 
Continuasse pure a vederla come un’appiccicosa terrestre rompiscatole invaghitisi dell’uomo sbagliato.

Per Vegeta c’era nuovamente la parola casa ad accoglierlo... a braccia aperte.

«Vattene dentro, da sola, io resterò qui. E non toccarmi. Non devi toccarmi. Capito?»

Perché tutta la confidenza che si erano entrambi presi sembrava fosse scappata? Che fine avevano fatto gli sguardi languidi e il cercarsi irrequieto delle loro mani? 

Ad ogni tuo passo avanti, lui ti silura chilometri indietro. L’avevi dimenticato? Siete bravi in questo balletto.
E aggiungiamo pure che lui sa. Deve aver ricordato, altrimenti non insisterebbe tanto.

L’infermiere, infatti, le aveva anticipato la fregatura e non si era sbagliato. Ma come avrebbe potuto Bulma spiegare a Vegeta che non lo avrebbe lasciato solo mai più? Che piuttosto preferiva cucirselo addosso. Soprattutto ora, che lui non era nel pieno delle forze e che, per questo, lei credeva di doverlo difendere e soprattutto di poterlo difendere.
Stai pensando a Yamcha?
«Hai compreso le mie parole?»
Vegeta insistette, riacchiappandola smarrita fra i labirinti di coraggiose imprese.
«Sì... Non lo sto facendo, non ti sto toccando.»
Ora.
Alzò i palmi, lei, ma non c’era nessuna arma puntata contro il suo petto. A parte lo sguardo contundente del saiyan.
«Allora esci.»
Le ordinò acido.
«Come?»
Assolutamente è fuori discussione! Se dovesse tornare Yamcha e trovarlo così, potrebbe fargli del male, Vegeta in queste condizioni non sarebbe in grado di... «Resterò qui con te! – gli rispose concitata – Quando ti sarai ripreso e ce la farai a camminare, torneremo insieme a casa e-», un movimento inaspettato, la portiera dell’automobile dalla parte del passeggero si aprì. Altrettanto inattesa fu poi la mossa del saiyan: che si buttò fuori dall’abitacolo e rotolò giù, sotto l’acqua che grondava violenta.
«Oh, mio Dio!»
Bulma scese rapida dal suo lato dell’auto, precipitandosi fuori per raggiungerlo. Inciampò due volte, si sporcò di fango dalla vita in giù e non diede importanza al proprio disastro.
«Mi spieghi cosa ti è passato per la testa?!», gridò, chinandosi su di lui che avanzava carponi. Ma quando gli fu a portata di sguardo, l’espressione di Vegeta l’agghiacciò: digrignava i denti ad ogni faticosa bracciata che compiva, affondando le unghie nella terra nel disumano sforzo di avanzare. Il suo volto si contraeva in una smorfia aggrottata di dolore.
Bulma, stavolta, non sapeva davvero dove mettere le mani.
«Vegeta, ti prego, fermati! Ti... Ti aiuto io, non devi affaticarti! – si chinò più in basso, gli sfiorò una spalla, voleva tirarlo su – Aspetta, chiamo mio padre, lui ci aiuterà-»
«NO!»
Vegeta la respinse cacciando via le sue dita.
«Ho detto che non devi toccarmi! Quante volte devo ripeterti-»
«Ma ti stai bagnando, ti ammalerai! Non ti accorgi che sei ancora de... »
Debole sarebbe stata un’accusa che avrebbe finito di schiacciarlo al suolo.
Lei si zittì.
Sporco di terra in viso e con gli occhi iniettati di sangue, Vegeta proseguì.

«Tu hai fatto abbastanza. Ora togliti. Faccio da me.»

Ricorda tutto.
Preferiresti morire. 
Non è così?


Lo vide sollevarsi, arpionare i palmi sulle ginocchia, ansimare sfinito. Curvo e tremante su di sé, con le gambe a pezzi come se stesse compiendo un’arrampicata aggrappato alle proprie membra stanche e in pericolo di frana.
La pioggia prendeva a sberle i loro volti. Ed era impietosa con lui.
«Che tu sia maledetto Kakaroth... »
Lo sentì imprecare a denti stretti e le vennero i brividi: era più che l’esternazione di un sentimento d’odio quella.
«... maledetto tu, la terra su cui cammini, ogni schifoso terrestre, chiunque provi a sfidare – distese le gambe – anf, anf... il Principe dei Saiyan. Giuro che non avrò pietà... di nessuno!»
Non stava urlando, ruggiva afono.
Bulma restò immobile a guardarlo lottare con se stesso. Un attimo dopo, vide animarsi un incredibile fenomeno. Era un baluginio lieve. La porta di ingresso distava ancora una decina di passi.  La luce si intensificò maggiormente, circondava Vegeta, danzandogli intorno come un incantesimo. Il saiyan si mise perfettamente in piedi tirato su da una forza estranea. Bulma lo osservò volgere il volto contro la pioggia, e quella evaporava prima ancora di toccare la sua pelle divenuta luminosa come un diamante e... incandescente?
Bulma assistette a quel prodigio a bocca aperta, avvertì un vento caldo sfiorargli il viso. Una carezza tiepida che quasi asciugò le gocce che le scorrevano sul volto e le scioglievano il trucco. Rimase senza fiato.
Poco prima, Vegeta non avrebbe avuto nemmeno la forza per sbattere le palpebre. Ora, il suo corpo era tramutato in un trionfo di energia e solennità. La luce gli galleggiava intorno pari ad un caldo fuoco fatuo. Appena dorata.
Due parole, solo due stavano colpendo incessantemente la coscienza della scienziata. E aveva paura di pronunciarle. Aveva paura di far scomparire quella magia.
Vegeta compì i pochi ultimi passi che restavano per arrivare all’ingresso della Capsule Corporation. Il tepore candido e luminoso scomparve così come era venuto, lasciandogli dentro un incontrollato vigore.

Lei lo aveva visto con i suoi occhi.

Lo aveva visto contorcersi nel fango e risorgere, in una sorta di processo alchemico che gli aveva spogliato lo spirito fino a giungere a quello stato di purezza che per un soffocato istante lo aveva ammantato di regalità e leggenda.

La scienziata aveva scorto in lui il-

«Bulma!»

Arrivati davanti la grande entrata dello stabilimento CC, un angolo di luce calda da appartamento si riversò sul pianerottolo di ingresso e su di loro. Comparve suo padre, era pronto a sbottonare un grosso ombrello.
«Vegeta! Caspita, ci sei anche tu! Moglie, c’è Vegeta! Presto! E Bulma è qui con lui, te l’avevo detto che dovevamo aspettare! – ululò il signor Brief stupefatto, e alla lieta notizia la consorte non mancò di precipitarsi da loro –  Ah, Vegeta, siamo davvero felici di rivederti! Avanti, avanti, entrate!»
I due varcarono la porta fradici e infangati che sembrava si fossero rotolati insieme nel fango.
Bulma era rapita, emozionata e attenta a scorgere ancora un altro scampolo di miracolo in lui. Era così contenta che dell’acqua che l’aveva inzuppata e sfatta non gliene importava nulla.
Il saiyan a modo suo, tentando per quanto gli era possibile di sostenersi a qualunque cosa gli capitasse a tiro, camminava lento ma vigile, restando ammirevolmente in piedi sulle proprie gambe. Dei veleni del dottore pareva non essere rimasta una sola goccia.

«Vegeta, finalmente! Riaverti qui mi riempie il cuore di gioia, ho pianto tanto per te!... Oh, non posso pensarci! Sono contenta che tu ti sia ripreso. Sai che faccio, vado subito a prepararti qualcosa di buono da mangiare, stavolta voglio cucinare tutto il possibile per te!»
La signora Brief sembrò spiccare un volo intorno al saiyan. La sua voce mielosa dava l’idea di volerlo inzuccherare.
Vegeta non rispose a nessuno, non guardò in faccia i padroni di casa ma voltò uno sguardo concentrato in direzione della scienziata.
Lei, accorgendosi di essere nuovamente rientrata fra le sue attenzioni – forse mai ne era uscita – accorse in suo aiuto.
«Ehm, mamma, no. No.»
Si mise fra i due a coprire, con la propria filiforme silhouette, un Vegeta imprevedibile.
«Come cara?»
«In questo momento – Bulma si fece più vicina, di modo che solo le orecchie della sua simpatica genitrice potessero udirla, e continuò – come puoi vedere, Vegeta non sta bene, ha bisogno di riposare, è appena tornato dall'ospedale. Per cui non una parola di più, ok?»
«Ma cara, sono convinta che non gli dispiacerà mettere sotto i denti qualcosa, o sbaglio?»
«Sì, sì, certo. Prima però dobbiamo farlo accomodare, o vogliamo lasciarlo nel bel mezzo del salotto bagnato come un pulcino? Rischierà di prendersi un raffreddore e noi non vogliamo che accada, giusto mamma? Dopo, se ti fa piacere, gli porteremo la cena in camera. Lì, la gradirà sicuramente.»
I suoi la guardarono perplessi: effettivamente la scienziata aveva ragione, Vegeta sembrava reggersi in piedi con due sputi di colla che lo fissavano a malapena sul pavimento, come un fragile pop-up di carta finito stropicciato nelle mani di un bambino cattivello. In più, oltre ad essere una pozzanghera vivente, il saiyan aveva una brutta cera. Peggiore della solita.
Bulma roteò in fretta il dito indice, senza farsi vedere dal saiyan, a far intendere ai propri genitori che le spiegazioni erano rimandate ad un secondo tempo. Vegeta aveva bisogno di calma intorno a sé. Per quanto rincuorata dal vederlo nuovamente deambulante, la scienziata non sapeva se ciò che aveva visto concretizzarsi avrebbe potuto scatenare effetti indesiderati alterandogli il comportamento. Pertanto, era saggio mettere al sicuro i suoi tenendoli alla larga da lui. E, viceversa, mettere in salvo Vegeta dalle sviolinate irritanti della propria instancabile mamma.
«Be’, ci fidiamo di te, Bulma. – la signora Brief alla fine cedette – Ma inizierò a cucinare immediatamente! Vegeta, mio bel fusto, mentre eri in ospedale ho studiato dei nuovi buonissimi manicaretti che ti faranno diventare matto, non vorrai altro che mangiarne ancora, ancora e ancora! Ah ah!»
«E io, moglie cara, verrò a farti compagnia», si aggiunse suo marito.
«Papà», Bulma però lo fermò.
«Dimmi»
«Io e te dovevamo parlare, ricordi?»
Il dottor Brief riconobbe nella figlia una sguardo serio e perse la spensieratezza del momento.
«Bene. D’accordo figliola, ti aspetto in laboratorio.»


I suoi presero direzioni opposte. La scienziata rimase con Vegeta.
Si voltò e gli si rivolse titubante, non sapeva se parlargli di ciò a cui aveva assistito, ma, probabilmente, non era quella l’occasione giusta. Doveva aspettare.
«Ti accompagno in camera.»
«Non devi, so dov’è.»
La maleducazione non gli era mutata di una virgola.
«Devo. Perché l’incidente che hai avuto con la navicella ha coinvolto nell’esplosione anche la tua stanza. Incredibile eh, non volevi proprio lasciare traccia di te... Quindi, ne ho scelt-, voglio dire, io e i miei abbiamo sistemato le tue cose in un’altra camera. Quello che rimaneva delle tue cose, che tra l’altro non erano molte e ora... »

Del silenzio ingombrante si manifestò tra loro.

Cosa cavolo gli sto dicendo?
Sì, infatti, ti sei rincretinita! Dovresti chiedergli come sta, se ce la fa veramente a camminare. È appena uscito da una sorta di paralisi farmacologica, o come la vuoi chiamare.
E siamo scappati per un soffio da un pazzo che ha tentato di ucciderci...
Fosse stato il solo!

Altre gocce di pioggia caddero inzuppando il pavimento sotto i piedi di entrambi. In quell’attimo, Bulma s’accorse del disastro che la conciava e dell’irreparabile bisogno di una doccia. Non quella con lui, il momento era sfumato. Ma una da sola, in privato, necessaria a rendere la pelle liscia come un petalo di rosa. Ne aveva bisogno. Senza, non si sarebbe fatta mai accarezzare.

«Se ce la fai a proseguire da solo, seguimi, ti faccio strada.»

Vegeta rispose con un grugnito e si spostò muovendosi arrugginito come un rottame.


Abbiamo mai trascorso del tempo insieme per questi corridoi?
No. Con Yamcha non si poteva. E lui non ha mai voluto starmi così vicino.
Ora lo vuole? Come faccio a capire? Però mi sta seguendo.

Lo fa perché altrimenti non saprebbe dove andare, scema.


Stavano avanzando con lentezza, e non perché Vegeta faticava ad ogni passo, ma perché Bulma temporeggiava:

«Se continui a guardarmi come se io potessi inciampare stupidamente, giuro che-»

«Scusami, sono preoccupata.»

«Be’, vedi di contenerti. Sei fastidiosa!»

La scienziata celò un sorriso, era strano poter conversare con lui in quella maniera nuova. 
Fastidiosa. La parola più gentile che le avesse rivolto finora, a parte sentirgli pronunciare il suo nome.
Arrivarono alla fine del corridoio illuminato di luci moderate. Bulma aprì la porta e Vegeta la seguì.

«Non è diversa da quella che avevi prima, c’è anche un bagno interno.»

Il saiyan non le disse niente, non la ringraziò né espresse altro che facesse intendere una reazione positiva. Scoperto alla prima occhiata dove fosse la doccia, Vegeta, senza curarsi della presenza di Bulma, prese a svestirsi. Il primo indumento che tolse fu la giacca sozza del pigiama fornitogli dell’ospedale. Bottone dopo bottone, alcuni li strappò, finché ne uscì come una larva dalla crisalide, mostrando il torace massiccio.
Cicatrici come lei le ricordava. La scienziata andò in allarme. Non per i muscoli, per carità, era un belvedere su cui morire; ma per il fatto che lui stava comportandosi come se lei non ci fosse.
«Ti lascio, tornerò più tardi e ti porterò la cena.», esclamò, provando a farsi sentire. La punta inzaccherata dei suoi anfibi non era mai stata tanto interessante. Si stava sforzando di guardarla per evitare di tenere gli occhi addosso a lui. 

Vegeta le voltò le spalle, la schiena vissuta, percorsa da innumerevoli sfregi, raccontava troppe violenti storie. Si spantalonò, l’indumento scivolò via crespo arriciandoglisi intorno alle caviglie. Quel corpo di angelo caduto se ne liberò definitivamente calciandolo poco in là. A piedi scalzi, camminò dinnanzi a lei lasciando impronte di umido sulla moquette. Nudo, raggiunse il bagno e aprì un getto d’acqua bollente nella doccia.

Mi dici che non devo toccarti e ti spogli, davanti a me.

«Non fare quella faccia. Dovresti esserci abituata

Alluse lui. Poi, chiuse la porta e Bulma rimase fuori. Senza parole.

 

 

~ ~ ~

 

 

«No. Niente medici, basta.»
«Sei sicura, e se gli prendesse una crisi respiratoria?», gli domandò suo padre, che più o meno era stato attento al racconto della figlia. Bulma si era riservata di non dire nulla a proposito di Yamcha e, molto alla leggera, aveva affrontato le tremende intenzioni del primario.
«Non succederà, può respirare da solo. La mia camera è vicina alla sua. Se avesse bisogno di aiuto, me ne accorgerei.»
Il signor Brief fissò ancora le bombole di ossigeno che aveva raccattato dal reparto di bioingegneria, «Se servissero abbiamo comunque queste.» Ne aveva preparate una cinquantina. Non si poteva mai sapere.
«Papà, non farmi ripetere. Vegeta non sta benissimo, ma ce la fa a respirare. Appena sarà maturo gli daremo il senzu e lui si riprenderà completamente. Ora cerchiamo di capire cosa non ha funzionato nella navicella. In più, vorrei vedere il progetto di quelle macchine che hai costruito per potenziare i suoi allenamenti.»
«I simulatori di energia, intendi. Arrivo subito.» 
Il dott. Brief raggruppò diversi cilindri di fogli di un metro per uno e settanta. Li buttò sul tavolo luminoso, li sistemò per bene sotto gli occhi attenti della figlia, che iniziò ad analizzarli.
«Abbiamo bisogno di un impianto più stabile – s'annotò Bulma, poi, proseguì – una navicella spaziale non è adatta a sopportare la sua forza... »
«Come se contenere la forza di un saiyan fosse facile, figliola.»
«Di un Super Saiyan, papà. Un Super Saiyan.» Lo corresse immediatamente, ma si accorse tardi di aver innescato un’accesa curiosità.
«Non vorrai dirmi che Vegeta è diventato un Super Saiyan?! Ma questo vuol dire che sta funzionando!»
«Non ho detto che lo è, intendevo semplicemente che dobbiamo pensare di dover creare qualcosa di adatto per quando lui lo diventerà.»
Il suo vecchio aspirò una lunga tirata di sigaretta e parve rifletterci. Successivamente, annuì convinto.
«Creeremo una nuova lega – la scienziata prese altri appunti – partendo da una a base di titanio e la rinforzeremo con altri metalli che possano renderla elastica ai colpi e ai cambiamenti della gravità, e dovrà essere resistente anche alle alte temperature, con questo rinforzeremo le pareti della nuova gravity room
«Mi sembra un’idea magnifica, Bulma. E per i simulatori di energia?»
«Per quegli aggeggi che respingono ed emulano i suoi attacchi energetici... Faremo lo stesso anche su di loro. Tuttavia, non credo lui ne abbia più bisogno. In più, useremo un campo magnetico che possa creare un'ulteriore barriera protettiva tra le pareti della gravity room e quelle dell'impianto della Capsule Corporation.»
Sembrava essere un gioco da ragazzi. Al contrario, giusto e solo la Capsule Corporation poteva avere la possibilità di sviluppare simili tecnologie. Vegeta, se non altro, era fortunato ad essere lì.

 

 

~ ~ ~

 

 

Ogni cicatrice, sul suo corpo, era richiamo di vendetta. L’avrebbe ottenuta, nel tempo. Con calma, perché stava arrivando il suo momento e voleva goderselo senza affanno. Qualcuno avrebbe pagato le colpe di altri. 
Lui si sentiva strano, completamente sballato. Un coacervo di sensazioni e stimoli lo intasavano. Era rabbioso, ma euforico, aveva voglia di uccidere, di sentire l’odore del sangue, di ballare sopra le grida di sofferenza di un avversario abbattuto, un orgasmo se fosse stato Kakaroth; al contempo, era sessualmente eccitato. E non gradiva lo stato.
Guardò i buchi che gli aghi gli avevano lasciato su entrambe le braccia. Un eroinomane ne avrebbe avuti meno. I terresti meritavano una morte atroce. Fortuna che la ferita sulla testa era stata ricucita e non gli avevano rasato i capelli. Quelli non gli sarebbero più ricresciuti.
Dal polso sinistro perdeva gocce di sangue, era l’esito di una sbagliata scelta di azioni. Non si deve mai provare a strattonare un ago premuto nella carne. Non si ottiene un buon risultato, la pelle viene via, strappandosi, o l’ago si spezza. Come nel suo caso. Lo vedeva emergere, sottile, grigiastro sotto l’epidermide, parallelo  alla vena bluastra che gli percorreva il polso. La punta spezzata usciva di poco dalla carne – era impossibile afferrarla anche con le unghie – e stava per essere fagocitata da questa, per via della infezione che gonfiava la superficie cutanea. Un livido violaceo ne segnava il contorno.
Doveva togliere l’ago.
Tenne fermo il polso ferito, sorreggendolo con la mano destra e, nel frattempo, mosse il pollice e l’indice della stessa mano premendo e muovendo nel senso utile a far uscire l’intruso.
La colpa era di Bulma.

Oltre ad essere rozza sei priva di delicatezza.

Pensò Vegeta. Dedicandole l’accusa.
Piegò le labbra in giù, fece maggiore pressione e l’ago schizzò fuori portandosi dietro una scia di sangue annacquato.
Ripensò al ricovero in ospedale, rimembrava ogni particolare; almeno da quando aveva riaperto gli occhi. Alcuni dettagli li avrebbe cancellati volentieri. Altri no, sedimentavano. Lo mettevano davanti a diversi interrogativi. Lei lo aveva salvato.

E sai come sprecare il tuo tempo.

Un pensiero ancora rivolto a lei.

Iniziò con cura a radersi il mento, facendo attenzione a non tagliarsi. Un leggero tremolio della mano accompagnava i movimenti. Non era ancora nel pieno delle forze e del controllo di sé. Tuttavia, a parte un senso di debolezza che s’abbarbicava ai suoi muscoli, ma non alla sua tempra, il saiyan si sentiva in fase di completa ripresa.

Fu la fame a indicargli che doveva essere ora di cena, e stranamente nessuno era venuto a bussare alla sua porta. Su una cosa la ficco-il-naso-in-ogni-dove non si era sbagliata: lui non aveva voglia di stare in mezzo ai terrestri, anche tra quelli a cui era abituato.

“Tornerò più tardi, ti porterò la cena.”

No, non la stava aspettando. Pur non dimenticandone le parole. Probabilmente, era riuscito a metterla in imbarazzo. Una vittoria che increspò un’ombra di sorriso sul volto finemente sbarbato.

Un secondo dopo, qualcuno picchiettò la mano contro la porta della sua stanza per poi, senza aspettare risposta, aprirla ed irrompere rumorosamente all’interno. Vegeta rimase spiacevolmente sorpreso: non era lei ad essere venuta a fargli visita, bensì la madre figlia dei fiori.
La donna spingeva a fatica un carrello a due piani ricolmo di cibo. Gli olezzi che invasero l’ambiente, erano da acquolina in bocca. E sarebbe stato perfetto così, se si fosse risparmiata di condire il servizio in camera con giravolte e druderia varia di cui lui avrebbe voluto fare volentieri a meno.

«Avrai sicuramente molta fame, serviti pure, caro, e non esitare a chiedere il bis!... Bene, me ne vado, ho promesso a mia figlia che ti avrei lasciato riposare. A dopo, Vegeta!»

 

Ho capito. Non ti fa piacere "vedermi".


 

~ ~ ~

 

 

L’aveva fatto apposta. Non doveva nasconderlo, tanto, nessuno le avrebbe posto la domanda. Voleva averlo vicino. Sì. Per sicurezza, perché se si fosse sentito male lei sarebbe potuta intervenire prontamente.

Continuiamo a raccontarci comprovate scuse.

L’assenza di rumori provenienti dalla stanza accanto alla sua sembrava essere il prosieguo del deserto corridoio. Troppo silenzio. Che già la rattristava. Sua madre doveva avergli portato la cena da un pezzo. Vegeta poteva essere andato a dormire prestissimo. D’altronde, la convalescenza era appena cominciata.
Prese il pettine e continuò a cotonarsi i capelli, con un'attenzione degna di una modella prima del debutto in passerella.
Aveva da poco finito di farsi la doccia. Nel suo candido bagno si muoveva nuda.
Guardandosi allo specchio, Bulma non poté non pensare di averlo visto spogliarsi.

Sarei in grado di trovare mille "scuse" per bussare alla sua porta ed entrare.

Ma non lo farai.

Ancora svestita, camminò a passi leggeri attraversando la propria camera. Poi, poggiò un orecchio sulla parete giusta. I seni rosei premettero contro il muro, la pelle pulita e calda della sua guancia sussultò a quel contatto freddo e ruvido. Stava ansimando senza accorgersene, mentre origliava.

Non udì nulla.

E quel nulla però le riempì la bocca di saliva, e le impregnò di umori segreti il cuore nascosto che le pulsava fra le gambe. Non poteva aspettare. Una carezza che avrebbe desiderato appartenesse a qualcun altro le sfiorò il ventre. Dita febbrili si insinuarono facendosi largo fra delicate umidità femminili. Cercavano invano, con aggressiva insistenza, di raggiungere cime impossibili. In attesa che la vista le si annebbiasse, Bulma sperò, priva di vergogna, che Vegeta la sentisse.

Poco dopo, al contrario, dall’altra camera arrivò l’inferno.

Rantoli, lamenti, l’abat-jour sul comodino che andava in pezzi. Grida. Forti. La scienziata acchiappò una vestaglia che legò in fretta alla vita sottile. La corsa fu breve, la porta non era stata chiusa a chiave. Stette attenta a coprirsi bene il seno prima di entrare.
Muovendosi tra le ombre, con la sola luce che si faceva strada dal corridoio ad illuminarle un rettangolo di cammino, la scienziata si avvicinò al capezzale. 
Il saiyan era seduto, il petto muscoloso ansante.
«Vegeta, sono io, Bulma.»
Lo vide stropicciarsi il volto con una mano.
Sentì un pezzo di vetro sfiorarle pericolosamente un piede.
«Che... che ci fai qui?» le domandò, e Bulma, con cautela, in punta di piedi, evitò di ferirsi facendosi più vicina a Vegeta.
«Ti ho sentito urlare, credevo avessi bisogno di aiuto, per questo sono entrata.»
Saresti entrata per molto meno. Non glielo vogliamo raccontare cosa stavi facendo un attimo prima, dall’altra parte del muro?
«Ho parlato... cosa ho detto?» le chiese agitato.
«Nulla di specifico. Credo che tu abbia avuto un incubo.»
Lo sentì respirare regolarmente e calmarsi, come se l’esser sicuro di non aver pronunciato nulla di comprensibile avesse messo in salvo un segreto misterioso che non andava svelato.
Bulma, invece, si riteneva fortunata a non aver tanta luce a smascherarle il volto, sicuramente paonazzo. Sul respiro affannato, lei ci stava lavorando.
«Dannazione.... » Vegeta si passò una mano fra i lunghi capelli, portando indietro la testa, frustrato.
«Ti capita spesso di avere incubi?», curiosa e vogliosa di poter intavolare una nuova conversazione con lui, di conoscerlo meglio, continuò a chiedere. Non aveva sperato altro.
«Come hai fatto a sentirmi?», ma il saiyan pareva interessato ad altre dinamiche. Non aveva perso il proprio temperamento sospetto.
«La mia camera è qui, accanto alla tua.», gli rispose senza pensarci un secondo di più. Voleva che lui sapesse. Non l’aveva fatto sin da subito per evitare che Vegeta potesse rifiutare quella nuova sistemazione.
«Capisco... » affermò lui, contratto e sottilmente incollerito.
Sì, aveva fatto bene a non rivelargli subito che sarebbero stati vicini di stanza.
«Se hai difficoltà a prender sonno, posso prepararti un infuso che ti aiuti a dormire.»
E potresti prepararne uno anche per te. Ne avresti molto bisogno. Le tue dita hanno un odore particolare.
«No, non serve, prima o poi mi addormenterò.», pronunciò lui, fermo. Stava costruendole intorno una parete di specchi liscia e invalicabile. Bulma scivolò, ma non si diede per vinta.
«Cosa stavi sognando, te lo ricordi?»
Figurati se ti dice-
«... Non ti farebbe piacere saperlo.»
«Mettimi alla prova.»
«Non capiresti.»
«Non sottovalutarmi.»
Lo lasciò interdetto.
«Che ore sono?», ma lui cambiò di nuovo argomento.
«L’una passata.»
«E per quale motivo tu sei ancora sveglia?», gli interessava davvero saperlo?
Potresti dirgli che sono state le sua grida a svegliarti. Se hai voglia di fare la bugiarda.
«Mi sono fatta una doccia... Sono stata in laboratorio sino ad un’oretta fa.»
«Ah, per questo non sei tornata...», Bulma lo sentì mormorare tra sé. «Come?»
«Mi domandavo cosa stessi facendo in laboratorio.» asserì lui, dissimulando stanchezza.
Bulma indugiò, era realmente interessato anche a questo?
Non sapeva se rivelargli il piano, avrebbe voluto rimanesse una sorpresa, ma se parlarne significava dilatare i tempi in sua compagnia, poteva acconsentire alla rivelazione.
«Sto facendo delle ricerche... Be’, io e mio padre stiamo studiando un modo per far sì che tu possa proseguire l’allenamento in totale sicurezza. Appena ti sarai ripreso.»
Aspettò la reazione del saiyan. Non lo vide contento. Sconvolto, piuttosto, appariva così; ormai gli occhi si erano abituati alla penombra, riusciva a distinguere in lui ogni espressione. E quella faccia non era piacevolmente sorpresa.
«Tu... stai veramente facendo questo?» le domandò spaesato, aveva il cruccio di chi non trovava soluzione ai propri enigmi.
«Io e mio padre.» precisò lei.
«Continua ad essere insensato!» in un gesto affrettato, Vegeta tirò via le coperte, come a volersi togliere d’impaccio da quella constatazione. Si scoprì seminudo. Senza il pigiama stava decisamente meglio.
«Perché lo fai? Perché non la smetti?»
«A mio padre non piacciono le invenzioni difettose.» Bulma, a proprio modo, provò ad essere oggettiva e calma.
«... Lo sto chiedendo a te! Perché ti ostini ad aiutarmi? Non ti sei stufata!»
Davvero, Vegeta, non sai cosa sia la gentilezza e rifuggi da ogni favore? 
È così strano per te ricevere aiuto?
O hai paura che qualcos’altro possa travolgerti?

«Dovresti smettere di chiedermelo, tu sai perché lo faccio. O forse, ti piace sentirtelo dire ogni volta? In tal caso ci crederei, avresti uno strano modo di metterti al centro dell’attenzione. Potrei quasi definirti un uomo vanitoso a cui piace essere adulato.»
Bulma si sedette sul letto con in testa, a parte i ricci e i cocci della sua pazienza andata in rovina, l’intenzione di rimarcare quanto sciorinato e far tornare vivi gli umori vissuti da entrambi in ospedale; e ai quali il saiyan non si era sottratto.
Vegeta la osservò muoversi suadente, in déshabillé. Non aveva bisogno di immaginare che fosse completamente nuda, avvertiva potente l’odore sia cipriato che aspro del suo corpo. Bulma gli toccò la mano, accarezzandola con la propria. Era quello l’approccio col quale si sentiva convinta di poter entrare in contatto con lui.
Lo sentì contrarsi.
«No.»
«Cosa no?»
«Non andare oltre, non avvicinarti. Non devi provocarmi, Bulma.»
«Cosa non dovrei provocare?»
«Qualcosa che sarebbe sbagliato.»
«Per chi?»
«Per te soprattutto.»
Non ti credo. Non so di che natura, non so in quale parte di te, ma sono convinta che ci sia. Tu provi qualcosa per me, e non mi fermerai. 
«Mi piace quando mi chiami per nome, lo fai raramente.»
«E allora non lo farò più.»
«Ma... Perché?»
«Adesso sembri tu far finta di non capire.»
«Ti ho detto che alla tua forza posso fare attenzione!»
Lo vide sorridere e scuotere la testa.
«Sono io che decido di non farti del male! O fartelo.»
«E non me ne farai»
«Te l’ho già fatto.»
«Non me ne farai più!»
«Ovviamente – il tono di Vegeta si riempì di inquietante serietà, le minacce con lei erano vecchia storia e non funzionavano – Non ti preoccupare, posso rimediare da solo a un brutto incubo. Non cerco consolazioni, nemmeno sotto le lenzuola.»

Si incenerì tutto crepitando come carta al fuoco. Sentimenti, azioni, verità... Andarono in fumo facilmente. Bulma si sentì ferita, di nuovo.

«Questo non dovevi dirlo. Per chi mi hai presa? Certo, ho capito, voi saiyan non vi divertite, non fate l’amore... E dimenticavo che probabilmente sono io il problema. Sono troppo terrestre per i tuoi gusti, immagino. Ecco, non devi nemmeno raccontarmela. Me ne vado volentieri.» Disarcionata da quelle che sempre erano state le sue convinzioni, le armi seduttive, la bellezza che nessuno aveva mai osato rinnegarle, Bulma si alzò dal letto per mollarlo lì dov’era. Nel tentativo di recuperare il proprio gentil orgoglio.
«E pensi che io voglia divertirmi?»
Una replica non se l’aspettava.
Vegeta la prese, anche per lui stava cominciando ad essere un’abitudine toccarla. Ma la troppa mal calcolata energia mistificò la voglia di chiarire in una differente e dubbia azione, avventata: la spinse sul letto: lei adesso era sotto il suo ampio torace.
«Pensi che la mia razza sia soggetta a queste scialbe abitudini?»
La sottomise trattenendola col proprio sguardo.
«Sbaglio mio... Dimenticavo tu fossi perfetto», la voce le uscì beffarda.
«Non lo sono. Però una cosa l’hai detta giusta: noi saiyan non ci divertiamo, non nel modo che credi tu. Siamo dei guerrieri. La battaglia, il sangue del nostro avversario, la vittoria. Questo mi divertirebbe molto... E nulla ha a che fare con te. Oltre alla volontà di generare una progenie da addestrare alla guerra, accoppiarci non avrebbe alcun significato.»
«Allora spiegami perché lasci che io ti stia così vicina! Non credo sia per farti aiutare, quando tu, Vegeta, l’aiuto non lo accetti da nessuno.»
Il saiyan la fissò. Non rispose. Un seno era fuoriuscito dai vani lembi della vestaglia. Ne poteva intuire il calore. Le cosce erano scoperte; come aveva intuito, lei era nuda. Disponibile. Facile. Debole. Avrebbe potuto possederla. Farsi stringere dalle gambe lisce e flessuose, rilassarsi dentro di lei. Ascoltarla urlare il piacere... o il dolore.
«Alzati ed esci da questa stanza. Sono molto stanco.»
«Non mi rispondi. Bene. È questo quello che vuoi?»
«Sì, Bulma. Voglio che tu ti rivesta e te ne vada.»

 

Continua...

Note:

1) Amici cari, cerchiamo di intenderci: Vegeta può essere un cane in battaglia, ma davvero io non ce lo faccio ad abusare di Bulma, dal mio punto di vista lui resta un signore. Sì, qualche livido può scappare, ma non voluto. E ricordiamoci il capitolo sette, quando lui si lascia andare e gli scappa la mano, non sta lì a goderci. Andate a rileggerlo se avete dimenticato.
E poi  ditemi  allora perché lei lo abbia preferito a Yamcha ( per mille altri motivi ^^). È un uomo tutto d’un pezzo, un bastardo intelligente in battaglia, un sadico sì, ma questo non fa di lui un violentatore. Ci sono tante altre forme di sadismo. Più avanti accadranno cose che faranno sicuramente soffrire Bulma, ma non avrete da me quel Vegeta bruto.

2) Sulla questione degli eredi, sul perché zurlino i saiyan, mi sono allacciata alle battute scambiate tra Nappa e Vegeta a proposito di figliare coi terrestri per avere una discendenza fortissima. Nulla di più veritiero che conferma quanto credo e quanto gli ho fatto dire, se questi zurlano lo fanno per un motivo preciso. È la battaglia che li eccita, che li appaga al di sopra di tutto, qualche obiezione? Sicuramente Bulma gli farà scoprire altri mondi, ma vi rimando al prossimo capitolo. ;)

3) Grazie per avere atteso, grazie a tutti, a chi legge e mi scrive, a chi segue, a chi ricorda, a chi preferisce, a chi legge senza lasciare traccia di sé, a chi attende con pazienza, a chi lo fa un po’ irritato... ( ragazzi ci si dovrebbe arribbiare per cose serie, non per 'ste cazzate).
Cioè, non è che nel frattempo la sottoscritta vi ha lasciati digiuni, ho pubblicato altre storie su di loro, e non solo. Infatti vi metto i titoli qui di seguito, se ci cliccate sopra vi si aprirà la pagina diretta.

TRANSUSTANZIAZIONE. SE NON, AMARE.

ROSSO ALLAGATO

APORETICO EGOTISMO

NERO CILIEGIA

e altre che troverete nella mia PAGINA AUTORE.

4) Sono curiosa, l'ho fatto pure diventare mezzo super saiyan e volevo che lei lo vedesse ma non completamente, il perché lo so io ;) . Mi piace pensare che sia andata così, che arrivato ad un punto di totale disperazione e vorgogna di sé, addirittura aiutato da una terrestre, che quella rabbia contro se stesso l'abbia sciolto.
Ora scatenatevi voi! :D

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII - Sub-limen: la passione si vestì di solo tormento. ***



La “sorpresa animata” la trovate a fine capitolo. ^_^ Un mio nuovo disegnino, vivace. Più nuovo disegno!


Standby
 

Capitolo XIII - Sub-limen: la passione si vestì di solo tormento.

 

Passi, tanti, come di un esercito in marcia. Lui li percepiva, tutti, distinguendone distanza e provenienza. Che sfortuna.
Dall’altro lato del marciapiede su cui stava camminando, una portiera sbatté forte, lontana, eppure anche lei vicina come suggeriva il suo udito.
La popolazione terrestre... troppo numerosa per un misantropo come lui. Inutile. Clacson in sequela suonarono impropriamente. Chiassosa. Immeritevoli a cui era stato concesso il privilegio di respirare ancora. Uno spettacolo infernale mancato.
Il semaforo lumeggiò rosso. Non attraversare. Era facile far finta.
Lui non rappresentava più chi una volta avrebbero dovuto temere. Erano fortunati i terrestri.
Lavori in corso, scritto su un grande cartello impolverato, ci passò vicino. Operai, ruspe in azione, un tir in retromarcia. Sbuffò seccato. Ne aveva piene le scatole di quei frastuoni: la Capsule Corporation ne era ancora devastata; a causa sua; e la terrestre atipica non ne voleva sapere di arrendersi.
Far finta era diventato difficile.

Gli importava del risultato.
Non aspettava lei, che s’era aggiunta e l’aveva convinto a farsi una camminata lontano.
Gli importava.

Ancora i terrestri: lo attorniavano, gli passavano a fianco ignari della pericolosità. Erano fortunati perché a lui non interessava. Non ucciderli non era significante di cambiamento ma di libera scelta. Libertà, per Vegeta. Fine di Freezer. Che poi, non gli aveva mai davvero ubbidito e se gli era capitato di ammazzare era stato per capriccio, o necessità.

Era significante di priorità più alta, quindi.
Oppure di una metamorfosi genuflessa all’etica, quella del bene.
No, restava se stesso.

Così, le grida, lo scippo che stava ora accadendo davanti ai suoi occhi, nulla era affar suo. Ed il sangue colato sull’asfalto, le mani imploranti che si tendevano e speravano di ricevere da lui un aiuto, questi rappresentavano ostacoli da evitare come la sgradevole abbandonata deiezione canina  trovata sulla strada poco avanti.
Aggirò entrambe le incombenze.
Un saiyan non era uno spazzino, né un salvatore.

Kakaroth, un traditore.


Dal riflesso giallognolo di una delle tante vetrine che tappezzavano la via percorsa, il camouflage apparve perfetto: un giubbotto di pelle aperto, la canotta grigia sotto. Leggero per le rigide temperature, idoneo per un alieno. Vegeta non soffriva particolarmente il freddo e la terrestre di nome Bulma non lo aveva capito.
E poi un paio di jeans scuri. Pure negli abiti gli abitanti della Terra mostravano la loro incapacità. Non si poteva combattere con quelli addosso.
Ecco perché: stava cambiando forma. Gli stava incasinando le idee, lei.
Aveva bisogno di indossare “la pelle” a cui era abituato per sentirsi se stesso.
Aveva bisogno di più rabbia.


Due donne lo stavano fissando con insistenza. Erano prive di vergogna ma il timore lo portavano dipinto negli occhi.
Passò accanto a quelle, attraversò un muro di stucchevole profumo. Udì dei sospiri, un risolino fanatico.
Non le somigliavano.
Insofferente, continuò ad avanzare senza meta precisa, camminava veramente come continuava a farsi avanti fra le siepi dei propri pensieri; e la Città dell’Ovest, in quell’inverno quasi finito, era sbiadita, caliginosa, schiacciava il respiro.

Poteva essere comunque un esercizio di autocontrollo, la forza era cambiata in lui. Il potere andava plasmato: doveva essere pronto ad accoglierlo, a gestirlo secondo il proprio volere. Come soleva un saiyan preparato quale era. E mimetizzarsi, camminare dimenticando la super velocità, non levitare, gli stava riuscendo nonostante scalpitasse in lui la voglia di esplodere, di manifestare i propri nuovi poteri.
Se la cavava meglio di quanto avesse immaginato. Se si concentrava riusciva addirittura a mitigare l’idiosincrasia con gli stupidi terrestri.
Tranne che con una, che non era stupida.
Si fermò.
Pensava a lei.
Pensava a lei in relazione al vantaggio che gli avrebbe donato. Ma Bulma lo avrebbe fatto arridendogli, investendolo di bontà, sputandogli in faccia quel casino di emozioni e aspettandosi da lui reazioni troppo umane.


Devo fare meglio di Kakaroth.

Un muoversi spasmodico portava da nessuna parte.

Non c’è altro posto.

E la fissità, in egual modo, intrappolava le sue abitudini raminghe.

All’incrocio una folla di persone era in attesa di attraversare la strada come una mandria di gnu un fiume. Semaforo guasto. Vegeta, dalla parte opposta, sul marciapiede, diceva addio alla vita futura in cui non si sarebbe mai riconosciuto. Preparato a scappare anche dalla terrestre. Doveva raggiungere la propria agognata ambizione, in solitudine.
Al diavolo la gravity room.

Ma lei aveva deciso di comparire, di ricordargli che si sbagliava.

E di morire.

Ci avrebbe messo la mano sul fuoco che lo stava cercando. La osservò attraversare la strada dalla parte sbagliata, quella in cui lui non c’era. Non lo aveva visto. Bulma sarebbe passata dove l’automobile che giungeva sfrecciando l’avrebbe falciata non potendo frenare in tempo.
Vegeta aveva già calcolato tutto.
A ciascuno il proprio destino.
Non l’avrebbe salvata.
Se alla terrestre toccava quello...
La immaginò in un bagno di sangue.
Non avrebbe mosso un dito.
Eppure, morta non gli serviva.
Viva era meglio che a brandelli sull’asfalto.

Era funzionale.

Perciò...

Si propagò nell’aria un’onda di calore, che viaggiò oltre la strada soffiando vento caldo alle spalle di Bulma.

Vedimi.

Bastò.

La scienziata si voltò e cambiò direzione in tempo. L’auto passò a pochi centimetri dall’ucciderla.

Non aveva mosso un dito per salvarla. Aveva giocato con la propria aura e lei era stata fortunata. I terrestri erano fortunati.


«Vegeta!», lo chiamava, viva, attraversando la strada per andargli incontro.

Vegeta se ne stava già pentendo.





~ ~ ~

 


Se l’aveva seguita in quel bar era stato perché voleva sincerarsi dell’andamento del lavoro, che stesse procedendo come sperato. Per capire quanto ancora sarebbe durata l’attesa che lo spingeva a considerare l’andar via una soluzione. E perché aveva intuito che se avesse opposto resistenza lei lo avrebbe assillato.

Le poltroncine su cui sedevano erano troppo comode, Vegeta non capiva questa ossessione dei terrestri per il comfort spalmato su ogni cosa.
Come altresì non comprendeva l’utilità di un maglione corto che lasciava in vista l’addome nudo e permetteva al minuscolo ombelico di comparire e catturare l’altrui sguardo. Di tal dettaglio se ne era accorto lui, l’avevano scorto i tre uomini alla sua sinistra, e lo stava fissando il ragazzino che faceva finta di studiare un tavolo avanti a loro. Bulma invece era abituata ad essere ammirata.

Piuttosto agitata, per altri motivi, la scienziata stringeva le mani attorno ad una tazza di tè. Guardava Vegeta preoccupata, ad occhi spalancati. Non sapeva da che parte iniziare.
Il saiyan non aveva ordinato nulla. Aveva scelto lei per lui. Ma doveva smettere di farlo e non lo capiva.
«Mia madre, ecco... avrei dovuto parlare con lei. Non ho avuto il tempo, le parole.»
Biascicò confusamente. Non era stato un esordio convincente, lo sapeva. E Vegeta non l’aveva ascoltata. Era impegnato, distratto a perseguitare ogni sguardo si rivolgesse verso di loro, perché l’ombelico calamitava l’attenzione e lui odiava con tutto se stesso essere fissato. Doveva dirle che questo lo infastidiva. Non lo avrebbe mai fatto.
Poi era arrivata la cameriera e gli aveva lasciato sul tavolo un pranzo gigantesco, in qualche modo questo gli aveva fatto piacere: gli aveva dato un attimo di respiro, tutto quel cibo formava un muricciolo tanto che a stento riusciva a scorgere Bulma seduta davanti a lui.
Lei lo vide rilassarsi e credette fosse una tattica vincente continuare a prenderlo per la gola.
Quindi, riacciuffò la conversazione nata e morta a metà:

«Vegeta, hai sentito che ho detto?»

«Che hai terminato la gravity room? Hai detto questo?»

Era unicamente ciò che voleva sentire, quel che gli importava. E quel che importava a Vegeta, in quel momento, faceva male a Bulma.


 

~ ~ ~


 

 Giorni prima.

 

 

Aveva chiuso la porta. L’aveva sbattuta, e lo schianto aveva preso il posto dello schiaffo che volentieri gli avrebbe stampato sulla faccia.
L’aveva fatta passare per una poco di buono. Peggio: si era chiuso nuovamente a lei, in quel silenzio ermetico e impenetrabile; recidendola via, come erbaccia, fuori dal giardino segreto del “principe”.
Bulma rimase assorta, in piedi, nel corridoio vuoto. Solo in quel momento la vestaglia le sembrò troppo leggera. Poteva prendersi un raffreddore se continuava a starsene lì, mezza nuda. Tornò nella propria stanza. Non per dormire. Non avrebbe chiuso occhio pensandolo nella porta accanto.
Per cui, si cambiò indossando abiti comodi e andò dove la notte le sarebbe parsa essere meno insopportabilmente lunga di come s’era presentata.


In laboratorio, alle quattro e trentasette del mattino, Bulma aveva preso una decisione: la ristrutturazione della Capsule Corporation avrebbe compreso la costruzione della nuova Gravity Room. Non esterna, ma all’interno dell’abitazione. A fianco ai laboratori e accessibile dall’appartamento.
Puoi rifiutare me... non questa.
Il progetto messo a punto con suo padre era completo. Era stato ideato in tre giorni e ultimato e migliorato da Bulma in un paio d’ore. Era stata mostruosa.
Sarai tu a starmi vicino. Dove io potrò raggiungerti.
E se andasse via?
Lo farebbe comunque se non lo facessi. Ad ogni modo, lui non ha un posto dove andare.
Questo ti conforta?
Mi rende egoista.

Gli somigli.

Un pacchetto di sigarette sopra la scrivania sembrò più attraente del necessario. Apparteneva a suo padre. Dalla scatolina aperta spuntava un filtro giallo desideroso di farsi prendere. La tentazione di afferrarlo e mescolare i pensieri sino a diradarli nel fumo era molta. Strusciò le dita fredde sulla stoffa sottile dei leggings, indecisa, ma soprassedé. C’era tempo per prendersi il vizio, e lei era ancora giovane per iniziare ad invecchiare.
Salvò sul computer il capolavoro di ingegneria appena finito. I lavori di costruzione sarebbero stati avviati la mattina stessa e, con una decina di risorse umane operanti, i risultati sarebbero stati immediati. Un successo.
Immaginò la faccia di Vegeta, e tornò a guardare il pacchetto di sigarette... Meglio attaccarsi al succo di frutta. Afferrò il cartone da un litro che s’era portata in laboratorio e ne mandò giù qualche sorso, bevendo direttamente dalla confezione. L’avvitatura per il tappo era larga e un rivolo di liquido arancione grondò al lato della sua bocca. Delle gocce le bagnarono la felpa all’altezza del seno. Sospirò: detestava l’odore del succo di frutta rappreso, puzzava come il vomito del gatto di suo padre.


«Non eri nella tua camera»


Qualcuno, alle sue spalle.
Mollò la presa e il cartone le scivolò dalle mani. Il succo di frutta alla pesca finì per spargersi tutto sul pavimento.
Non voleva voltarsi a guardare chi l’aveva colta di sorpresa. Conosceva il tono imperante.
«Non mi sbagliavo a pensare che ti avrei trovata qui.»
Continuò Vegeta. Era fermo davanti all’ingresso di quella sezione del laboratorio.
«Hai combinato un disastro, te ne sei accorta?», disse, dando uno sguardo al liquido schizzato a terra.
«Grazie a te. Mi hai spaventata», brontolò lei e si girò. Era davvero lui: una maglia nera aderente, i pantaloni di una tuta. Scalzo. Espressione torva. Era proprio lui. Vide questo in un’occhiata fugace, successivamente si rivolse all’orologio appeso al muro: quasi le cinque. Ma che voleva ancora da lei?
«Non eri stanco, Vegeta? Che ci fai quaggiù?», gli domandò distratta, concentrandosi su come risolvere il casino. Chiedendosi internamente se anche lui non aveva chiuso occhio e provava lo stesso suo malessere.
«Mi pare di avertelo appena detto: non eri nella tua stanza.»
«Sei entrato nella mia camera!», ci fece caso solo in quel momento e ne rimase sconvolta.
«Sì. Tu lo fai spesso nella mia, senza permesso», ammise lui, privandola del diritto di obiezione.
La scienziata sbuffò: era vero a metà. Quante volte era capitato? Una sola, una e mezza, se si voleva esser pedanti. La prima era accaduta la sera in cui lei aveva provato a convincerlo a smetterla di farsi del male; l’altra mezza era successa qualche ora prima, perché lo aveva sentito gridare. Altrimenti non si sarebbe mai azzardata a ripetere la missione.

Non lo rifarei.
Bugiarda, tu vai a caccia di occasioni di questo genere.
E ancora non ti domandi per quale motivo lui ti sia venuto a cercare.
Forse dovresti dormire, non hai un bell’aspetto.

Sicuramente dei cerchi violacei le stavano mascherando gli occhi, non era la prima volta che le capitava di trascorre la notte senza riposare, e poteva rimediarvi con degli impacchi di camomilla. Al contrario, non era mai accaduto questo: Vegeta lì, per lei. Ed era l’ultima delle eventualità su cui Bulma avrebbe sperato.
L’aveva rifiutata da nemmeno tre ore ed ora lui le era dinnanzi, nuovamente a farla impazzire.
Una spolverata di rosso cinabro le colorò le guance. Era rabbia. Era imbarazzo.
Meglio focalizzarsi sul rotolone di carta assorbente appoggiato ad una mensola sopra la sua testa. Lo prese, intanto per avere le mani impegnate e gli occhi rivolti verso altro da fare. Asciugare il succo alla pesca prima che questo iniziasse a puzzare: sembrava un ottimo obbiettivo da perseguire alle cinque del mattino.
È strano vederlo qui.
Digli qualcosa.
«Volevi aggiungere altro al discorso di prima?»
Sei una frana... meriti le erbacce, le spine, le ortiche!
«Quale discorso?»
«Mi hai invitata a lasciarti solo alcune ore fa... e adesso eccoti. Ti sarai accorto di aver mancato qualche concetto», azzardò.
Desiderava comprendere il perché della rara e inaspettata visita. Era sempre stata lei ad andarlo a cercare.
«Quell’argomento tra noi è chiuso. Non mi piace ripetermi, dovresti averlo capito.»
«E tu dovresti aver compreso che io ho bisogno di risposte continue, chiare. Sono fatta così, insisto.»
Chiuso un corno!... Bello il noi.
Strappò altri fogli di carta assorbente. Aveva finito. Nonostante, il pavimento in diversi punti era rimasto appiccicoso, e be’, l’odore sgradevole si sentiva. O forse lo sentiva solo lei.
Non aveva acceso i robot per evitare di sottrarre a se stessa un utile diversivo.
Gettò la carta sporca nella pattumiera.
«Mostrami cosa stai facendo.», proseguì lui rivelandosi come sempre in penuria di gentilezza.
«Che? Non ti ho sentito», aveva azionato la ventola dell’aria, anzi, con la scusa aveva costretto il saiyan a ripetersi ancora. Sapeva essere vendicativa.
Vegeta recitò la parte di nuovo: «Hai detto che stai costruendo una nuova navicella spaziale, voglio vederla», e la scienziata ingoiò aria. Non era preparata, questa battuta non stava sul copione. Annaspò per alcuni secondi. Una parte di lei si sentì tradita.

«Ti-ti sbagli – non osare chiedermela, perché è l’ultima cosa che farei non ho mai parlato di una nuova navicella». Per farti andar via...

«Come sospettavo – insinuò lui – Ti stai prendendo gioco di me, terrestre

Adesso terrestre?

Terrestre strimpellava infamante, urlava “io sono l’alieno”, generava un tramestio insopportabile, segnava il limite invalicabile, cancellava il noi del passato, del presente e del futuro. Era un vilipendio contro di lei. Bisognava intervenire al più presto.
 

«Non mi sto prendendo gioco di nessuno! – esclamò, alzando la voce, guardandolo fisso negli occhi; l’odore di pesca marcia lo sentiva ovunque, la ventola gracchiava arrugginita – È una nuova gravity room quella che ho progettato, avrai a disposizione un’area dieci volte più grande della precedente, molto più resistente. E la avrai qui – rivolse in basso l’indice precedentemente alzato e indicò il pavimento sotto i suoi piedi, ci teneva a chiarirne la collocazione spaziale, era la sua bandiera – sarà installata all’interno della Capsule Corporation. Non ne rimarrai deluso, vedrai.»

Finì tentando di metterci vivace entusiasmo; incollerita come mai; mostrandosi devota alla causa del saiyan; lo avrebbe costretto.
Ammesso che potesse usare la forza contro di lui. E non poteva.
Vegeta l’aveva cercata per un ovvio motivo, scontato, lontano da qualsiasi sogno d’amore, aveva pure preso a dubitare di lei.
Ci rimase male. Tra i due, Bulma era l’unica insonne probabilmente.

«Non è una navicella, quindi... »

«Pensavo ti bastasse la gravity room per diventare un super saiyan.»

«Questo non ti riguarda... Di’, quando pensi sarà pronta?»

«Dammi una settimana, e sarà tua.»

Almeno la gravity room.

«Una settimana... »

«Sì, prima di allora non sarà possibile portare a termine i lavori, io e mio padre dobbiamo creare una lega composta da diversi metalli, per nulla semplice da ottenere. Nel frattempo però, potrai recuperare le forze. E non preoccuparti, so che vuoi tornare ad allenarti; credimi, ce la sto mettendo tutta per accorciare i tempi. »

Ed era la verità. Tuttavia: lui aveva assunto l’aspetto di un’erma imperturbabile. Forse non le credeva, forse tutto quello che Bulma stava facendo era inutile. O forse v’era celato del non detto importante nelle catatoniche pause e negli ordini sfacciati del saiyan.


Ho l’impressione che ci stiamo entrambi prendendo in giro...


L’orologio indicava le cinque e venti. A parte loro, non c’era nessuno a ravvivare la tetraggine di quel luogo sotterraneo.
Lui non si era mosso dalla porta e lei non osava oltrepassarla.

E va bene, togliamoci il dubbio.

«Vegeta...»

«Cosa?»

«Sii sincero.»

Lo sentì emulare una risata tra sé.

«Di che parli?», le chiese e non fu incoraggiante.

«A... a queste domande sulla gravity room io avrei potuto rispondere in ogni momento, e tu avresti potuto chiedere anche a mio padre, se è vero che detesti parlare con me. Voglio dire, non avevi alcuna fretta per venirmi a cercare... Perché sei venuto? Perché mi hai raggiunta qui?»

Silenzio.

Lo vide indugiare, fare un passo incerto, rimanere in bilico, fra l’ingresso del laboratorio e il corridoio retrostante. Sul limite tra il feroce assassino senza cuore e l’uomo distrutto, avrebbe aggiunto lui; ma non lo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura. 
Fare un passo avanti equivaleva ad arrendersi a ciò che non poteva permettersi. Ad ammettere un bisogno, ad essere debole. Invaghito.
Abbassò lo sguardo, nascose il volto alla luce. Lo calò nell’ombra. Al riparo da lei, un sole troppo accecante.


«Dici e pensi sempre un mucchio di sciocchezze.»

Ma come negare l’ovvietà.


Cedette: «Non devi chiedermi perché», come se di colpo le congetture, i piani di vendetta e il suo io acquisissero un peso che quel corpo non poteva sostenere ulteriormente. Vegeta s’appoggiò al muro, sostenendosi ad esso con una mano. Bulma, credendolo nuovamente malato, accorse verso di lui.

«No. Se ti avvicinassi ora, sarebbe un guaio. Stai lontana.»

Ennesimo ordine, ne era nauseata. Odiava quella impasse lutulenta in cui sembravano destinati a rimanere.
Spostò il proprio peso da un piede all’altro, ciondolante. Ripensò all’ospedale, a quello che avevano passato, a lui che la catturava. Alla porta che le aveva aperto per farla andar via quando le aveva fatto del male involontario, assolutamente involontario. 

Scoppiò:

«Mi dici di starti lontana, però mi chiami per nome. Continui a respingermi, eppure sei qui. Io non ti capisco, Vegeta»

«Desidereresti sentirmi dire che sono venuto per te?» 

L’aveva detto. E no, non era venuto per lei. Il saiyan conosceva la motivazione, la natura sincera del perché fosse lì. E perché di natura si trattava, o in tal modo gli piaceva vederla. Rendeva tutto più semplice, più facilmente cancellabile.

Non fu piacevole. Pure se quello era esattamente ciò che Bulma sognava con tutto il cuore; lui, alla sempiterna serietà, aveva aggiunta una evidente sofferenza che di nero fumo gli aveva ottenebrato sciagurata lo sguardo; gettando, sopra gli occhi vivi e ruggenti dei quali lei s’era sempre beata, una brutta cateratta.

Lo vide spento, fosco. Improbabile.


«Io sono molto stanco, Bulma... E la mia stanchezza è un pericolo»

Il cuore le andò in cortocircuito, era in vista un incendio. Sarebbe morta bruciata. Sarebbe stato magnifico.
Credette di aver ricevuto la conferma tanto attesa.

«Per questo non ti muovi da lì?»

Pausa.

«E se mi avvicinassi io a te?»

Altra pausa.

«Saresti una stolta... Non far finta di dimenticare come sono arrivato su questo pianeta e per quale motivo.», le ribadì in un ultimo disperato tentativo per farla scappare. E dove poi? C’era proprio lui a bloccarle l’uscita.

«Non l’ho mai fatto, altrimenti tu non saresti qui adesso, non ti avrei fatto entrare in casa mia.»

Ed è stata una pessima scelta.

Pensò Vegeta. Non si sarebbe salvata da lui.

Nel medesimo istante, Bulma si avvicinò svelta al saiyan. Fino a catturargli il respiro.
Vegeta se la ritrovò sotto il naso, tra le braccia se non si fosse trattenuto.
«Cosa stai facendo?» le domandò, colpito dalla mossa incauta.
Bulma allungò la mano tremante. Lui la osservò, ne seguì il tragitto. Quando lei gliela porse, Vegeta ne assaporò il delicato odore. Dita piccole e fredde, buone, gli sfiorarono il volto sbarbato. 
Si fece carezzare, non lo aveva mai permesso a nessuna donna.
A lei parve toccare marmo incendiato. Sì, era come se bruciasse.

«Io posso alleviare la tua stanchezza.»

Gli sussurrò leggiadra, formulando l’incantesimo giusto. E lo zittì prima ch’egli potesse compiere un’ordalia contro quello che tra loro incontrollabile sbocciava.

«Permettimi solo di starti vicina»

Mi prenderò cura delle tue pene. Guarirò le tue ferite.

Lui non le rispose, aveva le pupille dilatate, sembrava febbricitante. 

«Permettimelo», ripeté soffiando sulle labbra dure del saiyan.

Lo sentì inspirare intensamente, placarsi e animarsi ancora.

«Non sarò diverso con te»

Una minaccia inutile mentre le punte dei loro nasi si toccavano appena.
I respiri si fusero in un unico anelito.

«Lo so»

Attenta.
Bussò la coscienza.

«Non mi interessa nulla delle tue stupidaggini da terrestre, nulla... »

Di altre carezze delicate lei continuò a incorniciargli il viso.
Ormai erano solo elettricità. 
Bulma poteva sentire il cuore battergli nel torace possente.

«So anche questo...»

Vegeta crollò.
Su di lei.
Con dolore.
Premendo le labbra.
Invadendo quella bocca di femmina.
Ne assaporò le ansie, i singulti.

Non era capace.

Interruppe subito.

«Non fermarti – singhiozzò Bulma – Va' avanti», lo pregò.

Vegeta le dedicò un solo sguardo e quando nell’abisso cobalto racchiuso negli occhi della scienziata trovò la conferma di ciò che lei lo stava incoraggiando a fare, decise di annegarci dentro e portarla giù con sé.

Finì a sbatterla contro uno degli armadi del laboratorio.

Adesso, Bulma sentiva davvero la tensione attanagliarla dallo stomaco.
Perse alcune linee di coscienza, un lieve senso di confusione la attraversò annebbiandole per alcuni secondi la vista.
Le formicolavano le braccia. La nuca pulsava forte. Vegeta. Dov’era Vegeta? Voleva sfiorargli il viso, dirgli che sarebbe andato tutto bene, voleva disperatamente spingerlo ancora contro le proprie labbra, soffocare di baci e dirgli, dirgli che...
La vista tornò normale e la sensibilità pure.
Lui era lì, le stringeva i polsi per impedirle di cadere, nel caso svenisse, ma soprattutto la voleva assolutamente ferma.
Un istinto sopito, un animale lubrico da tenere alla catena s’era svegliato.
I polsi dolevano, la testa di più.
«Continua»
Comandò pazza, sciolta nel deliquio.
E Vegeta eseguì, a modo suo. 
Si spogliò, la spogliò. Velocemente.
Non ebbe pietà, arrivando presto alla pelle nuda.
«Continua» 
Sfrenato, affondò in lei, le strappò un grido di allarme che la ventola dell’aria sfumò ronzando forte.
Prese a stantuffarla, subito. ​Voleva trattenersi, non lo stava facendo. Cambiava i ritmi, quasi ne andasse in cerca, perché non trovava quello giusto, perché non c’era pace in lui. La costrinse carponi sul pavimento, un ostinato inopportuno contatto visivo era sgradevole. La punì di colpe che non aveva. Le fece fare un giro nel proprio mondo. Piegarsi non era piacevole. Abbassare la testa, quante volte lo avevano costretto? Ingoiare l’onta, sentirsi un verme. Avere la bocca sporca del proprio sangue. Morire sconfitto.
Si accanì contro di lei, beandosi della schiena nuda e delle natiche ondeggianti... alle quali si artigliava spietato.
Non respirava Bulma, seguiva il ritmo forsennato delle spinte; e non era il suo dolore che stava per farla piangere, ma il dolore di quell’uomo. Aveva il fiato strozzato, Vegeta. C’era più umanità in lui di quanta lei avesse potuto immaginare.
Ma sotto le ginocchia il pavimento continuava a fare male, i colpi pure, come un castigo. Veloci, ripetuti ancora e ancora.
Perché Kakaroth era lontano. Irraggiungibile. 
La passione si vestì di tormento. Rideva oscena. Si prendeva gioco di entrambi.
Poi, il tempo parve sgretolarsi e la coscienza staccarsi.
Un'onda conturbante 
s’irradiò dal ventre ferito sino ad arrivare a occuparle la gola. Il corpo le tremò, la voce si infranse in una cascata di gemiti soffocati. E lui continuava a colpirla. La attaccava, spasmodico, finché il culmine forte schizzò dritto come un proiettile, colpendogli il cervello. Lo costrinse a fermarsi, a curvare indietro la schiena, mozzandogli il fiato. Durò diversi secondi, di bianco liquido, di coma. Di buio incastrato. Appeso. E poi di nuovo avanti, a terra, su di lei, dove ricordava e soffriva.

Collassarono sul pavimento come faglie durante un terremoto, sudati, ignudi, percorsi da fremiti incontrollati.
I loro respiri erano un’unica voce che subodorava consapevolezza.
E non si parlarono. Il silenzio era una culla comoda, per il momento.

Bulma fu la prima a tornare in sé, si girò a guardarlo: fissava il soffitto, Vegeta, e il petto muscoloso gli si abbassava ed alzava. Era stato crudele. Le aveva offerto un solo bacio con dentro l’attrazione degli sconosciuti e la tragedia degli amanti. Poi, l’aveva costretta a pensare a lui come un saiyan affinché non si dimenticasse di chi egli fosse.
Gli sfiorò la mano tenuta raccolta contro il torace. Vegeta si sottrasse. Un giudizio che non credeva di possedere gli aveva appena suggerito di non esserne degno, e quindi di togliersi. Immediatamente dopo, si alzò in piedi, nudo, spettinato. Diverso. Raccattò da terra i pantaloni, li infilò. Non disse nulla, evitò di guardarla. Poi, andò via.

Non aveva raccolto la maglia, che era rimasta sul pavimento come un corvo nero schiacciato. Bulma la prese, era diventato un vizio attaccarsi ai resti; e la usò per coprirsi. La stoffa era ancora calda di lui e le serviva un abbraccio. C’era troppo gelo nel laboratorio.

L’orologio in alto segnò le cinque e quaranta del mattino.

 


Continua...


Sotto la gif animata c'è il nuovo disegno.

passo-1-2 Note: non ho molto da aggiungere, a parte specificare che sono a pezzi con la schiena, ho una lordosi che mi fa vedere le stelle. Quindi poco da dire. Scusate la mia assenza, scusate i miei ritardi, di ogni genere, passerò da chi ho promesso. Un grosso GRAZIE a tutti voi.
Unica domanda: vi piace la mia gif di loro due che si baciano in loop? Se avete problemi a vederla o non vedete l'animazione ditemelo.
E il disegno? Vi aggrada? Guardate che espressione concentrata ha Vegeta. ^///^

 

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV - Tre teste immerse nell'acido formico. È certamente capitato.
 ***


Standby
 

Capitolo XIV - Tre teste immerse nell'acido formico. È certamente capitato. 
 

 


Con perizia, Bulma aprì il rubinetto di regolazione. L’acetilene uscì soffiando dall’ugello. 
La scienziata avviò quindi la combustione e una lingua calda, luminosa, di fuoco giallo, si allungò per circa venti centimetri sputata fuori dal cannello che lei teneva in mano. Come la bocca di un drago fra le sue dita.
Mancava l’ossigeno.
Aprì la valvola e vide mutare la fiamma pian piano che le particelle di O2 venivano liberate in giusta dose, fino a raggiungere un bagno di purezza che cangiò il colore del fuoco: di toni freddi, di azzurro artico e trasparente che, in realtà, raggiungeva una temperatura di oltre tremila gradi. 
La fiamma, il dardo, si presentava adesso di corta gittata, ma era più pericolosa. Da sciogliere il metallo. Ed era quello che la scienziata stava per fare: saldare, una saldatura ossidoacetilenica. Tra le sue preferite. Perché le piaceva padroneggiare il fuoco e piegare la materia al suo volere.
Era chirurgica con quel sistema.
Lo era stata anche con Vegeta: era stata una piccola fiammella celeste, apparentemente innocua e bella, a cui lui si era avvicinato e con la quale aveva fuso il suo duro metallo.
Le piaceva pensare e riassumere l’esperienza in tal modo.

Avvicinata la fiamma, la fusione del materiale di apporto avvenne istantaneamente.
Come, immediatamente, loro s’erano trasformati da improbabili coinquilini in altrettanto più improbabili amanti.
Amanti. Riduttivo.
Era stato di più. 
Lei lo aveva sciolto, era entrata in profondità. Dove portasse quell’apertura, però, non lo sapeva. Quando si trattava di Vegeta, l’orgoglio era la variabile impura onnipresente con cui fare i conti e fallire il processo di ossidazione. 
E tante erano state le ipotesi che la scienziata aveva immaginato; ciononostante, non comprendeva ancora il motivo a causa del quale, tre giorni prima a quel momento, era rimasta sola sul pavimento del laboratorio… A guardare i minuti andarsene e le azioni da poco tempo compiute trasformarsi in ricordi. 

Vegeta se ne era andato e non aveva voluto più toccarla. 
Amante non era un termine da accostarglisi: un amante sarebbe rimasto un attimo ancora per godere del calore sprigionato dopo l’amplesso. Lui era scappato simile ad un pentito.
Tra loro era stato feroce. E Vegeta era sensibile in modo negativo al calore: lo fondeva, gli apriva dentro voragini, certo. Il risultato però era un ossitaglio. Niente veniva o restava saldato. 
Da quel giorno, Bulma aveva provato ogni sera, sfacciata, ad aprire la porta della camera accanto alla sua trovandola sempre chiusa a chiave. Vegeta era anche un guastafeste, oltre ad essere l’esperto della latitanza.
Per questo, per evitare di pensarci, il che non le riusciva, e per mantenere la promessa fatta, la scienziata si era buttata indefessa nei lavori necessari alla realizzazione della nuova gravity room. Ed erano trascorse già settantadue ore dal calcolo del suo compimento. Era a metà strada perché era brava come nessun altro al mondo.

Pensi veramente di poter tenere un drago in una gabbia per uccelli?
Non è una gabbia per uccelli. È dove potrà sprigionare le sue fiamme.
E tu la sai lunga sulle fiamme, non è vero?

Un altro pannello, che funzionava da esoscheletro per una seconda struttura interna, era stato saldato. Bulma aveva progettato l’impianto della nuova gravity room come una sorta di doppia calotta, un doppio guscio nel quale avrebbe attivato una barriera magnetica di protezione. A prova di esplosioni.
Dentro i guanti di cuoio le dita erano fradice e sotto la protezione della tuta ignifuga il suo corpo non era da meno. 
Una goccia di sudore nacque dalla cute, si fece spazio fra l’attaccatura dei capelli, all’inizio del collo fino, e scese gelida a bagnarle la schiena. 
Se c’era una cosa che la scienziata non sopportava del proprio lavoro era ridursi così, come cellulosa al macero.
Spense la fiamma gradualmente, diminuendo l’acetilene. Quando non ne uscì più, passò all’ossigeno e chiuse il rubinetto anche di quest’ultimo. Il dardo si estinse silenzioso senza scoppiettare e senza ritorni di fiamma. 
Erano altre le fiamme che lei anelava veder comparire. Ma non c’era da sperarci.

Dal trabattello su cui stava, a circa otto metri da terra, guardò giù: gli operai erano diligenti, lavoravano alacri.
Nessun incidente. Poi, là sotto, la scienziata vide anche suo padre, stava discutendo. Fumava una sigaretta. 
Non riuscì però a scorgere con chi ce l’avesse il suo vecchio. Una scala copriva l’identità di quella persona. Finché qualcuno, con ottima coincidenza, passò e la rimosse. E lei poté scoprire. Meravigliarsi.
Era lì, era venuto. 
Vegeta era tornato.
Parlava col dott. Brief, guardava l'opera in divenire e sembrava esserne ammirato.
Bulma s’aspettò di essere vista, ne pregava l’attenzione. Desiderava che Vegeta tornasse a cercarla.
Riaccese il cannello.

È la tua gabbia, non la mia.

Di ossigeno ne stava uscendo troppo e la fiamma ora produceva un sibilo insopportabile.
Quella fiamma non era buona per effettuare una saldatura.

Ho bisogno di parlargli. Ora.
Per chiedergli cosa?
Abbiamo fatto l’amore.
Era amore?
Eravamo coinvolti entrambi... 
Però lui era altrove.

«Vegeta!» gridò. Poco coraggio. 

Gli occhi del saiyan la raggiunsero lentamente. Vegeta l'aveva intercettata in mezzo a tutto quel bailamme sin da quando era arrivato. Di solito, il principe teneva sempre d’occhio i nemici e ciò che gli causava dissenso e collera; anche se la scienziata sembrava essere scappata da entrambe le categorie.
«Oh, ti sta chiamando mia figlia! – sottolineò l’ovvio il signor Brief – ti consiglio di andarci, Vegeta, è lei il genio qui, e saprà rispondere adeguatamente ad ogni tua domanda.»
Pur non avendo lo stesso tempismo della moglie, lo scienziato azzeccò la sequenza di parole. Ma sì. Conversare con lei. Se la terrestre aveva le risposte, poteva farlo. Quanto menoavrebbe dovuto maturarle da sola.

Il saiyan si mosse fra gli operai, passò evitando di pestare cavi a terra, pezzi di metallo, fiamme libere. Sembrava un campo di battaglia, della battaglia che Bulma stava portando avanti per lui. Più fedeltà di questa...
Con un salto che notò nessuno, Vegeta arrivò alla torre. Il trabattello vibrò appena. Sapeva essere invadente e conquistatore in ogni minimo o inutile gesto. Lo spazio era residuo per starci in due. Questo li costrinse ad avvicinarsi più di quanto avrebbero voluto in quel momento. Non c’era adeguato calore, però. Nessun bagno di fusione, non si sarebbero fusi. Dalle parti di lui si prevedevano grandine e gelate. Le braccia conserte, poi, erano lì a negare alla scienziata qualunque tentativo di abbraccio. Era bravo, aveva capito in che modo minare ogni intenzione di avvicinamento.
E ora ti sono estranea, immagino.
Il cannello era ancora acceso, continuava a produrre quel rumore irritante. Almeno, occupava il mutismo condiviso.
Ti rendi conto di quanto sia inutile aspettarsi da lui un comportamento normale?
E cosa era normale?
Le relazioni... In che modo si sviluppavano i rapporti in una coppia saiyan? Si sposavano, ad esempio? E se sì, erano monogami, poligami? Esisteva per loro il tradimento? Quando potevano definirsi una coppia? Se andavano a letto con qualcuno pretendevano di ritornarci?
Non stavi cercando un bambino.
Il loro non era stato un rapporto protetto.
Non volevi un nuovo guerriero da forgiare. È finita quella guerra, Vegeta. Di questo ne sono sicura.
Le altre domande, invece, si affastellavano sconclusionate nella testa della scienziata. Che voleva riconosciuti gli stessi diritti di una qualunque terrestre accoppiata. Una pretesa sciocca, con la quale fece presto i conti.

Perché una rondine non fa primavera. Averlo sentito dentro di te una volta non vi rende una coppia.

Vorrei rifarlo.

Se non spegni l'arnese che hai tra le mani, resti comunque lontana dall’obiettivo.

Tuttavia, la fiamma accesa la faceva sentire a proprio agio. Dimostrava quanto anche lei sapesse essere potente, con i suoi mezzi.

«Che cosa vuoi?»

Già spazientito?

È il suo "buongiorno" dopo tre giorni. Cerca di capirlo.

Per poter parlare meglio con lui, la scienziata diminuì progressivamente il dardo. Ma evitò di spegnerlo del tutto. Era importante che rimanesse acceso; come un monito, un’espressione di aggressività. Lo facevano gli animali per difendersi dai predatori, si fingevano pericolosi per non essere mangiati. 
Ma era comunque preciso intento della scienziata mostrarsi pericolosa e non fingere.
«Non ti ho più visto, sei sparito, perché?», azzardò.
«Da quando devo rendere conto a te della mia presenza?»
Ecco, diciamo che un saiyan allo stato selvatico come lui – era Goku quello in cattività – non prendeva e non dava garanzia di continuità di confidenza. Soprattutto, non dava.
Non siete sposati.
Non siete una coppia.
Non siete fidanzati.
Non siete innamorati.

Io sì.

Non le interessava che fosse un saiyan la persona con cui aveva a che fare. Da terrestre, ci teneva a rimarcare la linea attraversata la quale un uomo doveva capire che non poteva liberarsi di lei.
Uff, non perdiamo la pazienza.
Perché te ne sei andato senza dire una parola? Perché?
Era semplice da chiedere. Inopportuno da chiedere a Vegeta.
Tu cosa ti aspettavi? Che ti dicesse ti amo, sono pazzo di te, facciamo di nuovo l’amore? Non illuderti. Ancora. Risparmiati la fatica, Bulma. Risparmiala.
«Volevo solo aggiornarti sullo sviluppo del lavoro.», fu il suo limitarsi.
«Lo vedo, per i dettagli chiedo a tuo padre. Hai altro da dirmi?», massacrante come meglio sapeva dimostrarsi, Vegeta invece non si risparmiò. Soppiantandola.
Sì, che ce l’ho altro da dirti! Voglio sapere cos’hai provato. Ti sei sfogato. Ne avevi bisogno, me ne sono accorta.
... Glielo hai proposto tu. E non eri sempre tu quella che doveva guarire le sue ferite? Comportati da donna adulta. Sii coerente.
Rinunciò: «Ho progettato io questa gravity room, è completamente diversa dalla precedente, devi rivolgerti a me per-»
«Se avrò bisogno di conoscere di più te lo farò sapere.», zittita di nuovo. Il saiyan si mosse per andarsene.
«Aspetta, Vegeta!»
Implorare era sempre indice di un cattivo inizio. Ma riempirsi la bocca col nome del Principe dei Saiyan... Quanti nell’universo potevano vantare quella libertà? Vegeta. Altisonante e maledetto.
Lui fece finta di ubbidire, non se ne andò. Bulma cadde in trappola, lasciò il cannello appendendolo all’asta di sicurezza e si avvicinò al saiyan infischiandosene della tempesta e delle previsioni infauste che lui emanava per tenerla lontana. Si fermò ad una decina di centimetri dai pettorali d’acciaio e dal cuore nascosto che si fingeva morto dinnanzi all’umanità ma non davanti a lei.
«Non te ne andare, non voglio che tu te ne vada», gli si rivolse timida, provando a ritrovare con lui la fragile intimità che li aveva uniti; gli occhi avevano trovato riparo in basso a sinistra; le parole le aveva spinte fuori in un sussurro che solo Vegeta aveva la capacità di percepire. Se avesse voluto.
Dopo alcuni minuti di respiri silenziosi, lui le concedette un indizio: «La questione non riguarda ciò che vuoi tu... », aveva voluto. E lei credette di esserci riuscita. Anzi, era diventata vittima senza accorgersene.
«Ti ascolto, quale è il problema?», si sfilò i guanti di pelle e li poggiò sulla ringhiera di metallo. Gli occhiali di protezione li spostò sopra la chioma riccia.
«... Sei sporca e sudata.»
Non era quella la risposta al quesito ermeneutico chiaro a entrambi. E poi, una frase del genere avrebbe trasformato Bulma in una biscia. Non stava accadendo perché la scienziata super ingegnere si era accorta del camuffamento: non era più la sola a fingere aggressività. A parer suo.
Ma era stata l’unica ad aver abbassato le difese, aveva posato la fiamma e si era sfilata le protezioni.
«Sono sporca e sudata perché sto lavorando per te.», la disfatta.
«Bene, non smettere. Il resto non ha importanza.», la vittoria.
Non le piacque. E non poté nemmeno replicare perché il tetro invasore se ne andò reiterando le movenze invisibili con le quali era balzato sul trabattello.
Hai perso.
Ovviamente, la coscienza.

«Smetto. Io smetto, perché sono libera di decidere e me la voglio fare una doccia, me la merito.»

 

 

~ ~ ~

 

 

La città provinciale di Kumo distava dieci chilometri dai confini dalla più grande Città dell’Ovest.
Se si prendeva la strada principale, partendo dal centro di West City, ci si arrivava in meno di trenta minuti. Senza contare il traffico. Comunque, chi viveva lì lavorava certamente a West City; Kumo era un posto che non aveva molto da offrire e la grande metropoli che gli era vicina stava man mano fagocitandola come proprio distretto.
Chi, al contrario, viveva a West City andava a Kumo per passare il weekend, perché Kumo offriva dei soggiorni tranquilli, in villette singole, dove, quando ci si affacciava alla finestra, si poteva far viaggiare lo sguardo verso le montagne limitrofe, senza grattacieli ingombranti a nasconderne il panorama.
L’affitto di questa sorta di appartamenti disposti su due piani non era molto caro. Potevano permetterselo anche gli studenti che a West City non avrebbero avuto soldi sufficienti per prendere in affitto una stanza. Perché gli alberghi nella Città dell’Ovest erano molto cari. 
Uno tra i diversi motivi che avevano spinto Yamcha a scegliere Kumo e non West City come posto in cui nascondersi.
Nascondersi alla polizia. Se, eventualmente, lo stessero cercando.
Col suo stipendio di giocatore della World League, la pigione di un appartamento a Kumo non era un problema. Ma le ossa rotte della propria mano sinistra, sì. Ossa non guarite, non medicate, ci sarebbe voluto più di un intervento chirurgico per rimetterle tutte al loro posto. Yamcha si era limitato ad utilizzare delle bende: le aveva sistemate legandole molto strette da immobilizzare le dita e i movimenti del polso. Certo, non risolvevano il problema e il dolore. E la forma raccapricciante.
Per questo, lo spilungone era intento ad assumere un’altra dose di morfina via parenterale, iniettandosela direttamente nella coscia sinistra. La prendeva da un kit di emergenza messo in dotazione per i giocatori dei Titan e consegnato all’interno di una capsula ad ogni membro della squadra. Lui però s’era fatto aggiungere quella sostanza con vari sotterfugi, era necessaria la prescrizione medica per averla.  Ma in passato, aveva pensato potesse tornargli utile durante un altro tipo di duri allenamenti, uno come quello svolto prima dell’arrivo dei saiyan. 
Ci aveva visto lungo.
Tuttavia, di lì ad un giorno, le dosi sarebbero finite; e di conseguenza sarebbe tornato il dolore atroce. Questo era un altro problema.
Se non avesse tentato un assassinio sotto le videocamere, avrebbe potuto raggiungere un ospedale, uno qualunque, e farsi medicare senza correre il rischio di essere riconosciuto. Oppure, avrebbe potuto farsi curare direttamente dall’equipe medica della sua squadra di baseball. Ma gli avrebbero fatto domande e l’avrebbero messo in panchina.
Era stato stupido, aveva fatto una cazzata. Non era rimasto lucido e aveva anche fallito.
Il saiyan era vivo. Lo era eccome: durante i giorni trascorsi dalla bravata, Yamcha aveva percepito l’aura di Vegeta intensificarsi più volte non lontano da Kumo. Quindi, sicuramente a West City. E se non nell’ospedale, alla Capsule Corporation. A casa di Bulma. Con Bulma.

Aveva ancora le brache calate per essersi fatto l’iniezione, ed immerso nella penombra, con le serrande basse attraverso le quali il sole entrava spione creando affilati tagli di luce, Yamcha la immaginò fare l’amore con la scimmia mannara: immaginò la carne aprirsi, invitare l’alieno assassino, la bocca piccola formare un ovale socchiuso di goduria, immaginò sentirla gemere di piacere, probabilmente come mai aveva fatto con lui. E immaginò l’animale schifoso strizzarle i seni. E grufolare e venire dentro di lei.
Digrignò i denti, avrebbe perso il senno di nuovo. Batté il pugno sul bracciolo della poltrona su cui era seduto. L’impotenza lo legava alla sedia. Aveva perso un’occasione d’oro, per ammazzarlo. Avrebbe voluto vedere il saiyan soffrire come un cane, come meritava. Invece, ora, poteva solo starsene seduto a rodersi il fegato.
Doveva parlare con Bulma, insistere, provare nuovamente a convincerla.
Per questo altro motivo, Yamcha non si era allontanato troppo da West City e non era tornato nella Città del Nord.
Credeva ancora di potersi avvicinare tanto alla sua donna.
Il telefono squillò, la suoneria metallica sembrò rimbalzare su ogni masserizia che arredava anonimamente la camera.  Yamcha lo lasciò andare a vuoto, non rispose. Sapeva chi lo stava cercando, era almeno la cinquantesima chiamata persa tra quelle ricevute nel giro di una settimana. Il suo agente personale e il coach gli avevano probabilmente strappato il contratto. Lui li aveva avvisati che tornava a West City per un’emergenza. Ma non aveva specificato nulla di più. Aveva pensato che avrebbero potuto comprendere il resto da soli, guardando il telegiornale. Vedere la Capsule Corporation bruciare non era uno spettacolo di tutti i giorni.
Adesso, la priorità la aveva la salvezza di Bulma, la salvezza della propria vita, del suo futuro con lei e del bambino che Goku le aveva augurato in quel giorno di predizioni orribili. Un figlio che lui aveva provato a rendere realtà.
Forse, la presunta tresca col saiyan continuava ad essere una sua paranoia e il danno da risolvere invece era tra se stesso e Bulma. Doveva spiegarle l’equivoco accaduto in televisione. Sì, era semplice, quante volte si erano trovati in una simile situazione? Tante che nemmeno ricordava; e lui le aveva risolte tutte. Poteva farcela.

Non lascerò che qualcuno o qualcosa distrugga quello che insieme abbiamo costruito.
Tu sei ancora mia, Bulma.

E col sogno bello che aveva creato, però claudicante sulle stampelle dell'illusione, appena sentì la morfina ammorbidirgli le membra e scaldargli i muscoli; Yamcha si tirò su i pantaloni e uscì diretto a West City. 

 

 

~ ~ ~

 

 

Aveva impiegato venti minuti per farsi la doccia e asciugarsi i capelli. A differenza del dispetto che avrebbe voluto fare al saiyan. Pareva che il tempo fosse interamente da dedicarglisi. Anzi, lo era, e da giorni trascorsi al chiodo in laboratorio. 
La scienziata aveva temuto di rivivere il mese che l’aveva tenuta lontano da lui prima dell’incidente. Ma stavolta, era andata diversamente: non aveva perduto sangue, Vegeta le aveva rivolto la parola dopo tre giorni e poco importava se per ribadirle che, certamente, quanto accaduto tra loro era squisitamente dimenticabile. Lei se lo sarebbe inciso volentieri sulla pelle, usando un punteruolo o la fiamma del cannello che le piaceva tanto. Quasi, desiderava avere un segno del suo passaggio. Affinché tutti potessero vedere che lei gli apparteneva, che era la donna del Principe dei Saiyan. Non lo doveva nascondere a nessuno, non più.
Averlo visto salire sul trabattello per raggiungerla, poi, era stata una lieta sorpresa. Un miracolo.
Per questo c’era una festa, nella testa della scienziata. Avrebbe lanciato coriandoli ovunque, li avrebbe ficcati anche nella bocca di chi non sorrideva alla sua felicità e avrebbe soffiato lingue di Menelik a perdifiato, fino a sentire i polmoni scoppiare, rompendo i timpani a qualunque persona avesse negato l’esistenza del loro rapporto.
E venti minuti passati a rinfrescarsi erano stati eccessivi: sprecati, perché voleva trascorrere più tempo possibile in compagnia del saiyan, invitandolo a fare una passeggiata, portandolo a vedere dei posti carini – per lei – e mangiare insieme a lui fragole con tanta panna. Desiderava, con la bocca piena di zucchero, conoscere i suoi incubi, il passato, l’origine di ogni cicatrice. E fare l’amore. Ancora. In maniera diversa.
Non accetterà. È Vegeta, non il figlio dei vicini da presentare ai tuoi una domenica a pranzo. Né il fidanzatino da portare alle feste con gli amici.
Bulma indossò un maglione che le lasciava tatticamente scoperto l’addome, così da poter mettere in mostra l’ombelico, ricordo tenue dell’orifizio chiuso fra le sue gambe.
I jeans che infilò ne rimarcavano esistenza e collocazione, fermandosi appena sotto l’ombra del cerchietto di pelle raggrinzita, nonché, una volta, bocca per la sua se stessa immersa in una sacca di liquido amniotico.
Mise un cappotto lungo, a portafoglio, color cammello; acchiappò la borsa e portò con sé l’idea di incontrare Vegeta, il potere di parlargli e di invitarlo ad uscire. Sempre senza preservativi. Tardava ancora a farci caso.
Era caparbia e troppo convinta. C’era del quotidiano da costruire insieme a lui, che sarebbe stato diverso, lontano da qualunque normalità da lei e dagli altri finora intesa.

Quando la scienziata raggiunse il cortile della Capsule Corporation, aveva il batticuore. Era l’ultima possibilità che le era rimasta di incontrarlo: in casa e nei laboratori non le era capitato di vederlo, il dottor Brief le aveva riferito che, da quando anche lei se ne era andata, Vegeta non era più tornato. E ne era sicura: il bieco testardo non stava nemmeno nella camera con scritto “divieto d’accesso alle belle signorine di nome Bulma”.

Circumnavigò il perimetro ovale della CC e a passo svelto arrivò nella parte più interna e privata del giardino. Lì, venne folgorata dall’erba verde che scintillava fresca, in netto contrasto con delle sedie dipinte di bianco e disposte una di seguito all’altra. Ne poteva contare circa sessanta, un gruppo di trenta a destra e un altro a sinistra. In mezzo, un tappeto blu.
L’effetto comunque restava lo stesso che avrebbe avuto avvistando un campo verde infilzato di croci in marmo disposte tutte in fila, su più file, e tutte parallele, alla stessa distanza.
Davanti alle sedie c’era un palco, ed era alto da stare a mezzo metro da terra.
Due donne che Bulma non conosceva stavano preoccupandosi di adornare sedie e palco stesso.
Tanti fiori. Bianchi anche loro. Erano gigli e orchidee.
Che qualcuno avesse sentito il suo animo in festa e avesse allestito una suggestiva scenografia per lei?
Eppure, il presentimento che le trasmetteva quella scena non era piacevole. Al contrario, era sinistro e intollerabile. Sì, la scienziata stava arrabbiandosi prima ancora di capire la natura di quella pagliacciata. Non ebbe neanche il coraggio di chiedere ad una delle sconosciute – che continuavano a calpestare il giardino di casa sua senza notarla – il significato della loro presenza lì. L’incredulità raggiunse il picco quando Bulma scorse sua madre parlare con tre uomini. Sua madre, all’interno di un altare in legno, chiuso in alto da una cupola ottagonale e sorretta con otto colonne dipinte a spatola. Che alla luce del sole rilucevano come marmo, pure loro. Ma il sole stava sparendo veloce dietro le nubi. E quelle brillavano sempre meno. La scienziata sfilò tra le sedie e salì sul palco. Dove stava l’altare.
«Mamma... »
«Quindi, signori, cerchiamo di mettere le luci qui e appena parlerò con mia figlia vi dirò se adorneremo la cupola di gigli o di orchidee. O entrambi, ah ah ah!»
Era stata ignorata: «Mamma, sono qui.»
«Oh, che emozione! Chissà che faccia farà la mia Bulma quando vedrà quest–»
«Mamma, io sono qui!»
Gridò isterica, perché maggiormente la sua coscienza andava arricchendosi di dettagli a proposito della situazione e più il palco e le sedie la inquietavano.
«Ah, tesoro! Non mi ero accorta di te.»
«Spiegami, cos’è questa baracconata? Di chi è la festa?»
La signora Brief sorrise ad occhi chiusi: «Cara, avrei voluto fartelo vedere già sistemato, va’, fa niente, sono felice che tu sia venuta, così finiamo di scegliere insieme tantissime cose!»
Scegliere?
«Poiché l’abito è bianco, credo che rimanere su quella tinta e rispettarne la semplicità sia l’abbinamento migliore. Il bianco poi è il colore della fedeltà, della purezza. Sì, lo so, lo usano tutte, ma tu sarai speciale, unica! Ehi, voi laggiù, fate attenzione, quelle statue sono delicatissime! – disse la signora Brief, piroettando sulle proprie scarpe mentre si rivolgeva a quattro coppie di facchini arrivati a scaricare delle casse contenenti angeli scolpiti a grandezza naturale; li stavano sistemando ai lati dell’altare; e Bulma, intanto, sgranava gli occhi e impallidiva, più di ogni fiore bianco, più della vernice ripassata di fresco sulle sedie, più della pietra fredda delle figure alate – Le ho fatte arrivare da lontano, sono costate parecchio ma sono spettacolari. Insomma, tesoro, ti stavo dicendo... Preferisci i gigli o le orchidee bianche?»
Il palato asciutto diventò una superficie abrasiva su cui si mosse la lingua. Le fece male. La scienziata tentò di dosare furore e insofferenza: «Mamma, cosa stai combinando?»
«Tesoro, ma... Non capisci? Mi sto occupando del tuo matrimonio, so che adesso sei impegnata con Vegeta e che hai da fare in laboratorio, per questo la tua mamma si prenderà cura di ogni aspetto. Ho già parlato con alcuni bravissimi chef per il menu di nozze, e poi ho pensato alla musica, la avremo dal vivo. A proposito, tra poco arriverà la stampa, ci faranno un’intervista proprio sui preparativi, sarà il matrimonio dell’anno! Cara, non sei eccitata?!»
Una mosca impazzita la si poteva uccidere schiacciandola. Ma quella era sua madre.  
I facchini le passarono accanto, avevano spacchettato gli angeli. Lei avrebbe spiccato via la testa ad ognuno di loro col solo sguardo.
«Manda via queste persone.»
«Come?»
«Sì, manda via tutti, soprattutto la stampa.»
In televisione si parlava ancora dell’incendio che aveva colpito la Capsule Corp. e della gente rimasta coinvolta. Altre grane sarebbe stato saggio evitarle.
«Cara, io ho già preparato gli inviti e... Oh, ma ciao Vegeta! Buongiorno!»
Bulma tremò. Non trovò la forza di far ruotare le caviglie. Usò la coda dell’occhio, si voltò appena: il saiyan era in piedi, tra le sedie, affascinante come mai. Si era cambiato, indossava jeans e pelle nera. Sembrava una rockstar.
«Bulma, lo hai detto a Vegeta? Glielo hai detto che ti sposerai con Yamcha?»

No. Questo adesso no.

Era la sua, la bocca soffocata di coriandoli. Ed impiegò minuti prima di elaborare una frase che l’avrebbe scagionata.
«Mamma, no! Non c’è, non ci sarà alcun matrimonio! Io e Yamcha ci siamo lasciati! Lasciati, capito?! Manda via queste persone e fai smontare questa roba!»
E poco importava se la sua premurosa mamma la guardava incredula e dispiaciuta e i presenti la prendevano per un’invasata, Bulma stava parlando a Vegeta, sperava la stesse ascoltando. Perché il malinteso era immenso e le prove tutte contro di lei. Da sua madre che parlava senza sapere, sino all’ultimo petalo bianco che testimoniava contro la sua purezza.
«Bulma, io... Io pensavo fosse tutto a posto fra di voi... Perché non me ne hai parlato?»
Quando la scienziata tornò con gli occhi alle sedie, Vegeta non c’era più. E le ipotesi erano due: se ne era andato prima ancora di sentire la sua versione urlata al cielo, o aveva ascoltato, andandosene perché non ci aveva creduto.
Il risultato ugualmente non variava.

Si farà un’idea sbagliata.

Se non se l’è già fatta.

«Dove è andato?», chiese disperata, prima a sua madre, che scosse la testa senza sapere la risposta, poi si rivolse agli altri presenti: «Avete visto dove è andato? Quale direzione ha preso?»
Penserà che l’ho tradito.
Una delle donne si lasciò cadere i fiori dalle mani e le indicò un punto, Bulma ne seguì la traiettoria.
Avvistò Vegeta fuori dalla Capsule Corporation.
Doveva raggiungerlo. Spiegarsi.

 

 

~ ~ ~

 

Un’ora dopo.

 

Da Kumo a West City, volando, ci si impiegava quanto il battito d’ali di un colibrì. Yamcha era nella Città dell’Ovest. Camminava, adesso. Perché se avesse continuato a volare, qualcuno avrebbe potuto scoprirlo accorgendosi della sua aura. Qualcuno come il saiyan che, se disgraziatamente ricordava, poteva reclamare la sua testa come pegno per il disturbo arrecatogli durante il coma.
Yamcha aveva un paio di occhiali da sole scuri sopra il naso e teneva la mano offesa in una tasca della giacca che indossava. Il piano era quello di avvicinarsi a Bulma e parlare con lei. L’avrebbe fatto con calma, niente grida, niente mani alzate. Si sarebbe controllato. E se lui si controllava lei non avrebbe potuto dirgli no. Ne era assolutamente sicuro.
In dieci anni di relazione non era mai stato violento con lei. Era colpa del saiyan se aveva perduto la calma a tal punto. Lei avrebbe dovuto capirlo e avrebbe dovuto fidarsi nuovamente di lui. Era ancora il suo uomo, pure se Bulma gli aveva detto che tra loro era finita. Ed era così anche agli occhi dei genitori della scienziata: lui restava il promesso sposo.
Si sarebbe presentato in tal modo alla Capsule Corporation, il signore o la signora Brief gli avrebbero aperto la porta e lo avrebbero accolto.
Ma il sedicente sposo era ingenuo, non immaginava che la sposa agognata aveva svelato la verità proprio quella mattina; ed era talmente ignaro da non temere che lei potesse sapere del tentato omicidio.

Yamcha aveva preso la strada che l'avrebbe portato direttamente a scorgere la Capsule Corporation, avanzava sicuro, finché un evento, una presenza indistinguibile, lo sconvolse: ad un isolato da lui, avvertì un’aura, quella, fra tutte le conosciute, che avrebbe voluto sentire mai più. La percepì esplodere improvvisamente ed affievolirsi un attimo dopo. 
Non poté fare a meno di correre. 
Si diresse dove l’aura s’era manifestata e assistette: avrebbe preferito essere accecato con dell’acido formico: non si era sbagliato: l’aura apparteneva a Vegeta.
E l’orrore maggiore fu scoprire che non era solo: c’era Bulma. Non c’era la distanza. Il saiyan, la sua Bulma... vicini, troppo attaccati, e non v’era paura: gli occhi di lei luccicavano d’apprensione. Peggio: Bulma stava rivolgendosi a Vegeta come una serva al suo amato signore.
Li osservò prendere una direzione, li osservò camminare insieme, legati da chissà quale maleficio.
Era sempre stata colpa del saiyan.
La bocca si allagò di saliva amara, un reflusso potente gli avrebbe fatto vomitare l’anima seduta stante. Colpito dalla delusione annientante, Si sentì risucchiare le viscere dal disgusto.

Li seguì.

Perché la candela della speranza s’era spenta ma la cera bollente lo confondeva facendogli credere che stesse ancora bruciando.

 

 

Al bar.

 

 

Ti piace vivere di illusioni, quindi soffri.

«Hai visto tu stesso stamattina che la gravity room è incompleta. Ci sto ancora lavorando.»

Che ti serva da lezione.

Si puniva, Bulma. Credere che lui potesse sentirsi tradito, che potesse essere geloso di lei. Convincersi d’esser per lui la donna che gli apparteneva... A chi avrebbe potuto farlo credere se Vegeta stesso la rinnegava?
E quella corsa. Per ottenere cosa?
Scoppiarono tutti i palloncini nella sua testa e i coriandoli si trasformarono in pezzetti di carbone nero che caddero a neve sopra al suo carrozzone della gioia.
La festa era finita.
Avvicinò di più la sedia al tavolo del bar. S’aggrappò ad esso per non collassare alla scontentezza.
Io e Yamcha non stiamo più insieme.
Avrebbe voluto ribadire, ma che importanza avrebbe potuto avere? Vegeta era il ritratto fiero dello stoicismo più menefreghista.
«Non... Non ti interessa sapere se io-», proseguì, imitando un tono da psicologa. La aiutava a mostrarsi distaccata quasi quanto lui.
«Mi interessa sapere come sta andando la costruzione della gravity room», Vegeta affossò il tentativo.
«Io e te siamo stati... insieme», insieme uscì tremolante. 
«E allora?»

E allora che fine ha fatto il Vegeta di stamattina? La passione di tre giorni fa? Noi?

Vuoi un consiglio? Smettila di fargli indossare gli abiti del “principe azzurro”. Sei una donna, non una bambina.

Bulma bevve un altro sorso di tè. Era diventato freddo, non serviva a scaldarla. 
Scegliere un maglione corto era stato stupido, probabilmente lui non l’aveva notato.
È un saiyan, mettitelo in testa.
«Ho capito: se un altro uomo passa del tempo con me, o la notte con me, a te non frega niente», non era stata una domanda, ma un pensiero detto ad alta voce. Una considerazione. Tra i saiyan funzionava così: c’era libertà, la coppia era aperta e non esistevano vincoli.
È la coppia a non esistere nel tuo caso.
Vegeta, però, aggiunse parole non richieste: «Puoi passare giorno e notte con chi preferisci. Sei libera di fare quello che credi per quel che mi riguarda.»
Era un patto? Un compromesso?
Mi stai parlando come uno sconosciuto.
Capitava pure tra i terrestri: un uomo e una donna potevano trascorrere un momento di passione insieme e poi lasciarsi.
Non crollava il mondo.
È capitato, tra noi.
Sì, è capitato. Eri il saiyan che voleva ammazzare tutti per vendicarsi di Goku e conquistare la Terra.
Ed è capitato e che poi io ti abbia invitato in casa mia e che tu non abbia rifiutato l’invito.

Così ho cominciato ad interessarmi a te. Ti ho compreso, ti ho attaccato e tu m’hai guardato e ti sei difeso. Ma non volevi ferirmi davvero. Ed io sono pazza, quindi, ti ho portato via dall’ospedale dove ti avrebbero ucciso.
Tu sei venuto da me, non volevi ringraziarmi, e abbiamo fatto l’amore. 
Qualcosa del genere.

Sì.

È certamente capitato.

«D’accordo.»
Non aveva altro da dirgli. Il silenzio diventò imbarazzante unicamente per lei.
Vegeta ancora si lasciava occupare la bocca dall'ultimo pezzo di cheeseburger.
In qualche modo, osservarlo mangiare rappresentava un pezzetto di quel quotidiano che avrebbe voluto costruire con lui. Doveva imparare ad accontentarsi.
La cameriera tornò e iniziò a portar via i piatti vuoti. Fu costretta a farlo più di due volte, perché le portate erano state molte. Quando provò a togliere la tazza di tè finito, la scienziata non le permise di farlo: la tazza era buona per avere qualcosa da stringere tra le dita.
«Desiderate altro?», ancora la cameriera.
Fragole e panna.
Le avrebbe ordinate sotto forma di gelato o su di una fetta di torta, o nel modo più zozzo: affogate in una coppa grande ripiena di sola panna fresca. E le avrebbe gustate usando le dita. Che si sarebbe leccata davanti agli occhi del saiyan, magari sarebbe riuscita  a metterlo in imbarazzo.
Stava per decidersi. Non lo fece; perché di fronte a lei, alle spalle di Vegeta, fuori dalla vetrina del bar, comparve un fantasma, uno spettro a cui non aveva più pensato perché la sua vita era andata avanti, aveva galoppato per miglia ed era riuscita ben bene a nettare quella parte di esistenza condivisa con lui, Yamcha.

Aveva due occhi da stravolto che parevano voler infrangere il vetro che li separava per disintegrare lei, Vegeta e le persone presenti.
Se Vegeta lo vedesse...
«Se volete posso portarvi un caffè o un dolce... Abbiamo delle ottime crostate alla marmellata di visciole», la cameriera proseguiva col suo lavoro. Di clienti tanto strani non ne aveva mai avuti, sperava che almeno le lasciassero una lauta mancia.
Comportati normalmente, o se ne accorgerà.
Yamcha non se ne andava. Se lei e Vegeta si fossero alzati in quel momento, si sarebbero incontrati faccia a faccia con lui.
«Prendo volentieri la crostata che ha detto», le serviva tempo.
Però, se accadesse.... Mi ha appena fatto capire che sono libera, che non gliene frega nulla di me. 
Provocare la gelosia del saiyan si stava palesando come un interessante esperimento.
Chissà quale reazione avrebb- Non essere incosciente! Yamcha ha tentato di ucciderlo, lo hai dimenticato?
Sì, ma non può fargli nulla adesso. Vegeta lo metterebbe subito al tappeto.
Tu da che parte stai?
«Ci vuole anche della panna, signora?»
Sì, tanta. Da nascondermici.
«Molta, grazie.»
Doveva attuare una strategia. Se Yamcha avesse varcato la porta d’ingresso del bar, sarebbe potuto accadere il finimondo.
Non avresti la forza di fermare nessuno dei due.  
Ma non dovette sforzarsi: rimessi gli occhiali neri, lo spilungone andò via.
Bulma tirò un sospiro di sollievo.
«E lei, signore? Prende anche lei la crostata?»
«Ne faccio volentieri a meno della vostra crostata!», la risposta scortese, oltre a lasciare interdetta la cameriera, che se ne andò veloce ed impaurita, catturò l’attenzione di una Bulma rimasta a guardare e memorizzare la direzione che Yamcha aveva preso.
La scienziata tornò a rivolgersi a Vegeta. Il saiyan la stava fissando intensamente.
«Non ingrasserò con un pezzo di crostata, tranquillo.»
Nonchalance, gliene serviva a chili.
Vegeta sembrò tornare ad avere un’aria disinteressata. A lei, invece, tornarono alla mente le immagini che ancora stentava a prender per vere. E le parole dell’infermiere:

“Stia attenta a quell’uomo, quello del video, ha tentato davvero di uccidere suo marito.”

Proprio perché il pericolo era scampato e non si sarebbe più ripetuto, Bulma interpretò quell’incontro... non casuale, ma una preziosa possibilità per chiarire la situazione, sentirsi dire che c’era stato un equivoco. E voleva sentirselo dire dal diretto interessato. Ne aveva bisogno per chiudere una volta per tutte quella storia e perché credere di Yamcha un assassino le faceva male.
Non doveva farselo scappare, finché era in città. Doveva raggiungerlo prima ch'egli se ne andasse.
E per farlo, a malincuore, avrebbe dovuto lasciare Vegeta.


Fallo irritare, se ne andrà.
Come?

Conosci la risposta. Prova a tirare ciò che lui detesta affrontare. 

Era fin troppo facile. Prese fiato: «Stavo pensando, intanto che arriva la mia buonissima crostata, che sarebbe opportuno chiedere a... –  dio, l’ultima volta ci ho rimesso il ginocchio –  che sarebbe opportuno chiedere a Goku dei consigli per aiutarti a diventare un super saiyan. Che ne pensi?»

Andata. E non c’erano vie di fuga. 
Come s’aspettava: lo vide alzarsi lentamente, stringere il tavolino da entrambi i lati e piegarsi avanti, sopra di lei.
Le venne spontaneo chiudere le braccia ad ics. Un riflesso di autodifesa.
Lo sguardo di Vegeta era omicida, più omicida del solito.

Stavolta ho esagerato. Stupida, stupida, stupida! 


«Pensa ai fatti tuoi, Bulma. E. Restane. Fuori.»

Vegeta aveva ringhiato tra le fauci, corrosivo e spaventoso. Senza smettere di inchiodarla con lo sguardo, il saiyan afferrò uno dei bicchieri rimasti e che la cameriera non aveva portato via; lo spaccò sbriciolandolo fra le dita come fosse stato di gesso. 
Un gesto esplicativo della fine che avrebbero fatto le ossa delicate della scienziata, se lei avesse osato di nuovo provocarlo.
La gente intorno si voltò a guardarli richiamata dal rumore del vetro infranto.
Bulma, seppur terrorizzata, non smise di sostenere lo sguardo pericoloso del saiyan: occhi perniciosi e denti serrati. Per un fugace secondo, scorse la bestia nascosta in lui. L’avesse visto trasformarsi in quel mostro che pure Goku era stato, sarebbe morta dalla paura.
Vegeta la fissò ancora per un po’, sdegnato. Dopo, strusciò con forza la mano sul tavolino per liberarsi dei pezzi di vetro attaccati al palmo e tra le dita. Se ne andò.

C'era riuscita. Ma sul piccolo tavolo era rimasta un'impronta di sangue.

 

 

Continua...

Note dopo disegno, e se li avete perduti, ci sono nuovi miei disegni inseriti nel capitolo 11 e 13. Andate a vederli!

Note:

1) Kumo: non l’ho inventata, episodio 21, serie z, in un frame dimenticato da tutti appare un cartello con scritto Kumo 3 km. Ma io che ho fatto? Ho preso il nome e anziché far sì che fosse un posto vicino Est City, dove atterrano i saiyan, l’ho messo vicino la Città dell’Ovest ed ho aumentato i chilometri di distanza da quest’ultima.
2) Che gli alberghi siano cari a West City lo immagino. Lo dice Bulma a Vegeta nel manga, anche se non specifica se la città sia proprio West City. Manga 28.
3) Ho ripreso dal punto che avevo lasciato in sospeso nel capitolo precedente di loro, Bulma e Vegeta seduti al bar. E vi ho raccontato cosa era accaduto prima. Perché lei lo stava cercando.
Ah, Yamcha sente l'aura di Vegeta mentre il saiyan la aumenta per "evitare la morte" a Bulma. 

4) Colpo basso da parte di Bulma nominare Goku, non credete? Ma voi ci credete al fatto che Vegeta non si sia accorto di nulla? E sulla gelosia, che mi dite? Va be’ dallo scorso capitolo sappiamo già che, almeno a proposito del maglione corto, Vegeta lo aveva notato e ne era rimasto molto infastidito. Perché a causa di Bulma tutti li stavano guardando. E a lui non piace essere fissato. Per quanto riguarda tutte le domande che si fa Bulma, io le trovo lecite, sta iniziando una relazione con lui. E quello che io ho sempre visto di lei, non è disperarsi e strapparsi i capelli se lui si comporta in modo distaccato e menefreghista, ma accettarlo, quasi non farci caso. E come arrivare a questo se non dopo averlo conosciuto come si deve. Il loro rapporto è agli inizi, deve mettere radici e incominciare a delinearsi quell’equilibrio strano che fa di loro una coppia sempre strana. Non volevo piagnistei, non volevo isterismi da sedotta e abbandonata. Suvvia, è una donna, non una ragazzina che ha perso la verginità a quattordici anni col balordo sbagliato.
5) Sì, tra Yamcha e Bulma non è finita, ve lo avevo detto che sarebbe ritornato. ^^ Io lo adoro.
6) C’è un nuovo disegno e se qualcuno gli avesse perduti, ne ho aggiunti due nuovi rispettivamente al capitolo 11 e al  capitolo 13, se cliccate sui numeri vi manda alla pagina diretta.

Ora, se qualcuno si fosse perso le mie utimissime pubblicazioni. Ve le metto qui:

Carezze ad una lettera d’amore incastrata in un distributore automatico di sbadataggine.

Ultima edizione del torneo Tenkaichi: ci siamo appena liberati dell'eroe Son Goku, che se ne va con Ub,
ma la competizione va avanti, perché il mondo gira bene e gira anche meglio senza di lui (ti adoro Goku); in specie per una coppia che sta per nascere. Una Marron che parla e un Trunks che agisce. Roba mai vista. Buona lettura.

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ATTENZIONE: ALLA FINE DELLA OS È PRESENTE UNA BREVISSIMA ANTEPRIMA DEL CAPITOLO 14 DI STANDBY

Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 27/04/21 | Aggiornata: 27/04/21 | Rating: Verde
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno 

Personaggi: Goten, Marron, Trunks | Coppie: Marron/Trunks 

 

GLI ALIENI... NON ESISTONO.

Più la nascondi, più la verità torna a galla. Come un cadavere. Il piccolo Trunks scoprirà qualcosa che il suo papà non potrà più nascondere. Dal testo:"Si misero entrambi a ridere, brillavano gli occhi a tutti e due. Di fantasia, di ludico e puerile. Ma quando il vento cessò, abbassando le polveri, e i toni della terra si rivelarono essere più chiari e diversi rispetto a ciò che malamente inumavano; poco lontano da loro e dal cratere camuffato di verde spoglio, un misero dettaglio – qualcosa di forma strana, quindi aliena come aveva detto Trunks – apparì."
Easter egg per voi. Buona lettura.

Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 03/04/21 | Aggiornata: 03/04/21 | Rating: Giallo
Genere: Drammatico, Introspettivo | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno 

Personaggi: Bulma, Goten, Radish, Trunks, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo XV - Remissione, iato. Coito. Si tratta di vendetta. ***


Se lo avete perduto prima di questo capitolo c’è
TRE TESTE IMMERSE NELL’ACIDO FORMICO. È CERTAMENTE CAPITATO.
CLICCATE PER LEGGERE.

 
Il disegno, stavolta, ve lo metto all’inizio. Qui sotto. E questo capitolo ha un rating di un arancione "rafforzato". Occhio.
  
 
 

Standby

Capitolo XV: Remissione, iato. Coito. Si tratta di vendetta.

 
 
Il vetro luccicava rimandando alla sua intrinseca trasparenza affilata. Tagliente, perché ne era stato fatto pezzi infranti.
Il sangue sporcava, impressionava, era una promessa. “Il prossimo sarà il tuo.” Carta, fazzoletti, ne aveva bisogno per pulire il tavolino prima che, «Santo cielo, si è ferita, Signora? Perde sangue?», io no, la mia testa è qui, «Grazie, sto bene», devo andare. La cameriera aveva portato il piatto con la crostata ordinata, ma si era spaventata, lo posò avventatamente. Un ciuffo di panna cadde, accasciandosi oltre il coccio che la conteneva. Finì sul tavolino. La panna bianca e soffice sopra le schegge di vetro, sopra al sangue di Vegeta. Bulma ne aveva chiesta troppa. Avrebbe dovuto chiederne di più per coprire l’intera superficie.
Ne vuoi un cucchiaino, adesso?
«Le dispiacerebbe farmi avere il conto?», scelse di non mangiarla.
«Sì, glielo porto subito, Signora. Ma è sicura di stare bene?»
La cameriera voleva sapere altro: “che fine ha fatto l’uomo che era con lei?”, per esempio.
«Le ho già detto di non preoccuparsi, sono viva.», la ignorò. Viva, l’aveva detto a se stessa, per ricordarsi di muoversi, perché aveva da fare e non doveva perdere altro tempo.
Purtroppo, ne aveva avuto ennesima prova: parlare di Goku faceva male irrimediabilmente ad entrambi.
Acchiappò una ciocca di carta dal portatovaglioli e quando tentò di pulire con quella la panna, il vetro ed il sangue, la ciocca di fazzoletti le si smistò tra le dita aprendosi come un fiore perdi petali.
Al tagliente s’era sovrapposto lo zucchero morbido; ed ora, lei ci aveva aggiunto la carta rigida e poco assorbente dei fazzoletti da caffè.
«Non si preoccupi signora, penso io a pulire!»
No, lei non potrebbe. A Vegeta devo pensarci io.
«Il conto?»
La cameriera tirò fuori un dispositivo, digitò una serie di numeri e da questo uscì un lungo scontrino.
«Ecco qua.»
Bulma non guardò nemmeno la cifra, premette il tasto per aggiungere la mancia digitale e passò la carta elettronica sull’apparecchio.
«Grazie per averci scelto, Signora!», alla cameriera era arrivato il compenso meritato. Poteva dimenticarsi di quei strani clienti.
 
Finito di pagare, Bulma mise via il portafogli e si chiuse meglio nel proprio cappotto prima di uscire.
Yamcha non era nei paraggi. Sarebbe stato inutile prendere la direzione in cui lo aveva visto dirigersi, lui poteva averne prese molte altre subito dopo. Ma un modo per raggiungerlo c’era: Bulma non aveva cancellato il numero di telefono del suo ex, aveva dimenticato di farlo; le bastò cercare il contatto nella rubrica. Una volta trovato, però, la scienziata si fermò: non avrebbe mai potuto fare lo stesso con Vegeta. Non c’erano numeri per rintracciarlo. Con lui poteva solo aver fede. Che non la odiasse; eppure, Goku era suo amico, l’idea di non poterlo nominare era castrante. Figurarsi averci a che fare, magari invitarlo una sera, a cena.
Penserai dopo alla “terapia”, chiama Yamcha!
Le venne meno il coraggio. Perché chiamarlo? Meglio un messaggio scritto: “Dove sei? Possiamo vederci?”
Due domande erano più che sufficienti, a voce gliene avrebbe poste molte di più.
Il cellulare squillò qualche secondo dopo. Non pensava le rispondesse immediatamente. Una se stessa piccina piccina, però, stava pregando di non avere la possibilità di un confronto. Una se stessa assennata, probabilmente, che lei evitò di ascoltare.
Ad ogni modo, quella risposta era una conferma: Bulma non si era immaginata nulla, quello che aveva visto davanti alla vetrina del bar era proprio il suo ex.
«Raggiungi il parco al centro del quartiere nord.», lesse.
Voleva incontrarla anche lui.

Arrivare nel punto che le era stato indicato le costava una decina di minuti a piedi. S’incamminò. E nonostante avanzasse a passo di marcia, le capitava spesso di guardarsi intorno. Perché la volontà giustiziera c’era, ma l’ansia cresceva in maniera esponenziale doppiandola in corsa.

Varcò l’ingresso del parco. Sopra le fronde degli alberi il cielo mostrava un volto cianotico, poco rassicurante. E alle spalle della scienziata s’era alzato un venticello sporco. Sarebbe piovuto. Lei non aveva un ombrello. Doveva sbrigarsela molto in fretta.
«Potresti almeno farti vedere», disse, ad alta voce, intanto che s’inoltrava nel cuore di quello spazio verde di lecci sempre più fitti; i quali rendevano il luogo simile ad un bosco incantato, o ad una foresta nera.
Non immaginava che il parco del quartiere nord fosse tanto vasto e che scorgere i palazzi oltre gli alberi diventava impossibile man mano che si procedeva verso l’interno. Ma del suo ex, nemmeno l’ombra.
C’è poca gente qui.
Effettivamente, a parte alcuni passanti, l’area verde era deserta di persone e con la pioggia in arrivo stava completamente svuotandosi anche dei pochi individui che le capitava di incontrare.
Sarò sola. Con lui.
La scienziata proseguì: attraversò un ponticello sopra un piccolo corso d’acqua e si ritrovò a calpestare un sentiero con panchine disposte su entrambi i lati dello sterrato.
Un luogo davvero adatto per farlo confessare, avresti dovuto decidere tu dove incontrarvi. Sei un vero genio Bulma!
Aveva ragione. Subire un’aggressione lì era un esito dall’alta probabilità di riuscita.
Stava per riprendere in mano il cellulare e cancellare il meeting clandestino con un nuovo messaggio, invece, fu costretta a fermarsi limitandosi solo a rinviare meglio la tracolla della sua borsa sulla spalla: Yamcha era comparso.
 
Lo spilungone stava in piedi davanti ad una panchina, la fissava, mentre lei compiva gli ultimi metri prima di raggiungerlo.
Ormai, tirarsi indietro non era possibile.
 
La scienziata aveva pochi secondi ancora per riflettere su quanti oggetti appuntiti potessero esserci nella sua borsetta; forse aveva un piccolo cacciavite, ma non ne era sicura, aveva cambiato tracolla per indossarne una in tinta col cappotto. La moda inutile. E: «Bulma», la accolse Yamcha. Se poteva definirsi accoglienza averla invitata a parlare in un posto appartato e non essersi nemmeno tolto gli occhiali neri. Ed anche se la scienziata detestava chi le parlava senza essersi prima levato le lenti scure, in quel particolare momento, ne fu contenta: all’idea di rivedere quegli occhi stravolti, le passava tutto il giustizialismo pronto ad esplodere.
Ha tentato di soffocare Vegeta. Concentrati.
La mano le scivolò inconsciamente sulla tasca esterna della borsa, era lì che di solito metteva il cacciavite.
A Yamcha invece serviva un luogo con poche persone, e i motivi potevano essere molteplici.
Si avvicinò a lei.
«No, ti prego. Resta dove sei.», non poté fare a meno di dargli l’alt.
Lo vide sospirare, tra i denti.
«Incredibile... », disse lo spilungone, finendo la frase nella propria testa: ora è con me che mantiene le distanze, non posso crederci!
Poi, lo osservò guardarsi intorno circospetto.
«Lui è qui? È con te?», Yamcha si stava riferendo a Vegeta.
Rispondi sì.
«Sì. Mi aspetta all’ingresso.», aveva dato retta alla propria coscienza perché il suo ex era strano, non le aveva chiesto nemmeno come stesse, arrivando subito all’argomento scomodo a entrambi. Non la convincevano né lui né la situazione in cui si era cacciata.
Lo vide scrollare piano la testa.
«Sicuro, avrà abbassato la sua aura... E tu gli hai detto che ero qui?»
Sentirlo preoccupato la rinfrancò, lo spilungone aveva paura di Vegeta e finché lo credeva nelle vicinanze lei restava al sicuro.
«Sa che dovevo fare una cosa ma, naturalmente, non gli ho detto che dovevo vederti.»
Questa ti è uscita male, ti sei quasi smascherata, te ne rendi conto?
Ed infatti era stata molto ambigua. Sembrava sapesse già tutto. Glielo confermarono gli occhi del suo ex: la stava guardando allibito. A lui balenò un dubbio... Non poteva essere: in quel giorno decisivo, lui l'aveva vista andar via dall'ospedale.
Yamcha avvertì la smania crescergli dentro ma si ricordò di controllarsi. Niente mattate, altrimenti l’avrebbe perduta per sempre.
«Ah, ho capito, quindi ora sono io l’uomo da nascondere.»
«Yamcha, ti prego, se ti ho scritto e sono qui è perché credo ci siano delle cose da chiarire tra me e te.»
«Sì, lo penso anche io.»
Bulma ne rimase sorpresa. Forse, non era necessario cavargli di bocca la verità. Fino a prova contraria, lei sperava col cuore che lui fosse innocente.
«Possiamo sederci?», le domandò.
«Preferirei restare in piedi.»
«Non ti fidi di me?»
Calmalo.
«Se non mi fidassi, non sarei qui adesso.»
«Sì. Ma ti sei portata dietro il cane da guardia!»
Calmalo di più.
«Te l’ho detto, Vegeta non sa che in questo momento sto parlando con te.»
Lo osservò grattarsi la cute, era un gesto che compiva quando stava per dire qualcosa di importante.
«... State insieme?», lo conosceva troppo bene.
Allo spilungone era costato un quarto di vita farle quella domanda.
Bulma, pur ritrovandosi finalmente nella condizione di poterlo dire a qualcuno, non era a Yamcha che voleva dare la notizia: sarebbe stato come cospargere di benzina una centrale nucleare tenendo in bocca una sigaretta accesa.
«Non è di questo che voglio parlarti.»
«Allora state insieme», concluse lui.
Bulma lo vide stringere il pugno della mano destra e guardare a terra fra i loro piedi; che stesse calcolando quanto terreno li separava per arrivare a darle un pugno e distruggerle la faccia?
Non esagerare. Se ti agiti, capirà che Vegeta non è con te e non ti sta aspettando.
«Yamcha, io-», lui la interruppe: «Bulma, mi dispiace!» e andò a sedersi sulla panchina da solo.
«Devi credermi, so che l’evidenza mi mette in cattiva luce ma io... Come posso dirtelo… »
Non ci credeva, la scienziata non ci credeva, lui stava confessandosi esattamente come previsto. E lo sapeva, non si era sbagliata a pensare che non era stato lui quello che aveva tentato di uccidere Vegeta.
Le fioccò un sorriso sulle labbra, stava per giungere la lieta conferma.
«Sul serio, credimi: io non conosco la donna che hai visto baciarmi in diretta, e quell’anello, te lo giuro, non è il tuo. Ce n'è uno solo, è un pezzo unico, molto prezioso, non l’avrei regalato a nessuna donna a parte te. Io voglio ancora sposarti Bulma.»
L’entusiasmo le finì dritto nella tomba. Confessione andata.
«Mi credi?», continuò lui.
Un tuono in lontananza annunciò l’incombere della pioggia. La scienziata non aveva più tempo.
«Yamcha, abbiamo già affrontato questa faccenda. Io posso anche crederti, ma questo non cambierà... le cose tra noi.»
Lo spilungone si tolse gli occhiali, usando la mano destra, la sola che muoveva. Per la sinistra, stava bene attento a tenerla nascosta nella tasca. Indirizzò gli occhi contro la scienziata: «Se per te la questione è chiara, di cosa volevi parlarmi? E poi, che significa puoi anche credermi? Se mi credi perché siamo qui? Perché non posso avvicinarmi a te?», tornò in piedi e avanzò troppo, fino a finirle più vicino di quanto lei gli aveva concesso.
Bulma arretrò di poco.
«Mi aspettavo in realtà che me lo dicessi tu.»
«… Di che parli?»
«Sai che Vegeta ha avuto un incidente ed è finito in ospedale?», le tremava il labbro inferiore, lo bloccò con gli incisivi.
«Sì. Non me ne frega nulla, ma lo so. Ti avevo raggiunta lì pensando fossi rimasta ferita. Quindi?»
Diglielo, chiedi cosa è accaduto. Fallo!
«E... Conoscevi bene in quale stanza era stato ricoverato, tu sapevi esattamente dove poterlo trovare e che l'avresti trovato solo, non è vero? »
L’espressione grave ed il tono fin troppo allusivo fecero perdere a Yamcha tutta la baldanza. Da qualche parte, sicurezza e convinzione franarono facendo un fracasso infernale.
Lei sapeva. Aveva finito di fingersi sincero e senza macchia.
 A Bulma vennero gli occhi lucidi. Vedendolo sedersi nuovamente sulla panchina, la scienziata si convinse che la verità era orribile.
 «Come hai fatto a... », era questo che allo spilungone stava sfuggendo, non era pronto a tal spinosa eventualità, non se la sarebbe sognata neanche nel peggiore degli incubi. E delle sue gesta, non riusciva più a farne un vanto. La realtà era assai diversa da come l’aveva prospettata. Avrebbe voluto nascondersi.
 «Le videocamere. Mi è stato mostrato un video in ospedale – Bulma parlò schietta, omettendo la storia sul dottore forse ammanicato col Red Ribbon – Yamcha, dimmi che non eri tu.», la voce le si accartocciò in gola tramutandosi in una preghiera. Ma lui, adesso, non la guardava e non negava.
Bulma si coprì la bocca con una mano. Completamente sconvolta.
«Chi altri sa? – Era di Vegeta che Yamcha aveva terrore, di una vendetta in arrivo come un treno, che lo avrebbe certamente travolto qualora lo spilungone avesse provato ad attraversare i binari per arrivare a lei – Lui, pensi che lui possa... », glielo hai detto?
Purtroppo, la scienziata stava perdendo il controllo ed era più prossima a piangere e ad aggredirlo.
«Come hai potuto? Dimmelo! Che pensavi di fare, eh?!»
Vederla in quello stato fu una coltellata al cuore.
«Piangi. Stai piangendo per lui.»
«No, Yamcha…  È per te che piango, perché non pensavo fossi un assassino!»
«Non sono un assassino, Bulma! Non lo sono! Io non ho ucciso nessuno!»
«Hai tentato di ucciderlo, tu volevi ucciderlo!»
Era vero.
«Mi... Mi ci hai costretto tu! Da quando hai iniziato a mentirmi! Ma mi conosci, io non farei mai una cosa del genere!»
Yamcha si alzò di nuovo in piedi, balzandole quasi addosso.
«Non ti avvicinare a me, stammi lontano!»
Nessuno. Se urli non verrà nessuno. Qui è troppo nascosto. Non devi agitarti, cerca di mantenere il sangue freddo.
«Bulma, ti prego, ti prego amore mio, devi credermi!»
«Ho detto stai lontano!»
Se cadi è finita.
I piedi erano malfermi sul fitto strato di foglie cadute
.
 «Come fai a chiamarmi assassino e non schifarti di lui?»
«Vegeta la sua vita non l’ha scelta. Tu invece volevi ucciderlo di proposito e nel momento in cui lui non avrebbe potuto difendersi!»
La mano le scivolò nella tasca esterna della borsa, le dita sondarono la stoffa, il cacciavite non c’era. Non aveva nulla con cui allontanarlo.
Scappa, vattene.
«Lo stai addirittura difendendo? Quello voleva farci fuori a tutti, l’hai dimenticato? Chissà quanti innocenti ha ammazzato prima di venire sulla Terra! E credi che ora non ci pensi più solo perché... P-perché tu ti sei fatta mettere le mani addosso da lui?! EH?!»
Yamcha tentò di stringerla a sé, o fare qualcosa di simile: allungò il braccio destro, tentò di acchiapparla. La scienziata però, pronta a difendersi, gli diede una spinta e andò a toccare proprio la mano spezzata.
Lo vide immediatamente ritrarsi e piegarsi su se stesso, la faccia tendersi contratta.
Rimase spaesata. Non poteva averci messo tanta forza, e nemmeno era credibile pensare di averla tale da poter fare danni in quella maniera.
Yamcha cacciò indietro grida di dolore, poi, non poté fare a meno di tirar fuori il fagotto rivoltante e raccoglierlo contro il suo petto, come un cucciolo ferito. Ciò che restava della sua mano sinistra.
Lei lo fissò inorridita. Lui se ne accorse: «Se te lo stai chiedendo, è stato il tuo attuale fidanzatino a lasciarmi questo regalo. Quel bastardo è capace di fare del male pure mezzo morto», le confessò, sputando a terra per liberarsi della saliva e come segno di disprezzo a quella situazione. Che lo vedeva nei panni dello storpio perdente.
«Mi dispiace... Davvero, scusami, non volevo, i-io non sapevo-»
«Risparmiati le finte scuse, Bulma. Non ne ho bisogno.»
Tenendosi una mano nell’altra, lo spilungone raggiunse la panchina. Stava sudando in modo evidente, stava soffrendo.
S’appoggiò allo schienale di quella e buttò indietro la testa. Ci voleva una nuova dose di morfina.
Lei lo osservò e per la prima volta, in sua presenza, dopo molto tempo che non accadeva, Bulma si sentì preoccupata per lui.
«Dovresti fartela curare.»
«Ma va’! E dove? Che se c’è un video col quale riconoscermi, ora mi staranno sicuramente cercando.»
Dire che era impossibile, no, questo Bulma non poteva confermarlo.
La scienziata non sapeva che fine avesse fatto il medico che aveva tentato di ricattarla e prendersi i suoi bellissimi occhi. E non sapeva, pertanto, che fine avesse fatto quel video.
 
Cosa posso fare?

No, dai, ora vuoi aiutarlo?
 
Si sentiva in colpa. E le venne un’idea. Perché era un genio, un ingegnere, il migliore del pianeta Terra.
Si sedette accanto allo spilungone, facendolo meravigliare: solo un attimo prima lei lo teneva lontano come un rifiuto radioattivo.
«Ascoltami… Io posso aiutarti.»
«Ah, sì? Quindi ci sposiamo?»
«… Sii bravo, non complicare la situazione. Mi stavo riferendo alla tua mano. Non puoi stare così, sono sicura che debba farti male da impazzire.»
«Mai quanto me ne stai facendo tu.»
La scienziata incassò il colpo. Ma era fermamente decisa e sapeva come muoversi.
«Io posso darti qualcosa che può guarirla, però tu devi aspettarmi – che significava, in altre parole, “vado dove non potrai seguirmi” – dovrò far ritorno alla Capsule Corporation, andare a prenderla. E poi tornare da te.»
 
Sì, carino l’altruismo, ma non sembrare troppo romantica. Se proprio, aiutalo e non illuderlo.
 
«Mi sembra tutto molto bello, Bulma, però non ti sto capendo. Cerca di essere più chiara.»
«Io ho un senzu, me lo ha dato il micio sulla torre. Con quello la tua mano guarirà immediatamente.»
«Tu hai un senzu?!»
Yamcha si diede dello stupido: se da solo se ne fosse ricordato, avrebbe evitato di iniettarsi quella roba.
Poteva risolverla da sé, adesso. Ma vedere la magari sua donna ricordarsi di lui era droga irresistibile, migliore della morfina. E gli faceva un male atroce pensarla volata via, catturata dagli artigli dello spietato saiyan.
Come poteva strapparla a lui, salvarla?
«Mi aspetterai qui, d’accordo?»
«Non mi nasconderò... »
Bulma, interdetta, non chiese delucidazioni a riguardo. Doveva mantenere le distanze, nonostante, anche aiutarlo perché, se Yamcha era in quelle condizioni, era responsabilità sua. Stava convincendosene. E le sembrava un buon modo per iniziare a sistemare i danni compiuti da Vegeta. Lei avrebbe purificato ogni traccia di cattiveria e di colpa, avrebbe lavato le ossa sporche di sangue di ogni vittima mietuta dal saiyan, a mani nude, se avesse potuto, pur di salvarlo dal destino che finora era stato tempio di ogni suo crimine.

«Andrai da lui, adesso?», le domandò ancora.
«Sì, mi aspetta, mi sta aspettando»
E se mi chiedesse di venire per avvicinarsi tanto da poterlo scorgere?
«Puoi portagli un messaggio da parte mia?», lo spilungone si mostrò inaspettato.
«Un messaggio? Yamcha io non credo sia il ca-»
«Digli che può andare a farsi fottere e che non me ne starò fermo a guardare mentre si divertirà con te!»
 
Aiutarlo non è stata una buona idea.
 
Questo è lui che prova a fare il duro che non è. Sii comprensiva. Non potrebbe fargli nulla. 
 
«Sai che non lo farò», non avrebbe mai detto parole simili al suo Vegeta.
«Sì, lo so, però mi piacerebbe.»
 
«Aspettami qui.»
 
 
 

 
~ ~ ~
 
 
 

 
Bulma uscì dal parco con la faccia da perseguitata. Aveva percorso il tragitto di ritorno verso l’uscita voltandosi perennemente indietro; Yamcha non doveva seguirla.
Pensò di chiamare un taxi, la pioggia non cadeva ma il cielo continuava ad essere minaccioso e borbottone. Solo quando entrò in auto, seduta, al sicuro, Bulma ripensò a Vegeta.
“Sei libera di fare ciò che credi, per quel che mi riguarda”
Una frase che faticava a dimenticare.
Yamcha è una scusa, i sensi di colpa pure. Ammettilo, se ti stai dando pena per lui è perché in fondo pensi, speri, di poter infastidire Vegeta. Che donna opportunista e scialba che sei.
C’era del marcio: la voglia di aiutarlo era vera, ma dietro la buona intenzione v’era un’occasione. E stavano affievolendosi anche i campanelli d’allarme nei confronti del suo ex dichiaratosi colpevole.
«Cento zeni, signora.»
Era arrivata. Si sbrigò a pagare e varcò l’ingresso del grande cortile.
Continuava a guardarsi intorno.
 Non dovrei neanche preoccuparmi. Anzi, dovrei farmi scoprire, sì, se lo trovo in casa gli dico che sto andando da Yamcha.
 Non fare la capricciosa, è pericoloso. Quei due non devono azzuffarsi.
Storse il naso. Sapeva che, se fosse accaduto, non sarebbe stato per gelosia da parte di Vegeta, ma unicamente da parte del suo ex. L’unico che ammetteva di volerla possedere… a tempi alterni, tra un impegno e l'altro, dopo una rossa o una bionda.
Non sono l’oggetto di nessuno.
Assolutamente! Non quando vorresti esserlo di Vegeta. Il resto degli uomini può anche morirti dietro. Vanitosa.
 
Del palco allestito era rimasto solo il segno sull’erba, due persone stavano occupandosi di cellofanare le sedie con cura e caricarle in un mezzo per traslochi.
La sua mamma meritava delle scuse, Bulma non le aveva detto come stavano le cose.
Giunse al lungo corridoio dei laboratori, ricordava che suo padre aveva conservato il senzu nel reparto di botanica, entrò all’ingresso trentaquattro.
Sul desk, Bulma si accorse di un biglietto, lo lesse: «Se cerchi il senzu, lo trovi nelle serre oscurate. Papà.»
L'unico di cui poteva fidarsi.
Avvistò il vaso.
Sicura di volerlo dare a lui? E se Vegeta...
Non accadrà, la mia gravity room è a prova di incidente. Adesso è Yamcha ad averne bisogno.
Sembrava uno scherzo della sorte.
Non più di quanto ne abbia tu per fingerti buona.
Voglio davvero che guarisca.
Se lo dici tu.
Staccò il baccello, il solo prodotto dalla miracolosa pianta leguminosa, e iniziò a far leggera pressione su di esso con l'unghia accuratamente limata. Uscì del liquido trasparente, poi il baccello si aprì. Lo vide, eccolo lì, il sacro senzu, verde pallido, cicciotto, maturo. Indispensabile.
Dal tavolo pieno di becher, Bulma prese un barattolo piccolo con coperchio. Lo usò per infilarci dentro il fagiolo.
Missione compiuta. Ora, le restava tornare da Yamcha.
«Stavolta prenderò un ombrello e poi... »
Poi?
Si sentiva vuota. Stava incrociando le dita di mani e piedi sperando che da un momento all'altro si materializzasse Vegeta e che la fermasse, le impedisse di andar via, possedendola ancora, prendendola lì, in quell’ambiente umido che le stava rovinando la cotonatura ai capelli.
Lo faceva apposta a sprecare i minuti.
Forza, Vegeta! Ti sto dando la possibilità di venire ed avermi, non sprecarla. Potrebbe non ripetersi mai più!
Nulla accadde.
«Avanti, sono qua!»
Aveva urlato.
E niente, a farle compagnia c'era solo il rumore del pennino all'interno del barotermoigrografo che tracciava una cartina diagrammata segnando temperatura e umidità relativa di quell'ambiente.
Si sentiva frustrata.
 
Lasciamo perdere...
 
Uscì per tornare da Yamcha. Il saiyan che avrebbe dovuto fermarla non si era presentato all'appuntamento. 
 
 
 
 
~ ~ ~
 

 
 
Secondo giro in taxi. Pigra come era ed intollerante alla pioggia, non poteva scegliere di meglio.
Intanto, il cielo s'era lievemente aperto, il vento aveva spazzato via le nubi e s'erano accese le luci all'interno del parco.
Faceva ancora buio presto, le lunghe giornate si facevano attendere preziose.
Bulma camminò svelta, ricordava il tragitto. Il suo animo era cambiato però, voleva sbrigarsi e liberarsi dell'incombenza.
Nell'aria c'era odore di timo, menta fresca, salvia. I profumi del parco s'intensificavano all'imbrunire.

Bulma passò nuovamente il ponte, cercò la panchina. Yamcha era lì, non si era mosso, l'aveva aspettata.
Sicuramente ti ama.
Ama di più rimettersi a posto la mano, come potrebbe altrimenti tenere la “mazza” da baseball?
Le sue fan potrebbero rimanerne insoddisfatte.
Sei cattiva.
Vedo le cose per ciò che sono.
«Hai fatto presto.»
«Per chi mi hai preso? Io sono Bulma.»
«Non mi aspettavo tornassi, non dopo quello che ti ho rivelato... Grazie.»
Perché è così serio? No, non deve esserlo. Non penserà che l'ho fatto perché provo qualcosa per lui?
«Non immaginavo tenessi ancora a me.»
Appunto.
La scienziata virò lo sguardo altrove.
Dagli questo fagiolo e spicciati.
«Tieni, è qui quello che ti serve.»
E la sola e ultima cosa che otterrai da me.
Gli porse il barattolino scuotendolo come un sonaglio, a destra e a sinistra, tanto da far sballottare il fagiolo all'interno del vetro. Come si farebbe ai cagnolini per attirare la loro attenzione prima di dargli l'osso o il biscottino.
Guarda, Yamcha, guarda qui e scordati di me. Bravo.
Yamcha tolse il tappo a vite. Afferrò il senzu, era proprio un senzu. Lei non lo aveva preso in giro. Si sentì innamorato. Lo stava per mangiare quasi fosse stata Bulma stessa a generarlo. Il frutto di Bulma, del loro amore che poteva trovar conciliazione.
E se gli dicessi che era per Vegeta?
Gli faresti male.
«Pensa che l'avevo chiesto al gatto per darlo a Vegeta. Fortunatamente lui non ne ha più bisogno… Sta bene.»
Perfida.
Evito che possa sentirsi ricambiato, faccio bene, no?
Aveva un sapore amaro il loro amore, secco, difficile da mandare giù. Tossico. Ma, sensazioni a parte, pochi secondi e il miracolo avvenne. Una spinta di vitalità ed energia arrivò a possederlo.
Bulma assistette priva di parole. Yamcha tirò fuori la mano ferita, cominciò a togliere le bende, ed ecco che le falangi, le ossa carpali e metacarpali erano tornate tutte al loro posto.
«Bulma, guarda! Sono guarito, ah ah!»
E faglielo un sorrisetto…
«Per forza, hai appena mangiato un senzu.»
Strega!
Yamcha si alzò in piedi spinto dalla contentezza. Roteava il polso, apriva e chiudeva il pugno. Poi, provò a colpire con un sinistro deciso l’albero che gli era a fianco e sotto una pioggia di foglie gialle, constatò che era tornato completamente come prima.
Bene, me ne andrei.
«Bulma – la voce era tornata tronfia – grazie.»
«Di nulla. Per così poco.»
Lui ti ringrazia. Vegeta no.
Si avvicinò a lei. La scienziata era così presa dai pensieri che non previde la mossa: Yamcha la abbracciò stretta contro il suo petto.
«Non respingermi, non voglio farti nulla, solo abbracciarti. Permettimelo. È per ringraziarti. Ti sei presa cura di me.», la zittì prima che iniziasse a dichiarargli nuovamente guerra.
Vegeta non ti ringrazia.
Vegeta ti caccia via.
«Yamcha, ora lasciami andare.», chiese, con vocetta lieve, triste. Era da un altro uomo che voleva sentirsi presa.
Ma lui interpretò male, pensò in una arresa, in una presa di coscienza di ciò che potevano essere insieme. La baciò a tradimento. «No!» E si aggiudicò uno schiaffo sonante.
Bulma aveva abbassato la guardia, non credeva lui potesse insistere a tal punto. Si svincolò e fuggì all’abbraccio truffaldino. Che, doveva ammettere, non era stato poi così prepotente; ma fino al punto in cui lui non aveva osato baciarla.
«Scusami. Non ho saputo resistere. Io ti amo ancora…»
Smettila, oddio smettila!
«No, non fa niente.... Però, non provarci mai più.»
Lo vide scoraggiarsi e ne fu felice.
«Io torno a casa.»
«Vuoi che ti accompagni? È buio, potrebbe essere pericoloso.»
«Non preoccuparti… – Perché non ti sei portata un mezzo tuo per andar via? – Prenderò un taxi.»
«Lui non ti sta più aspettando?»
Si era tradita!
«No, cioè, sì. Mi aspetta. Vegeta mi sta aspettando alla Capsule Corporation.»
Tornata la paura?
Yamcha sbuffò una risata.
«Va’ a casa, Bulma. Sarò io ad aspettarti.»
La faccia confusa di lei lo convinse a spiegarsi: «Quando ti renderai conto di cosa egli è capace, del male che ti farà, se già non te ne ha fatto, io sarò lì, ad aspettarti.»
Lo odiò. Quella non era una promessa da innamorato. Per l’ennesima volta, lo spilungone sbagliava il tiro.
«So badare a me stessa, grazie. Tu hai avuto la tua occasione. Sarebbe tempo sprecato rimanere ad attendermi. Perché io prenderò un’altra strada, Yamcha, l'ho già presa e in caso saprò come evitarti.»
Colta dal furore del suo tono incalzante e spietato – lui se l’era meritato – Bulma si diresse verso l’uscita del parco. Stavolta, senza voltarsi.
 
Yamcha la guardò, non la seguì, aveva scelto apposta di lasciarla andare. Era convinto di avere ottenuto, di essersi ripreso un minimo di dignità, di aver gettato un po’ di fango e aver sporcato ciò che univa il saiyan alla scienziata. Era questione di tempo: prima o poi lei sarebbe tornata, magari strisciando.
 
 
 
~ ~ ~
 
 


Che aveva fatto?
Lo domandava a se stesso, desiderando però chiederlo a lei. Non sarebbe stata per sempre fortunata. La terrestre prima o poi si sarebbe fatta male. Molto male. Malissimo.
Lo aveva manipolato? Ci aveva provato, l’ingenua, perché lui non si faceva controllare da nessuno. Le aveva fatto credere di esserci riuscita.
E perché non l’aveva seguita? Perché voleva togliersela dai piedi. Perché voleva spezzarle le gambe.
Sì, era libera, libera di darsi a chiunque. Ma Kakaroth doveva rimanere tra i maiali simili a lui, lui Kakaroth, non lui Vegeta, ovvio; e questo la terrestre già lo sapeva. Quindi, l’aveva fatto apposta, era furba. Era libera. Glielo aveva detto lui stesso. Libera di stargli lontano. Finché la libertà di lei non intaccava, del saiyan, la pazienza. Finché non lo faceva sentire coinvolto in ammorbanti questioni terrestri. Finché non gli faceva perdere tempo, finché non ostacolava la sua trasformazione.
Piegati.
La mano ancora perdeva sangue. Era stato magnanimo. Pizzicava appena che neanche notava di essersela ferita. Aveva notato altro, Vegeta. Continuava a stringere i pugni, il sangue non poteva fermarsi.

Non era uno stupido, avrebbe fatto vivere l’orrore a chi sottovalutava la sua attenzione.
Un bicchiere rotto era sintomo di ridimensionamento, però. Lui ci avrebbe aggiunto due, tre colli. Da rompere. E poteva farlo, poteva far qualsiasi cosa. Nessuno lo avrebbe fermato.
Si stava facendo influenzare. Il morbo perbenista dei diversi da lui era in agguato. Ci teneva a rimaner cattivo. Ed era tornato alla Capsule Corporation prima di lei. Averlo scoperto però, era stato simpatico come quando Dodoria gli diceva di essere una sporca scimmia e Zarbon ci rideva sopra aggiustandosi la treccia; mentre il primo lo bloccava e il secondo gli pestava la testa. Il grassone e il viscido avevano fatto una fine veramente simpatica, poi.
Bulma non lo aveva seguito come accaduto in mattinata. La terrestre aveva altro da fare anziché girellargli intorno ventiquattro ore al giorno.
Fuori, il buio. E l’ora della cena, quella dei genitori della ficco-il-naso’, era passata da un pezzo; lui non aveva voluto unirsi alla tavola.
Vegeta voleva rendere veramente simpatica anche lei. Lo stava desiderando. 

Sentì delle voci provenire dabbasso, era tornata.
 
 
 
 
«Bulma, raggiungo tua madre in camera, era molto triste oggi, mi ha detto che tu e Yamcha non vi sposerete più.»
«Sì, è vero.»
Il suo vecchio non chiese nulla, aspettò che lei parlasse ma vendendo che non era intenzionata a sbottonarsi, lasciò stare.
«Comunque, per la gravity room, se continuiamo così la finiremo prima della data stabilita.»
«Sono d’accordo con te, pa'.»
«Vegeta ne sarà entusiasta.»
«Sarebbe il minimo.»
Sua figlia non voleva parlare.
«Ci vediamo domani in laboratorio.»
«Buonanotte, papà.»
 
 
 
Non hai sedici anni per fare l’adolescente in crisi che risponde male ai genitori.
 
Pensò, aprendo il frigorifero. Era prevista una cena in solitudine.
«Panna spray e fragole!»
Le aveva così tanto desiderate, che qualcuno aveva ascoltato le sue preghiere. Anche alla sua mamma piacevano.
Aprì l’anta del mobile sopra di lei, scelse l’insalatiera. Poi, lavò le fragole, liberandole delle foglioline verdi, e spruzzò la panna nel recipiente. Ci tuffò dentro i frutti rossi e li guardò affondare dolcemente. E poi, andò a sedersi sul divano del salotto. Ne aveva avuto abbastanza di uomini per quel giorno. Alla faccia loro, agitò il barattolo di panna e, ficcandosi il beccuccio in bocca, si lasciò riempire di soffice, di latte vaporoso. Doveva dimenticarsi della faccia di Yamcha e dell’amarezza di cui l’aveva rimpinzata Vegeta.
Ne spruzzò troppa e le uscì dalla bocca.
 
«Sei disgustosa.»
 
Per poco, non soffocò.
 
«Vegeta!»
 
Sempre nel momento sbagliato.
 
«Da quanto sei qui?»
«Da quando ti ho vista fare quella schifezza.»
«Non ti piace la panna? Peccato. Comunque, nessuno ti obbliga a guardarmi, puoi sempre girarti dall’altra parte, o andar via... l’ultima ti riesce benissimo.»
«Non mi conosci.»
«Sto imparando», a mie spese.
 
Ma Vegeta si avvicinò comunque, nonostante amasse starle lontano. Nonostante sapesse che era meglio starle lontanissimo.
Bulma lo seguì con gli occhi e lo vide sedersi di fronte a lei. C’era da insospettirsi.
Con una fragola, la scienziata alzò altra panna che si portò alla bocca. La avviluppò con la lingua, prima di ingoiarla affamata e arrogante. Vegeta la fissava. Se non altro, aveva trovato un modo per attirare la sua impenetrabile attenzione.
«Sicuro che non ne vuoi? Scommetto che nemmeno sai cosa sia.» e vi aggiunse un risolino. Addentò la fragola, il succo colò rosso dalle sue labbra.
Vuoi provocarlo?
A chi? È una pietra, non reagisce.
«Dai, te ne do un assaggio», continuando ad usare le dita, Bulma prese un frutto, lo caricò di panna e tese il braccio verso di lui. Vegeta non si mosse. Lei gli si avvicinò maggiormente, posò l’insalatiera piena di panna sul tavolino basso e si alzò dal sofà.
Stava per sfiorare le labbra del saiyan con quella roba colante, «Ah!», ma Vegeta le strinse il polso costringendola sia a gettare la fragola incappucciata di bianco che a inginocchiarsi davanti a lui.
Non impari mai dai tuoi sbagli. Non te lo aveva permesso in ospedale, ricordi?
«Lasciami – era seria ma totalmente falsa, non voleva essere lasciata – Vegeta, lasciami su-»
Lui obbedì. Le dispiacque.
A differenza di Yamcha, Vegeta mi ascolta.
Ma non puoi negare che ti abbia costretta a piegarti.
È accaduto anche quando abbiamo fatto l’amore.
S’accucciò più seducente, le stava venendo voglia, ma si accorse di essere stranamente fresca: il polso che lui le aveva toccato era bagnato, stava colando via qualcosa. Non era panna. Guardò: sangue. Che non era il suo.
Già, lo aveva dimenticato, lui si era ferito sbriciolando un bicchiere di vetro. Lo aveva fatto arrabbiare.
«Ti... ti sta uscendo, perdi sangue.»
Vegeta le elargì occhi inamovibili. 
«Mi fai vedere?»
Il saiyan non rispose ma si fece sfiorare. Girò il palmo verso l’alto e si lasciò prendere la mano dalle più piccole di lei.
«Sono tagli lievi, posso medicarti, se vuoi.»
 Così era iniziata tra loro.
«Non è necessario.», un permesso sottinteso.
 La tua pelle calda mi manca. Lo sai?
Bulma si prese la libertà: posò un bacio sulle ferite e le sue labbra si sporcarono di un rosso diverso, dal sapore sia amaro che dolciastro. Continuò, carezzando i tagli, ci passò la lingua sopra. Disinfettante naturale. E al gusto della panna si unì quello del sangue.
Era questo il dolce che non aveva assaporato. Mancavano le schegge di vetro.
 
Perderei me stessa per te. Ora guardami, Vegeta.


Non era quello il piano per renderla veramente simpatica. La lingua soffice e dardeggiante della terrestre lo fece grugnire.
In quel modo, lei non era simpatica.
«Smettila... », era un ordine?
«Dovresti cercare di rilassarti. Sei sempre troppo nervoso.»
Lui avrebbe ribattuto con concentrato; ma non fiatò. Non per parlare.
Coraggiosa, chinata sulle ginocchia; il saiyan la vide intrufolarsi fra le sue cosce muscolose e aggrapparsi alla cinta dei pantaloni. L’ardiglione venne via semplice, lei lo sfibbiò. E, con certa prescia, gli tirò giù la patta dei jeans.
Vegeta rimase zitto: la foga era bazzotta e lei lo stava già sbocconcellando delicata. Anche le dita erano piacevoli: viaggiavano su e poi giù, piano, decise.
La libertà... Gliene stava dando troppa.
Che c’è, Vegeta? Non scappi più adesso?
Il saiyan inspirò profondamente, si trattenne, si irrigidì. Ma non chiuse gli occhi, non si lasciava andare perché... Troppo intenso, decisamente diverso.
Chi sei?
Vegeta si chinò su di lei e le afferrò la testa forzandola a smettere. Gli interessava verificare. Aveva avuto un’intuizione.
Doveva capire. La annusò da vicino, non aveva aspettato altro. Affondò il viso sotto il collo di lei.
«Il tuo odore... », cominciò.
«Mi sono fatta la doccia –  a Bulma tremò la voce fra due labbra appena gonfie – non sono sporca né sudata.», si scongiurò.
E invece c’era un olezzo particolare. Dove l’aveva sentito lui? Non riusciva a ricordare, ma non gli era estraneo. Non era la prima volta che gli capitava di sentirglielo addosso. Anche quando lei si era infilata nella navicella spaziale, pensando di salvarlo, lui aveva percepito oltre al profumo della terrestre quell’odore. 
Bulma provò ad alzarsi, vogliosa di accoppiamento. 
Stai giù.
Vegeta invece le impedì di prendere una posizione comoda. Prima, il saiyan doveva comprendere. Sapeva di essere vicino alla verità, aveva bisogno di qualche minuto in più. Il suo olfatto era infallibile.
Ecco, si stava formulando un’immagine, una situazione. C’entrava anche l’ospedale.
Un odore che lui stesso si era sentito addosso.
 
Strano.
 
 «Questo fetore su di te, mi fa schifo», e lei avvertì i denti dell’animale indugiare sulla pelle della propria giugulare.

Bulma arrivò presto a fare i giusti collegamenti: Yamcha l’aveva abbracciata, baciata, per poco tempo, ma pareva esser bastato a lasciare delle tracce. Vegeta era un animale attento. Le conveniva non mentire.
«Qualcuno ha tentato di starmi molto vicino, oggi. Sarà l’odore di questa persona che senti. È un problema?»
Ecco l’evidenza, l’esame per la verifica dei limiti della propria libertà che, se tale fosse stata, non avrebbe dovuto averne.

La terrestre aveva detto il vero, non era una frottola. Quel puzzo di altro coincideva con la sua intuizione, e non solo. E allora il piano poteva diventare veramente simpatico per più di una persona.
No. Nessun problema.
Pensò Vegeta, mentre evitava di staccarle a morsi la gola scegliendo di alzarsi calmo e sistemarsi le vergogne ancora bazzotte nei pantaloni; con altrettanta cautela.
 


Continua…
 
Note:
1) Non ci saranno molte note, tranquilli. Nuovo capitolo e spero vi sia piaciuto. Mi sono persa qualcuno di voi dallo scorso quattrodicesimo, Tre teste immerse nell’acido formico. È certamente capitato, se non lo avete letto recuperatelo qui cliccate.
Ringrazio tutti per avermi sostenuto e per continuare a sostenermi, scrivendomi, o in silenzio o mostrando in qualche modo che mi state seguendo.
2) Capito ora il disegno? In realtà per come vanno le cose è pure ironico, forse fuori luogo, però mi sono venuti così e pazienza. Sì, se vedete un calo della qualità grafica è perché sono stanca, ho impegni e mi sono pure fatta male. T_T
3) Che ne pensate? Non potevo lasciare che tra Yamcha e lei finisse tutto al giorno in cui lei lo ha scaricato in ospedale, volevo un confronto. E di Vegeta? Io non ce lo vedo geloso apertamente, non a questo punto del loro rapporto, ma detro lo immagino cominciare a bruciare, poi va be' lui coprirà tutto con scuse tipo, la terrestre perde tempo e non mi costuisce la gravity room.
4) Per chi avesse voglia di frugare tra le mie storie vi elenco i miei parti e se ci cliccate sopra vi rimanda direttamente alla pagina:

 

 
Ultima edizione del torneo Tenkaichi: ci siamo appena liberati dell'eroe Son Goku, che se ne va con Ub,
ma la competizione va avanti, perché il mondo gira bene e gira anche meglio senza di lui (ti adoro Goku); in specie per una coppia che sta per nascere. Una Marron che parla e un Trunks che agisce. Roba mai vista. Buona lettura.
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ATTENZIONE: ALLA FINE DELLA OS È PRESENTE UNA BREVISSIMA ANTEPRIMA DEL CAPITOLO 14 DI STANDBY
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 27/04/21 | Aggiornata: 27/04/21 | Rating: Verde
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Goten, Marron, Trunks | Coppie: Marron/Trunks

 
Più la nascondi, più la verità torna a galla. Come un cadavere.
Il piccolo Trunks scoprirà qualcosa che il suo papà non potrà più nascondere.
Dal testo:"Si misero entrambi a ridere, brillavano gli occhi a tutti e due. Di fantasia, di ludico e puerile.
Ma quando il vento cessò, abbassando le polveri, e i toni della terra si rivelarono essere più chiari e diversi rispetto a ciò che malamente inumavano; poco lontano da loro e dal cratere camuffato di verde spoglio, un misero dettaglio – qualcosa di forma strana, quindi aliena come aveva detto Trunks – apparì."
Easter egg per voi. Buona lettura.
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 03/04/21 | Aggiornata: 03/04/21 | Rating: Giallo
Genere: Drammatico, Introspettivo | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Bulma, Goten, Radish, Trunks, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta

 
Fresco di battaglia contro l'inferno tinto di rosa, Vegeta torna sulla Terra. Dove deve affrontare Bulma e soprattutto se stesso.
Per cuori teneri e putridi come il mio.
Attenzione: c'è un alto tasso di zuccheri che incontrerete nel leggerla.
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 28/11/20 | Aggiornata: 28/11/20 | Rating: Giallo
Genere: Drammatico, Introspettivo | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta

 
Le accarezzò le piccole labbra vergini e rosee, sfiorandole delicatamente.
La stava mettendo in guardia, e comunque sembrava intenzionato a capire se anche lei era pronta a rendersi realmente colpevole.
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 15/10/20 | Aggiornata: 15/10/20 | Rating: Rosso
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Pan, Trunks | Coppie: Bulma/Vegeta, Pan/Trunks

 

Una OS? No, un pugno allo stomaco. Dal Principe dei Saiyan aspettatevelo, non sarà piacevole.
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 09/10/20 | Aggiornata: 09/10/20 | Rating: Arancione
Genere: Drammatico | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta

 
Questa OS è una ciambella senza il buco. Buona lettura.
«E togliti! Se ancora non te ne sei accorto, non sono più una bambina, non devi permetterti di toccarmi con tanta leggerezza!»
Fu in quel momento che Trunks iniziò a capire.
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 23/08/20 | Aggiornata: 23/08/20 | Rating: Rosso
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Personaggi: Pan, Trunks | Coppie: Pan/Trunks

 
L’incubo rosa è finito.
Bulma ha preparato una festa. Al termine di questa, la scienziata scambia un breve discorso col suo amico più fidato.
Brevissima, delicata. Quasi intima. Buona lettura.
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 14/07/20 | Aggiornata: 14/07/20 | Rating: Giallo
Genere: Drammatico, Malinconico | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Het | Note: Missing Moments | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Bulma, Goku, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta

 
«Papà, tu sei arrabbiato con me?»
Domandò la piccola, con la vocina tenera e singhiozzante.
«No, Bra. Papà non è arrabbiato. Papà... ha avuto paura.»
 
Autore: Evil Daughter | Pubblicata: 19/04/20 | Aggiornata: 19/04/20 | Rating: Giallo
Genere: Slice of life | Capitoli: 1 - One shot | Completa
Tipo di coppia: Nessuna | Note: Nessuna | Avvertimenti: Nessuno
Personaggi: Bra, Vegeta

 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI - il cielo fra le costole sopra un esercito silenzioso. ***


Standby

Capitolo XVI - Il cielo fra le costole sopra un esercito silenzioso.



«Te ne vai. Perché?»
Vegeta non rispose. Infilò la canottiera nei jeans, tirò su la zip, spinse il bottone nero nell’asola. Contenne l'impulso di staccarle a morsi le mani. Bulma si alzò in fretta, gli afferrò un braccio. «Lasciami.», la intimò.
«Prima voglio sapere perché. Aspetta, provo a indovinare: io non ho alcuna importanza per te, ma forse non è del tutto come vuoi farmi credere, altrimenti che motivo avresti di andartene così irritato?»
Lo sentì irrigidirsi, tentennare. Non voleva provocarlo, stava solo dicendo ciò che pensava e sapeva di essere molto vicina alla verità: lei valeva più di quanto lui si sforzasse a nascondere. Erano balle quelle del bar. Ed era una conferma il fastidio da lui mostrato dopo averle trovato addosso l’odore di un altro uomo. 
«Pecchi... di supponenza.», ripiegò lui in difesa e la scansò. Poi, tirò la cinta per arrivare al foro giusto dove infilare l'ardiglione, stava finendo di rivestirsi. 
«Dico quel che vedo.», replicò la scienziata.
Ma perché continuava a farla parlare? Da quando aveva il diritto di contraddirlo? O l’abilità di smascherarlo facilmente. Percepiva da solo di stare sbandando, se non gli fregava nulla della terrestre, perché continuare a cercarla? E provava disgusto, era lì dall’avvisarla che la prossima volta che si fosse fatta avvicinare dal perdente le avrebbe rotto l’osso del collo. Perché aveva capito a chi apparteneva la puzza, ma non gli era chiaro che rapporto ci fosse ancora tra i due da autorizzare lo smidollato a starle intorno. E quel che aveva notato in mattinata non collimava con le strane mosse di lei.
«Vedi molto poco per avere il coraggio di parlarmi così.»
«Io almeno ho il coraggio di guardarti in faccia e non scappo.», controbatté Bulma, facendogli intendere che stava comportandosi come un vigliacco. 
Lui si voltò aggressivo, le attaccò gli occhi con sguardo di nera fiamma; in vita sua non era mai fuggito, davanti a nessuno. 
«Non sto scappando, me ne vado prima che il mostro dentro di me decida che questa farsa debba finire ed io tornare ad essere un saiyan. Non ho tempo per giocare con te.» 
Ma se quello era un ritorno alle minacce, non ci doveva nemmeno provare: «Quando il gioco ti piace il tempo per giocare lo trovi, eccome! Ammesso che quanto accaduto tra noi possa definirsi tale. Mi avevi detto che voi saiyan lo fate unicamente per mantenere in vita la specie, o sbaglio?», e se era arrivato il momento di togliersi più di un sassolino dalla scarpa, Bulma stava decisamente onorandone l’occasione. 
Vegeta non aveva intenzione di prendere parte a quella battaglia, avrebbero lottato sotto un cielo di sentimenti, in un campo dove la propria forza valeva nulla, dove lei non si sarebbe arresa se non dopo aver ottenuto la vittoria.
«Che cosa vuoi?», le chiese, barcollando tra la belva e l’umano. 
«Voglio che fai l’amore con me.» adesso era sfacciata.
«Io non faccio l’amore, te l’ho detto... e dimostrato.»
«Invece lo hai fatto, quando erava-», «Quando eravamo in laboratorio – la interruppe lui anticipandone le parole – quello che ti ho fatto quando eravamo in laboratorio... devi dimenticarlo, dimenticalo! Perché non succederà più.» parlò secco, in contraddizione con la metà di se stesso. Bulma era di tutt'altra opinione:«Che abbiamo fatto, quello che abbiamo fatto, Vegeta, io e te, perché lo abbiamo desiderato entrambi. Se non vuoi chiamarlo amore e per te non significa nulla, e sia! Ma non chiedermi di dimenticare, non lo farò.», si avvicinò di più a lui, gli prese una mano e se la portò al petto.
«Lo senti? Batte forte, e non per paura, batte così perch-» non voleva ascoltarla, la tacciò sottraendole il fiato ma si fermò prima che quel guizzo istintivo potesse arrivare a definirsi bacio. Le sfiorò una guancia già rossa in un gesto scoordinato che in lui non trovava identità. Era incapace persino di farle una carezza.
«Bulma, io...  – cominciava così: standole troppo vicino, finiva inebriato dell’effluvio della sua pelle; la ferrea tenacia cadeva in ginocchio e di lui non rimaneva nulla  – Non posso essere qualcuno che non sono e non capisco perché ti ostini a non volerlo accettare.»
«Ho già accettato. Sono cosciente del rischio che corro stando con te, non devi preoccuparti di trattenerti, se è questo che ora ti blocca.»
Davvero persisteva il timore di farle del male? Ed era questo a fermarlo? Un timore tremendamente evidente che persino la terrestre si azzardava a definirlo? No, era la rabbia, era la sua inadeguatezza, la voglia di tornare alieno a quella situazione. Epperò, l’esitazione che stava avendo era prova schiacciante del contrario. Tentare di starle lontano senza riuscirvi lo portava alla sconfitta: c'era qualcosa in lui che aveva un vergognoso bisogno di Bulma, non riusciva a celarlo addirittura a sé medesimo.
Ma la terrestre e qualunque malformato sentimento lui provasse nei suoi confronti lo inibivano, lo rendevano schiavo. Questo non doveva accadere. Non dovevano stare insieme.

«No, tu non capisci. Io ti farò del male, ancora, sarà inevitabile, e se ti vedrò soffrire non me ne importerà nulla.» 
 
Certo, perché è così che va tra me e lei. Deve.

L'avviso suonava vero da privare chiunque di ogni speranza, una previsione fotocopia di quella sentenziata da Yamcha. Pareva quasi che ci fosse un losco accordo tra loro, col fine medesimo di farla desistere.

Bugiardo. 

Lei era l'unica a non crederci.

«Ne sei convinto?»

Scena muta.

Bulma ritirò la mano e lasciò quella di Vegeta. Si strinse da sola in un abbraccio. 

Lo guardò. 

«Adesso ascoltami bene, anche io devo dirti delle cose – fece un bel respiro – Ho... ho cancellato quasi quindici anni della mia vita trascorsi con la persona sbagliata. Sul mio ginocchio destro c’è una cicatrice di quattro centimetri, poteva andare peggio ma sono certa che si sia trattato di un incidente – deglutì –  Ti ho portato via da un ospedale di pazzi rischiando di farmi molto male. Ora sto costruendo qualcosa che se andrà bene ti farà diventare l'essere più potente e pericoloso al mondo... E tre giorni fa ho fatto l'amore con te. Eppure, eccomi, viva e cosciente... – prese aria – Io non sono tua nemica, Vegeta, e tu non mi farai niente, perciò, smettila di tentare di farmi capire quanto tu possa essere sbagliato. Non lo sei. Se siamo qui, credo sia anche il destino a volerlo.»

Amara e allo stesso tempo dolce, era un’incantevole tentazione che circuiva e provava ad appropriarsi di un cuore che lui pensava di avere inerte come un freddo diamante. Invece, batteva, anche il suo, pulsando veloce davanti a lei, ascoltandola per forza, guardando le sue labbra muoversi, le mani tremare.
Quella donna, probabilmente l'unica nell'universo intero a fidarsi di lui.

«Resta con me.»

Voleva che fosse se stesso e comunque stare con lui? La terrestre non sapeva cosa stava chiedendo.
Le permise di trascinarlo avanti, giù, la lasciò aggrapparsi al suo collo. Affondarono sul divano, i cuscini schizzarono a terra spinti dall’urgenza immediata dei loro movimenti. 
Vegeta si liberò una seconda volta dei jeans ma c’era più ansia di prima, mancava l'aria. Però gli piaceva toglierle i vestiti. E gli piaceva se lei gli tirava i capelli come stava facendo. Non dovevano stare insieme. Le stava concedendo il lusso di toccarlo ovunque lei desiderasse.
Scese con la bocca verso l’ombelico da troppi impudicamente ammirato, andò giù. Non c'era traccia di altro là sotto, quello era smidollato  in ogni senso. La nausea sbiadì lasciando il posto alla fame: Vegeta ghignò, stava per ripetere l’atto come in laboratorio.
«No, vorrei poterti guardare.» una supplica. La accontentò, affinché lei potesse trovare nei suoi occhi odio e vendetta, e null'altro a dominarlo.

Sì, guardami sempre, Bulma.

Lei gli facilitò l’ingresso spostando la carne morbida con le piccole dita. Al contrario dell’intento di Vegeta, la scienziata sentì accendersi l’estasi di un intenso trasporto. Farsi invadere dalle tenebre stavolta fu lento: Vegeta stava prendendosi più tempo, dandole modo di godersi meglio quella caduta verso l’esplosione del cieco e sospirato gaudio. Era bello potersi finalmente specchiare in quei grandi occhi furenti, ammirare il volto del saiyan arrossarsi di passione e la sua bocca virile avventarsi famelica su di lei. Il primo amplesso era stato diverso: ora c'era meno tormento, oppure lui stava controllandosi bene ergendo una barriera di orgoglio altissima per nascondere il suo lato debole, quello umano. Che lei sapeva lui possedesse.
Bulma comunque sorrise. Credeva di avere addomesticato il mostro.

«Sorridi?», a lui non sfuggì, fermò le spinte. Era molto sudato. 
«Perché sto bene, mi sento al sicuro. –  tra le braccia del Principe dei saiyan, aveva risposto priva di esitazione; prima di allungare una mano e toccargli il centro del petto che riprendeva fiato – Sta battendo veloce, come il mio, e non vuole farmi del male... Hai un cuore, Vegeta, anche tu.» Lo spiazzò. Perché quelle parole? Non riusciva a odiarla né a mentirle. Un cuore, lui? Sì, probabilmente, e doveva essere anche molto puro. Senza, addio super saiyan. Ma non uguale a Kakaroth, no, gli avrebbe fatto schifo somigliare a lui: il suo era un cuore di essenza certamente malvagia, come si addiceva al Principe dei saiyan. «Ti sbagli. È diverso da quel che pensi. Il mio cuore... –
traboccava di calma, esorcizzato dal proprio astio, davanti a lei, così umano – No. Non ho riguardo di nessuno. Non ce l’ho nemmeno per te. Non ti illudere. Sarò sempre me stesso. È Kakaroth il mio obiettivo.» recitò uno spergiuro al quale avrebbe immolato in futuro le sue scelte. Riprese a muoversi svelto sopra di lei, più svelto, deciso, più energico ed acuto. Ficcante. 
Tranne una incapacità totale nel baciare e compiere qualsivoglia gesto di affetto, oltre ad avere l’abilità di un sociopatico ad esporre e gestire i propri sentimenti; l’amore, il sesso come lui preferiva definirlo, Vegeta sapeva farlo benissimo. 
Bulma vibrò. Lui confuse i propri ansiti con quelli della terrestre dopo qualche altra ennesima spinta. 
Nessuno dei due ancora una volta aveva pensato ai preservativi o ad un modo altro per evitare una gravidanza. Erano troppo distratti dal comprendersi a vicenda, dal dimostrare le loro ragioni, dal trovare nell'altro certezze che mancavano a entrambi e dal meravigliarsi nel vedere come riuscivano in quel modo a corrispondersi. 

 

«Continui a sorridere.» La scienziata guardava soddisfatta il soffitto sopra di sé. «Ti dà fastidio? Be', sono contenta – spiegò –  Sei stato... Ti sei controllato» non ho sentito alcuna presenza del mostro. Pensò, e si girò verso di lui, fissandolo con gli occhi cobalto immenso. Sembrava un sogno potergli stare accanto, nuda, sul divano di casa, stretta a lui. Fuori il mondo poteva anche finere.
Vegeta però non mancò di scansarla, recuperando distanza tra loro. Seduto, guardò i vestiti suoi e quelli della terrestre lanciati ovunque. Aveva la pelle piena di graffi, l'odore di lei dappertutto. E lei era pregna del suo. Doveva starle lontano. Invece, aveva combinato un casino e gli era anche piaciuto. Gli piaceva.
«Sei stata solo fortunata.» obiettò.
«Lo sono quando sto con te. Dormi con me stanotte?» Bulma era pronta a raccogliere i doni della vittoria, quella battaglia l'aveva vinta lei.
«Toglitelo dalla testa, non pensarci neanche.» no, non doveva proprio pensarci, valeva lo stesso per lui.
«Dai, resta ancora, per un momento, te ne andrai dopo.»
Il momento di rimanere c'era già stato, aveva già ceduto alla preghiera, all'incastro. Permettergli di durare troppo a lungo rischiava di farlo abituare.  «Me ne vado adesso.» Bulma lo vide alzarsi risoluto, raccogliere gli abiti. Il suo reggiseno era finito sopra i jeans di Vegeta, lui prese entrambi. «Questo è tuo.» glielo porse col viso privo di imbarazzo. «Grazie.» lei lo afferrò ma non se lo allacciò: voleva che non smettesse di ammirarla e che se ne andasse via col rimorso di non essere rimasto.
«Penso dovresti sbrigarti ad andare a dormire – Vegeta invece riprese il discorso – ti ricordo che ti sono rimaste altre settantadue ore, e io non ho molta pazienza. Voglio la mia gravity room.»
Ok. 
Nessuno e nemmeno lui aveva il diritto di darle ordini. Soprattutto rovinarle il momento delle coccole che, col saiyan, probabilmente non sarebbe mai arrivato.
«Non si preoccupi, Signore, avrà ciò che desidera, come vede oltre ad essere bella da svenire sono una donna di parola, non ho bisogno del suo inutile promemoria.»
«Da svenire? Mpf, semmai “svenuta”. Fatichi a muoverti. Spero questo non rallenti l’andamento del lavoro rendendoti la debole donna che non mantiene la parola data.»

Bulma non ebbe modo di replicare. Vegeta sparì, prendendo le scale che portavano al piano superiore. 

Pensandoci, avrebbero potuto "fare la strada insieme", le loro camere da letto erano adiacenti.
Ma perché dare al saiyan altra soddisfazione?
Era assolutamente vero che non riusciva a muoversi. 

«Sola, di nuovo... »

Zitta! Avete parlato, avete fatto l'amore ed avete ancora parlato. Neanche te lo aspettavi di arrivare a questo punto.

Lentamente, la felicità diventò una fila di denti bianchi e perfetti a comporre un altro grande sorriso.


Stiamo insieme.

Sì, io e Vegeta stiamo insieme.

 

 

~ ~ ~


Sempre a West City.

 


«Lei è un incapace.»
«Non le permetto di parlarmi così, ero quasi riuscito ad impadronirmi della Capsule Corporation!»
«E cosa vuole che ne facciamo dei soldi del dott. Brief e della sua antiquata tecnologia? Non si rende conto di avere messo a rischio l’intero progetto?!»
«Ho fatto il mio dovere, lo faccio da vent'anni, è grazie a me se lei ha avuto i pezzi migliori per i suoi esperimenti, e stavo per mettere le mani su un altro pezzo, uno molto prezioso.»
«Ma le è sfuggito.»
«Però ho informazioni che-»
«Le distrugga.»
«Come? Non le interessa-»
«Ho detto di distruggerle e non mi riferisco solo ad un mucchio di cartacce inutili, parlo dei testimoni, quelli che l’hanno smascherata. Lei si è lasciato dietro una lunga scia di indizi, non mi stupirebbe se qualcuno prima o poi venisse a bussare alla sua porta, il punto è che dopo si arriverebbe a me.»
«Le assicuro che non succederà!»
«Non è nella posizione per rassicurare nessuno. Tra i vari errori che ha compiuto, ha fatto scappare la figlia del dott. Brief. Non sembra, ma è più abile di suo padre. Non la voglio tra i piedi.»
Fra i due interlocutori, l’accusato piombò nel silenzio prima di riprendere parola: «E... dopo che avrò ucciso i testimoni?»
«Sarà radiato dall’operazione, diventerà una cellula morta.» 
«Ma... Che ne sarà dell’attacco?»
«Non sarà più informato a riguardo. Cellula morta, come le ho detto.»
«No, aspetti, lei non può farmi questo!»
«Sì che posso. Devo ricordarle chi sono?»
«No, so chi è lei.»
«Perfetto. Le darò tempo per sistemare le cose, dottore. Avrà un'unica chance, non saranno ammessi altri fallimenti.»
Lo schermo si spense interrompendo la comunicazione. Il dottore scaraventò il pc a terra e fece fare la stessa fine al resto degli oggetti posti sopra la scrivania. «Maledetto», poi, aprì un cassetto dal quale recuperò una valigetta. Aprì anche quella, era piena di lame per interventi chirurgici. Ne prese una. Se la rigirò fra le dita. La lama rifletté un paio di folli occhi grigi.
Dal pavimento, il dottore recuperò un giornale. Era una rivista, la mise sul tavolo e la sfogliò quasi strappando via le pagine prima di fermarsi su una che ritraeva la foto di una ragazza. Accanto all'immagine c’era un articolo su di lei. 
«Stavolta mi prederò i tuoi occhi.»
La punta della lama trapassò la carta conficcandosi nel legno della scrivania. Con un altro scatto impazzito, il dottore la estrasse lasciando un foro oblungo precisamente tra gli incisivi della ragazza, a cui ora era stato strappato il sorriso.
«E pagherai per aver mandato in fumo i miei piani. Pagherete tutti, con la vostra vita.»

 

 

~ ~ ~

 

 

Due giorni dopo. 

 

 

Il dott. Brief aveva sistemato delle enormi casse da stereo su un carrello di metallo. Lo stava spingendo verso il corridoio costruito appositamente per collegare i laboratori con la nuova ala della Capsule Corporation. 
Il carrello traballava, era troppo piccolo in confronto a ciò che trasportava. Arrivato, Brief trovò l’ingresso aperto. In alto la scritta gravity room. Entrò.
La ruota sinistra del carrello cigolava; e in un’area chiusa di trecentosessanta metri quadri quel lamento metallico rimbombava fastidiosamente.
Qualcuno venne attirato dal rumore: «Papà, cosa sono quelle? E non saresti dovuto venire qui con un simile carrello, righerai tutto il pavimento!»
«Ho pensato che in un posto così grande debba almeno esserci della musica, tesoro. A Vegeta non piace ascoltare la musica?», quando aveva costruito l’astronave per Goku, al dott. Brief  era stato impedito di installare lo stereo. Da allora, lo aveva conservato, migliorato e adesso pensava fosse arrivato il momento di provarne le potenti casse.
«Papà...», «Dove pensi potremmo metterle?», «Papà, ascoltami! Non sono necessarie, ho già sistemato lo stereo, anche se dubito a Vegeta interessi.»
«Sul serio? E dov’è?»
«Non lo vedi perché è all’interno delle pareti che rivestono la gravity room, si può accendere e spegnere con un comando vocale.»
«Ah. E il computer che gestisce la gravità, hai rimosso anche quello?»
«Ho cambiato la collocazione: per sicurezza, la gravità potrà essere impostata dall’esterno e anche questa variata o spenta con un semplice comando vocale.»
«Veramente?! Hai fatto un eccellente lavoro figliola, complimenti!»
Altroché, era stata insuperabile. Si sarebbe data delle pacche di incoraggiamento sulle spalle, ma da sola serebbe stato idiota.
«Mi pare sia tutto pronto. Che ne pensi di chiamare Vegeta e di mostrargliela?», suggerì suo padre.
«Stavo per andarci. Prima vorrei verificare il funzionamento della barriera di assorbimento dell’energia. Con questa saremo protetti anche noi.» 
«Bene. Finisco io se vuoi. Nel frattempo, va’ da lui, riceverà una bella notizia. L’ho visto poco fa allenarsi fuori in giardino, sicuramente non se l'aspetta.»
«D’accordo, dagli un’occhiata tu, ma fa' attenzione.»
Bulma passò il pc portatile al padre, era collegato con alcuni cavi a delle prese sulla parete della gravity room.  
«Torno tra poco.»

La scienziata si diresse verso il giardino come le aveva suggerito il papà. Era emozionata, aveva finito l'opera un giorno prima rispetto al tempo previsto per completarla. 
Uscì dalla porta di emergenza in cima alle scale, l'aveva fatta sistemare rendendola più leggera e alla sua portata. 
Fuori, il cielo limpido le brillava sopra la testa confondendosi celeste con i suoi capelli.
Non vide subito Vegeta, per arrivare da lui doveva fare mezzo giro intorno alla Capsule Corp. Il saiyan aveva scelto un posto appartato dove meditare durante l’attesa.
Andrà tutto bene, non c'è  bisogno di agitarsi.
Da quella sera d'amore in salotto, lui non le aveva più fatto visita. Sicuramente, voleva lasciarle tempo per lavorare. Si erano però scambiati un paio di occhiate incontrandosi nell’appartamento. Era un buon segno. Tuttavia, non sarebbe stata la solita Bulma se non avesse avuto dubbi di fronte ad ogni cambiamento in arrivo, perché di quello si trattava: proprio ora che Vegeta iniziava ad aprirsi a lei, la scienziata temeva di perderlo; la gravity room non avrebbe giovato in suo favore. Si sarebbe di nuovo ammazzato di esercizi, chiudendosi lì tutto il giorno. 
Ci sono dei cyborg da sistemare, non dimeticarlo.
Continuò a camminare, l’erba doveva essere stata da poco innaffiata, minuscole gocce d’acqua luccicavano alla luce del sole. Ma tra i fili verdi, Bulma vide qualcosa scintillare di più. Si chinò. Non credette ai suoi occhi. Raccolse l’oggetto. Era sporco, ma era come lo ricordava: della sua misura, con diamanti grossi quanto denti da latte e uno zaffiro al centro. 


Continua...

Note: bentrovati e bentornati, Standby era stata lasciata troppo a riposo a causa dell'altra long che ho iniziato, Chiedete e vi sarà dato. Ottenete e vi sarà tolto - clicca/leggisempre su questi due e piena di disegni. Sono felice di tornare a scrivere e di dirvi che arriveremo a 20 forse 21 capitoli e poi la storia terminerà. Non siete contenti? io direi finalmente, dal 2011.
Vi rinrazio prima di tutto per aver aspettato. Io sono stata via, dovevo riprendermi dopo una grossa perdita. Grazie per il vostro supporto e conforto, siete stati tutti molto cari e vicini.
Ora, trattiamo questo capitolo: volevo ci fosse un salto tra Bulma e Vegeta, il dialogo e lo scambio che hanno avuto spero lo abbiano dimostrato. Ma comunque, lui continua a porre dei limiti. È giusto. Poi farà anche dei passi indietro, che credete, ch ora sia tutto rosa e fiori? Giammai! 
E infatti, torna qualcuno e qualcosa. 
Ditemi, se vi va, mi farà molto piacere leggere cosa ne pensate e rispondervi.
Vi abbraccio tutti, che non mi mollate o che iniziate a seguirmi. 
Un bacio.

Per i curiosi vi linko altre storie che se siete fan di Vegeta e Bulma vi farà piacere leggere:


LA MORTE È INSOPPORTABILE PER CHI NON DEVE VIVERE.
Cell è già un brutto ricordo. Ma Kakaroth è morto. Vegeta torna alla Capsule Corporation inutile e sconfitto. 
Titolo e brano di accompagnamento dei CCCP.
Buona lettura.

Transustanziazione. Se non, amare.
Fresco di battaglia contro l'inferno tinto di rosa, Vegeta torna sulla Terra. Dove dovrà affrontare Bulma e soprattutto se stesso. 
Per cuori teneri e putridi come il mio. 
Attenzione: c'è un alto tasso di zuccheri che incontrerete nel leggerla.

Aporetico EgoTismo
Una OS? No, un pugno allo stomaco. Dal Principe dei Saiyan aspettatevelo, non sarà piacevole.

GLI ALIENI... NON ESISTONO.
Più la nascondi, più la verità torna a galla. Come un cadavere.
Il piccolo Trunks scoprirà qualcosa che il suo papà non potrà più nascondere. 
Dal testo:"Si misero entrambi a ridere, brillavano gli occhi a tutti e due. Di fantasia, di ludico e puerile. 
Ma quando il vento cessò, abbassando le polveri, e i toni della terra si rivelarono essere più chiari e diversi rispetto a ciò che malamente inumavano; poco lontano da loro e dal cratere camuffato di verde spoglio, un misero dettaglio – qualcosa di forma strana, quindi aliena come aveva detto Trunks – apparì."


 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII - Terzo atto. E peggio: larvato e catastrofico perdono. ***


Standby


Capitolo XVII - Terzo atto. E peggio: larvato e catastrofico perdono.

 

In un cerchio non ci sono angoli in cui nascondersi. Da una linea curva chiusa uscire è impossibile, ed ingannevole risulta percorrerla: quando si crede di essere giunti alla fine, è solo l’ennesimo inizio di uno stesso percorso. Che si ripete, daccapo, mai diverso. Solo chi lo attraversa muta, è più stanco, rischia di arrendersi. Cade.

Stava succedendo a Bulma. Il cerchio che la riguardava aveva una circonferenza interna che oscillava fra i valori undici e dodici, la misura del suo anulare sinistro; pesava qualche grammo e valeva una fortuna. Lei lo aveva dato per disperso, poi rubato, e per miracolo lo aveva riconosciuto e svelato sulla mano di un’altra donna. Credeva di essersene liberata; ma l'anello era lì, tornato a tartassare la sua coscienza.
Stette attenta a non farci scivolare dentro le dita che lo tenevano; temeva potesse nuovamente imprigionarla e aveva paura di progredire col pensiero, ma in fondo, dentro di sé, già ne vedeva il significato, l'esegesi di quel ritrovamento: Yamcha non le aveva mentito. Non completamente.
Ha detto che era un pezzo unico.
In tv ne hai visto uno simile.
E se mi fossi sbagliata su di lui? Cioè, su una parte di lui?
Perché, cambierebbe qualcosa?
L'anello le scivolò, Bulma lo riafferrò chiudendolo in un pugno.
Del vecchio amore che la legava allo spilungone non era rimasta neanche la carcassa. Tantomeno, lei aveva voglia di dargli nuova forma e rimpolparlo di viscere.
Camminò per altri metri, non aveva tasche in cui riporlo ma andava nascosto. La scienziata se lo mise nel reggiseno.
Vegeta era vicino, ne udì il respiro venire spinto fuori al probabile esito di un esercizio fisico; avanzando, Bulma lo trovò impegnato in una verticale: un solo braccio teso, in equilibrio su tre dita. Avrebbe voluto possedere la sua tenacia, l'elasticità, il suo stesso egoismo. Invece, non stava accadendo, non accadeva più da quando lo aveva conosciuto.
Il saiyan si accorse di lei: «Parla, che c’è?», era un fascio di nervi, cesellato dalla fatica e dalla morte. Risorgeva come un dio ma aveva ancora bisogno di trovare la sua luce. E lei stava per dargli le chiavi del paradiso; per raderlo al suolo.
«Dovresti essere gentile con chi ti porta buone notizie, non credi?»
«Non farla lunga, dimmi perché sei venuta.»
«È pronta. La tua gravity room è completa.»
«In anticipo?»
«Che ti aspettavi? Hai a che fare con la numero uno.»,  fallocrate principe dei saiyan.
Vegeta tornò coi piedi a terra. Bulma vide albeggiargli in volto la brama, il sorriso sottile divenne una prece ferale per Kakaroth e forse un po’ anche per lei. Sarebbe scomparso pur di allenarsi e di conseguenza si sarebbe negato alle sue attenzioni. Ma la gravity room era anche un voto di fede, rappresentava il suo di anello: un finto collare attorno al più ribelle dei diavoli.
«Non hai nulla dire?», per esempio un“grazie, Bulma” non rovinerebbe la tua antipatia.
Vegeta le si avvicinò, tronfio: «Fammela vedere.»
La scienziata sorrise compiacente, sopportò una breve ondata di brividi e poi gli prese la mano mascherando il turbamento con cortesia ed entusiasmo: «Ti ci porto subito».
Lui si lasciò guidare. Era ad un passo dall’eden dorato.

 

Il dott. Brief attendeva la figlia in corridoio, fuori dalla gravity room, con il pc sotto braccio.
«Cara, funziona tutto correttamente, è perfetta! Ah, Vegeta, vieni, non crederai ai tuoi occhi!»
Davanti al padre, Bulma aveva sciolto la presa dalla mano del saiyan; e lui stesso, poco prima, le aveva fatto intendere che si era stufato di sentirsi trascinare.
«Grazie, papà. Darò io le istruzioni, puoi andare se vuoi.»
«Ok, d’accordo. È tua. È giusto che sia tu ad indicargli come utilizzarla. Mi raccomando Vegeta, fa’ come dice mia figlia.», lo scienziato strizzò un occhio e se ne andò. Bulma si mosse verso la pulsantiera esterna, pronta a spiegare.
«Hai cacciato via tuo padre», notò il saiyan.
«Non sei contento?»
«Non fa differenza per me.»
Si insinuò tra loro un minuto di silenzio. Questo Bulma non se lo aspettava: Vegeta stava davvero abituandosi alla sua famiglia, lo sviluppo non poteva che renderla felice e gonfiarle le guance. 
Credevo fosse il contrario...
«Bene, se vieni qui ti indico come accenderla.», iniziò.

Vegeta ascoltava attento, a tratti, rimaneva sbalordito, le migliorie erano tante, non immaginava che quella donna fosse così in gamba, più brava ed intelligente persino del padre. Operosa. Preziosa.
«E premuto questo, dopo aver inserito il codice di accesso, potrai aprirla, però avrai solo dieci secondi, ricordatelo –  Bulma girò la grande manopola della porta a tenuta stagna – fatto! Avanti, entriamo!»
«È molto grande... E sembra resistente», commentò lui.
«Puoi ben dirlo, ha un doppio sistema di sicurezza che non starò a spiegarti, ti basti sapere che evita di far saltare in aria la casa. Qui, potrai scatenarti come vuoi.»
Vegeta continuò a guardarsi intorno, silenzioso e a braccia conserte. Non si stava sprecando in complimenti, Bulma ne meritava una valanga, ma si vedeva che, sotto sotto, ne era estasiato.
«Ovviamente non ho ancora attivato la gravità, non ci tengo a diventare una sardina. Ma quando uscirò, potrai mandarla in funzione utilizzando la tua voce come ti ho spiegato.»
«Fino a quanto posso spingerla?»
Bulma fremette: «... Seicento.»
«Seicento?! – ripeté lui scioccato – È il doppio rispetto a quella che chiesi a tuo padre!»
«Be’, non vuoi diventare un super saiyan?»
Se voleva? Vegeta meditava il fratricidio pur di recuperare il trono usurpato.
«Ho anche installato un impianto stereo se ti interessa.»
«No, di quello non mi importa.»
Figuriamoci. Almeno dimmi grazie, ho creato la tua palestra dei desideri, chi avrebbe potuto al mio posto?!
Ha capito che ti accontenti, ecco perché non lo fa.
No, è perché sono perdutamente cotta di lui, mi basta vederlo sorridere.
Non si vive di elemosina, lo sai. Una come te, poi, tanto bisognosa di premure da parte del partner.
Allora morirò digiuna d’amore!
Hai sempre quell’anello. Ora ti sta pizzicando un seno, ma più avanti potrebbe farti sentire meno sola se lui non ci sarà.
Bulma si portò una mano al petto, il viso radioso sprofondò in un attimo di caliginosa mestizia. Doveva essere la paura di immaginare Vegeta allontanarsi da lei a generare tale acuminata punta di incertezza. E bugiardo completo o a metà, Yamcha non era nemmeno un amico, ci voleva tempo anche per quello. Perché qualunque gesto lei avesse deciso di compiere nei suoi confronti, sarebbe stato certamente travisato.
Non significa nulla. Lo toglierò appena sarò fuori di qui e lo conserverò in un posto sicuro fino a quando deciderò di restituirglielo.
E se prima di andartene lui volesse ringraziarti? Te lo troverà addosso. Come glielo spiegheresti?
Vegeta adesso la guardava fisso.
Lui non sa dimostrare gratitudine. Non accadrà.
Ne sei sicura? Lo stai sottovalutando.
«Ti... Ti lascio campo libero, così potrai riprendere in fretta i tuoi allenamenti», corse spedita in direzione della porta, fuggevole al pari di un gatto selvatico. Convinta di potersela squagliare portando con sé anello e fisime correlate. Ma: «Bulma, aspetta», Vegeta la raggiunse impedendole di far leva sul maniglione e andarsene. La bloccò mettendo le mani contro la porta a formare con le braccia un ferro di cavallo intorno a lei. Bulma si girò: era circondata, non aveva spazio neanche per fiatare, lui le era addosso con un insolito appeal predatorio.
«Sì, Vegeta, ti ascolto.», le uscì stretto stretto tra le labbra.
Vegeta stava perdendosi in grottesche considerazioni, lasciandosi volutamente sedurre da queste. Considerazioni sulla piccola terrestre che gli stava davanti; un genio disposto al sacrificio; coraggiosa da volerlo più forte del salvatore della Terra. Più forte di Kakaroth. Così pazza da abbracciare il suo stesso sogno e crederci meglio di lui. Così pazza da volergli bene a priori, quando nessuno gliene aveva mai voluto. 
Forse, meritava una possibilità anche lei. 

Conosceva un solo linguaggio, aveva scoperto di saperlo parlare insieme alla terrestre. Però doveva sbrigarsi, perché dopo non l’avrebbe più vista, non ci sarebbe stato il tempo, la strada verso l’oro non voleva impedimenti di sorta. Glielo ripeteva di continuo: era un saiyan; era nato per combattere, l’amore non esisteva, c’era il sapore dei pugni, il languore. La bile, unica linfa a rinvigorire lo spirito. La guardò un attimo ancora. Lei sarebbe stata un grosso intralcio. Ma prima, un’ultima volta, poteva dimenticarsi di se stesso e non guardarsi in faccia. Fingere che l’amore fosse anche una sua virtù, o un suo vizio. 

Si spantalonò, quanto bastava: «Spogliati», ordinò e la asfissiò imperioso con succhiotti sbagliati simili ai baci di un vampiro; sul collo, dove il saiyan aveva imparato lei fosse sensibile.
Disobbedirgli? Rinunciarvi? Bulma tirò giù la cerniera lampo della sua tuta da lavoro. Nei guai, nei guai, nei guai. Sono nei guai. Avrei dovuto buttarlo via. La sfilò fino ai piedi, fu Vegeta a calciarla lontano. Lo vedrà, lo vedrà sicuramente e io sarò morta. Perché ... Sono sua... E lui... Noi... E proprio l’incontrollata frenesia riuscì a preservare il segreto a forma di O: Vegeta non aspettò che lei finisse di svelarsi: la sollevò, tenendola per le cosce nude, si fece incatenare dalle gambe carnose e, focoso in un modo sconosciuto, la conquistò. Guardandola dritto negli occhi.
Non sapeva dire grazie, dimostrare cosa lei gli ispirasse, fuori controllo, diversamente da come stava muovendosi. 
Non conosceva altra lingua. Poteva solo farle toccare le vette del piacere... Del dolore larvato di sudato piacere.

 

Minuti dopo.

 

«Non te l’ho detto...  Oltre allo stereo, ho installato delle videocamere e credo di averle lasciate accese.»
Vegeta sbuffò divertito: «Conserva il video, potrai rivederlo ogni volta che desideri.»
«Non era quello che intendevo! Spero che nei laboratori a fianco nessuno si sia messo a osservare.»
«Tuo padre se n’era andato.»
«È mia madre a preoccuparmi, o qualche operaio dei nostri.», ma non si esauriva lì quanto la scienziata aveva da dire: poteva contarle su più dita di una mano: «Vegeta, volevo chiederti...» lui si voltò verso i suoi occhi: adesso, sembrava davvero l’amante perfetto, disposto ad ascoltarla, ci sarebbe cascata se non avesse saputo chi fosse veramente – insomma, sta accadendo frequentemente, volevo sapere se è stato, voglio dire, un modo per ringraziarmi?»
Il saiyan grugnì. Si alzò dal pavimento dove avevano finito di amarsi. Amarsi? Era questo? Era irritato. Per una volta che lui non aveva avuto esitazioni, lei doveva sbatterglielo in faccia. Non li capiva i terrestri e non voleva sforzarsi di comprendere lei: «Pensala come ti pare, Bulma. Devo allenarmi, vorrei te ne andassi.» Si espresse conciso ma più gentile di qualche tacca rispetto al solito. Comunque, la voleva fuori dalla porta.
Bulma si sentì costretta ad annuire, niente in omaggio, lui non regalava certezze e gli sconti si erano esauriti.
Camminò seminuda per la gravity room, riprese la tuta ignifuga da lavoro, ci si infilò dentro barcollando e tirò su la lunga cerniera lampo. Vestita, come se nulla fosse accaduto. E l’anello era lì a pungerle la pelle.
«A proposito – la richiamò Vegeta, lei sperò in un’aggiunta da sogno – non provare a fregarmi, intesi?»
Le arrivò l’inferno.
S-se ne è accorto?
Come ha fatto?
D’istinto, si toccò la stoffa del reggiseno. L’anello era nascosto.
«Non devi spiarmi – chiarì lui – cerca di rimuovere quelle videocamere, non hanno senso qua dentro.»
Quasi morta.
«Le ho installate per sicurezza, potrebbe capitare che anche i nostri dipendenti passino per questi corridoi.»
«Vedrai, nessuno proverà ad entrare, io resterò qui, notte e giorno», era serissimo. E Bulma tristissima.
«Per toglierle devo intervenire dall’interno. Se lo facessi, ora non potresti allenarti. Posso tenerle spente per il momento.»
«Va bene, d’accordo. Esci.»

 

 

~ ~ ~

 

 

In un posto lontano. Non più lontano della Kame-House da West City.

 

 

Mani ricoperte dalla senilità afferrarono senza tremare un pinza e una fiamma ossidrica. Un volto arcigno, o meglio, un teschio ricoperto di pelle grigia e grinzosa, schifoso persino alla morte stessa, si animò in un sogghigno compiaciuto.
Si trattava di un uomo anziano dall’aria cattiva e dagli intenti più che diabolici.
«Adesso apri gli occhi.» gracchiò, rivolgendosi alla testa cerea e paffuta che gli stava davanti. Quella, come per miracolo, spalancò lo sguardo freddo e affilato.
«Sorridi, allarga la bocca», ordinava e quella eseguiva. «Sei perfetto.», la testa sorrise macabra eccitata dal complimento.
«Ora, attiverò anche le tue corde vocali», la fiamma ossidrica venne avvicinata ad un groviglio di tubi in metallo e un soffio di fuoco compì un altro miracolo: «Signore! Ah! Signore, io parlo!»
Il vecchio ringhiò soddisfatto sotto il suo prominente paio di baffi, «Tra non molto sarai anche in grado di fare tante altre azioni.», «Ma-ma potrò avere a-anche io delle braccia e delle gambe?», «Sì.», «E-e-e le mani? Voglio delle mani grandi! Mani potenti! Vo-vo-voglio u-u-uccidere! Uccidere!», «Non agitarti, avrai un corpo completo e ti farò dono della vita eterna.», «Ah-ah-ah-e-e-e andremo a far fuori Son Goku Son Goku?», «Certo.»
Un altro largo sorriso si aprì sulla bocca di quel prodigio. L’anziano uomo prese la testa, staccandola dal cavalletto su cui stava fissata, e la avvitò ad un busto che aveva a fianco. Poi, si fermò ad osservare il risultato: «Sarai sicuramente il migliore della serie. Nessun errore.», si complimentò il vecchio. Ma un rumore alle sue spalle gli fece cambiare totalmente umore.
«Tu! Che ci fai qui? Non ti avevo dato un ordine?», c’era qualcuno dietro di lui.
«Non posso, io non ci riesco...», rispose il suo interlocutore.
«Dovevo aspettarmelo! Sei un fallimento, un mucchio di rottami incapace persino di eseguire un semplice comando! Guardati: tanto enorme quanto stupido! Ti avviso: se non farai come ti ho detto, ti spegnerò e poi ti farò a pezzi!»
L’ira del vecchio lasciò senza parole il misterioso ingiuriato.
«Tsk! Detesto il tuo sguardo, sembri addirittura umano, ora vattene, vattene e non tornare finché il primario dell’Ospedale Generale e i suoi testimoni non saranno morti. Morti, capito?!»

 

 

~ ~ ~

 

 

Due mesi e quattro giorni dopo.

 

Da fuori si sentiva un fracasso tremendo, di oggetti scagliati a terra, di libri precipitati e penne sparse ovunque come bastoncini di Shanghai. Non ricordava dove l’aveva messa. L’aveva nascosta bene che sembrava dileguatasi anche davanti alla sua infallibile memoria. Di certo, non l’aveva buttata.
«Tesoro, stai cercando qualcosa, posso darti una mano?»
«Non ora, mamma! Sono impegnata!»
La signora Brief entrò comunque nella camera di sua figlia, schivò una scimmia peluche e un vaso di fiori che rotolava vuoto sulla moquette. Arrivò dove il fiuto riuscì a portarla: «Bulma, questo... Non ci posso credere! Hai fatto pace con Yamcha?», disse entusiasta trovando sul tavolo l’anello di fidanzamento.
«Assolutamente no!»
La scienziata corse ai ripari, un altro fraintendimento si doveva stroncare sul nascere ora che lei e Vegeta avevano una relazione, anche se all’altrui conoscenza rimaneva clandestina, e facevano l’amore regolarmente: l’ultima volta risaliva ad un mese prima, e dalla loro prima volta erano trascorsi sessantasette giorni. Teneva il conto, tutto a mente. Pure di un fastidioso ritardo di un mese e mezzo che la stava gonfiando come un pallone da parata. Dettaglio da annoverarsi fra i piacevolmente trascurabili, momentaneamente.
Il problema era un altro, Bulma si era svegliata col ticchio di sistemare una questione, non poteva più rimandare, fosse stato anche solo per dissuadere la noia: dopo la consegna della gravity room, contrariamente a ciò che lei aveva temuto, Vegeta era diventato sessualmente molto attivo, ma passato il primo mese di scintille e guerra fra le lenzuola, aveva poi disertato il campo di battaglia. Non andava nemmeno a trovarla in camera la sera; lei spesso si addormentava nel letto del saiyan sperando lui tornasse almeno nella propria stanza.
Vegeta si comportava come chi avrebbe fatto se avesse avuto un’amante. E di quella non si trattava. 
Ragion per cui, sentendosi dimenticata, la mattina si era presentata buona per perdersi in un diversivo fantastico: caccia alla scatolina blu.
«Cara, se mi dicessi cosa stai cercando potrei aiutarti.»
«Ok – si convinse, era stanca – sto cercando la custodia in cui riporlo. L’hai vista da qualche parte?»
«Dell’anello, intendi?»
«Ovvio!»
«No, mi spiace. Però, posso prestartene una io.»
«Inutile, non ci farei nulla, se voglio ritrovare l’indirizzo della gioielleria in cui l’anello è stato acquistato, devo avere il suo cofanetto.»
«Ah. E a che ti serve l’indirizzo?»
Bulma si fermò: «Voglio restituirlo e farmi dare indietro i soldi.»
«Capisco», sua madre si arrese scontenta, le piaceva quell’anello.
Dopo pochi secondi, la signora ebbe un lampo: «Bulma, Yamcha te lo aveva regalato il giorno in cui siete andati al luna park, vero?», «Sì, perché? », «E ti aveva regalato anche una simpatica scimmia, quella non l’hai perduta.», nonostante sua madre commentasse sempre e volentieri tanta fuffa e poca sostanza, a Bulma arrivò un’intuizione: ripescò il peluche precedentemente lanciato via, lo ribaltò e infilando le dita in una delle cuciture del pupazzo, come per magia, tirò fuori la scatolina blu.
«Eccola!»
L’esterno era rivestito in velluto, non v'era scritto nulla, ma aprendola e sollevando il cuscinetto con la tasca per riporre l’anello, la scienziata trovò l’etichetta con il nome e l’indirizzo del negozio.
Era fatta!

Uscì mettendo uno spolverino e del leggero lucidalabbra, la primavera era alle porte.
Il negozio verso il quale era diretta era una famosa gioielleria e casa d’aste nel centro di West City, un posto chic per tediosi miliardari.
Lei entrò indossando un paio di occhiali da sole, luoghi del genere erano assediati all’ingresso dai paparazzi, non voleva farsi riconoscere, e dopo quanto accaduto con l’esplosione della navicella era meglio tenersi ancora lontano dai flash ficcanaso.

Due hostess minute e graziose la accolsero chiamando per lei uno tra i fashion advisor disponibili.
C’era un intenso profumo agrumato lì dentro. A Bulma non piaceva molto, preferiva fragranze dolci.
Attese pochi minuti, poi, le si presentò un uomo alto, grassoccio, vestito elegante e con un insopportabile accento acuto, probabilmente aggravato dal colletto della camicia che gli stringeva la gola e gli metteva in risalto tre centimetri di pappagorgia pendente.
«Buongiorno Madame, come posso aiutarla?», quello le sorrise quasi che il viso stesse per strapparglisi in due metà dallo sforzo di mostrarsi gentile e solare.
Con nonchalance, Bulma prese la scatolina dalla sua borsa e la aprì facendogli vedere il gioiello: «Vorrei restituire questo e avere un refund, è possibile?»
Il venditore per poco non perse i sensi. «Madame, ma questo anello-»
«È un pezzo unico. Lo so.»
Avanti, me lo dica anche lei che mi sono sbagliata e che Yamcha è stato sincero.
«Mi creda, non ce ne sono così in nessun altro angolo del mondo!»
Sono stata troppo cattiva.
«Noi abbiamo registrato il nome dell’acquirente.»
«Bene, io sono la sua ex fidanzata e sono venuta per restituirlo.»
«Oh, mi spiace per voi, Madame, e mi rammarico di più nel dirle che un rimborso è del tutto impossibile.»
«Perché?»
«L’uomo che lo comprò, il suo fidanzato-», «Ex», «Sì, il suo ex, diede in cambio un altro anello di pari valore.»
«Dice sul serio?»
«Sì, sì!»
Ed era anche vero che Yamcha aveva offerto il suo anello, trofeo di campionato e di carriera, per donare quello costosissimo a Bulma.
Sono una brutta persona.
«Senta, non voglio i soldi. Mi interessa riavere quell’anello. Se io vi restituissi questo, potrei riaverlo? O è stato venduto?»
«È fortunata. Abbiamo ancora l’anello del suo ex fidanzato. Parlerò con il direttore, intanto la accompagno nella sala vip e se vuole le faccio portare dello spumante o un caffè.»
«No, la ringrazio, vado di fretta.»
«Come preferisce. Però, mi scusi se mi permetto, è sicura di volersene liberare? Qualsiasi donna desidererebbe averlo.»

 

~ ~ ~
 

Soddisfatta e con mezzo peso in meno sulla coscienza. L’altra metà le strusciava sulla strada, e doleva al pari di un’ernia inguinale mai curata. Aveva accusato Yamcha di essersi ripreso l’anello per darlo alla gallina in tv. Era stata ingiusta. Quello che aveva scambiato glielo doveva restituire, rimandare ancora non era possibile: da quando aveva ritrovato il suo, in giardino, era stato parecchio "faticoso" per lei tenerlo nascosto: come se Vegeta avesse potuto scovarlo o anche solo immaginare che ci fosse un anello, quell'anello soprattutto; il saiyan entrava nella camera della scienziata raramente e per fare altro. Era lei a vivere nella paranoia. 

Nonostante l'intenzione però, Bulma respingeva l’idea di rivedere Yamcha in un altro confronto faccia a faccia. Perché si sentiva debole, non pronta ad affrontare accuse e allusioni sgradevoli su Vegeta; che le sarebbero cadute addosso come pioggia e l'avrebbero sommersa e fatta annegare
.
Eppure, lo aveva perdonato e, catastroficamente, si sentiva anche in obbligo di farsi a sua volta perdonare per come lo aveva trattato, credendolo colpevole sin dall’inizio. 
Era colpa sua se Yamcha aveva tentato di uccidere Vegeta.
Sua.

Lei lo aveva spinto alla disperazione.

 

Continua...

 

Note: Perdonatemi se vi sono sembrata ripetitiva con un altro momento caldo tra Bulma e il Principe. Io però l’ho trovato necessario, è Vegeta ancora diverso, terzo atto, in cui non ha indecisioni. Ma sa che dovrà lasciarla (che tra l’altro la cosa non accade per un mese, ma per quello successivo).
Un modo per ringraziare? Be’, Bulma lo sgama immediatamente.
E lei ha dei ripensamenti? No, è la sua coscienza che la mette di fronte ad ogni eventualità, lo facciamo tutti, pensiamo anche le cose peggiori che mai faremmo, ma se le pensiamo è proprio per aborrirle e mettercene in guardia.
Sì, se ve lo state chiedendo, dal ritardo, si capisce che è incinta.
Se vi state chiedendo anche chi è il vecchio brutto insieme alla testa parlante, sono entrambi chi esattamente pensate, ma l’altro interlocutore chi potrebbe mai essere? È facile, è facile. Si capisce, anche perché non ci sarebbe altra alternativa. ;)
Per ora mi fermo qui. Il disegno lo rimando ad un altro momento.
Un grazie a voi tutti che continuate a leggere e a scrivermi.


Per i curiosi vi linko altre storie che se siete fan di Vegeta e Bulma vi farà piacere leggere:

MINI LONG SU VEGETA E BULMA:
Durante una festa, Bulma esprime un desiderio. Il Dio Drago la ascolta e poco importa se lei non intendeva sul serio le proprie parole, lui obbedisce.
-------------------
Ultimo capitolo pubblicato: 7. NESSUNO TOCCHI LA REGINA. (illustrazione di apertura all'ultimo capitolo: FASTIDIOSA per i fan di Bulma, di Radish, di Vegeta, il capitolo stesso è insopportabile, ve lo sconsiglio.) / Storia illustrata/ PG che aggiungo qui oltre a quelli giù segnalati: Dodoria, Freezer.
Cell è già un brutto ricordo. Ma Kakaroth è morto. Vegeta torna alla Capsule Corporation inutile e sconfitto. 
Titolo e brano di accompagnamento dei CCCP.
Buona lettura.

Transustanziazione. Se non, amare.
Fresco di battaglia contro l'inferno tinto di rosa, Vegeta torna sulla Terra. Dove dovrà affrontare Bulma e soprattutto se stesso. 
Per cuori teneri e putridi come il mio. 
Attenzione: c'è un alto tasso di zuccheri che incontrerete nel leggerla.

Aporetico EgoTismo
Una OS? No, un pugno allo stomaco. Dal Principe dei Saiyan aspettatevelo, non sarà piacevole.

GLI ALIENI... NON ESISTONO.
Più la nascondi, più la verità torna a galla. Come un cadavere.
Il piccolo Trunks scoprirà qualcosa che il suo papà non potrà più nascondere. 
Dal testo:"Si misero entrambi a ridere, brillavano gli occhi a tutti e due. Di fantasia, di ludico e puerile. 
Ma quando il vento cessò, abbassando le polveri, e i toni della terra si rivelarono essere più chiari e diversi rispetto a ciò che malamente inumavano; poco lontano da loro e dal cratere camuffato di verde spoglio, un misero dettaglio – qualcosa di forma strana, quindi aliena come aveva detto Trunks – apparì."


 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII - Progenie segreta sotto lampi di guerra. ***



Standby


Capitolo XVIII - Progenie segreta sotto lampi di guerra.

 

 

Ne prese uno per capire, il secondo per sbagliare, un altro per il verdetto, il quarto per confermarlo. Con il quinto ed il sesto aderiva doppiamente all’offerta: paghi due, prendi tre. Li gettò nel cestino verde della spesa, stando attenta a non essere vista. Si preoccupò di coprirli con dei pomodori, una vaschetta di pollo macellato, delle lattine di qualcosa con molta caffeina e tre paia di collant a vita alta color daino che non avrebbe mai indossato. Così, non c’era modo di vederli per chiunque provasse a buttare un occhio fra i suoi prossimi acquisti. Ovviamente, a nessuno fregava di lei.
Erano le venti e cinque minuti, lo segnava l’orologio al polso. La signora Brief aveva certamente preparato la cena, apparecchiato la tavola per quattro anche se ci si riuniva in tre.
Nella sua borsa, tra i vari oggetti, c’era un cofanetto d’oro. E nel cestino della spesa...
La chiusura del supermercato era prevista per le ventuno. Aveva un’ora scarsa prima di arrivare alle casse e finirla di continuare a perdere tempo. Bulma si mosse per un altro giretto nel reparto dei parafarmaci. Si accorse di aver esaurito gli ultimi articoli di quel prodotto in offerta. C’era un vuoto tra i cerotti e le bende adesive per gli occhi. Era lo stesso spazio formatosi nei suoi pensieri, quello che non le aveva permesso di tornare immediatamente a casa dopo aver ottenuto ciò che voleva e di cui doveva presto liberarsi, una volta per tutte; si trattava di una seconda questione, in attesa di essere affrontata. E lei voleva iniziare a risolvere questa e l’altra in una sola giornata, ormai finita.

Dagli altoparlanti, una voce avvisò la clientela che il supermercato stava per chiudere e invitava i presenti ad affrettarsi e recarsi alle casse. Bulma scelse quella veloce, passò rapidamente gli articoli e li sistemò in due buste separate: quelli dell’offerta tutti in un’unico sacchetto, il resto a parte. Dietro di lei, una signora anziana la stava osservando insistente.
«Sono per una mia amica!», sbottò imbarazzata. Ma la vecchietta le sorrise con l’aria di chi aveva capito. Bulma fece una linguaccia e si sbrigò ad uscire.

Le possibilità le aveva considerate e scartate dalla prima all’ultima: era tardi per fare una telefonata, incontrarsi e credere di poter tornare a casa sulle proprie gambe e non in pezzi dentro un sacchetto. A causa della sua indecisione, restituire l’anello finì nella lista degli impegni per i giorni a venire.
Lo terrò ancora per un po’ , nessuno lo vedrà,  intanto avrò tempo per essere sicura se io, anzi, se noi...
Rimuginava su quale tra le due incombenze avesse la precedenza e se chiarire una modificava l’atteggiamento da prendere nei confronti dell’altra.

Lungo la strada negozi chiusi, ristoranti e pub erano gli unici ad animare l’atmosfera. West City non si assopiva mai completamente. La sfiorò l’idea di fermarsi per un drink, avrebbe prolungato la sua passeggiata lontano dalla Capsule Corporation. Sì, una birra l’avrebbe aiutata a rassettare le emozioni. Stava per scegliere il locale in cui entrare, gliene serviva uno che offriva anche hamburger saporiti, aveva fame. Invece, desistette: perché una sensazione, di troppa vicinanza, di colluttazione qualora avesse mancato un passo, la spinse subito all’angolo del terrore. Dietro di lei... qualcuno la stava seguendo. Non si mise a correre, continuò a mantenere l’andatura. Si trovava nella zona centrale della città, solitamente la più affollata, gridare avrebbe fatto scappare chiunque. Cercò piuttosto di vedere il riflesso di costui, o costei, rivelarsi sulle vetrine dei negozi vicini alla sua sinistra.
Inutile.
Decise di voltarsi.

E...


Non c’era nessuno.


L’unica forma a muoversi era la sua immagine. Si soffermò su quella riflessa dal finestrino di un’auto parcheggiata. Un alito di vento le agitò l’acconciatura. Lei si avvicinò alla macchina. Lasciò le buste a terra accorgendosi di un ciuffo scappato alla piega. Andava sistemato.
Con entrambe le mani libere, Bulma spostò la ciocca ravviandola nella fascia che le teneva in piedi la cotonatura. Le piacevano i ricci, non li aveva mai avuti prima, i capelli però erano cresciuti e stavano diventando indomabili. Avrebbe preso un appuntamento dal parrucchiere appena possibile. Segnò anche questo nella propria agenda mentale. Da infilare a cavallo fra le due “urgenze”.

Si guardò di nuovo intorno: stranamente neanche un passante, la movida era tutta sul marciapiede opposto. Ma la sensazione no, era lì, con lei. Stantia, immutata. Pesante come una forte pressione che calava dall’alto.
Era uno di quei momenti in cui avrebbe voluto possedere la stessa capacità dei suoi amici, di avvertire chiunque senza vederlo scovandone semplicemente l’aura.
Invece no: lei era una semplice donna e oltre al sesto senso, che a volte funzionava e altre no, non aveva altre difese.

Sono solo eccessivamente preoccupata per questo maledetto anello.

Solo? Non essere ipocrita, hai svuotato un supermercato.

Si chinò per riprendere le buste. Vide la sua ombra proiettata sul marciapiede... Ok, i suoi capelli erano cresciuti, tanto, ma la sua ombra era... enorme! Doppia, non sua! Si allungava, si muoveva, sopra di lei e stava... stava per... 
Bulma si coprì la testa accucciandosi a terra. Sarebbe stata colpita. Interminabili secondi passarono in attesa del dolore e...

Ancora nulla.

Aprì gli occhi, davanti, dietro di lei nessuno. Poi, alzò lo sguardo: non poteva crederci, c’era davvero qualcosa!
Oltre le luci dei lampioni e delle insegne luminose, nel buio, la scienziata intravide una forma scura, una figura... umana, stava allontanandosi sopra i grattacieli. Più su, fino a sparire.

La perse di vista.

Non me lo sono immaginato!

Poteva azzardare e spingersi a credere di aver scorto una persona, qualcuno molto alto e di mole robusta. Ed era scomparso volando. Non poteva essere un normale terrestre. Ma chi, sennò?

Uno schiamazzo in fondo alla strada la convinse a tornare a casa; le mancava di incontrare gente ubriaca. E pensare che, fino ad un attimo prima, voleva fermarsi per una birra. Colpa di Vegeta: da quando aveva iniziato una liaison con lui, la soglia del rischio le era vertiginosamente crollata. Raccattò in fretta gli acquisti e a passo svelto, molto svelto, arrivò al cortile della Capsule Corporation in meno di un quarto d’ora.

Non ebbe il coraggio di voltarsi indietro. Passato il badge, entrò in casa e raggiunse l’appartamento con la tensione attaccata alle gambe.

Qualsiasi cosa l’avesse seguita, lei adesso era al sicuro.

 

«Ehilà, sono tornata!»
Nella sala da pranzo trovò entrambi i genitori, stavano mangiando un dolce mentre guardavano un film in tv.
«Bulma, sei riuscita a restituire l’anello?»
«Sì, mamma, non ti preoccupare – si liberò dello spolverino e della borsa e si avvicinò ai suoi – Bravi, siete già al dessert.»
«Scusaci, non ti abbiamo aspettata perché pensavamo fossi andata a cena fuori con Vegeta.»
«Non dire stupidaggini! Sai che ha ripreso ad allenarsi ed ora è molto impegnato.», dando un’occhiata alla cucina, Bulma vide piatti coperti per due persone. Anche Vegeta aveva saltato la cena.
«Dai cara, siediti con noi, tua madre ha fatto la torta al cioccolato con le fragole, ne vuoi un po’?»
«Ti ringrazio dell’invito papà, ma vorrei evitare di iniziare la cena dal dolce.»
«Come vuoi. Però è buona.»
«Non lo metto in dubbio!»
«Vedo che hai fatto compere, tesoro!», notò sua madre.
«Niente che ti riguardi.», rispose lei acida, nascondendo le buste dietro di sé. Poi, si chiuse in cucina scappando dalla mamma impicciona.


Bulma sistemò la spesa nel frigorifero, tranne ovviamente i collant e l’altro sacchetto con i prodotti segreti. Aver parlato con suoi genitori le aveva abbassato l’asticella dell’ansia, tuttavia, qualcuno l’aveva seguita e non riusciva a capacitarsi di chi poteva essere stato. Guardò fuori dalla finestra: la solita calma nel cortile ordinato. Chiunque ci avesse provato, non aveva osato farlo oltre il perimetro della CC. Glielo suggeriva il suo sesto senso.
Ragionò sull’identità del sospetto: no, Vegeta era il primo da escludere. Yamcha... improbabile ma non impossibile. E dopo, chi altri rimaneva? Solo i suoi amici erano in grado di levitare, anche quel musone di Piccolo non così amico. Ma perché avrebbero dovuto seguirla e spaventarla? E nascondersi. E poi con quali intenzioni?! 
Le passò per la testa il primario dell’ospedale, l’unico individuo pericoloso che aveva provato a farle del male e che poteva avercela con lei... Però, il dottore non le era sembrato un tipo abile, insomma, uno che poteva comportarsi come un ninja. E inoltre, che fine aveva fatto?
Dall’ospedale non aveva ricevuto più notizie e, a sua volta, non si era degnata di ricontattare l’infermiere e ringraziarlo.
Difficile scoprire il mistero. Avrebbe continuato a pensarci su fino ad impazzire, ma una fitta allo stomaco la obbligò a lasciar perdere. Doveva occuparsi della fame. Si sentiva improvvisamente allo stremo delle forze. Troppo stress, e le erano rimasti in gola birra e hamburger.

Si accontentò del polpettone agli spinaci da scaldare nel microonde. Quattro minuti e la pietanza uscì fumante e appetitosa. Con altrettanto poco tempo lei la divorò senza lasciare una briciola. Eppure, non era sazia, c’era ancora spazio nel suo pancino. Mangiò anche la porzione di Vegeta; non fu abbastanza lo stesso.
«Che diavolo mi succede?», aveva ragione di chiederselo, perché il suo corpo stava reclamando altro cibo, tanto cibo.
Aprì il frigo, si avventò su una mela. Arrivata al torsolo, passò ad una scatola intera di alici marinate. Mischiò i sapori, perdendo totalmente il senso del gusto. Il suo stomaco era diventato una voragine da riempire. Non le era mai successo di avere un simile appetito. S’attaccò pure ai salumi e ad un formaggio puzzolente che piaceva a suo padre e che lei detestava. Lo prese a morsi, ingoiò pure la crosta.
Dopo il pesce crudo, Bulma era pronta a fare festa alla torta. Cioccolato, fragole intere; sua madre aveva esagerato con le dimensioni: ne aveva sfornata una alta una trentina di centimetri, ripiena di marmellata densa fra otto strati di cacao fondente, al latte e cioccolato bianco. Quella avrebbe messo in ginocchio qualsiasi buona intenzione e fatto suicidare il contegno. Bulma ci infilò direttamente il dito, affogandolo nel dolce. Colta un po’ di torta, si portò alla bocca il cioccolato morbido mischiato alla marmellata in pezzi. 
Era squisita! Era gioia da assaporare!
Ne tagliò una fetta tanta da riempirci un piatto fondo. Una fetta che comprendeva almeno sei, sette porzioni. Non aveva iniziato dal dessert
, ma con quella cominciava una terza cena.
Prese anche del succo al mirtillo.
Stava per andarsene, quando ricordò di aver dimenticato quel sacchetto della spesa. Mangiare la distraeva, ma più masticava e ingoiava cibo, più sentiva il proprio corpo produrre un’insolita e indescrivibile vampata di piacere e rilassatezza. Di calore nelle viscere e felicità da inumidirle gli occhi. 
Portò tutto nella sua camera, avrebbe continuato ad ingozzarsi là.


Entrò nella stanza al buio; ne conosceva il perimetro, lo spazio occupato da ogni mobile, e arrivò quasi a posare il piatto sul comodino accanto al letto.
Accese l’abat-jour. 
Tic.
Morì di infarto.
Non era sola.
Vegeta, davanti a lei, se ne stava appoggiato alla scrivania e teneva le braccia incrociate. La guardava irritato. Bulma urlò, rischiando di buttare a terra il piatto con la torta golosa. Il sacchetto invece ciondolava appeso ad un suo braccio e la borsa con l’anello era rimasta fortunatamente sull’appendiabiti dell’ingresso.
«Così prima o poi mi farai crepare!»
«Non esagerare. È da molto che ti sto aspettando, dove sei stata?», la rimproverò lui.
Addirittura?
C’era da chiedersi invece da dove sbucasse tanto pretenzioso interesse.
«Vegeta, questo non è normale! Ti trovo qui, in silenzio, al buio, a fare il fantasma nella mia camera! Dopo un mese che non ti fai più vedere!»
«È nella seconda parte della tua lagna che mi stai accusando, vero? Perché non mi sei mai sembrata triste o dispiaciuta di trovarmi, specie in questa stanza.»
Bulma sbuffò, aveva ragione lui. E parlare di normalità con Vegeta sapeva di barzelletta inutile.
Ciò non toglieva che l’aveva comunque terrorizzata, trascurata per trenta giorni. Erano tanti.
«Non mi sarei spaventata se tu fossi stato... Più presente.», civettò fanatica in contrapposizione con la porzione di torta mastodontica che avrebbe dovuto farla vergognare.
«E quella? Tutta per te?», appunto. Se n’era accorto, Bulma diventò rossa, «Sì e non deve interessarti.»
«Infatti non me ne frega nulla.»
Bulma la addentò per dispetto. Non offrì assaggi, la torta era sua. 
«Perché mi stavi aspettando? – avrebbe voluto chiedergli perché si fosse tenuto lontano da lei, ma intuiva da sola la risposta: iniziava con Super, proseguiva con Io il Principe e terminava con Saiyan che se non la sapeva lunga non poteva raccontarla – Problemi nella tua gravity room?»
«No. È incredibilmente resistente, più di quel che immaginavo... », lei però continuava a mangiare incurante del rumore che produceva il suo ghiotto ruminare, badando poco alle parole di Vegeta. Sì, un altro paio di forchettate e si aggiudicava la vittoria nel match contro il dolce.
Però una simile voracità non aveva nulla di terrestre. Se ne rese conto pure il saiyan: «Avevi fame... », osservò. Bulma guardò il piatto: erano rimaste le fragole, tenute per ultime in quanto sue preferite. Ma la fetta composta da otto strati di piacere di zucchero, tutto scomparso rapidamente nel suo stomaco.
«Era la mia cena.», rispose innocente.
«Capisco.»
Chiedigli se è stato lui!
Suggerì in fretta la coscienza.
Ti ha seguita e quando tu te ne sei accorta se ne è andato. Ecco perché ti aspettava qui.
E perché l’avrebbe fatto? Non ha senso. Io ho visto qualcuno molto... molto più alto.
Si creò una pausa tra loro; Vegeta, sempre a braccia conserte, guardava altrove continuando a non rivelare il perché della sua visita. Poi, un oggetto calamitò la sua attenzione. Bulma vide il saiyan muoversi e fermarsi a prenderlo da sopra una mensola.
«Questo l’ho già visto.», esclamò lui.
La scienziata si girò per guardare meglio cosa egli avesse trovato, «Stai tenendo fra le mani il dragon radar», spiegò.
Vegeta stese le labbra in un sorriso sghembo: su Namecc non si era sbagliato, il figlio di Kakaroth l’aveva fregato, quell’aggeggio era davvero un radar cerca sfere.
«E tu lasci un oggetto simile in un posto incustodito?»
Derisorio, ma soprattutto polemico! A Bulma mancava questa parte di lui.
«Non è un posto incustodito, è la mia camera. Sei tu che ti prendi la libertà di entrare.»
«Non essere sciocca, un aggeggio del genere farebbe gola a chiunque, meriterebbe un posto migliore.»
«Siamo in pochi a sapere delle sfere magiche.»
«Scherzi? Io sono la prova vivente che la voce si è sparsa un po’ oltre il pianeta Terra. Dovresti stare attenta, Bulma!», continuava ad esprimersi con durezza; ma le parole appena dette suonarono a lei come una calda protezione.
Diglielo che qualcuno ha provato a seguirti!
«Sei preoccupato per me?»
«No, affatto. Mi importa che nessuno si azzardi ad ottenere l’immortalità.»
Ci ho creduto troppo facilmente.
«Sai, avevo sedici anni quando lo creai, dopo aver trovato per caso una delle sfere... »
«Mpf, il gioco di una ragazzina... – e così lei era anche l’inventore di quel marchingegno, Vegeta non se ne stupì – Che però ha portato te e i terrestri ad avere parecchi guai.», commentò.
«Guai? No, non li chiamerei guai, ce la siamo sempre cavata grazie alle sfere del drago e in qualche modo... tutto questo mi ha portata ad incontrare te.»
Bulma condì le fusa con due occhi bellissimi e rassicuranti come il mare di una baia sgombra ed accogliente. Vegeta non li voleva. Pure se tuffarsi in quelle acque calme continuava ad essere gradevole, fin troppo gradevole per uno come lui. Le restituì il radar: «Ti consiglio di nasconderlo bene.»
«Te ne vai di nuovo?»
«Ero venuto per un motivo preciso, non per chiacchierare con te.»
«Be’, allora che aspetti? Di’, sono tutta orecchie!»
«Sapresti riprodurre la mia divisa da combattimento?»
«La tua divisa? Quella che avevi quando sei venuto sulla Terra?»
«Esatto. Non combatterò mai indossando abiti terrestri, non sono adeguati, sufficientemente resistenti. E soprattutto, io sono un saiyan, voglio che questa differenza rimanga.», si espresse limpido, perentorio, viziato. Una vena pulsante stava percorrendogli la tempia, lo sguardo era concentrato. Fremeva per la risposta e non avrebbe tollerato dinieghi.
 Le aveva fatto una precipua richiesta, la sola di cui veramente gli importava, e l’aveva fatta a lei, non al dott. Brief. Bulma se ne sentì lusingata. La scienziata colse l’occasione: «Ho capito. Anche se adesso vivi qui e non vuoi distruggere la Terra, si dovrà comunque continuare a temere il principe dei saiyan, giusto?», voleva comprendere i suoi futuri intenti e tastare quel terreno di cui non conosceva solidità. Ce ne voleva uno compatto per sostenere le probabili buone nuove in arrivo. Ma Vegeta, purtroppo, rappresentava il sisma e non la casa.
Lui le concedette l’assenso del proprio silenzio. Poco, per trarne una conclusione positiva.
E mi chiedo se il tuo orgoglio stia guarendo dalle ferite.
«D’accordo. Hai ancora quella danneggiata che indossavi su Namecc?»
«Sì.»
«Ottimo! Studiando le materie che la compongono potrò sicuramente accontentare la tua richiesta.»
«Ne sei certa?»
«Ti ho mai dato motivo per dubitare di me? Dovresti aver capito che quando si tratta di invenzioni non mi pongo alcun limite, proprio come te nella gravity room.»
Gli sorrise. Lui sostenne il suo sguardo, il mare profondo.
«Ad una condizione però.», soggiunse lei.
«Non accetto condizioni.»
«Stavolta lo farai. Perché io realizzerò per te una nuova armatura da combattimento, a patto che tu non- tu... – uno spasmo assurdo le strizzò lo stomaco –  Tu non- Non- Ah!»
Bulma sentì la bocca riempirsi di saliva e disgusto. Il piatto di torta sbranata era lì, sul comodino, vicino ma lontano dal suo naso, eppure l’odore delle fragole che aveva lasciato le sembrò divenire denso, insopportabile, marcio, un puzzo che picchiava e ostruiva la gola.
Non qui, non adesso!
Si alzò di corsa. Cadde il piatto, la moquette lo salvò dal rompersi. Le fragole rotolarono via. Lei andò diretta in bagno, arrivò in tempo per espellere quello che indiscriminatamente aveva ingurgitato.
Vegeta non mosse un dito, rimase come incantato.
Non era terrestre. Non era stata fame terrestre.
Un altro conato la sconquassò, nessuna mano venne in soccorso per tenerle la fronte e i capelli da tagliare. In ginocchio, scossa dai tremori e dagli spasmi muscolari che le scavavano il torace, Bulma si voltò appena per vedere se lui fosse ancora lì. Vegeta c’era ma si teneva a distanza, appoggiato al piedritto d’ingresso del bagno. Perché distante doveva essere il suo posto in quella situazione.
Tirò lo sciacquone una terza volta. Calmatasi, si asciugò la bocca con la carta igienica. Aveva la gola in fiamme e sentiva i succhi gastrici pizzicarle il naso.
«Avevi ragione tu, quella torta era troppa solo per me
... Mi sento uno schifo.», era uno schifo bugiardo, che non poteva più nascondersi. E quello non era l’esito di un improvviso disturbo alimentare.
Vegeta però non la stava seguendo, osservava altro adesso. Bulma intercettò la direzione dei suoi occhi, dello sguardo precipitato sulla moquette e che da lì più non si rialzava. La scienziata ne comprese presto il motivo: dovevano esserle caduti  durante la corsa per salvare il salvabile. Lui li guardava fisso. Sta leggendo. Il sacchetto della spesa era sul pavimento, i test di gravidanza comprati al supermercato pure. Lui a braccia chiuse, la bocca serrata e la coscienza che ingoiava consapevolezze. Perché non dice nulla? «Vegeta?» Granitico era il volto e affilato lo sguardo. Vano tentare di riavere la sua attenzione. Dimmi qualcosa, ti prego... 

«Fatti visitare da un medico.»

Non aggiunse altro, gli accordi per la battle suit dimenticati. Le diede le spalle e prese le distanze da tutto ciò che in quella camera voleva braccarlo. Naturalmente braccarlo, lo sapeva.
Bulma aspettò di sentire il rumore della porta della stanza accanto richiudersi, lo sperava. Non arrivò.
Girandosi verso la finestra, vide nel buio una fredda vampata luminosa esplodere e andare lontano. Dissolversi in una sottile scia bianca.


Un esercito di lacrime, dopo averla mitragliata, marciò via dai suoi occhi.

 

 

~ ~ ~

 

 

La sveglia trillò alle cinque e quarantanove del mattino, così come l’aveva memorizzata.
Bulma si alzò, a tentoni arrivò nel bagno della sua camera dove pigiò l’interruttore della luce. Il bastoncino, anzi i bastoncini, preparati ore prima, la aspettavano tutti in fila sul bordo del lavabo. Erano sei.
Si ricordò che era possibile raccogliere le urine in un contenitore ed immergere gli stick successivamente per i secondi che servivano. Ma non lo aveva. Come aveva potuto dimenticarsene? Andò per le spicce, stando attenta a non sporcarsi nonostante il sonno. E con estremo pazzesco controllo della vescica, riuscì ad usarne tre.
Attese il tempo necessario.
La sua faccia era uno straccio sbattuto. Non aveva avuto il coraggio di ingurgitare più nulla; ora, moriva di fame. 
Roteò il piede, i
l pavimento era freddo e sentiva le gambe anchilosarsi.
Finalmente, la lancetta dell’orologio abbatté il traguardo. Contò: «Due, quattro, sei...», sapeva come funzionavano certi test, eppure, andò lo stesso a leggere il bugiardino della confezione: «Due linee uguale incinta.»
Gli stick erano tre, le linee sei. La vita imperava e glielo stava dicendo tre volte.
Adesso non far finta che non te lo aspettavi!
Se lo aspettava. Era stato per confermare una certezza, ma averla sotto agli occhi per la prima volta le faceva tremare il cuore. Era un’allegra eufonia di emozioni, c’era l’euforia del cambiamento, il bisogno di gridare, la paura che aguzzava i sensi, e guardarsi allo specchio diventava un’esperienza nuova. Si sentiva forte, piccola dinamite, improvvisamente sveglia e viva per due, ogni cosa intorno a lei vibrava. Si sarebbe messa seduta stante a colorare una parete di celeste pastello sfogando la sua gioia. Doveva dirlo, dirlo subito. Ora poteva.
Uscì dal bagno, dalla sua camera e si precipitò in quella a fianco col viso di una ragazzina... che aveva dimenticato cosa l'avesse fatta piangere.
«Vegeta, ho una notizia!», ce l’aveva dalla sera prima «Vegeta!», era felice, felicissima. Il suo amore contorto, malgiudicato, aveva creato la vita. Vegeta non era un folle omicida, era un padre, lo avrebbe dimostrato al mondo intero. Ne portava in grembo la prova: era rimasta incinta di lui senza che le fosse stato torto un capello. Era l'evidenza vivente che nel saiyan v'era traccia di umanità, sentimenti, tenerezza.
«Vegeta... » lo chiamò.
La sua voce finì risucchiata. La stanza era vuota.  Nessuno le rispose.
Giusto. Lui se ne era andato e dalle condizioni intonse del letto si capiva che non aveva fatto ritorno.


«Nostro figlio... Aspetto...  nostro figlio.» ripeté fra sé, domandandosi poi se anche lei fosse realmente così contenta di quel cambiamemento... perché l'euforia stava diradandosi assorbita dall'assenza del saiyan.

 

Continua...

Note: scusate per il ritardo con il quale vengo a pubblicare questo capitolo. Mi spiace molto anche continuare a disertare gli appuntamenti settimanali con le vostre di storie. Ma ahimè non arrivo a dama. Recupererò. Non lo giuro. Lo faccio.
Passando al capitolo, suvvia Bulma, sei troppo nervosa paranoica anche quando sai benissimo che sei incinta! Ma lei è stranina, ce la vedo a comportarsi guardinga. E l’appetito da lupi? Approfondirò il tema più avanti, però mi piace pensare che rimanere in cinta di un saiyan accentui tutto, la fame, la percezione degli odori, le nausee, ci può stare. Rende il momento della gravidanza “divertente”. Non a caso in Chiedete e vi sarà dato. Ottenete e vi sarà tolto. Bulma mangia molto, ma tenta di nasconderlo. Fragole e cioccolato citazione alla suddetta. ;)
Vi è piaciuto lo scambio che ha avuto con Vegeta? Io mi sono sempre immaginata un dialogo simile tra loro, sul radar cerca sfere e le sfere del drago. Volevo che si sentisse un po’ la confidenza, ormai sti’ due ce l’hanno. E Vegeta polemico su questioni di "sicurezza" è qualcosa di già sentito in DBS-Broly. Se ci stavate pensando è così.
Per la battle suit, ho voluto fosse lui a chiederla, il che ha un significato potente. Tutto nella mia testa!
E siamo giunti alla notizia dell’arrivo di Trunks, come vi è sembrata la reazione di Vegeta? Cioè, lui se ne è andato ancor prima di sapere, così intanto comincia ad abituarsi all’idea. Va’! Quindi, vi dico che ci sarà anche il momento della dichiarazione vera e propria. ^^ E tornando all’inizio, qualcuno stava seguendo Bulma. Presto si tornerà ad avere a che fare direttamente con l’ospedale.

Vi ringrazio per essere giunti sin qui. Spero restiate, siamo quasi alla fine, quasi, non perdetevela!

Grazie a voi tutti che mi scrivete o mi seguite in silenzio.

 

Per i curiosi vi linko altre storie che se siete fan di Vegeta e Bulma vi farà piacere leggere:

MINI LONG SU VEGETA E BULMA:
Durante una festa, Bulma esprime un desiderio. Il Dio Drago la ascolta e poco importa se lei non intendeva sul serio le proprie parole, lui obbedisce.
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Ultimo capitolo pubblicato: 7. NESSUNO TOCCHI LA REGINA. (illustrazione di apertura all'ultimo capitolo: FASTIDIOSA per i fan di Bulma, di Radish, di Vegeta, il capitolo stesso è insopportabile, ve lo sconsiglio.) / Storia illustrata/ PG che aggiungo qui oltre a quelli giù segnalati: Dodoria, Freezer.

Cell è già un brutto ricordo. Ma Kakaroth è morto. Vegeta torna alla Capsule Corporation inutile e sconfitto. 
Titolo e brano di accompagnamento dei CCCP.
Buona lettura.

Transustanziazione. Se non, amare.
Fresco di battaglia contro l'inferno tinto di rosa, Vegeta torna sulla Terra. Dove dovrà affrontare Bulma e soprattutto se stesso. 
Per cuori teneri e putridi come il mio. 
Attenzione: c'è un alto tasso di zuccheri che incontrerete nel leggerla.

Aporetico EgoTismo
Una OS? No, un pugno allo stomaco. Dal Principe dei Saiyan aspettatevelo, non sarà piacevole.

GLI ALIENI... NON ESISTONO.
Più la nascondi, più la verità torna a galla. Come un cadavere.
Il piccolo Trunks scoprirà qualcosa che il suo papà non potrà più nascondere. 
Dal testo:"Si misero entrambi a ridere, brillavano gli occhi a tutti e due. Di fantasia, di ludico e puerile. 
Ma quando il vento cessò, abbassando le polveri, e i toni della terra si rivelarono essere più chiari e diversi rispetto a ciò che malamente inumavano; poco lontano da loro e dal cratere camuffato di verde spoglio, un misero dettaglio – qualcosa di forma strana, quindi aliena come aveva detto Trunks – apparì."

 

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