Ho pensato fosse doveroso un approfondimento dei tuoi lavori, per inquadrarti al meglio, giacché sei un’autrice molto interessante.
Questo racconto mi ha lasciata esterrefatta, non per la crudezza con cui hai descritto il lucido intento di suicidarsi del protagonista e nemmeno per lo sviluppo della trama in sé, bensì per il messaggio finale che hai voluto mandare.
Il protagonista ha scelto di suicidarsi ed è stato convinto per tutto il tempo della fondatezza di questa sua volontà, ma un’allucinazione finale – il suo amato in lacrime – è bastata a mettere in crisi la sua sicurezza, troppo tardi però, aprendo la strada al rimpianto e alla certezza di aver rinunciato alla seconda possibilità.
La debolezza induce a bramare la morte, vedendola come la fine di tutto, quasi fosse un semplice modo per scomparire, senza tragedie connesse né implicazioni di alcun genere.
Tuttavia, per quanto si concepisca la morte come cessazione dei dolori fisici e morali, essa è pur sempre l’ultimo atto dell’esistenza, il gradino oltre i quale non v’è più una seconda possibilità e che, invece, apre l’uomo alla reale vacuità della sua esistenza.
La morte autoindotta non è liberazione: è fuga, un modo più vile di altri per evadere dai propri fallimenti e dalle responsabilità, perché chi sceglie con coscienza di suicidarsi, lo fa mosso dal pressante bisogno di credere che la vita sia “affar proprio”, illudendosi che quest’azione non abbia conseguenze per nessuno fuorché per se stesso.
Tutto nasce, si sviluppa e muore in se stessi: un’opinione diffusa ma che va oltre il semplice egoismo, poiché la disperazione spinge a credere a qualunque cosa pur di trovare un modo per tacitare la coscienza e agire senza sensi di colpa.
Sono d’accordo con te, in merito alle idee qui espresse e desunte dalla lettura e mi ha stupita la tua posizione in merito, così abilmente messa in luce.
Mi ha colpita l’affermazione del protagonista, riguardo alla natura del rapporto che l’ha unito all’uomo che ama: “Mi trovo a riflettere su come la convivenza con lui sia stata soltanto una parentesi, un inciso, nel desolante racconto della mia vita”.
Egli ha snaturato l’entità di quel legame e questa incoerenza è altamente indicativa del suo disagio interiore, perché in tutto il suo monologo è emersa chiaramente la centralità del ruolo che l’uomo ha rivestito nella sua vita.
Il suo malessere era talmente radicato da indurlo a far simili considerazioni senza esserne davvero convinto, tanto che, ad ucciderlo, non è stato l’abbandono, quanto piuttosto il senso di impossibilità di gestire la sua vita, così è tornato al punto di partenza: la siringa.
Potrebbe sembrare quindi un suicidio per amore, mentre si è trattato di una decisione presa per male di vivere, per incapacità di far fronte alle difficoltà prepotentemente incalzanti, discolpandosi chiamando in causa una vigliaccheria fatta su misura per l’occasione.
Il protagonista ha scelto di uccidersi dopo essersi trovato nuovamente solo, in balia del flusso degli eventi che l’ha travolto già molti anni addietro e che, anni prima, era quasi riuscito ad inghiottirlo ma senza successo, poiché allora ha trovato appiglio in un uomo, con il suo tenace intento di salvargli la vita.
Per un po’ si è aggrappato a questo scoglio, sedotto dalla forza di quest’ultimo e debolmente convinto che fosse la via giusta da seguire, ma non si è affatto persuaso.
Si è semplicemente lasciato andare alla bellezza del potersi abbandonare al calore di un abbraccio amorevole, cullandosi nella convinzione che questo sarebbe stato sufficiente per andare avanti, invece no: limitarsi a sopravvivere non è vivere.
No, vivere significa prendersi sulle spalle il peso delle proprie guerre – sia etiche sia morali – con l’appoggio delle persone vicine, non appigliarsi a loro senza far alcuno sforzo, pronti a mandar tutto all’aria di fronte ad un cedimento.
Il protagonista, qui, non ha mai voluto per davvero risollevarsi, non ha sfruttato quei due anni di relazione per potersi rimettere in piedi e il fatto che si fosse mantenuto pulito è marginale.
Da quanto letto, infatti, è emerso che egli abbia assunto droghe unicamente per sopravvivere, divenendone dipendente, poi ha fatto assuefazione al suo amato e, quando quest’ultimo gli ha voltato le spalle, è tornato dall’altro suo punto d’appoggio: la droga, sperando di potersi dissolvere nell’abbraccio di questo suo passato e conosciuto rifugio.
Ha dovuto tagliarsi le vene però, perché tutto ciò a cui si è aggrappato gli ha voltato le spalle, facendogli fare i conti con la sua miseria e la sua codardia, peculiarità di chi ha male di vivere e non di chi ha soltanto subito il trauma dell’abbandono.
Hai fatto bene perciò a non spiegare il motivo della separazione tra i due amanti, poiché la causa scatenante la tragedia non è stata il distacco, bensì la debolezza del ragazzo e il suo volutamente mancato impegno per camminare sulle proprie gambe.
Molto bello infine lo spunto di riflessione sulla posizione della chiesa in merito alla sepoltura dei suicidi, dei gay e di coloro i quali hanno entrambe le caratteristiche.
Al riguardo, sono fermamente convinta che Dio sappia districarsi bene tra le pieghe attorcigliate dei nostri reali intendimenti, aldilà della morale comune e di quanto affermi la dottrina.
Alla luce di tutto ciò, mi sento di poter dire che un gay o un suicida dovrebbero comunque ricevere una sepoltura all’insegna di una richiesta di pace eterna, perché a nessun uomo spetta l’onere di giudicare per conto di Dio. I preti, qualunque carica abbiano raggiunto, sono solo i portavoce della volontà di Dio e devono limitarsi a fare il Suo volere sulla terra, gestendo la propria vocazione con umiltà e spirito emulativo, mai sostitutivo.
Ok, adesso sembro una specie di psicopatica della religione, no? Pazienza. Ho voluto lasciarti un parere completo, anche se oggi parlare di Dio sembra una specie di atto deprecabile.
Ah! Dimenticavo: amo i Breaking Benjamin e, dall’inizio della lettura fino al momento in cui il ragazzo si è tagliato le vene, ho cantato a mente Dear Agony, sempre dei Breaking Benjamin.
Ho trovato So Cold molto pertinente all’ultima parte invece, specialmente con quel “Va tutto bene” che, con riferimento alla visione dell’aver accanto - in punto di morte - l’amato piangente, ha reso pienamente il senso di un ennesimo tentativo di mettere le cose a posto, ma invano, perché la morte è il regno dell’impossibilità di tornare sui propri passi.
Beh, scusa se sono stata prolissa e logorroica, ma il tema trattato richiedeva per lo meno un commento approfondito.
Hai fatto un gran lavoro, complimenti!
|