Questi dieci capitoli sono stati un viaggio alla riscoperta del vero Bucky - un viaggio che inevitabilmente passa per Steve, la sua ancora e lo scrigno che custodisce la sua identità. Ha dunque perfettamente senso che il viaggio termini qui, prima degli eventi centrali in Civil War, in cui Bucky è ancora alle prese con ptsd e atroci sensi di colpa ma ormai quasi totalmente padrone di sé stesso. Così come è azzeccata l'associazione di idee relativa al "vagone merci", che l'autrice sceglie di NON riferire al treno da cui Bucky precipitò (poiché la storia procede in ordine cronologico, sarebbe stata una forzatura troppo evidente tornare a quell'episodio, già rievocato in "Semnadtsat"), ma inventare ex novo una meno scontata correlazione che ci traghetta direttamente nelle battute di apertura di Civil War. Il vagone merci è il tramite che conduce Bucky in Romania, per tenersi alla larga da Steve; è anche la prima cosa su cui pensa di saltare su non appena si sente braccato. Il vagone merci rappresenta la fuga. Da un passato di sangue e morte, da un presente che lo vede braccato, da se stesso e da quello che è capace di fare (e potrebbe fare senza rendersene neanche conto, prova ne è lo strisciante dubbio di aver, in effetti, commesso lui l'attentato durante uno dei suoi blackout mentali). Bucky è un ramingo, un clandestino nel mondo, costretto a nascondersi nel buio e a tener pronte tutte le sue cose per fuggire al primo sentore di qualcosa che non va; vive con i sensi continuamente allertati, e la sensazione di non poter permettersi neanche di dormire in un letto normale che, per quanto ne sa, potrebbe trasformarsi in una trappola. Solo i taccuini continuano a moltiplicarsi - non è come mettere radici, però almeno costituiscono una zavorra sempre più ingombrante. |
Allora, prima di iniziare a dire cose strappalacrime, è meglio parlare del capitolo. |