Questa drabble giunge in un momento particolare della mia vita, uno di quelli dove il "Farà mai meno male?" non è ancora stato pronunciato, ma sta lì lì per uscire dalle mie labbra.
E posso dire come il silenzio, alle volte, è il miglior conforto che si possa ottenere, perché le parole o scavano solchi profondi in una ferita ancora aperta e sanguinante; oppure, promettono. Ed è forse il caso peggiore, ché ad una promessa ti ci aggrappi, come fa il naufrago col relitto che galleggia a pelo dell'acqua. E se ti aggrappi, pretendi che quanto ti è stato promesso - seppure indirettamente, seppur a grandi linee, seppure senza una data di scadenza - avvenga all'istante.
E invece, non avviene niente, perché niente può avvenire.
Il dolore passa. Certo che passa. Ci siamo passati tutti (scusa il bisticcio) e sappiamo che dopo un periodo imprecisato in cui faceva male anche solo respirare e sentire il proprio cuore battere, il dolore si è affievolito, è passato, è scemato. Solo che tendiamo a rimuoverlo, solo che tendiamo a farci accecare dal dolore - immenso, improvviso, lacerante - che ci ha travolto e perdiamo ogni possibile orizzonte.
E in questi casi - cioè sempre - è preferibile fare come Shaka: tacere. E dare una spalla - anche solo metaforica - su cui piangere e sfogarsi.
EDIT: rileggendo questa recensione mi sono resa conto di quanto il mio commento fosse personale, e non universale, e che quindi la mia è risuonata più come una geremiade infiocchettata, che una valutazione a caldo. Rimedio subito.
Il succo della recensione era - o meglio: avrebbe dovuto essere - che mi sono rispecchiata al 100% in Milo, nella sua domanda più che legittima e umanissima del sapere quando sarebbe finito quel dolore. Perché alle volte fa così male - specie quando è vivo e fresco e recente - che uno vuole solo che finisca. Senza contare che Milo, arrivato alla tenera età di vent'anni, oramai saprà senza ombra di dubbio che tutto finisce, anche il dolore; peccato che, quando il dente pulsa, per così dire, uno non riesca a concentrarsi che su quel dolore lì, dimenticando tutto il resto.
Insomma, voleva essere un: «Sì, è proprio così!! Ogni. Singola. Parola.», solo che la mia penna ha deragliato come al solito...
E per quanto riguarda l'angst spinto (maddove? Maddeche?), anche io riesco a scrivere angst solo quando sono felice e la mia vita scorre liscia liscia, senza intoppi. È una catarsi involontaria, credo, che avviene alla giusta distanza, quando il dolore provato è lontano quanto basta per osservarlo con occhio critico, come se fosse una cosa che non ci riguarda (non più) e che possiamo tagliuzzare, sezionare, analizzare come e quanto meglio ci aggrada.
Quando viviamo delle situazioni infelici, invece, sarà più facile mettere per iscritto e rendere tangibile il dolore che si prova - è materiale fresco fresco di giornata, dopotutto, l'urlo dell'anima così come ti esce dal cuore - MA da lettrice, posso dire che le cose troppo personali, quelle che toccano chi scrive in maniera intima e viscerale, sono poco percepite da chi legge se l'autore non ha compiuto la giusta depurazione dei sentimenti, e non ha reso quelle emozioni non più personali al 100%, ma universali. Cosa che a te, in questa drabble, è riuscita perfettamente. (Recensione modificata il 20/03/2017 - 03:10 pm) |