Recensioni per
Notte di gala, notte di inganni
di Dorabella27

Questa storia ha ottenuto 20 recensioni.
Positive : 19
Neutre o critiche: 1 (guarda)


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Recensore Junior
10/03/22, ore 22:36

Buonasera Dorabella, 
sarò quanto più diretta possibile: il testo non mi è piaciuto e mi ha lasciata perplessa per stile e per contenuto. 
Premetto che le osservazioni di livello stilistico sono pure osservazioni, non poste a supporto della scelta del colore della bandierina che accompagna il mio commento, sono semplici considerazioni su uno scritto che si incastra benissimo nel contesto di scrittura amatoriale che occupa, ma che sono comunque venute all’occhio.

Il testo presenta un largo uso di incidentali secondarie e primarie che, come sua naturale conseguenza, concede il fianco al caos di segni paragrafematici che finisce, a sua volta, col giganteggiare su tutto e appesantire la lettura.
Caos che soffoca sul nascere anche l’unico tentativo — altrimenti apprezzabile — di slancio “retorico” che il testo presenta, cioè quell’accenno di gradatio nel primo paragrafo del testo, dove l’anafora nulla può per tenere in vita l’espressione e la tensione dell’enfasi oratoria persa in enunciati troppo lunghi, debole e impacciata tra il dritto dell’asindeto e il manrovescio del polisindeto mancato.

Vorrei inoltre far notare che il cambio di carattere tipografico — il neretto, nello specifico di questo testo — sebbene permetta all’autore di fare variazione prosodical’anafora in questo caso sarebbe stata sufficiente — autodenunci anche la debolezza dell’eloquio arrendendosi all’inadeguatezza dell’enunciato a mediare, di per sé, il messaggio che l’autore vorrebbe recapitare al lettore; equivale all’uso dell’emoticon nel bel mezzo del testo narrativo o poetico e il rischio è che il “romanzo” diventi didascalico. Espedienti e tecniche tipiche di altri generi non sempre, a mio avviso, sono traslate in modo indolore da genere a genere.
Simile considerazione andrebbe spesa anche per i numeri ordinali posti al servizio — labile mi permetto di osservare — del testo. Ad una prima lettura avevo pensato che il loro uso fosse stato introdotto in relazione ad un nesso che ne spiegasse la presenza — dove invece la sola congiunzione è Girodel — ovvero avevo immaginato che sarebbe potuto essere lui a tessere letteralmente il filo narrativo della storia per mezzo periodi coordinati da avverbi, locuzioni avverbiali e congiunzioni avversative di cui però non vi è riscontro; in tal modo, la demarcazione — l’enumerazione, non necessariamente enumeratio retorica, di cui non ha né peso né pretesa — rimane fine a se stessa; ancora una volta si riesce a cogliere l’accenno, apprezzato, a un tentativo di pianificazione strutturale del testo che, però, nel proseguimento della lettura, viene disatteso. 

Fatico tuttavia ad essere generosa con i tentativi e le forzature di contenuto,  ed è qui che trovano posto e contesto la perplessità e lo scarso entusiasmo per questo scritto.

Fingo anch’io — come Fersen chissà, come Luigi XVI forse! — di non vedere ciò a cui il narrato presta di nuovo il fianco — dettagli che lascia credere al lettore o che semplicemente non si cura di chiarire — ovvero le inesattezze storiche e di usi e costumi trovate tra un risvolto e l’altro, ultimi sussulti della finzione narrativa a cui soccombono; ma va bene così perché immagino che il testo non abbia nessuna pretesa “storica” anche se, dato il contesto, un po’ di attenzione gli avrebbe giovato, lo avrebbe elevato.

Vado oltre, al contenuto e ai personaggi.

Girodel concede, da sempre, parecchio all’immaginazione, Oscar, seppure nella sua grandezza, molto meno e, nella costruzione del personaggio di Girodel, si è persa di vista lei, si è fatto un torto a Fersen, un gravissimo ammanco ad André e, mi è parso, che non si sia fatto neanche un gran favore allo stesso Girodel.
Nel percorso, e arrivati alla meta, in definitiva, ho tratto la conclusione che, nonostante gli sforzi, il narratore buchi lo schermo per le ragioni sbagliate.
Viene descritto, e immagino sia stata una scelta ponderata, indottrinato a dovere dal segno dell'epoca storica in cui vive e non solo; dà fiato alle trombe di pensieri, almeno per me, discutibili, veicolando messaggi che l’autrice, seppure nella finzione narrativa, non si premura minimamente di stigmatizzare.
Inoltre non riconoscendo a se stesso il motivo dell’assenza di André sulla scena, Girodel, si pone sullo stesso livello di Fersen e della sua tanto vituperata cecità.
Il tentativo di elevare un personaggio ad una caratura che non ha — e che certamente non può raggiungere nella maniera descritta — facendone fare le spese a un altro, è maldestro soprattutto quando lascia il campo a considerazioni di più ampio respiro.
Lo scisma religioso implica quindi decadimento morale dell’individuo e del gruppo? La non cattolicità è indice di dissolutezza? 
Domande retoriche a cui un uomo del 1700 non può e non sa probabilmente rispondere, anche i non “Cristianissimi” — intesi alla maniera di certi sovrani spagnoli o francesi — sono ugualmente Cristiani, anche i Protestanti lo sono, e non tutti i non cattolici sono debosciati.
La Storia — senza voler star qui a tirare in ballo fatti di cronaca che tutti conosciamo ma che taluni negano — insegna all’uomo, non all’uomo del ‘700 o non all’uomo qualunque di quel secolo, che è così. 

Ma Girodel è uomo del suo tempo, ed è personaggio che offre tanto all’immaginario. Mi è però poco chiaro se sia stato usato, in questa occasione, per provocare nel lettore il senso di contrarietà, oppure se sia proprio inciampato, e penso proprio che sia questo il caso, nella descrizione di concetti di cui si fa portatore.
In questo scritto non ci sono presupposti per fare di Girodel un narratore inaffidabile e mi pare altrettanto lapalissiano che lo scritto manchi della narrazione sottintesa, nascosta e codificata dall’autore, sotto la pelle del narratore, che permetterebbe al lettore di intercettare distanza narrativa tra narratore e autore e a quest’ultimo di avvicinarsi al lettore e stringere con lui il famoso patto. Suggerirei a tal riguardo la lettura di alcuni saggi.
Per fortuna di chi scrive, nella maggior parte dei casi e ad eccezione di alcuni generi letterari, il narratore e l’autore del testo non coincidono mai, tuttavia quando la scrittura non concede via di fuga da talune visioni, la linea di demarcazione diventa labile.
La discussione è da sempre aperta e rimane tale.
Premesso che l’autore ha, da sempre, il coltello dalla parte del manico in virtù dell’autorità — implicita e fittizia quanto si vuole — di far credere al lettore quello che racconta, fatti di cui chi legge non è a conoscenza, fino a che punto l’autore rimane distante dallo scritto?
Sapientemente l’autrice, qui, in questo stesso testo — e la diessi è d’obbligo — lascia al soggetto di raccontare se stesso ma, una canzone di De André intonava che “anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”.
Ogni volta che l’autore si colloca all’interno o all’esterno dell’animo del personaggio, cioè quando varia il suo punto di vista, palesa la sua presenza e, paradossalmente, anche la propria ovvia assenza amplifica la sua presenza.
Qui non vi è il benché minimo accenno di escamotage narrativo posto a fare da contraltare alla bieca visione del narratore, al suo nuovo punto di vista, e la non presenza è abbagliante!
Mentre il familiar compound ghost, storico in questo caso, comune a lettore e autore è il presupposto affinché i pensieri di un uomo francese del ‘700 come Girodel prendano forma ed esistano e che ce li fa accettare — sappiamo per esempio come Protestanti ed Ebrei non avessero diritti civili e quale fosse il pensiero comune dei cattolici sui non cattolici all’epoca — non vi è certezza invece che tali visioni le avesse il Girodel dell’Ikeda. E se qualora ve ne fosse, siamo sicuri di voler assecondare un simile tratteggio del personaggio?
Siamo convinti di voler mediare la validità di un discorso del genere affidandolo a un personaggio dell’importanza e del peso di Girodel?  
Il fine era quello di fargli lo sgambetto e farlo apparire personaggio dalle vedute ristrette oppure l’autrice era e resta convinta della validità di tali visioni e che esse gli si addicano?  
Questione anche, e non solo, di gusto, io certamente preferisco immaginare il tenente più “illuminato”.

Aggiungo inoltre che le parole generano immagini che, può succedere ed è questo il caso, facciano digrignare i denti. 
Sebbene abbia compreso quale sia la funzionalità della descrizione della figura di Oscar allo scritto — nell’incrocio di braccia, mani, ventaglio e fianco opposto — nello spunto narrativo si è persa di vista la visione d’insieme che una simile descrizione avrebbe restituito al lettore. È un po’ come mancare di rilegge a voce alta quello che si è scritto. Nessun portamento fiero e leggiadro ma una postura “chiusa” a nascondere rotonde grazie ed eventuali dolori di pancia. Immagine ilare che poco si addice al personaggio, al carattere di Oscar.
Mi permetto inoltre di far notare come il cercare spunti narrativi a tutti costi originali, applicando la proprietà transitiva tra un personaggio e l’altro, porti a risultati disastrosi che non fanno che sottolineare quanto poco si sia compreso del valore dei dialoghi, dei ruoli e della profondità di parole e contenuti della storia originaria.
Smembrare e ricomporre a piacimento non è scrivere, è mero esercizio di scrittura, utilitaristico per alcuni autori, e che sottrae, purtroppo, bellezza e significato alla storia originale.
Prendo nota, con amarezza, che la tendenza è ormai questa, ornato ed eloquio differenti per una stessa sostanza che, nel rispetto di tutti, mi astengo dall’aggettivare.

Saluti

Fiammetta