UNA
BUONA MADRE
Il crepitio di passi cresceva
sempre di
più e si avvicinava alla sua stanza, almeno per quello che
poteva immaginare
stando sdraiata sul suo lettino, la testa rivolta alla finestra.
Dovevano
essere poco più che le due, a giudicare dal sole ancora alto
nel cielo. Faceva
caldo. Luigi se n’era andato via da poco, lasciandola a
godersi il silenzio
della stanza d’ospedale e i fili d’aria che di
tanto in tanto le procuravano
sollievo: era Giugno e quei momenti di frescura divenivano sempre
più rari.
Elisabetta era ben felice di
starsene lì
da sola, in tutta quiete, perciò all’avvicinarsi
dei passi e delle voci
concitate storse il naso e si voltò sul fianco, sperando che
fingendo di
dormire l’avrebbero lasciata in pace. Non era possibile, lo
sapeva: non poteva
sottrarsi alle domande che le avrebbero posto, alla loro euforia e
soprattutto
alle loro facce estatiche; ecco, quelle erano la parte peggiore:
avrebbe anche
potuto sopportare tutto quanto, se solo non le si fossero presentate
davanti
con quei sorrisi.
«Eccola qui,
eccola!»
Con la coda dell’occhio
notò tre donne
che oltrepassarono la porta e l’attorniarono in meno di un
secondo; decise di
non scomodarsi nemmeno per mettersi seduta: era il suo primo momento di
riposo
della giornata ed aveva trovato un’ottima posizione
lì, sdraiata sulle
lenzuola, con la testa poggiata sulla federa fresca del cuscino.
Ci fu un momento di silenzio ed
Elisabetta si godette i loro visi curiosi vagare in giro per la stanza,
aspettandosi evidentemente di trovare il bambino nella culla. Ma la
gabbia di
ferro posta accanto al suo letto era vuota e lei, del tutto tranquilla,
non
pareva voler dare loro spiegazioni.
«Be’, allora!
Com’è, com’è
andata?»
esordì una delle tre, la più piccola, che
Elisabetta sapeva chiamarsi Annalucia.
Era un’amica di sua sorella.
«Come vuoi che
vada… è andata» rispose,
voltando lentamente il capo per comprenderle tutte nel suo campo
visivo. Non
poté evitare la comparsa di un sorriso ironico, smussato
dalla stanchezza e
dunque trasformato in un gesto cordiale.
Sapeva anche che l’amica
di sua sorella
era una donna che, passati i trentacinque anni, non aveva ancora
trovato marito
e tanto meno uno spasimante. Lei era forse la più ingenua e
la più compatibile,
non aveva colpa nella sua gioia; diventare madre doveva sembrarle la
gioia più
grande del mondo.
«Dov’è
il piccolino?» si azzardò a
domandare la più vecchia, un’amica di famiglia di
nome Grazia, dalla voce molto
rauca e rumorosa.
«Con la nonna, non so. A
fare degli
esami.»
«Ah, ce l’ha
lei» fu l’esclamazione
sollevata che emisero le tre.
A quel commento Elisabetta si
rivoltò
supina, osservandole con attenzione mista a sarcasmo.
«Ci sono i confetti
lì, servitevi.»
«No no, grazie, eravamo
passate giusto
per vederlo.»
«Capisco. Forse stasera
sarete più
fortunate, fino a mezz’ora fa c’era anche
Luigi.»
«Ah, anche Luigi! Eh,
come dev’esser
contento, immagino!»
Di nuovo fu Annalucia a smuovere la
conversazione.
«Ma insomma, io non
resisto, sono troppo
curiosa! Non hai una foto? Ma com’è,
dicci!»
«Su, dicci, dicci! Ci
siamo fatte
portare apposta da Grazia.»
«Non ho nemmeno pranzato,
sono uscita
dall’ufficio e sono corsa a prenderle, non vedevamo
l’ora di vederlo!»
«Chi ve l’ha
detto?»
«Tua suocera»
rispose prontamente
Grazia.
Elisabetta convenne di aver posto
una
domanda assolutamente superflua. Era dalle undici passate che vedeva la
madre
di Luigi correre di qua e di là come un’ossessa,
ora portando con sé il bimbo e
ora con il cellulare attaccato all’orecchio. Erano stati
giorni molto
frenetici: con lei aveva scambiato davvero poche parole, ma non doveva
essere
stato nulla d’importante, perché non lo ricordava
nemmeno; poi aveva preso in
braccio il bimbo, l’aveva vestito e aveva annunciato che
sarebbe corsa a
prenotare gli esami così da sbrigare in fretta tutte le
faccende. Elisabetta
sapeva benissimo che era una scusa nemmeno troppo valida per poter
circolare
nel reparto con in braccio quel quieto bambolotto e annunciare a tutte
le
infermiere che sì, sua nuora aveva partorito, che era
diventata nonna!
«Insomma, qualche
notizia! Ci vuoi
tenere proprio sulle spine?»
«Okay,
vediamo… è piccolo, leggero, con
certe dita sottilissime.»
«Sì, ma gli
occhi? A chi assomiglia? E
le guance?»
Ad Elisabetta dispiacque di doverle
deludere in quel modo affermando che non era stata in grado di
stabilire un bel
nulla, che si era limitata a custodirlo diligentemente, allattarlo e
poi
deporlo nella culla d’ospedale accanto a lei, con
l’intenzione di addormentarsi
per recuperare un po’ le forze. Non le era stato possibile
riposare, perché le
visite si erano succedute dal giorno del parto con una
regolarità inusuale:
sospettava che sua suocera dirigesse una sala d’attesa,
lì fuori, in modo da
smistare i visitatori e impedirle di recuperare le forze.
L’ultimo era stato
suo marito Luigi e le tornò in mente proprio una delle frasi
che le aveva dato
molto fastidio, da lui ripetuta con sempre maggiore orgoglio in quella
mezz’ora
di visita.
«Somiglia tutto a lui,
somiglia tutto a
Luigi, pare.»
«Al papà? Oh,
come sarà contento allora!
E immaginate la mamma!»
Elisabetta aveva provato a
individuare
una qualche somiglianza fra il bambino trovatosi fra le sue braccia e
se stessa
o suo marito o sua suocera; niente, non le appariva uguale a nessuno:
era
semplicemente una creatura nuova e del tutto sconosciuta. Luigi e sua
madre,
invece, osservandolo da vicino con certi occhi dilatati ed estatici,
avevano
convenuto che la forma del naso, il taglio della bocca e quel modo
speciale di
agitare debolmente gli arti fossero in tutto e per tutto riconducibili
agli
atteggiamenti del papà.
«Ma ancora non si
può vedere bene, gli
cadranno i capelli, cambierà colore degli occhi…
» aveva obiettato Elisabetta,
allungando il collo per ottenere attenzione.
Niente da fare: sua suocera le
aveva
rivolto un sorriso che non le era piaciuto per nulla, assieme ad uno
sguardo
compassionevole, per poi aggiungere:
«Lascia stare, te lo dico
io che ne ho
visti tanti, di bambini… somiglia tutto a lui.»
Zittita ed impotente, Elisabetta li
aveva lasciati a trastullarsi col bimbo per un po’, risentita
di
quell’esclusione e dei loro commenti del tutto infondati;
quando finalmente
gliel’avevano restituito, prima che sua suocera lo conducesse
in giro per gli
esami, lo aveva guardato bene in faccia, con attenzione, affermando fra
sé che
somiglianze non ce n’erano e che quei due erano semplicemente
un paio di
fanatici troppo esagitati.
«Insomma sei contenta,
eh?» le domandò
Grazia.
Lei si sentì quasi
obbligata a comporre
un veloce sorriso.
«Sì,
certo.»
«Che domande
fai?» la rimbrottò Annalucia.
«Ma certo che è contenta!»
Il sorriso di Elisabetta si
allargò
ancora di più. Non conosceva uomo, non era madre: cosa
poteva sapere? Lei
vedeva solo il lato migliore, quello esterno, non aveva idea
né del dolore
provato né dei sentimenti che si agitavano nella neo-mamma.
Quando le tre donne la salutarono
prenotando una visita per l’indomani, alla stessa ora,
Elisabetta tirò un
intimo sospiro di sollievo e una volta che si furono richiuse la porta
della
stanza dietro le spalle poté tornare a distendersi in quella
comoda posizione
supina.
La sua stanchezza era tale che si
addormentò immediatamente, la testa affondata
nell’informe cuscino del
lettuccio; non sognò nulla, non ricordò
alcunché del suo stato di incoscienza
finché non aprì gli occhi a causa di un movimento
esterno che le scuoteva il
corpo.
Quando riprese coscienza si rese
conto
di trovarsi sul solito letto, nella stessa stanza di prima, con le
serrande
abbassate per ricreare il buio della notte. Non ricordava di averle
tirate giù
prima di addormentarsi e gli avvenimenti le furono più
chiari quando riconobbe
sua suocera che le premeva sul braccio, porgendole un fagotto piuttosto
rumoroso.
Elisabetta capì che si
trattava
nientepopodimeno che di suo figlio Michelangelo, evidentemente di
ritorno dal
tour di esami, che necessitava di essere sfamato.
«Ecco, ecco,
attenta.»
Non fece nemmeno caso a quello che
le
stava dicendo sua suocera, prese il bambino, si scoprì il
petto e lo avvicinò
al seno destro così come l’ostetrica le aveva
insegnato. Quello andò in cerca
del capezzolo a cui aggrapparsi e, quando trovò la giusta
posizione, si
acquietò e cominciò a succhiare.
Eliminato il fastidio uditivo
Elisabetta
poté domandare notizie.
«Come sono andati gli
esami? Che hanno
detto?»
«Oh niente, tutto in
ordine, sanissimo,
nemmeno una virgola fuori posto! Avremmo dovuto pure aspettare qualche
giorno
in più, ma conosco un’infermiera lì in
neonatologia che mi ha fatta passare
subito, se no a quest’ora…»
Si sedette insieme a lei sul letto.
«In questo modo, forse,
già domani possiamo
riportarti a casa.»
«Domani?»
commentò spontaneamente
Elisabetta.
«Be’,
sì… meglio, no? Così cominciamo a
sistemarci.»
Il significato celato dietro quelle
parole non le piaceva per nulla e decise di non domandare ulteriori
delucidazioni;
pensò che avrebbe inventato qualche scusa per allungare il
suo soggiorno in
ospedale: non si sentiva assolutamente pronta a far ritorno a casa, con
un
bambino, in quello stato fisico. Avrebbe aspettato almeno due giorni in
assoluto riposo, prima di poter riprendere tutti i suoi abituali doveri.
«Domani ti faccio portare
il passeggino
da Luigi» continuò sua suocera,
«è il migliore, naturalmente, conservato
benissimo con tanto di tettuccio reclinabile, rete
porta-oggetti… »
Elisabetta aveva pensato
più volte che
avere come suocera Antonietta La Porta, infermiera pensionata del nido
ospedaliero, avrebbe significato subire la sua ingerenza in tutte le
questioni
che riguardassero il bambino, ma lì per lì non se
n’era curata, dicendo a se
stessa che avrebbe saputo conservare la sua autorità in modo
da prendere
insieme qualunque decisione ed evitare che la suocera ordinasse e
disponesse
tutto a modo suo. Certo però non aveva considerato il
dispendio di energie
comportato dal parto: si sentiva poco meno di uno straccio, nonostante
le due
ore di sonno le pareva di avere accumulato un debito di fatica davvero
ingente,
recuperabile solo con giorni di assoluto far nulla. Antonietta le
proponeva
invece di uscire prestissimo dall’ospedale e di tornare
subito a casa, dove ci
sarebbero stati da preparare il pranzo, rassettare le stanze per
prepararsi
alle visite che sarebbero seguite, badare al bambino e, in tutto
ciò, riuscire
a non farsi travolgere dagli eventi!
Per fortuna che si trovavano al
buio,
pensò, altrimenti sarebbe stato evidentissimo il suo stato
devastato e
soprattutto l’occhiata scettica che le stava rivolgendo in
quel momento. Lasciò
che le raccontasse di quali erano state le reazioni delle sue
conoscenti e di
come l’indomani, se non la sera stessa, sarebbero venuti a
farle visita tutti i
suoi parenti, cugini e zii; lasciò che sproloquiasse quanto
le pareva,
immaginando che comunque avrebbe potuto far finta di dormire e privare
quel
pubblico esigente dello spettacolo tanto agognato.
Il protagonista di tutto
ciò, nella
mezz’oretta in cui Antonietta informò la nuora su
ciò che era capitato fra le
undici di quella mattina e l’ora attuale, aveva smesso di
succhiare la sua
colazione e si era beatamente addormentato fra le braccia della mamma.
«Guarda, sta
dormendo!» le fece notare
Antonietta con voce troppo stridula.
Il fastidio per quel rumore
improvviso
fece scuotere di poco Michelangelo e infastidì la mamma che,
senza pensare, le
fece cenno di star zitta.
«Dai qua, dammi, lo metto
nella culla.»
«Lo metto io, non
disturbarti.»
«No no, dammi
qua» insistette lei,
afferrando i lembi della copertina che avvolgeva il bambino.
Nulla poté Elisabetta se
non lasciare
che lo prendesse lei, che lo portasse nella sua culla provvisoria e che
se lo
guardasse da tutte le angolazioni possibili, per quanto la poca luce
permetteva.
Una volta che ne ebbe abbastanza di
contemplare il viso del bimbo salutò la nuora, esortandola a
chiamarla
immediatamente qualora avesse avuto bisogno di qualche cosa.
«Sì certo,
proprio te chiamo» borbottò
fra sé Elisabetta, una volta rimasta da sola.
Rimase seduta sul letto,
riflettendo sul
fatto che da quella mattina in avanti non aveva avuto nemmeno un
momento da
trascorrere insieme a suo figlio, nemmeno un attimo per guardarlo per
bene, per
verificare se effettivamente esistesse qualche somiglianza con suo
padre, se
fosse già in grado di riconoscere la sua voce, quanto
fossero piccole le sue
dita.
D’istinto fece per
scendere giù, andare
verso la culla e riprenderselo in braccio, ma poi le venne in mente che
se
malauguratamente avesse dovuto svegliarsi sarebbe accorsa sua suocera
– era
certa che stesse facendo la posta là fuori per impedire ai
visitatori di
turbare il sonno di suo nipote, non certo preoccupata per lei
– con tutto il
codazzo di gente che si tirava dietro, e giù una serie di
malcelati giudizi su
quanto la mamma fosse inesperta e non sapesse assolutamente in che modo
doversi
prendere cura del piccolo.
Per questo lasciò
perdere e si rimise
sdraiata, provando a liberarsi di tutti i pensieri che quella
riflessione aveva
portato con sé. Non ci riuscì; ci aveva pensato
spesso nelle ultime settimane
della gravidanza, poi, tutta presa dall’imminenza del parto,
se n’era
dimenticata. Ecco ora che tornava quel dubbio. Sarebbe stata davvero in
grado
di badare a quel bambino?
Non era stupida, sapeva benissimo
che
l’aiuto di sua suocera, di suo padre, di suo marito potevano
sopperire a certi
suoi momenti di stanchezza, ma quel bimbo aveva assolutamente bisogno
di lei
per esplicare tutte le sue funzioni primarie. Finché si
trattava di cacciargli
in bocca un seno per farlo quietare ogni volta che piangeva, poteva
anche andar
bene; ma quando se lo sarebbe portato a casa e ci sarebbe stato bisogno
di
cambiarlo, di farlo addormentare, poi d’insegnargli a
parlare, di abituarlo a
dormire nella culla, come avrebbe fatto?
Le era sembrato assai stupido
ingurgitare libri sulla gravidanza e sulla crescita del bambino,
così come
comprare un diario per annotare tutte le fasi della sua
maternità; aveva sentito
dire, confrontandosi con altre sue amiche già madri, di
quanto fosse importante
dialogare col bambino fin da quando era immerso nella placenta, aveva
visto
donne curvarsi e mormorare parole dirette alla loro pancia; ci aveva
provato
anche lei, a dir la verità, ma dopo qualche secondo aveva
accantonato l’idea,
dandosi della stupida. Cosa c’era da dire ad una pancia che
non faceva altro
che ingrossarsi, allargarsi e diventare sempre più pesante?
Che poteva capire
l’esserino al suo interno?
Ed anche ora, di che cosa mai
avrebbero
dovuto parlare lei e Michelangelo? Di quanto non sopportasse Antonietta
La
Porta?
Come avrebbe fatto a distinguere,
fra
vagiti e gridolini, quale di questi significasse che era ora di
mangiare?
Per fortuna in quei primi giorni di
vita
il bambino si era dimostrato piuttosto tranquillo; effettivamente non
faceva
altro che starsene sdraiato nella sua culla, sonnecchiare ignaro di
tutto quel
mondo che si muoveva intorno a lui, emettere qualche lamento sottile,
nemmeno
troppo acuto e fastidioso, quando voleva da magiare o esser cambiato.
Quando Tommaso Totta, il padre di
Elisabetta, giunse a farle visita quella sera, affermò con
una lieve punta di
sorpresa:
«Non può
essere figlio a te, non dice
nulla! Non piange nemmeno!»
«Meglio così,
no? Già sono stanca per
fatti miei, finché dorme e non capisce nulla ben venga che
stia zitto.»
«Non dire
così.»
«E sì, invece!
Qua pare una sala
ricevimenti, ogni volta che aprono quella porta ho sempre paura che lo
sveglino! Voglio dire, non posso mica farlo ingozzare di
latte…»
A causa del buon rapporto che aveva
con
suo padre, Elisabetta si sentiva libera di poter esprimere finalmente
quello
che le passava per la testa. Era la sera del suo terzo giorno da mamma
e i
segni della stanchezza si facevano più evidenti negli occhi
cerchiati, nei
capelli sudati e arruffati perennemente legati con un elastico, ma
specialmente
nell’espressione della donna, sempre più riottosa
e volubile ogni secondo che
passava.
Suo padre conosceva quel suo
carattere e
non le diceva nulla, limitandosi a contemplare il viso liscio di
Michelangelo,
ora abbandonato pigramente fra le sue braccia.
Si era seduto su una poltrona,
mentre
sua figlia andava avanti e indietro per la stanza, per la prima volta
libera di
agire come più le suggeriva l’istinto. Certo,
Elisabetta avrebbe voluto
riposarsi ancora, ma sentiva premere forte un rigurgito di pensieri
accumulati
in quei giorni che premevano per uscire fuori. Le sembrava proprio il
momento
adatto per sfogarsi.
«Che è inutile
che vengono a visitarmi
quelle quattro zitelle amiche di mamma e farmi quelle facce…
quelle facce! Ma
dovresti vederle! Ma che credono? Facile fare le smorfie e guardarlo
con quei
sorrisi schifosi… proprio schifosi, sì!
Più le guardo più non capisco se sono
invidiose oppure se lo fanno apposta, pare che ci provano gusto a
vedermi tutta
disfatta, con i capelli all’aria, grossa, grassa,
debole.»
«Va be’.
È normale, no?»
«Ho capito che
è normale, ma che non mi
vengano a fare quei sorrisi! Quei sorrisi li odio, capito? Sono
così finti,
così falsi! Mi verrebbe da dire: ma che cazzo vi ridete? Ma
che c’è da ridere?
Sono tre giorni che sono uno straccio, oltre tutto ‘sto peso
che mi porto
dietro da nove mesi… non vedevo l’ora di
partorire, ma non pensavo che i giorni
successivi sarebbero stati così orrendi! Mi trattano come
una pezza, non sto
scherzando! Proprio come una pezza, uno straccio, una cosa tipo: hai
fatto il
tuo dovere, mo’ fatti da parte che ci pensiamo noi.»
Anche se bloccato su quella sedia,
con
un paio di gambe molto deboli e un bambino addormentato in braccio,
Tommaso non
mancava di assistere allo sfogo di sua figlia con apprensione; ad ogni
parola
che le usciva di bocca vedeva il suo viso contorcersi, deformarsi di
rabbia in
smorfie grottesche e quella visione lo inquietava e preoccupava molto.
Tuttavia, sentiva che intervenire prematuramente sarebbe stato un
errore:
capiva che Elisabetta aveva bisogno di buttare fuori quelle parole.
«Poi,
quell’altra! L’ape regina, così la
chiamano in ospedale, lo sapevi?»
«La mamma di
Luigi?»
«Lei, chi altri? Se ne va
a destra e a
sinistra e se lo porta in braccio come un trofeo! Nemmeno il buongiorno
mi dà,
un altro po’! Stamattina è venuta per prenderselo
e due ore, dico due ore se
l’è tenuto… chissà che ci ha
fatto, chissà dove se l’è portato! Ma
la cosa più
brutta è che mi guarda con una faccia… quasi
schifata. Sembra che io sia una
cretina, l’ultima ruota del carro, non la sopporto quando mi
guarda come se
fossi un’idiota! Mi verrebbe da gridarle in faccia un sacco
di cose. Ce l’ha
sempre in braccio lei, ce l’ha sempre addosso, poi appena
piange me lo porta e
me lo molla… una roba tipo self-service: quanto vuoi, un
litro di latte?
Inserisci il gettone e via!»
«Ma è normale
che sia così, immagina… il
primo nipote maschio.»
«Già, il primo
nipote maschio.»
Ora Elisabetta era poggiata contro
il
davanzale della finestra e nel voltarsi rivolse al padre un sorriso
cattivo.
«Mi chiedo se fosse stata
femmina allora,
apriti cielo! Me l’avrebbero mollata tutto il giorno, giusto
nei momenti delle
visite dei parenti. Magari me l’avrebbero fatto pesare,
avrebbero detto che era
colpa mia, se fosse nata femmina!»
Tommaso si rese conto di star
assistendo
ad una vera e propria crisi: aveva paura anche solo di dire qualcosa e
osservava con malcelato timore gli occhi della figlia che si
allargavano sempre
più.
«Che bello essere mamme,
eh? Che bello…
ma chi l’ha detto? Ma dove sta scritto? Ma perché
non… io nemmeno ero pronta
per la gravidanza, semplicemente è successo,
così. Ma perché non se lo prendono
loro, perché me lo lasciano, visto che sono tutti
così felici? Perché non se lo
prende lei?»
Il labbro aveva preso a tremarle e
d’un
tratto s’interruppe, mettendosi una mano davanti alla bocca;
era evidente che
stava per piangere, soffocata da quei pensieri.
Tommaso si dispiacque troppo nel
vederla
in quello stato per non dire qualche cosa, anche solo per darle modo di
rifiatare.
«Sei solo stanca, tesoro,
devi solo
riposarti. Ti stanno succedendo un sacco di cose nuove, è
normale che ti senta
così confusa… so benissimo che tipo di donna
è quella lì. Ma non ci pensare,
non ci pensare. Sta’ serena. Lei può dire quello
che vuole, può vantarsi quanto
le pare… ma il bambino è tuo. È tuo e
basta, questo non te lo può togliere
nessuno. Lei può tenerselo stretto quanto vuole, ma lui
riconoscerà solo le
mani della sua mamma. Eh? Va bene?»
Forse la visione del padre anziano
che,
con tutti i problemi di salute che aveva, era venuto lì da
lei per conoscere
quel bambino e per controllare come stesse sua figlia ed ora si era
rattristato
per via di quelle sue parole crude, aumentò in Elisabetta il
senso di rimorso
che già intimamente provava. Non riuscì
più a tenere le lacrime, cominciò a
piangere copiosamente senza provare a fermare il labbro e le mani che
le
tremavano convulsamente.
Fece due rapidi passi verso il
padre e
allungò le mani per prendere in braccio Michelangelo,
portandoselo al petto;
provò a dominarsi, ma il suo respiro fu rotto da un nuovo
singhiozzo e si
accasciò per terra, contro le ginocchia di Tommaso.
«Tutti pretendono che io
sia felice, che
debba essere felice di tutto… è una grande
fortuna, questa, essere mamma! Sono
costretta a mostrarmi felice, sì, costretta,
perché non lo sono proprio! E non
posso mostrarmi diversamente, altrimenti sono una madre snaturata! Ma
quale
madre non è contenta di aver partorito il proprio bambino,
quale?»
Parlava a scatti, traendo di volta
in
volta grandi respiri, mentre il corpo le tremava tutto e faceva vibrare
anche
il piccolo corpicino di Michelangelo, che aveva voluto stringere. Le ci
volle
qualche minuto per calmarsi, per ricordare che se qualcuno fosse
entrato e
l’avesse trovata in quello stato, seduta per terra con
addosso solo una camicia
da notte, col bambino addormentato fra le braccia e il volto tutto
bagnato di
lacrime, chi sa che avrebbe pensato! Altro che madre snaturata: una
pazza,
l’avrebbero presa per pazza.
A un certo punto Tommaso le prese
una
guancia per farle alzare lo sguardo e mormorò:
«Guarda,
guarda… ha aperto gli occhi.»
Elisabetta smise bruscamente di
piangere
e prima di concentrarsi sul bambino notò benissimo come
anche gli occhi stanchi
di suo padre fossero coperti da un velo umido; resasi conto di non aver
fatto
altro, col suo sfogo, che provocare dispiacere nel padre, subito si
passò una
mano sulle guance per asciugarle e tirò su col naso. Poi
allontanò da sé il
bimbo, che si era tenuta contro la spalla fino a quel momento.
Con grande sorpresa lo
trovò sveglio, gli
occhi spalancati e attenti, forse disturbato nel suo sonno dal pianto
della
mamma e dal tremore del suo corpo. Eppure non dava
l’impressione di voler
piangere o protestare: stava aggrappato alla sua camicia con le manine
e, per
quanto gli era possibile, cercava di tener dritta la testa per guardare
bene
Elisabetta; lei si disse che era impossibile, ma sembrava proprio che
anche lui
la fissasse con infinito dispiacere, come se percepisse il suo dolore e
stesse
cercando, scrutando con quegli occhi ancora cangianti, di partecipare
anche lui
al momento, di farle sentire la sua presenza.
Era una sciocchezza, certo, solo un
caso, ma Elisabetta ne fu molto turbata.
Il rientro a casa fu una grande
rivoluzione per tutti, a cominciare dalla mamma per finire al bambino
che,
superati i primi giorni d’incoscienza e di vita
essenzialmente vegetativa,
sviluppava giorno dopo giorno nuove capacità e si mostrava
sempre più capace
d’intendere e di volere. Aveva ad esempio imparato che
bastava produrre qualche
strillo un po’ troppo acuto e straziante, far finta che la
propria gola stesse
per infiammarsi dal troppo sforzo, perché la sua mamma
accorresse con furia,
pronta a sfamarlo. Le sue urla erano un’arma potentissima ed
efficace, in grado
di far passare in secondo piano qualsiasi cosa. Luigi, il padre, non si
era
fatto vedere troppo spesso nei primi giorni: era stato occupato a
correre fra
la sua casa e quella della sua famiglia, trasportando vestitini,
lenzuola,
culle, seggiolini, passeggini ed un’infinità di
altri oggetti essenziali e
minuscoli.
Elisabetta aveva già
deciso quale fosse
il suo aggeggio preferito: un succhietto di caucciù, dei
più semplici
possibili, che era per lei come un salvavita; quando Michelangelo
strillava, le
era sufficiente cacciarglielo in bocca per qualche secondo
perché il piccolo si
quietasse e la lasciasse in pace.
Elisabetta era l’unica a
non aver ancora
trovato un equilibrio, in quella nuova sistemazione. C’era
riuscito suo figlio,
che passava le giornate o adagiato sul materasso del passeggino, con le
lenzuola fresche, pulite e il cuscino morbido, o in braccio a qualcuno
che era
venuto a far visita ed aveva voglia di tenerselo vicino; le volte in
cui si
trovava assieme alla mamma erano quelle in cui la sua presenza era
strettamente
necessaria: il momento della poppata e il cambio del pannolino.
Luigi si divertiva molto a tenere
in
braccio Michelangelo, a proporgli tutta una serie di smorfie buffe e
cantargli
canzoncine allegre e senza senso per farlo divertire, ma nel momento in
cui il
bimbo incrinava la sua espressione e cominciava a piangere, chiamava
subito sua
moglie perché provvedesse. Anche lui era riuscito a trovare
il suo equilibrio
con la nuova creatura in casa: bastava soltanto sopportare quelle grida
di
tanto in tanto, si diceva. Antonietta, inizialmente tutta preoccupata
di
avvalorare il suo trascorso di nutrice facendo sfoggio delle tecniche
più varie
– dai ripetuti colpetti per farlo addormentare allo
sfioramento di una guancia
per capire se avesse fame o meno – aveva ora lasciato alla
madre naturale
questi compiti; lei si limitava a tenerlo in braccio mentre sua nuora
aveva da
lucidare i mobili della cucina, oppure cullarlo per farlo addormentare
mentre
Elisabetta preparava il pranzo.
Sembrava insomma che la nuova
situazione
andasse bene a tutti quanti, meno che a lei. Se in ospedale era stata
assolutamente trascurata, se nessuno aveva tenuto conto di quel suo
umore così
fragile e volubile, facilmente soggetto a depressioni, se tutti avevano
giudicato normale la sua stanchezza fisica, ora si pretendeva che
avesse
recuperato appieno le forze e fosse in grado di svolgere tutte le sue
precedenti mansioni ed in più di badare al bambino.
Elisabetta andava a dormire
distrutta,
con la speranza che l’indomani potesse essere migliore del
giorno trascorso; il
suo rapporto con Michelangelo non aveva subito grossi miglioramenti, ma
lei
avrebbe tanto desiderato poter trascorrere una giornata da sola, con
lui e le
sue cose, senza dover rendere conto a nessuno, senza preparare il
pranzo ad un
orario prestabilito – le tre, perché a
quell’ora suo marito terminava di
lavorare – rimanendo tutto il pomeriggio in panciolle sul
divano a premere
pigramente i bottoni del telecomando. Prima o poi si stancheranno di
farmi
visita, si annoieranno anche loro di contemplare un bamboccio che non
fa altro
che piangere e
bere, pensava, mi
lasceranno da sola e allora potrò gettare via i confetti e
mettermi a dormire quanto
mi va.
Sembrava però che non si
stancassero
affatto e che nel giro di amicizie di sua suocera si parlasse soltanto
della
moglie di Luigi che aveva avuto un bambino tutto uguale al
papà.
La sopportazione di Elisabetta si
protrasse finché non Michelangelo non tagliò il
traguardo del primo mese. Del
tutto ignara dell’importanza di quella ricorrenza, ebbe la
sfortuna di
incontrare sua suocera al mercato del paese, mentre tentava di
procacciarsi qualche
zucchina.
«Ciao Bettina!»
«Oh, salve.»
«Di che andavi in cerca?
Fagiolini?»
«Sì, cercavo
qualche verdura per cucinare
oggi… non so mai che cosa preparare!»
«Eh, lo so, lo
so… se ti serve un aiuto,
basta dirlo.»
«No, no, non vi
disturbate.»
«Anche per
venerdì, dico… se ti serve
aiuto con i dolci, col rinfresco, vengo io la mattina e ti aiuto,
così non ti
stanchi.»
Elisabetta rimase perplessa, non
colse
subito l’allusione, ma non disse nulla per paura di avanzare
qualche
sciocchezza; a sua suocera non servivano certo altri pretesti per farla
sentire
una menomata del tutto incapace, le bastava anche solo salutarla con
quell’orrendo
diminutivo. Finse di aver capito e la rassicurò affermando
che sarebbe riuscita
a fare tutto da sola.
«Sicura? E va bene.
Allora come ci
mettiamo d’accordo? Dico di venire a casa tua verso le
sette?»
«A casa mia?»
Presentiva che c’era
qualcosa di
sbagliato in quella conversazione, ma non volle cedere e
capì che avrebbe fatto
meglio a tagliar corto.
«Sì
sì, a casa mia, non vi preoccupate.
Faccio tutto io.»
«Ah, benissimo! Allora
per le sette a
casa tua. Mi raccomando la pizza e i palloncini, che fanno tanta
allegria. Mo’
scappo che devo mettermi a cucinare, ci vediamo
venerdì?»
«Sì,
venerdì.»
«Buon appetito!»
«Altrettanto.»
Liberata da
quell’impiccio Elisabetta
percorse la strada a ritroso, fermandosi alla prima bancarella del
fruttivendolo che trovò, scegliendo un fascio di erbe
qualsiasi e tornando di
gran carriera verso la sua abitazione. Poggiate le buste della spesa
sul
tavolo, preparata la pentola con l’acqua per la pasta, si
piazzò davanti al
calendario per indagare che cosa ci fosse di tanto importante quel
venerdì. Era
certa che non si trattasse di un compleanno, che non ci fossero
ricorrenze
religiose da onorare e che anche gli onomastici fossero da escludere
– non
c’era nessun Arsenio nella sua famiglia e nemmeno in quella
di suo marito – per
cui, perplessa, si sedette sul divano a far riposare le gambe e
lambiccarsi il
cervello.
La soluzione si presentò
in forma di
lievi vagiti; l’udito di Elisabetta si era allenato
moltissimo a percepire,
nella baraonda che normalmente si creava in casa, la sottile voce del
bambino.
Fu quando lo prese in braccio per
farlo
tacere che capì a che cosa si stesse riferendo Antonietta;
durante il secondo
che separò i momenti dell’intuizione e
dell’elaborazione il suo viso subì un
radicale cambio di espressione: dalla più totale
perplessità all’ira più nera.
«Ah, è
così? Sta organizzando una festa
per il mese? Una festa per il mese? Così, senza nemmeno
parlarne con me? Una
cosa scontata, una cosa ovvia… quale madre non festeggerebbe
in grande stile il
primo mese di vita di suo figlio?»
Cominciò a percorrere la
stanza a grandi
passi, contorcendo il viso nelle smorfie più varie, mentre
parlava fra sé. Era
da un po’ di tempo che aveva preso quest’abitudine,
quella di esprimere ad alta
voce i suoi pensieri senza curarsi di sembrare matta; in questo modo
era
riuscita a tirar fuori almeno una piccola parte di tutto il nervosismo
che si
teneva dentro.
«Una festa per il mese,
ma roba da matti!
Cosa vuol preparare, le lasagne? È incredibile, non ci si
può pensare, ha
organizzato una festa per venerdì e mi ci ha messo dentro
così, come se nulla
fosse! Anzi, mi ci sono messa da sola e non posso nemmeno dire di no!
Già me la
vedo, con quella faccia compunta a dire: eh su, Bettina, facci questo
piacere…
siamo tutti contenti per questo gioiellino! Ah be’, se siamo
tutti contenti,
allora…!»
Michelangelo diede un colpo di
tosse ed
Elisabetta si riscosse, ammutolendo e fermandosi al centro della
stanza; non se
n’era nemmeno accorta, ma aveva le guance calde e il respiro
corto. Aveva
ancora addosso la stizza del momento da scaricare, ma, notando che gli
occhi
del bambino la seguivano con attenzione nei suoi movimenti, mise a
tacere quel
tumulto interiore.
«Che cosa
c’è? Hai fame? Sempre fame hai
tu… mangiare e dormire, non faresti altro.»
Si sedette sul fianco del letto e
con
movimenti bruschi liberò un seno per porgerlo al bambino.
Anche quello era
diventato un gesto spontaneo: ficcargli in bocca un capezzolo per farlo
star
zitto e alleviare quel senso di responsabilità materna che
di tanto in tanto le
faceva visita.
Michelangelo sembrò
essersi quietato, ma
dopo qualche secondo Elisabetta si accorse che il piccolo non doveva
avere
molta fame, perché se ne stava lì fermo a
fissarla. Le faceva una grande
impressione quello sguardo così attento e interessato che
non fu capace di
sostenerlo per molto; in cuor suo ammise che ne era anche un
po’ timorosa, in
quanto non comprendeva cosa volesse significare.
«Che
c’è, insomma, che
c’è?» le venne
spontaneo domandare ad un certo punto. «Vuoi la festa? Vuoi
che facciamo una
festa? Vuoi rimanere soffocato da tutta quella marea di gente che manco
conosci?
Dalla nonna, che chissà quante me ne dirà?
Chissà quante… è ovvio: che razza di
madre, non si preoccupa nemmeno della festa, non l’ho mai
vista tenerlo in
braccio… »
Si fermò, quasi credendo
che il bimbo
fosse in grado di ascoltarla e dirle qualche cosa di conforto,
rassicurarla che
sì, lei era una madre bravissima, che almeno non gli
riempiva la testa di
versetti e canzoncine e lo lasciava lì per i fatti suoi.
Elisabetta si rese
conto solo in quel momento di quanto effettivamente desiderasse
sentirselo
dire, di quanto necessitasse di qualche parola
d’incoraggiamento, lei che non
si sentiva ancora molto legata a quel figlio e che spesso non sapeva
come
comportarsi; alla tremenda paura di sbagliare reagiva minimizzando le
sue
mansioni di madre, limitandosi all’essenziale, evitando
ulteriori
coinvolgimenti.
«Che razza di
madre… »
Cosa c’era di sbagliato?
Non riusciva
ancora a provare quello straordinario istinto materno di cui tanto
aveva
sentito parlare; ancora non si rendeva conto che quell’essere
minuscolo era lo
stesso che aveva dormito nella sua pancia dieci mesi addietro, era
passato
troppo poco tempo. Certo, doveva essere questo il motivo, si ripeteva,
col
tempo ci avrebbe fatto l’abitudine, era solo troppo scossa
dal parto e dai
cambiamenti che il bambino aveva portato nella sua vita. Elisabetta
covava però
un’enorme paura: se non si fosse abituata? Se le cose non
fossero cambiate? Dipendeva
da lei oppure no, quell’indifferenza?
Il rumore dell’acqua che
cominciava a
bollire l’aiutò a riscuotersi, deporre
Michelangelo nella sua carrozzina e
rivestirsi, oltre che ad accantonare un profondo senso di tristezza che
pareva
lì lì per assalirla.
Pensò molto a quella
storia durante la
giornata e giunse alla conclusione che non importava che cosa provasse
intimamente: avrebbe acconsentito al volere della suocera e preparato
quella
ridicola festa per il primo mese del suo bambino.
Il problema stava tutto
lì,
nell’aggettivo “suo”. Il bimbo che stava
in braccio alla nonna e volgeva il
capo a destra e sinistra, dimostrando grande attenzione, era lo stesso
che le
aveva assestato di tanto in tanto un paio di calci quando si trovava
nella sua pancia?
Più ci pensava e
più Elisabetta non
voleva crederci, mentre, sedutasi per un momento sulla sedia accanto al
tavolo,
prendeva fiato; la sua piccola casa non aveva mai ospitato
così tanta gente
come quella che Antonietta aveva radunato quella sera e il suo tavolo
da pranzo
non aveva mai sorretto una quantità di cibo come quella che
vi era stata
sistemata sopra in quel momento: lasagne, pizza, frittelle, acciughe,
parmigiana, mozzarelle affettati di vario genere; per non parlare del
dessert,
che Elisabetta sapeva ben custodito in cucina, comprendente una torta,
vari
pasticcini, i tipici dolci a base di miele e di uova, senza dimenticare
i Baci
Perugina.
«Prendi l’altra
teglia di pizza, che
questa è quasi finita?» le domandò
Antonietta.
«Sì,
vado.»
Se l’era imposto con la
forza:
sopportare tutto quanto senza mostrare musi lunghi e disappunto troppo
evidenti. Doveva far sì che la festa riuscisse,
perché era giusto così, e
doveva mostrarsi allegra ed eccitata, perché quale madre non
lo sarebbe stata?
Il primo figlio maschio, dopotutto!
Il piccolo Michelangelo doveva
divertirsi molto, a giudicare da come se lo facevano passare fra le
braccia
amici e parenti; Elisabetta aveva visto Luigi prenderlo in braccio e
mostrarlo
ad un paio dei suoi amici più stretti, orgoglioso. Si era
intenerita ed aveva
pensato che fosse meglio defilarsi in un angolo per non turbare quella
felicità
collettiva.
Con molta calma spostò
le fette di pizza
dal cartone alla teglia, sperando che giungesse presto l’ora
di andare a
dormire, pregustando il momento in cui si sarebbe infilata sotto le
coperte;
forse dopo quella ricorrenza l’avrebbero finalmente lasciata
in pace.
«Oh, sei qui!»
Sulla soglia della porta comparve
l’ultima persona con cui avrebbe voluto avere a che fare: sua
cognata, la
sorella di Luigi, Stefania.
«Aspetta, ti
aiuto!» fece lei,
premurosa.
«No, no,
figurati…»
Provò
l’impulso di dirle la verità e
così ammise:
«In realtà
sono venuta qui per avere un
momento di pace, c’è troppa confusione di
là.»
«Ah sì, roba
da matti. Mi dispiace,
mamma ci teneva tanto a questa cosa. Sai, il primo nipote
maschio…»
«Sì, lo so, lo
so.»
«Una gran rottura,
eh?»
Non del tutto certa del confine
fino al
quale potesse spingere la sua confidenza, Elisabetta
tentennò un attimo,
rispondendo vagamente.
«Be’, che ci
vuoi fare… insomma, sono
felice per lei, per loro. Ma anch’io sono
contenta!» Si sforzò di fare
comparire un sorriso, incurante che potesse sembrare forzato.
«Sono solo un po’
stanca, ecco tutto.»
Se l’allegria non
l’aveva del tutto
convinta, la stanchezza evidente indusse Stefania a commentare:
«Forse sarebbe stato
meglio se non si
fosse fatta, ‘sta festa. Glielo potevi dire, a
mamma…»
«Ma tranquilla,
è tutto a posto! Sabato
e Domenica li passo a dormire, non c’è
problema.»
«Ti ha sottoposto a una
dieta ferrea.»
«Come, scusa?»
«Mamma, dico. Immagino:
niente
broccoli…»
«Ah sì,
be’, è per il bambino, no? Per
il latte.»
«So che a volte
è un po’ pesante, però
capiscila: quando le avete dato la notizia era fuori di
sé.»
«Oh sì, mi
ricordo. Tempo una settimana
e lo sapevano tutti quanti.» commentò Elisabetta,
memore della stizza che aveva
dovuto trattenere nell’apprendere che tutto il paese sapeva
della sua gravidanza.
Stefania non gradì molto
la tonalità
acida nella sua voce e ribatté:
«Be’, poverina,
era solo contenta. Ti
dobbiamo ringraziare, perché
altrimenti…»
Ecco, era quello il tasto che
Elisabetta
non voleva venisse toccato: i sensi di colpa. In quella famiglia erano
tutti
molto bravi a farla sentire inadeguata e sciocca. Stefania prese il
vassoio con
le pizze per portarlo di là, lasciandola nella cucina senza
aggiungere altro.
Elisabetta ebbe un moto istintivo di rabbia: tirò un sospiro
lungo, strinse i
pugni, si morse le labbra, ma non riuscì a calmarsi.
«E certo!»
prese a borbottare «La colpa
dev’essere sempre mia! Ho la colpa di tutto, qua dentro! Che
c’entro io se non
può avere figli, quella?»
In realtà, sotto la
stizza, si
nascondevano pericolosi sensi di colpa e rimorsi che sapeva
l’avrebbero
accompagnata fino a quando non fosse riuscita a superare quella fase;
poteva
fingere davanti agli altri, ma non ingannare se stessa. Tutti la
attorniavano
entusiasti quando prendeva in braccio Michelangelo, come in quel
momento.
«Assomiglia anche a te,
sai?»
«Eh, va be’,
però il naso e la bocca
sono del padre. Poi guardagli le guance. Le guance, le vedi? Sono
uguali a
quelle di mio marito, uguali!»
Elisabetta dispensava sorrisi e
battute
accondiscendenti, ma la sua simulata serenità
vacillò alla domanda che pose
un’amica di sua suocera:
«Chissà quale
sarà la prima parola che
dirà, che dite?»
«Sicuramente non
“mamma”» le sfuggì in
un bisbiglio che per fortuna nessuno udì.
Ne era sicurissima, non
c’era nemmeno bisogno
di attendere la conferma: una volta cresciuto, Michelangelo non
l’avrebbe
affatto apprezzata e si sarebbe rifugiato ogni giorno a casa della
nonna,
dichiarando che “la mamma mi sgrida sempre, la mamma queste
cose non me le fa
fare, la mamma non mi vuole bene”.
Poco ci mancò che una
volta che anche
sua suocera fu andata via di casa, accompagnata da Luigi, non si
mettesse a
piangere dalla gioia.
Michelangelo si
addormentò subito e lei,
infilatasi la camicia da notte informe che aveva eletto a pigiama
ufficiale, si
stese sul letto per godersi il meritato riposo.
Si svegliò una prima
volta quando sentì
il materasso abbassarsi e il peso di un altro corpo stendersi accanto
al suo;
capì che suo marito doveva essere rientrato e si mosse nel
buio per toccarlo.
«Lu?»
«Eh?»
Più rassicurata,
tornò a stringere il
cuscino alla ricerca di uno spazio fresco dove poggiare la guancia. Si
sentiva
decisamente meglio rispetto a qualche ora prima; il rapido svuotamento
della
casa e il silenzio della camera da letto, udire il suo respiro unito a
quello
di Luigi, più pesante e sconnesso, e del bambino,
l’aveva resa più tranquilla e
a suo agio.
Quando, come quella sera, faceva
troppo
caldo, né lei né suo marito riuscivano a prendere
sonno in fretta; a volte
rimanevano in silenzio, intenti a rigirarsi sul materasso, o si
abbracciavano e
carezzavano sperando di prendere sonno, oppure si raccontavano
vicendevolmente
la giornata in modo da alleggerire la mente dai troppi pensieri. Quella
volta
scelsero di restare ognuno per i fatti propri: Luigi disteso a pancia
in su, un
braccio sospeso fuori dal letto, lei raggomitolata su se stessa, la
testa sul
cuscino, dandogli le spalle.
Ad un certo punto Michelangelo
emise un
piccolo vagito; Elisabetta si volse in direzione della culla, attenta
ad ogni
piccolo movimento per cercare di capire se stesse per piangere, Luigi
non se ne
accorse nemmeno. Il rumore delle coperte che venivano spostate, i
versetti che
risuonavano a brevi intervalli di distanza confermarono le previsioni
di
Elisabetta: dopo qualche difficile colpo di tosse, Michelangelo
iniziò a
piangere.
Il primissimo istinto, quello di
mettere
a tacere la fonte del rumore indesiderato, suggerì a
Elisabetta di alzarsi,
prenderlo in braccio e cullarlo un po’. Sapendo
però che anche suo marito era
sveglio e dicendo a se stessa che il suo intervento non era del tutto
necessario, preferì aspettare, rimanendo immobile, curiosa
della reazione di
Luigi.
Lui, per i primi minuti,
sembrò
disinteressarsi della questione; quando si accorse che la moglie non
accennava
a muoversi voltò il capo verso di lei.
«Oh?»
Elisabetta non rispose
né a quella né
alla seguente incitazione.
«Ma che, dormi?»
Luigi si sedette e le si
avvicinò per
controllare se avesse gli occhi chiusi.
«Sei sveglia?»
Elisabetta finse di ridestarsi
improvvisamente da un sonno profondo, muovendo lentamente le braccia e
la testa
all’indietro.
«Che
c’è?»
«Il bambino
piange.»
«Piglialo in
braccio» rispose, senza
accennare ad aprire gli occhi.
Luigi tentennò un
attimo, dando uno
sguardo prima alla culla, intravedendo un paio di pugni che si
agitavano, poi
alla moglie stesa a fianco a lui, che pareva non avere alcuna
intenzione di
intervenire.
«Non puoi prenderlo tu,
scusa?»
La domanda che le rigirò
confermò il suo
timore e la mise in agitazione; scelse nuovamente di restare in
silenzio.
A quel punto Luigi, infastidito dal
rumore sempre più forte, le prese un braccio con decisione.
«Oh dai, che si sfianca a
furia di
gridare!»
«Ho sonno, prendilo tu.
Devi solo
prenderlo in braccio, mica farlo bere!» replicò
con inflessione più marcata
Elisabetta, scrollandosi di dosso la sua presa.
«Ma quello mica vuole me!
Alla mamma,
vuole!»
«Ma se sei già
alzato, se hai tanta
voglia di parlare, fai lo sforzo e prendilo tu, no?»
«E che, ti
secca?»
«Sì, mi secca,
sono stanca e voglio
dormire! Non posso, forse?»
Senza accorgersene aveva alzato la
voce
e l’aveva aggredito con troppa foga; se ne accorse e si
girò a guardarlo,
intimidita dal suo sguardo stupito e sospettoso. Ora non si sentiva
più così
sicura di se stessa.
«Ma che
ragionamenti…»
Fosse stato anche solo per sfuggire
lo
sguardo del marito, Elisabetta si affrettò ad alzarsi e
andare verso la culla.
Prese in braccio Michelangelo, cullandolo e udendo le sue strilla
scemare
sempre più, finché non si calmò del
tutto.
«Contento?»
sfuggì a Elisabetta, un
bisbiglio ben udibile nel rinnovato silenzio.
Luigi emise uno sbuffo, che lei non
seppe classificare né come stizza né come
disapprovazione; lo guardò uscire
dalla camera senza darle risposta e non poté evitare di
sentirsi colpevole.
Subito la sua mente
reagì con ferocia a
quell’ammissione di colpa: non c’era niente di
sbagliato, lei aveva tutto il
diritto di delegare quei compiti a suo marito, perché non
c’era scritto da
nessuna parte che ad occuparsi del bambino dovesse essere solo lei. Ma
qualcosa
di più viscerale, di atavico, si era mosso in lei a
quell’occhiata intrisa di
disprezzo; Luigi non avrebbe potuto trovare parole più
efficaci per farla
sentire più a disagio e in difetto di quanto non si sentisse
in quel momento.
Elisabetta si sentì
crollare un peso
gravoso addosso: era proprio una buona a nulla, non sarebbe mai stata
capace di
far da madre al suo bambino; possibile che sbagliasse sempre, qualsiasi
cosa
facesse? Possibile che non riuscisse a comportarsi naturalmente?
Possibile che
in lei non ci fosse la minima traccia di quell’istinto
materno?
Michelangelo non si era ancora
addormentato, ma fra le braccia della mamma aveva trovato il suo spazio
e la
sua quiete. Elisabetta si avvicinò alla finestra della
camera per osservarlo
meglio, avvalendosi della luce lunare.
Ancora pochi capelli in testa, due
occhi
semichiusi, il naso ben arcuato, l’origine di tutti i suoi
problemi era lì, in
quel corpicino esile e fragile. Nessuno poteva prendersela con lui, era
troppo
innocente e indifeso, sarebbe stata una barbarie attribuirgli una
qualche sorta
di colpa. Elisabetta comprese di essere gelosissima di quella speciale
premura
che tutti gli riservavano.
Nessuno, nessuno
l’avrebbe preferita a
lui, doveva farsene una ragione; era inutile comportarsi in quel modo.
Se lo strinse di più,
carezzandogli una
mano con due dita, poi si piegò verso il suo orecchio e
cominciò a cantargli:
«Gesù bambino
caro, nudo sei sulla
paglia: la tua mamma non aveva vestitini da darti; la tua mamma non
ave-e-va
vestitini da darti.»
Il bambino chiuse gli occhi,
riaddormentandosi.
«Su non pianger Maria,
quel che dico
ascolta: le tue pene son le mie che io porto con me; le tue pene son le
mi-i-e
che io porto con me.»
Di tanto in tanto
s’interrompeva e lo
chiamava:
«Michelangelo?
Michelangelo! Tu le vuoi
bene, alla mamma, sì?»