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Autore: FRC Coazze    10/04/2012    2 recensioni
Piccole ali di farfalla. Una creaturina colorata posata su una lacrima. Quali ricordi possono risvegliare in un uomo spezzato i loro colori splendenti? Due ragazzi. Due amici, seduti sotto un albero nel parco di Hogwarts, e lei che racconta una storia... una vecchia leggenda giapponese su una farfalla bianca.
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lily Evans, Severus Piton | Coppie: Lily/Severus
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me, ma a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. I luoghi non inventati da J.K. Rowling, la trama di questa storia ed i personaggi originali presenti in essa sono invece di mia proprietà e pertanto occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.


 
Ali di farfalla

 


 

Severus si appoggiò stancamente al tronco rugoso dell’albero. Quell’albero. Quell’albero che era sempre stato lì, immobile, imperturbabile, silenzioso. Lì, in quel parco giochi dimenticato. Da quanto tempo quel luogo non conosceva la gaia risata di un bimbo? Da quanto tempo l’erba non percepiva il giocoso peso della corsa di un ragazzino? Magari ridendo, forte. Con quella voce melodiosa non ancora increspata dai fumi ruvidi dell’età e della preoccupazione. Magari mentre giocava con un amico, semplice e innocente il loro gioco, un rincorrersi l’un l’altro ridendo. Niente urla. Niente dolore. Solo risate. Dolcissime risate.

Reclinò lentamente il capo all’indietro, poggiandolo al petto solido del vecchio albero, forse sperando di udire il battito del suo cuore attraverso quella spessa armatura di legno. Chiuse gli occhi. Chissà se qualcuno poteva sentire il suo battito. Chissà se qualcuno poteva rendersi conto che c’era un cuore sotto quella corazza di odio e asprezza che lo avvolgeva. Chissà.

L’albero a cui si stringeva, accoccolandosi nella sua ombra come un bambino in cerca di affetto, un cuore lo aveva. Ne sentiva il pulsare lento, tranquillo, indifferente. Sentiva il suo respiro sfiorargli il volto come dolcissime carezze di spuma. Sentiva la vita dentro quel legno. Non era una barriera: era sostegno, era un rifugio. Era vita. E quell’albero poteva percepire la vita nel ragazzo seduto ai suoi piedi come una macchia nera nella sua stessa ombra? Poteva? Aveva ancora un cuore sotto quegli strati gelidi che si era costruito addosso come un’attonita barriera?

Una volta c’era. Quel cuore. Una volta c’era chi sapeva ascoltarne il battito. C’era chi aveva accettato il suo ritmo diverso, sbagliato, storpio. Una volta c’era. Ma ora non più. Se n’era andata, lei… sì, perchè era una ragazza, una ragazza il cui cuore spandeva intorno a sé un melodia perfetta… Se n’era andata, e ora il suo spirito era come quel parco giochi: abbandonato, silenzioso, miserabile. Non conteneva più risate, ma solo il rauco, malato frinire delle cicale, come pustole grasse e ingorde sugli steli secchi dell’erba magra. Tanti chiodi giallastri che si ergevano nell’aria allontanando perfino il cielo, timoroso di quelle punte. Era una bolgia senza speranza, una terra deserta e inospitale. Quello era il suo spirito. E il suo cuore era morto laggiù, schiacciato dalla stenti e dal dolore. No, nessuno avrebbe più potuto udirne il battito. Nessuno.

Ricordava. Ricordava la prima volta che l’aveva vista, proprio lì, in quel parco giochi. Ondeggiare sull’altalena come una fata dei fiori, una fata piccola, innocente, dalle cui labbra gocciolava quella risata chiara di cui lui avrebbe voluto sentire il sapore, abbeverarsi a quella felicità come ambrosia. L’aveva guardata a lungo, spiata da dietro un cespuglio, troppo timido e insicuro per farsi avanti. Lei era come uno spruzzo di acqua fresca, un soffio di vento che riusciva ad allontanare da lui la tristezza, a ripulirlo da quel suo essere diverso. Forse era per quello che lei era una via di fuga, perché lei era come lui. Era diversa. Erano due diversi uguali.

Eppure, se ci pensava, quale diritto poteva avere lui di stare al fianco di una tale creatura?

Un sorriso storto si alzò sulle sue labbra, una smorfia irridente che rivolgeva solo a sé stesso. Davvero, che cos’era lui? Che diritti aveva? Lui creatura grottesca e deforme della notte. Un folletto brutto e maligno che andava per il mondo attirandosi addosso solo la pietà e il disgusto della gente. Un bambino ingenuo che per un attimo aveva pensato di poter essere accettato, che quella bella ragazzina serena avrebbe rivolto anche a lui uno di quei suoi sorrisi genuini, sinceri che donava a chiunque intorno a sé.

Che crudeli bugiardi erano i sogni!

Empie creature di fumo che illudono i mortali, che fanno loro credere che le loro speranze un giorno diventeranno reali. E un bambino ci crede. Un bambino non sa che il verbo della vita è togliere e non dare. Un bambino crede nei sogni. Soprattutto quando questi sono l’unica cosa che lui possiede, le uniche finestre su un mondo immaginario dove può trovare la felicità.

I sogni sono fantasmi d’aria dalle bellissime apparenze, che ti chiamano, ti invitano, ti vogliono con loro e quando tu tendi la mano per afferrarli chiudi il pugno sul nulla, e loro ghignano perversi, ridendo della tua sorpresa.

Perché quella lacrima? Perché quella dannata lacrima gli solleticava la pelle del viso? Sentiva gli occhi bruciare, forse erano le stesse fiamme nei capelli della sua Lily a sfiorare il loro nero? No. Mai. Lei non avrebbe mai sfiorato qualcuno come lui. Mai. Non doveva sporcare la sua purezza con uno come lui. Eppure quelle lacrime tremavano sulle sue ciglia come tanti piccoli cavalieri di ghiaccio, pronti a lasciarsi scivolare giù lungo le sue guance pallide, le uniche gocce della sua anima ancora incorrotte che se andavano.

Severus piegò le ginocchia avvicinandole al petto in un gesto infantile, ingenuo in quel cercare calore in quel suo stesso corpo che ormai non ne conteneva più. Perduto. Quel calore della vita che non aveva mai realmente avuto, ma di cui aveva potuto godere vivendo di luce riflessa da quel sole splendido che era la sua Lily. Ma ora quel sole non c’era più, e lui era morto. Sentiva il freddo della morte dentro di lui, un cadavere dotato di volontà propria. E anche quelle lacrime erano fredde.

Una, una soltanto di quelle perle d’argento che gli solcavano il viso, cadde. Cadde come una goccia di pioggia fresca, morendo sulla stoffa dei suoi pantaloni neri, disfacendosi sul suo ginocchio con la forza di un sospiro. Lui sentì l’umido sulla sua pelle, permeando attraverso la stoffa, ma non gli importava. Strinse forte gli occhi nel vano tentativo di trattenere quelle gocce di anima che sgorgavano dai suoi occhi neri. Non gli piaceva piangere. Non voleva piangere. Era una debolezza. E lui non era debole, non portava il cuore sul bavero, non più: aveva imparato la lezione. Il dolore è il miglior maestro che si possa desiderare.

Un leggero solletico sul suo ginocchio, là dov’era caduta la lacrima, come un leggero respiro, una carezza appena accennata. Aprì gli occhi, bagnati dalla nebbia del pianto, e le sue iridi nere si scoprirono incuriosite nel guardare la piccola creatura che si era posata proprio lì, proprio lì sul suo ginocchio. Una farfalla. Una bella farfalla color del sole se ne stava tranquilla lì, ondeggiando appena le splendide ali nell’aria ferma, saggiando il sale amaro che quella piccola lacrima aveva lasciato poco prima.

La guardò, incuriosito, sbattendo le palpebre per la sorpresa. Era davvero leggera quella piccola farfalla, fragile… effimera, eppure così bella, così colorata. Ma forse era quello il senso della bellezza? L’effimerità? Allora, allora ecco perché la sua Lily se n’era andata: perché era bella, era perfetta, e delicata come quella farfalla.

Incerto alzò una mano. Un tempo avrebbe scacciato quella piccola creatura impudente, ma ora, ora avrebbe solo voluto farle una carezza. Tese il dito verso la farfalla, ma poi si bloccò timoroso di vederla fuggire, anche lei, come altri lo avevano fuggito nella sua vita. Ma la piccola farfalla non si mosse, sembrava spiarlo incuriosita da sotto quelle lunghe antenne nere, le ali variopinte che si alzavano e si abbassavano delicate a dare il tempo al suo respiro.

Ritirò la mano, rimanendo a fissare la farfalla in silenzio. Le lacrime avevano smesso di cadere. Buffo come una creatura così piccola poteva essere così tanto di consolazione. Si ritrovò contento di averla lì, poggiata sul suo ginocchio come se non facesse differenza per lei sfiorare il corpo di uno come lui.

Guardò quella piccola farfalla, percorrendone le splendide ali color fuoco, i mille occhi verde-azzurri che decoravano il bordo delle sue ali come tante piccole gocce di mare sul mantello del sole. Quelle linee e chiazze nere che rubavano il colore dai suoi occhi per schizzarlo sul soffice velluto di quelle ali. Era bella. Era bella e semplice. Deglutì appena. A Lily piacevano le farfalle. Sapeva emozionarsi di fronte ai loro colori alla loro semplicità perfetta, quel loro accarezzare dolcemente i fiori mischiando i propri colori con quelli dei petali. Lui, da parte sua, era sempre rimasto indifferente a quelle creature effimere, per lui erano grigie e vuote come tutto il resto. Ora vedeva quella piccola, esile creatura sotto un’altra luce, ora ne vedeva i colori, ne vedeva le splendide screziature dorate che percorrevano le sue ali vermiglie. E quegli occhi. Quegli occhi verdi che sembravano sorridergli.

“Ehi Sev!”

Chiuse gli occhi di scatto, come colto da un improvviso, bruciante dolore. Quella maledetta spada dei ricordi che gli aveva perforato il petto alla ricerca del suo cuore forgiata da quella voce. Quella voce che era come piombo incandescente per la sua anima, una voce che viveva soltanto più nei suoi ricordi.

“Sev!”

Era la voce di una ragazzina. Era la voce di quella bambina che aveva osservato da dietro un cespuglio. Quella bambina che era diventata sua amica, nonostante tutto. La sua unica amica.

Chiuse gli occhi, risucchiato all’improvviso dal vortice del ricordi, afferrato e portato in un altro luogo, in un altro tempo da quella voce cristallina.

Era ad Hogwarts, al terzo anno. Sedeva all’ombra di un albero, al fresco, sulla riva del Lago Nero, il verde della primavera lo circondava, ma lui se ne stava lì all’ombra, fuggendo i raggi primaverili come un fantasma cupo. Leggeva. Come sempre. Nessuno si sarebbe mai avvicinato al ragazzino strano e taciturno che era, il reietto della scuola. Nessuno, tranne quella bambina dai capelli rossi che stava correndo verso di lui, indosso l’uniforme coi colori di Grifondoro e quella chioma che pareva catturare i raggi del sole per alimentare le proprie fiamme.

“Ehi Sev!” Chiamò di nuovo agitando le braccia per attirare la sua attenzione, inutilmente perché lui l’aveva già vista. Come poteva non vederla? Era sempre così bella, allegra. E lui la guardava, mentre la ragazza si affannava su per la piccola collinetta dove cresceva l’albero sotto cui era seduto.

“Sev…” Disse lei senza fiato quando finalmente l’ebbe raggiunto. Appoggiò le mani sulle ginocchia chinando la schiena mentre cercava di riprendere fiato. Alcune ciocche di capelli le erano cadute davanti al viso chiaro sfiorando il suo sorriso sincero, il sorriso che stava rivolgendo proprio a lui.

“Che ci fai lì all’ombra? C’è un bel sole.” Gli disse Lily raddrizzando la schiena, mentre lui continuava a guardarla in silenzio, il libro abbandonato sulle ginocchia.

“Non mi piace il sole.” Rispose Severus sollevando le spalle.

Lily rise. Quella risata cristallina che sapeva penetrare a fondo nel suo cuore, come una dolce ninnananna cullarlo tra le sue note facendogli dimenticare la rabbia, il dolore… gli scherzi stupidi di Potter e compagnia.

“Sei bianco come un lenzuolo. Un po’ di sole non ti farebbe male!”Disse infine Lily trasformando la sua risata in un largo sorriso.

Severus le rivolse un sorriso tirato, quindi distolse lo sguardo da lei per posarlo nuovamente sulla carta stampata di fronte a lui.

“Ti ho cercato per tutto il castello, lo sai?” Disse Lily con un sospiro mentre si sedeva accanto a lui, all’ombra, al fresco, e si scostava dal volto quelle ciocche ribelli.

“Avevi bisogno di qualcosa?” Chiese allora Severus senza alzare gli occhi su di lei, quasi imbarazzato all’idea di guardarla.

“No. Volevo solo stare con te. Dopo la lezione di Trasfigurazione sei sparito.” Gli rispose lei con tono leggermente scherzoso.

“Sì, beh, non ci tenevo a vestire di nuovo i panni del Potter-giullare.” Rispose allora Severus bruscamente. Ma non c’era rabbia nella sua voce quella volta, soltanto una rassegnata rassegnazione. Tuttavia, la reazione di Lily fu totalmente inaspettata. La ragazza rise, rise di gusto come se lui avesse appena raccontato una barzelletta.

Severus allontanò per un attimo lo sguardo dal lungo elenco di ingredienti del su libro di pozioni per posarlo sull’amica, allibito.

“Non è divertente.” Le disse.

Lily lo guardò, senza smettere di ridere. Si morse appena il labbro inferiore in quel gesto che era normale per lei e lui la adorava quando lo faceva, le dava un’aria ancora più sbarazzina, ancora più bella.

Scosse il capo. Sembrava davvero divertita dall’espressione allibita e confusa del ragazzo di fianco a lei. “Cosa stavi leggendo?” Gli chiese poi, riprendendo un attimo il respiro.

“Pozioni.” Rispose allora Severus, laconico, comunque felice che lei avesse cambiato discorso.

“Ancora?!” Fece Lily spalancando gli occhi verdi. “Ormai lo saprai a memoria quel libro.”

Severus fece spallucce, indifferente. “E allora? Non ho altro da fare.” Disse con voce atona. Quindi tornò a posare gli occhi sulle parole stampate.

Era stato in quel momento, poco dopo che i suoi occhi neri si furono posati sulle pagine del libro che quella piccola creatura dalle ali bianche, con tutto il posto che aveva, era andata a posarsi proprio sul suo ginocchio.

“Ehi!” Fece subito Severus, nel vedere la farfalla bianca tranquillamente posata sui suoi pantaloni. Mosse la mano nell’intenzione di scacciare quella piccola insolente, ma prima che potesse farlo un’altra mano si chiuse sulla sua.

“No, lasciala.” Gli disse Lily, poggiando la sua mano leggera su quella ossuta del ragazzo. Severus le lanciò un’occhiata interrogativa.

“Guardala, ti ha preso in simpatia.” Gli disse ancora Lily, guardando la farfalla ondeggiare le ali completamente a suo agio sul ginocchio ossuto di Severus.

“Come no. Mi mancava l’amicizia di un lepidottero.” Disse Severus sarcastico, facendo quello sembrava uno strano ibrido tra un sorriso e un smorfia.

Lily gli gettò un’occhiataccia, socchiudendo quei suoi splendidi occhi verdi avvolgendone le iridi nell’ombra delicata delle palpebre.

“Lo sai, c’è una leggenda giapponese sulle farfalle.” Disse poi Lily guardando la piccola farfalla bianca ancora lì, ferma, le ali leggermente increspate dalla brezza primaverile.

Severus gettò un’occhiata svelta al piccolo insetto prima di far tornare gli occhi neri sulla ragazza. Non disse nulla e il suo silenzio incoraggiò Lily che già temeva di ricevere una frecciata sarcastica dall’amico.

“L’ho letta per caso su un libro, in biblioteca. Racconta proprio di una farfalla bianca, come quella.” Disse la ragazza accennando col capo alla piccola creatura.

Ancora Severus non le rispose, intendo a fissare la farfalla sul suo ginocchio, pensieroso. Chissà quanto ancora avrebbe vissuto? Una vita così breve, ma allo stesso tempo così densa, così… normale. Una vita semplice guidata solo dall’istinto, senza preoccupazioni, senza il timore del futuro e del presente, senza dover subire lo scherno di gente come Potter e Black, senza essere emarginati per essere diversi.

“Sev?” La voce di Lily lo riscosse dai suoi pensieri. Anche se Lily quasi non se ne accorse di essere riuscita ad attirare la sua attenzione, perché Severus continuò a fissare la farfalla con occhi spenti e le parole che le rivolse sembravano provenire da un luogo lontano da quei parti intorno al lago.

“Cosa dice quella leggenda?” Domandò il ragazzo, senza minimamente muovere gli occhi verso Lily.

“Racconta di un vecchio che non si era mai sposato e viveva in un casa vicino a un cimitero. Ma non chiedermi il nome perché non me lo ricordo.” Cominciò Lily accompagnando l’ultima farse con una leggera risata. Vide Severus annuire e riprese a raccontare: “Un giorno si ammalò e sapendo che stava per morire chiamò la sorella e il nipote. I due rimasero con lui per alcuni giorni, vicino al suo letto. Poi, un giorno, mentre il vecchio dormiva, videro una farfalla bianca entrare dalla finestra e posarsi sul cuscino. Cercarono più volte di allontanarla, ma lei tornava sempre.” Lily, seduta a gambe incrociate, teneva lo sguardo puntato a terra e strappava distrattamente i fili d’erba con le sue dita chiare. E sorrideva mentre raccontava quella storia e Severus aveva finalmente alzato gli occhi verso di lei, quasi a bere con essi ogni parola che sgorgava dalle sue labbra. Era bello sentirla parlare.

“Quando la farfalla lasciò la stanza ancora una volta, il nipote la seguì e vide che volava verso una delle tombe, ricordi?, nel cimitero.” Severus annuì leggermente e Lily continuò. “La farfalla volò per un po’ sulla tomba, poi sparì. Il giovane allora raggiunse la lapide e notò un foglio bianco su cui era scritto… Akiko, mi pare si chiamasse, ma non importa. Comunque, era una ragazza morta a diciotto anni.”

Lily si voltò verso Severus e lui sorrise. La farfalla era ancora lì, perfettamente a suo agio come se anche lei fosse interessata ad ascoltare la storia. Lily sorrise divertita nel guardarla, sembrava davvero chiederle di continuare a raccontare con quelle sue antenne nere che facevano su e giù nell’aria, e Severus pensò che godesse del suono della voce di Lily almeno quanto lui… davvero, Lily aveva una voce in grado di affascinare anche le farfalle. Che fosse lei stessa una farfalla? Mentre pensava a quelle cose, Lily aveva già ripreso a parlare.

“Il giovane tornò a casa,” stava dicendo, “e disse a sua madre quello che aveva visto. Nel frattempo lo zio era morto. La madre gli disse che Akiko era stata la ragazza amata da suo zio, ma pochi giorni prima del matrimonio era morta di malattia. Allora lo zio aveva giurato che non si sarebbe mai sposato con nessun’altra e che avrebbe vissuto vicino alla sua tomba per prendersi cura di lei. E aveva sempre mantenuto la promessa. Ma in quei giorni non aveva più potuto portare fiori sulla sua tomba.” Prese un lungo respiro e alzò il volto verso il cielo perdendo i suoi occhi verdi in quel mare azzurro. “Così Akiko era venuta da lui. La farfalla bianca era la sua anima.” Concluse infine, abbassando nuovamente il capo e sorridendo a Severus. Lui si ritrovò a sorriderle di rimando.

“E’ una bella storia.” Commentò infine.

“Sì, vero?” Fece allora Lily senza smettere di sorridere. “Oh, guarda!” Esclamò poi. Severus portò in fretta gli occhi verso il suo ginocchio dove fino a quel momento era stata la piccola farfalla bianca giusto in tempo per vederla spiccare il volo con grazia, con un lieve fruscio delle sue ali di neve.

Severus la vide volteggiare tra le correnti d’aria come un petalo di ciliegio, leggera. La vide volare via insieme a quel ricordo fino ad essere inghiottita dal nero. Ed allora, solo allora si rese conto che era stata solo una visione, soltanto uno scherzo della sua mente e di quelle ali di farfalla che lo avevano rapito e portato con loro dentro un ricordo. Lily non c’era più. Lily era volata via come quella farfalla bianca. Era stato lui stesso a ucciderla a costringerla in una tomba come la ragazza della storia.

Riaprì lentamente gli occhi e con suo grande stupore vide che la farfalla variopinta era ancora lì, sul suo ginocchio, come era stata quella piccola farfalla bianca posatasi su di lui anni prima nello stesso punto. Non sapeva perché, ma si ritrovò a sorridere. Un sorriso genuino che raramente aveva sfiorato il suo viso.

E sotto l’arcata di quel sorriso, anche quella farfalla color del sole, sbattè le ali alcune volte ondeggiando le antenne come se volesse dirgli qualcosa, poi si alzò in volo. Severus la seguì con lo sguardo mentre la piccola creatura volteggiava alcune volte intorno a lui, poi, così come era arrivata portando con sé quel ricordo, svanì, lasciandolo da solo sotto il grande albero in quel parco giochi abbandonato. Sapeva di non meritare alcun perdono, alcuna consolazione, quel leggero calore che gli aveva invaso il corpo donato lui dalle scintille di fuoco di quella farfalla era una strana sensazione.

Severus sentì di nuovo le lacrime premere contro si suoi occhi, forse a causa di quella leggerezza nel petto che gli era sconosciuta, il suo cuore morto per un istante sostituito dal battito d’ali di quella farfalla. Quella farfalla… cosa poteva essere la sua Lily se non una farfalla variopinta?

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Questa storia è stata scritta per il “Four Seasons Literature Contest” bandito da Inksewn su fanfiction.net. Siccome l’ho dovuta prima scrivere in italiano per poi tradurla in inglese ho pensato di pubblicarla così mi dite se è una storia meritevole oppure una schifezza. XD Ma soprattutto spero che possa piacervi.

In teoria dovrebbe essere una storia d’amore tragica che coinvolge la morte e può essere nostalgica. Siccome non ho mai partecipato ad un contest, spero di averci azzeccato con questa storia.

La storia di Akiko è davvero una leggenda giapponese, non l’ho inventata io.

In ogni caso, spero che questa storia vi sia piaciuta. Me lo lasciate un commentino? XD

Ciao a tutti!


P.S. Chiedo scusa a chi segue la mia storia originale che ormai aspetta il secondo capitolo da quasi due settimane. E’ quasi finito, solo che ho dovuto interromperne la stesura per scrivere questa storia che, partecipando a un contest, deve mantenere una scadenza. Scusatemi ancora. 

  
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