PARTE QUINTA: Ciò che è
giusto.
1.
Una spia che non sa mentire a se stessa.
Anche se aveva voltato
le spalle al Preside con fare spavaldo e determinato, chiudendo bruscamente il
discorso, Severus Piton non era affatto sereno.
Raggiunti i suoi
alloggi nel sotterraneo si era lasciato cadere sui rigidi cuscini della sua alta
poltrona, scuro in viso come un tempestoso temporale
invernale.
Era agitato più di
quanto non fosse solito tollerare da se stesso e si detestava per aver lasciato
che Silente gli parlasse con tanta sincerità.
Quando il vecchio
manteneva determinate distanze era tutto più semplice; lui poteva fingere che
quel divario tra loro esistesse davvero. Poteva mentire, raccontando a se stesso
che, sì, stimava immensamente il canuto stregone, sia come uomo che come
combattente, ma niente altro che questo.
Ogni volta che Silente
si comportava come quel giorno, però, al giovane mago bruno era impossibile
nascondere che provava anche e soprattutto affetto e riconoscenza per il
Preside.
Normalmente questo non
gli causava altro che forte imbarazzo.
Non era avvezzo a quel
tipo di sentimenti tanto filiali, così diversi da quelli che aveva provato in
passato per i suoi pochi amici e che ancora provava, nonostante tutto per Lucius
Malfoy e per la sua famiglia.
Non che gli paresse
strano o in qualche modo sgradevole provarli, ma lo facevano sentire scoperto e
vulnerabile, nonché inadeguato e debole.
Era felice che Silente
fosse affezionato a lui ed era certo che così fosse, anche se, per vari motivi,
non ultima una muta convenzione tra loro, il vecchio non lo dimostrava quasi mai
con parole dirette o con i normali gesti con cui solitamente si dichiara agli
altri il proprio bene.
Se si fermava a
riflettere, si rendeva conto che gli sarebbe parso insopportabile stare accanto
a Silente se questi davvero avesse visto in lui solo un Professore e un’abile
spia; solo uno strumento privo di dignità.
L’affetto del Preside,
sebbene spesso, a causa dei propri rimorsi, pensasse di non meritarlo affatto,
lo riempiva d’orgoglio e lo faceva sentire più vivo.
Perché sei ancora
qualcuno quando c’è chi si preoccupa per te, soffre con te, spera in
te.
Altrimenti, non sei
che un nome su un registro e quando l’inchiostro sbiadisce del tutto, nemmeno tu
esisti più.
Sì, Severus era felice
che Silente tenesse a lui.
Ma non sapeva
rapportarsi facilmente a questo tipo di sentimenti tanto profondi. Ne aveva
paura e, imbarazzato, finiva sempre col diventare ancora più arcigno, ogni volta
che doveva affrontarli.
Le poche volte che
Silente – e in qualche occasione, a dire il vero, gli era accaduto anche con
Minerva McGranitt – si permetteva un comportamento particolarmente aperto e
affettuoso, gli alunni di Hogwarts finivano, senza sapere il perché, col
maledire un Professor Piton più che mai acido e
intrattabile.
Ma questa volta era
diverso. Silente aveva parlato troppo e mostrato, volontariamente, troppo di sé
e non si trattava di un’occasione qualsiasi.
C’era in gioco la vita
del vecchio.
Questa volta Piton non
provava solamente imbarazzo, né poteva fingere che il problema fosse il proprio
carattere schivo.
Il problema è
l’assurdità che pretendi di farmi digerire, Albus.
E’ la cosa orribile e
impensabile che vuoi farmi fare.
Il problema è che
detesto anche solo l’idea di poter compiere ciò che mi chiedi, che ne sono
nauseato e sconvolto e mi fa orrore, ma, dannazione, me lo chiedi in un modo che
mi distrugge.
Il tuo affetto può
essere un arma, Albus, anche se tu non lo capisci. Un arma che può ferirmi e da
cui non so come difendermi.
Merlino! Quanto vorrei
che tu fossi davvero solo un vecchio pazzo. Poter dire a me stesso: Ad Albus ha
dato di volta il cervello, sarà l’età, sarà la sua salute incerta, è
impazzito.
Ma non amo negare
l’evidenza; tu non sei pazzo, non hai perso un briciolo della tua dannatissima
invidiabile lucidità.
Come vorrei non tenere
così tanto a te, che tu fossi soltanto il Preside e il comandante d’uomini per
me, non Albus Silente.
Se solo tu non fossi
importante per me, ma solo un mezzo per raggiungere i miei fini: sconfiggere una
volta per tutte il mio passato.
Ma sapeva fin troppo
bene che non era così. Contro ogni evidenza, per quanto questo rischiasse di
fargli saltare i nervi, già fin troppo tesi, doveva riconoscere che non era
così.
Merlino, quanto ti
odio a volte per quel tuo aver sempre ragione, per la causa, perché mi conosci
così intimamente, perché non riesco a non volerti
bene!
No, non ci riusciva,
così come non riusciva a soffocare con l’usuale gelo il turbamento dovuto
all’ultima discussione col vecchio.
Tutto quel che avrebbe
voluto, che bramava con tutto se stesso, gli pareva terribilmente
irraggiungibile.
Avrebbe desiderato che
non esistesse alcun Voto. Non per timore di perdere la propria vita; ormai era
arrivato a considerare la morte una liberazione. Chiudere gli occhi per sempre
non poteva che significare finalmente l’oblio. Niente più rimorsi, niente più
dolore, non più il ricordo di capelli rossi scomposti dal vento scozzese e occhi
verdi che avevano saputo guardarlo con compassione e simpatia, ma mai con
l’amore che avrebbe voluto leggervi. Mai più quella sensazione straziante di
avere nelle narici l’odore del sangue o un aroma sottile, che sapeva di
primavera e di fiori, ma che, solo sulla pelle di qualcuno che non sarebbe
tornato mai più, aveva saputo inebriarlo fino a stregarlo.
No, non temeva la
morte, ma se non ci fosse stato alcun Voto Infrangibile, Silente non avrebbe
potuto domandargli quell’enormità. Lui avrebbe potuto lottare, a costo di
giocarsi la sua copertura di spia; battersi accanto al Preside per fermare Draco
e salvare la vita che gli veniva chiesto di spegnere.
Avrebbe voluto trovare
una formula, un’indicazione, su come spezzare definitivamente la maledizione che
anneriva e bruciava la mano di Silente, spandendosi sempre di più nelle vene del
vecchio.
Ma non c’era ancora
riuscito, anche se la sua scrivania, solitamente così ordinata, era divenuta una
selva di libri e pergamene. Alte pile di un sapere che per la prima volta gli
pareva tremendamente inutile, perché non vi aveva trovato la risposta che
cercava con ansia.
Avrebbe voluto che non
ci fosse in gioco anche l’anima di Draco, a ricordargli di continuo il secco
ragazzo bruno che lui stesso era stato, inginocchiato a lasciarsi marchiare a
vita, come un’animale da macello.
Avrebbe preferito non
leggere mai nella mente di Silente, ciò che aveva scorto, con una certa
nitidezza e che gli era impossibile negare. Tutti quei sentimenti lasciati
liberi di fluire fino a lui, senza più maschere. Quel cuore che Silente aveva
deciso, una volta tanto, di portare sul bavero, come avrebbe desiderato
disconoscerlo, non vederlo, ignorarlo.
Altrettanto avrebbe
voluto fare con ciò che il vecchio gli aveva confessato sul proprio
rimpianto.
Com’è possibile,
Albus, che tu provi tanto rincrescimento per non aver tentato di fermarmi in
tempo? Non ero nessuno per te allora, nessuno. Solo uno studente tra
tanti.
Possibile che tu mi
avessi già compreso così a fondo, solo osservandomi?
Ma sentiva che il
Preside era stato sincero; realmente la sua coscienza lo tormentava per il fatto
di essere rimasto solo a guardare.
Del resto, negli
ultimi tempi era chiaro che Silente non ne poteva più del suo solito modo di
agire: attendere, aspettare fino all’ultimo momento possibile, prima di muoversi
e far scattare qualunque meccanismo strategico avesse
architettato.
Albus era diventato
impaziente e insofferente al fatto di rimanere indietro e lasciare che i suoi
collaboratori portassero a termine i suoi piani.
Vuoi combattere in
prima linea, Albus, non è così? Uscire da dietro le
quinte.
Sì, non hai fatto
altro ultimamente: sei andato di persona al Ministero e a cercare quel
dannatissimo anello.
Perché? Per Potter? O
perché non sopporti più il tuo ruolo esclusivamente da saggio
stratega?
Ti sei stufato di
essere la mano che muove le pedine sulla scacchiera? Vuoi diventare tu stesso un
pezzo che avanza, casella dopo casella, per dar scacco al
re?
Ora, con la scusa
della maledizione che non sono ancora riuscito a fermare, vorresti metterti
ancora più in gioco, totalmente.
Ma non è al nemico che
stai offrendo la vita, vecchio, e a me, e io non voglio e non posso
accettarla.
Eppure le ultime
parole di Silente continuavano a tormentarlo: “Draco è come te, Severus… posso
ancora stendere la mano e frenare la sua caduta prima che si ferisca come è
accaduto a te… non mi resta molto tempo, ma ti assicuro che me ne andrò in pace
con me stesso, sapendo quel ragazzo al sicuro… “.
Draco è come te. Come
te…
Sì, Draco era come
lui, in bilico, sull’orlo di un precipizio senza fondo e Severus per primo non
voleva che cadesse.
Quel giorno lontano in
cui era corso da Silente a domandare aiuto non aveva potuto fermare il se stesso
dei ricordi. Aveva stretto solo un pugno di niente, dentro il pensatoio, mentre
gli pareva di impazzire a causa del rimorso e dell’impotenza.
Aveva pregato, lo
ricordava ancora distintamente, perché Silente facesse smettere quel ventenne
immaturo e sbagliato, perché lo facesse smettere di essere ciò che era; ciò di
cui provava orrore e disgusto.
Anche per questo,
ormai lo sapeva, era andato dal vecchio, tanti anni prima, perché qualcuno lo
aiutasse a cessare di essere ciò che non voleva più
essere.
E tu, Albus, hai
esaudito quel mio desiderio. Mi hai teso la mano e mi hai mostrato chi ero
realmente e cosa avrei potuto fare di me stesso.
Ma nemmeno tu, quando
eravamo immersi nel pensatoio, hai potuto fermare la follia dell’odioso
assassino che ero stato, perché il passato non si cancella, solo il futuro può
essere ancora mutato.
Nemmeno tu, Albus, hai
potuto far cessare quello strazio, ma hai ragione: io e te non possiamo tornare
indietro e levare la bacchetta di mano al Severus Piton che era, prima che si
macchi indelebilmente l’anima, però possiamo fermare
Draco.
Possiamo farlo
smettere, prima ancora che cominci realmente il suo incubo. Non siamo impotenti
rispetto al ragazzo.
Questo non poteva
assolutamente ignorarlo.
E Silente aveva
ragione anche nel dire che lui non viveva più. Non una vera vita da tanto,
troppo tempo.
Certo, c’era chi
credeva che a lui bastasse il piccolo mondo in cui si era rinchiuso: insegnare,
senza negare nulla del proprio carattere tagliente agli studenti, essere il più
temuto professore di Hogwarts. C’era chi credeva che questa fosse la sua massima
soddisfazione e gli bastasse, che potesse essere definita
vita.
Rise, amaramente,
senza alcuna gioia. Una risata che tagliava più di una lama, facendolo
sanguinare dentro.
Ma sì, perché non
dovrebbero pensarlo? Perché non dovrebbero credere che mi basti un trastullo
simile, che io sia tanto meschino e piccolo da chiamare questa esistenza
vita?
Che possono saperne
tutti gli altri del fatto che ho freddo e nemmeno al più incandescente dei
bracieri riesco a scaldarmi?
Perché mai Severus col
suo animo contorto e la sua indole corrosiva dovrebbe desiderare di più; volere
ciò che tutti vogliono: calore, amore, una famiglia? Che senso avrebbe? Nessuno,
io sono sempre stato diverso perché non dovrei esserlo anche in questo?
Non è così?
Che possono saperne
gli altri del fatto che ormai mi sento vivo davvero solo quando la mia vita è in
gioco; sotto gli infuocati occhi di rettile dell’Oscuro Signore, mentre la sua
mente violenta la mia e tutto corre veloce su una corda sottilissima e
affilata.
Solo allora,
specialmente mentre riesco a ingannarlo, mentre la mia anima ruggisce di rabbia
per il modo disgustoso in cui si permette di insozzare anche i miei pensieri,
come se non avessero alcun valore, mi sento vivo sul serio. Mentre spero, a
volte, che Lui comprenda i miei veri intenti e mi legga il disprezzo nel cuore,
perché tutto sia finito, allora io esisto davvero.
Ed è una sensazione
che odio! E’ orribile che il sangue che mi pulsa nelle vene acquisti un senso
solo quando Lui mi piega e mi umilia, quando godo del fatto di potergli
resistere, o mentre spero che il mio cuore cessi di
battere.
Non è questa la vita
che vorrei, ma quella che tutti gli altri possiedono, che non manca di dolori,
noia, banalità infinita, ma che è vera, sensata,
pulita.
Una vita che,
nonostante tutto, a volte bramo così tanto che mi detesto, perché non ha più
senso sperare. Nessun senso, perché non la merito, non è fatta per
me.
Non posso confondermi
tra le persone comuni, non voglio, perché sono diverso, lo sono sempre stato, e ho finito col
diventarlo ancora di più, quando ho fatto di me stesso un
assassino.
Non sono come tutti
gli altri, faccio parte di una ristretta cerchia, cui farei qualunque cosa per
non appartenere.
Oh, il giovane mago
figlio di un umile mediocre babbano ha fatto strada, quando ha lasciato la
scuola, è entrato a far parte di una meravigliosa sceltissima elite. E il
prezzo? Mi è stata domandata in cambio solo la dignità e l’anima, ma ho ricevuto
una splendida maschera, che non vuol saperne di abbandonarmi e incubi in
abbondanza con cui forgiare il mio allegro carattere.
Una risata ancora più
vuota e sterile gli fece fremere le labbra sottili.
No, non posso vivere
davvero, non con i rimorsi che mi bruciano il petto; non la vita di un uomo
qualunque e nemmeno quella di chi come me ha soffiato sull’esistenza altrui
spegnendola, come si fa con la fiamma di una candela.
No grazie, ho pagato
comunque il prezzo, che l’Oscuro Signore non si preoccupi, salderà il conto ma
non domanderò a Lui la mia anima indietro. Dovrà ridarmi solo la mia dignità e
che si tenga pure il suo mondo di aristocratiche terribili
glorie.
Sono in bilico tra due
vite, che altro potrei fare se non limitarmi a sopravvivere,
Albus?
Ma era vero,
inesorabilmente vero, quel che aveva detto Silente: Draco aveva ancora un
avvenire, speranze appena dischiuse dinnanzi a sé. Draco non avrebbe mai dovuto
trovarsi in quella situazione orribile, a scegliere tra l’esistenza piena ma
folle che Voldemort elargiva ai suoi e un gelo interiore, senza
fine.
Il ragazzo poteva
ancora decidere di abbracciare una vera vita.
Si strofinò le tempie
con le dita, vigorosamente, come a tentare di schiarirsi le idee, ma le parole
del Preside erano penetrate troppo a fondo e non gli davano
tregua.
Come un sasso gettato
in acque immobili, si diffondevano in cerchi sempre più ampi,
inarrestabili.
Me ne andrò in pace
con me stesso…
Un altro cerchio
ancora ad increspare il liquido nucleo dei suoi sentimenti, impedendo al
ghiaccio che lui avrebbe voluto riportarvi di riformarsi.
Oh, Albus. In pace, io
non lo sono mai stato. Mai.
L’ironia dipinta sul
suo viso si fissò dolorosamente agli angoli della bocca, segnandogli il viso con
rughe troppo profonde per la sua età.
Mai. Anche prima di
avere rimorsi così feroci da dilaniarmi l’anima.
A volte sono stato
sereno, magari comunque fiero di me, ma mai realmente in pace. Ho sempre avuto
troppi tarli a rodermi dal di dentro.
Non so cosa voglia
dire essere in pace con se stessi, ma so bene cosa significa non
esserlo.
So che gelo portano
con se i rimorsi e le colpe che ti schiacciano il petto; il rimpianto per ciò
che poteva essere fatto e per ciò che non avresti mai dovuto
fare.
Lo so con certezza
lancinante, perché lo sperimento ogni giorno, da una
vita.
Soltanto, ho sempre
creduto che tu, Albus, ne fossi immune, che non conoscessi quella sensazione di
amaro che ti pervade la bocca e il cuore, quando ti volti indietro a guardare e
quel che vedi è un altro te stesso con il volto di un giudice,
accusatore.
Non avrei mai pensato
che io e te condividessimo addirittura il medesimo
rimorso.
Non hai idea di quante
volte, nel buio della notte e nella mia oscurità personale ho rivisto quel
ragazzo appena diplomato, pallido e cupo, con i capelli neri sempre sugli occhi,
che mi guardava col rancore del rimprovero nei lineamenti. I miei stessi
lineamenti, a rinfacciarmi che ho sbagliato, che non dovevo compiere scelte
folli e tremende, che comunque avrei dovuto trovare la forza di tirarmi indietro
molto prima.
Il mago bruno dovette
lasciar andare un prolungato sospiro che ruppe l’immobilità in cui si era
cristallizzato il suo corpo mentre rifletteva, facendo affiorare più vita del
solito dai suoi composti, affilati, lineamenti.
Lo vedi anche tu? Fa
visita anche a te, quella giovinezza gettata via? E’ questo che cercavi di
dirmi? Che anche contro di te, il ragazzo che ero punta il dito accusandoti per
quel che nessuno gli ha impedito di diventare?
Sbagli, vecchio. E’ un
errore, dannazione, non è tua la colpa è mia, solo mia e di nessun
altro.
Ma fa male che tu non
lo capisca, che voglia rimediare al punto di donare te stesso per me e
Draco.
Fa male pensare che
non te ne andresti in pace, se fosse Draco ad ucciderti o se, comunque, non ci
fosse via d’uscita per lui.
Sarebbe il peggiore
dei fallimenti per te, lo so, l’ho capito, essere ucciso proprio da
Draco.
Ma credevo che
bastasse fermare la sua mano quando tenterà ancora di levarla contro di
te.
Invece non ti basta, è
questo che volevi farmi capire.
Non è
sufficiente.
Lentamente riaprì gli
occhi e sollevò in alto la manica a scoprire per l’ennesima volta l’avambraccio.
Seguì rudemente i tratti del Marchio che gli deturpava la pelle, premendo con i
polpastrelli con forza, fin quasi a graffiare l’epidermide
tesa.
Una volta, Albus, pur
non sapendo che ti ascoltavo, hai promesso che avremo lottato insieme per far
sparire dal mio braccio il Marchio Nero. So che non intendevi parlare soltanto
del simbolo, di questo teschio ghignante.
Parlavi di me, delle
mie macchie, e della mia libertà. Hai promesso di lottare perché io non fossi
mai più uno schiavo, perché gli incubi lasciassero finalmente le mie
notti.
E io te ne sono stato
grato e ti ho sentito accanto più che mai.
Ora ti sei messo in
testa che vuoi fare lo stesso con Draco, anzi di più, che vuoi che lui non
arrivi nemmeno al punto dolorosissimo di rendersi conto che non ha più speranze,
futuro, e dignità; ma solo incubi e un padrone che, nonostante tutto, può sempre
arrogarsi il diritto di umiliarlo come un servitore.
No, non sono più lo
schiavo dell’Oscuro Signore, ma non sono nemmeno libero da lui, anche se lo
combatto.
Essere trattato da lui
come un servo non è meno umiliante solo perché la mia obbedienza è pura
finzione, non è meno degradante portare il suo Marchio ignobile. Serve solo a
farmi detestare di più le mie colpe e colui davanti al quale devo ancora
costringermi a piegare il capo e le ginocchia.
Voldemort. Non ho mai
smesso di chiamarlo Oscuro Signore, perché non desidero negare a me stesso la
realtà: ero suo, e porto ancora il segno del suo possesso, questo simbolo che
detesto con tutto me stesso.
Sì, Oscuro Signore,
così lo chiamerò sempre, finchè non potrò davvero rivendicare apertamente la mia
libertà e dignità dinnanzi ai suoi occhi di fuoco.
Allora, quando questo
accadrà, solo allora, non avrò più motivo di dargli altro nome che il suo,
quello che ha scelto per sé, per portare il terrore e possedere ogni
potere.
Allora non avrò né
timore né ritegno nel chiamarlo Voldemort, o forse addirittura Tom, come l’uomo
che vuol negare di essere.
Sì, Tom, Tom Riddle,
perché ho sempre pensato che sarebbe venuto il momento in cui avrei potuto
affrontarlo da pari a pari, solo un uomo dinnanzi ad un altro
uomo.
Ma forse non accadrà
mai, posso rinunciarci, se il prezzo da pagare è la tua vita
Albus.
Eppure vorrei davvero
che Draco non diventasse l’ennesimo degradato servo di un simile
padrone.
Non vorrei che tu
avessi simili rimpianti, Albus, perché so quanto possono
ferire.
Stese le lunghe gambe
e socchiuse gli occhi, respirando piano, tentando di scacciare dalla mente il
ricordo di quella notte in cui il Preside aveva parlato troppo, credendolo
addormentato.
Inutile; la figura
snella di Silente, china su di lui, senza alcuna finzione o schermo a
sussurrargli parole paterne solitamente trattenute, non voleva
abbandonarlo.
“Quelli come noi,
Severus, raramente muoiono nel proprio letto, ma almeno cadono dignitosamente,
adempiendo al dovere, lottando per ciò in cui credono” – la voce del vecchio gli
rimbombava nelle tempie, mentre il sangue pulsava e pulsava, inesorabilmente
dolorosamente.
“Tu sei come me” –
aveva detto il Preside – “Io e te, se proprio dobbiamo morire, preferiremo farlo
combattendo con onore, non come vigliacchi che tentano di sottrarsi al
nemico”.
No non come
vigliacchi, Albus, è vero, e tu mostri coraggio nel voler rinunciare alla tua
vita.
Ma io? Hai idea di
quanto coraggio mi ci vorrebbe per fare ciò che mi
chiedi?
“Dannazione, sì che ce
l’hai!” – ruggì alla stanza vuota, incapace di trattenere quelle parole solo
nella mente.
Si alzò, voltandosi di
scatto, e spazzò la scrivania col taglio della mano, facendo crollare le pile di
libri e rovesciando il calamaio colmo di inchiostro
scurissimo.
Il liquidò si sparse
sul piano di legno, imbevendo alcune pergamene e schizzando sulle rilegature dei
libri, macchiandone le costole istoriate.
Era furioso, con se
stesso, col vecchio e con il mondo intero. Talmente colmo di rabbia da sentirne
il metallico sapore sulla lingua, mentre si mordeva a sangue il labbro
inferiore.
Essersi lasciato
andare accese ancora di più le fiamme dell’ansia che premeva per farsi furia e
trovare finalmente sfogo.
Raccolse la boccetta
dell’inchiostro e la scagliò con forza contro il muro segnato dal tempo,
dinnanzi a sé.
Nemmeno il secco
schiocco del vetro che esplodeva in minutissime schegge servì a
placarlo.
Aveva bisogno di tirar
fuori tutto ciò che gli strozzava la gola, e si era già trattenuto abbastanza
davanti a Silente.
Non gli bastava più
lasciar correre i pensieri, il dolore che aveva preso a tormentargli il petto
doveva farsi voce, o l’avrebbe sommerso.
Pensò intensamente
all’incantesimo di insonorizzazione; le spalle che si alzavano e abbassavano
troppo bruscamente, mentre il respiro si faceva più corto.
Poi esplose, con foga
selvaggia, come sempre gli accadeva le poche volte che il suo ferreo
autocontrollo lo abbandonava.
“Come puoi chiedermi
di uccidere ancora; di uccidere te, Albus?” – gridò, come se avesse davvero il
canuto stregone davanti agli occhi, ora ridotti a due fessure di tenebra –
“Dannato vecchio, tu lo sai cosa vuol dire per me. Come puoi chiedermi proprio
questo? Dici che soffri ogni volta che mi sai fuori nell’oscurità, dici che ti
rimorde la coscienza per aver lasciato che buttassi via l’anima e ora vuoi
condannarmi a tornare realmente nell’incubo? A immergermi nelle tenebre senza
più te e Hogwarts a cui tornare, a cui pensare per resistere ogni volta che sto
per crollare? Oh, certo, tu hai mille ottime ragioni: la causa, Draco, il tuo
dannato affetto per me e la maledizione dell’Horcrux. Ottima scusa la
maledizione, Albus, davvero ottima… e immagino che dovrebbe essere più facile e
indolore ucciderti dato che probabilmente hai comunque i giorni contati. Che
dovrebbe essere nulla più che un attimo, senza rimorsi, tanto si tratta di
spegnere una vita già segnata e io comunque sono e resto un assassino. Nulla che
io non abbia già fatto in passato. Semplice, normale… avrei perfino il tuo
consenso; nulla di cui io debba soffrire o rimproverarmi. Bella scappatoia,
Albus. Comoda, comodissima scusa per un eroico sacrificio paterno che non ti ho
mai chiesto. E’ egoista la tua pretesa, è un affetto che mi fa male, non lo
voglio!”.
Si voltò svelto verso
la finestra a feritoia che si apriva nel muro alle sue spalle, mentre le parole
gli morivano nuovamente in gola. Aveva bisogno d’aria; non poteva credere che
stesse accadendo realmente. Non a lui.
Com’era possibile che
proprio lui si trovasse a lottare ancora con il sentimento, dopo una vita spesa
a sopprimere ogni emozione, ad annegare nel sarcasmo ogni scintilla di sciocca
emotività?
Come, quando aveva
deciso da una vita di divenire solo ferrea logica e beffarda ironia,
assecondando il lato peggiore del suo carattere anche per scordare ciò che
avrebbe potuto essere e non era mai stato?
Ti odio,
Albus!
Merlino! Quanto ti
detesto per quel che mi stai facendo, per quel che vuoi
farmi.
Ti odio perché hai
ragione, su troppe cose, come sempre; perché mi vuoi bene al punto di voler
morire per me. Perché mi vuoi bene davvero.
Perché non puoi
disprezzarmi e basta, Albus? Disprezzami, come tutti gli
altri.
Perché non puoi solo
usarmi? Perché vuoi donarmi ciò che non chiedo e non
merito?
Ti odio perché non
vuoi lasciarmi andare e pretendi di condannarmi a
vivere.
Ti odio perché finisco
sempre col perdonarti, perché non riesco a detestarti davvero, perché mi fa male
l’idea di uccidere, ma se è la tua vita fa ancora più
male.
Ti odio perché mi è
difficile negarti qualunque cosa, quando me la domandi col
cuore.
Ti odio perché mi
chiedi di mostrarti ancora una volta la mia lealtà in questo modo atroce, perché
mi stai domandando di dirti che ti voglio bene con il lampo verde di un
incantesimo terribile, lacerandomi l’anima.
E ti odio perché hai
ragione anche su questo: sì, tengo a te, ci tengo maledettamente! Ci tengo come
se tu fossi mio padre. Più che alla causa o al mio desiderio di rivalsa. Più che
alla mia vita.
Ti detesto, perché mi
hai perdonato per quel che sono, perché mi hai assolto dalle colpe da cui io non
so assolvermi e questo non riesco a scordarlo. Non posso dimenticare che tu
credi in me e che non ti importa delle macchie che mi sporcano
l’anima.
Lasciami andare,
Albus, per favore, lasciami andare.
Quanto mi detesto per
il fatto che non posso odiarti davvero.
Ti prego, Albus,
lasciami andare.
Chinò il capo e lo
tenne premuto contro la pietra per lunghi, interminabili,
minuti.
Non si sentiva meglio,
e la rabbia continuava a roderlo dal di dentro, ma finalmente fu di nuovo in
grado di riprendere la propria flemma esteriore.
Tutto purché non
venissero anche le lacrime. Non avrebbe sopportato di piangere. Sarebbe
equivalso ad arrendersi, a confessare a se stesso che il vecchio aveva
vinto.
Il respiro era tornato
a farsi regolare, mentre spingeva con forza i palmi delle mani aperte contro la
ruvida pietra del muro, ai lati della minuscola finestra.
Un ennesimo sorriso
sghembo e contratto gli si era disegnato sul viso, mentre una lama di luce
brillava nell’onice delle sue iridi lucide.
Che perfetta spia sei
Severus Piton – si disse con
sferzante sarcasmo – Davvero impeccabile.
Non un muscolo fuori posto davanti all’Oscuro Signore, nulla che possa essere
catturato e definito, nulla che possa dirsi certezza, nulla che trapeli oltre
una maschera ben più profonda di quella d’argento che indossi nei tuoi viaggi
nell’incubo. Sei come fumo, impalpabile e sfuggente, puoi ricomporti in mille
forme.
Che spia perfetta, che
non sa mentire al suo cuore e non è capace di fingere con se
stessa.
Era inutile dibattersi
nell’angoscioso tentativo di negare la verità, più ci provava e più quella gli
si stringeva addosso soffocandolo, come una rete che avesse il potere di
levargli il fiato e la ragione.
Era vano lottare per
negare che lui non odiava affatto Albus Silente, ma che se avesse dovuto
uccidere proprio il vecchio non avrebbe mai smesso di maledire se
stesso.