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Autore: TuttaColpaDelCielo    15/04/2012    6 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 11 – Colori




Cinque erano stati i cicli del sole, la prima volta che Amitiel era discesa sul Mediano, prima che dovesse tornare al cielo vuoto del Paradiso.
Cinque cicli che non erano stati sufficienti a saziare la fame che provava verso quella luce calda; tanto più che l’aveva vista appena passato l’inverno, pallido riflesso dell’intensità estiva con cui l’accolse quel giorno.
Ramiel concesse loro mezzo ciclo del sole per abituarsi alla dimensione umana, poi si allontanò con l’allieva sua omonima, che non vi era mai discesa, per guidarla meglio in quel mondo così mutevole. Gli altri si sparsero per tutta la zona circostante, entro il perimetro delimitato dai pochi Custodi posti a vegliare su di loro. Cercavano angoli boschivi in cui riprendere confidenza con le ombre, scacciando l’inquietudine del buio e dei continui rumori con la compagnia di qualche altro allievo; oppure rifugi isolati in cui estendere in solitudine le proprie Percezioni, annullando i sensi e collegandosi alla vita che pulsava in quei luoghi – Custodi, Cherubini, e i più dotati sfioravano talvolta gli Umani dei villaggi meno distanti, o l’essenza più discreta degli animali.
Avevano fretta, perché una volta richiamati alla lezione non avrebbero più avuto il tempo di abituarsi con gradualità ai continui cambiamenti di quella dimensione, ma mezzo ciclo del sole era troppo poco per riuscirvi. Un battito di ciglia, un inutile respiro, l’attimo di nulla tra un pensiero e l’altro; poi si alzava lo sguardo al cielo e si scopriva che era già giunto il tramonto.
Il tempo scorreva rapido e stancante, in quel mondo dove assumeva tutt’altro significato, perché i suoi abitanti avevano un termine ultimo sempre troppo vicino e spaventoso. Sfuggiva dalle mani, invano aggrappate al presente, come quando ancora alla prima classe si era avventurata sulle rive proibite del Confine e aveva tentato di trattenere la sabbia bianca tra le dita. Sfiorava gli occhi con i raggi accecanti del sole, ma prima che lo sguardo vi si fosse abituato, già sorgeva la luna con il suo lucore pallido – gli astri danzavano in cielo, giocando a rincorrersi e nascondersi e riapparire, con un ritmo così rapido da togliere ai Cherubini inesperti il loro inutile respiro.
Poi gli occhi scorgevano un fiore sul punto di sbocciare, l’orecchio percepiva i mille richiami di animali sconosciuti, le dita scoprivano la carezza gelida di un torrente, e il tempo sembrava arrestare la sua folle corsa: erano attimi acronici, infiniti, sospesi nella meraviglia. Gli anni potevano sembrare istanti e gli istanti potevano sembrare anni.
Ha percezioni strane e incoerenti, chi è nato con la promessa dell’eternità.
Quando Amitiel giunse in una pianura ai limiti del territorio concesso per l’esplorazione dei Cherubini, quindi, rimase a contemplarla senza accorgersi che il mezzo ciclo si stava rapidamente consumando; ma, anche se ne avesse avuto consapevolezza, quel luogo inondato di sole esercitava su di lei tanto fascino che forse non si sarebbe mossa comunque. Nemmeno le ombre che vi gettavano i radi alberi riuscivano ad inquietarla, e lasciava vagare lo sguardo senza timore, solo con meraviglia: sulle colline che all’orizzonte increspavano il terreno, sui piccoli villaggi che punteggiavano la pianura oltre il limite che le era permesso raggiungere, sull’erba rada bagnata dal sole, sul bosco dalle chiome macchiate di giallo e di nero – il luogo in cui il suo gruppo era arrivato nella dimensione umana, un ambiente brulicante di vita, in cui però la luce filtrava a fatica. Nonostante la pianura fosse in più punti annerita o giallastra, nonostante fosse quasi vuota, nonostante sapesse di morte, era inondata di sole e questo bastava a fargliela preferire al bosco.
Era affamata di quella luce calda, intensa, gioiosa, e non sembrava capire che ciò che tanto ammirava poteva essere pericoloso. Mortale, anche – o forse lo capiva ed era proprio questo ad affascinarla, facendo fremere la sua natura più oscura. Violento, così avrebbe potuto definire il bagliore che sembrava quasi far tremolare l’aria in lontananza, ed era un aggettivo adatto e bello.
Atterrò dolcemente al limite dello spazio aperto, appena più avanti degli ultimi alberi.
Si tolse i sandali – inutile impaccio, per lei che come tutti gli allievi era abituata ad andare a piedi nudi – e si affidò alle percezioni, invece che alle Percezioni che avrebbe dovuto sviluppare. Un semplice accento più marcato, che nella sua lingua segnalava una maiuscola, divideva in realtà due universi completamente differenti; lei preferiva di gran lunga il primo al secondo, i sensi alla mente. Non era forse meglio guardare, toccare, respirare, piuttosto che immaginare? L’essenza poteva essere acuta, estendersi lontano, cogliere ogni dettaglio a distanza, ma vivere era diverso.
Soddisfatta della profondità delle proprie riflessioni, prese in mano i sandali e mosse qualche passo, sorridendo. Avrebbe presto saputo come si sarebbe svolta la lezione, e se avrebbe avuto la possibilità di contattare Anane e Michael; intanto, poteva divertirsi. Persino l’attesa assumeva toni più distesi, nella dimensione umana, perché il tempo scorreva troppo rapido per lasciar germogliare l’impazienza. Se prima di discendervi aveva provato inquietudine, la luce intensa del sole estivo la sostituiva con la meraviglia.
Il terreno era caldo sotto i suoi piedi nudi, e lo trovò piacevole, pur non potendo avvertirne davvero la temperatura. Aveva una consistenza mai sentita prima: arido, frammentato, percorso da fratture che lo dividevano in zolle polverose. L’erba rada, giallastra, non assomigliava per nulla a quella rigogliosa e immortale del Paradiso: sembrava accasciarsi sul suolo riarso, esausta, implorando energia – implorando acqua, avrebbe potuto pensare Amitiel, se avesse saputo che quel liquido per lei solo decorativo era in realtà fonte di vita. Il cielo azzurro, limpido, scherniva quella richiesta riversando luce bollente invece di pioggia.
Si chiese perché non vi fosse nessuno ad ammirare quello spettacolo, a vagare in quella grande pianura. Le abitudini degli Umani erano argomento della sesta classe, ma sapeva, grazie ad Anane, che spesso conducevano animali nei prati. Non capiva perché, invece, quello fosse deserto – poteva darsi che i Custodi stessero provvedendo ad allontanare gli Umani dai Cherubini, sì, ma il Velo serviva proprio per non essere percepiti da loro. Allora perché non c’era nessuno in quella pianura?
Il concetto di carestia le era del tutto estraneo. Non c’erano più animali da condurre al pascolo – sempre che quei radi fili giallastri si potessero definire pascolo – e, al massimo, avrebbe potuto esservi qualche bambino a strappare l’erba agonizzante per placare la fame; ma il cammino dai villaggi era troppo lungo ed esposto al sole impietoso, perché qualcuno si avventurasse fin lì.
Amitiel non capiva e, per questo, non poteva avere compassione o orrore per quella desolazione. Si limitava a trovarlo strano e in qualche modo anche bello, mentre camminava a piedi nudi sul terreno arido, bagnata dal sole violento di piena estate.
Le sembrò di scorgere una sagoma minuta, al limite più lontano della pianura, dove l’aria tremolava per il calore e il suo sguardo ancora immaturo riusciva a malapena ad arrivare. Non riusciva a capire se la gracilità della figura fosse dovuta alla distanza, o se fosse effettivamente così piccola, né coglieva altri dettagli sul suo aspetto. Tentò anche di estendere le proprie Percezioni, per comprendere se si trattasse di un umano o di un’altra strana creatura di quella dimensione, ma non riuscì a sentire nulla: era ancora lontana dalla semplicità e della naturalezza con cui gli adulti avvertivano anche le presenze così distanti.
Attese, senza osare avvicinarsi, ma la figura minuta rimase lontana: nella pianura deserta e silenziosa, rimaneva un’ombra quasi indistinguibile, che saltellava all’orizzonte lungo un tracciato circolare. Era un po’ inquietante.
Dopo qualche tempo quella sagoma esile si perse all’orizzonte e Amitiel percepì il Richiamo di Ramiel per la lezione: il mezzo ciclo era passato. Si alzò in volo, così rapida da distinguere solo una macchia verde, al posto degli alberi che scorrevano sotto di lei: l’inspiegabile ansia data da quella figura la spinse ad allontanarsi in fretta, rendendo all’improvviso angoscianti il silenzio e la solitudine della pianura. Si accorse di avere una boccata d’aria bloccata in gola da tempo ed espirò piano, appena prima di lasciarsi ricadere tra gli alberi, dove il Richiamo l’aveva condotta.
Ramiel – l’insegnante – si complimentò per la puntualità, almeno per quella volta, e rise da sola della propria ironia. Ramiel – la compagna – le si avvicinò con un’espressione incerta, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive agli angoli dove le ombre erano più dense. Amitiel, nella pianura inondata di sole, non aveva notato le tenebre, e anche in quel momento si sentiva sicura, finché la luce filtrava tra gli alberi; sorrise comunque all’altro cherubino, cercando di mostrarsi comprensiva.
In breve tempo, tutti i diciotto allievi del terzo gruppo si trovarono radunati in semicerchio attorno all’insegnante. Lei li contò mentalmente, controllando che non mancasse nessuno, prima di dire: «Spero che abbiate sfruttato bene questo mezzo ciclo del sole. Tra non molto calerà la notte e gradirei che nessuno si facesse prendere dal panico. Avremo...» corrugò la fronte, pensierosa «una decina di tramonti, per la prima parte della lezione. Osserveremo un villaggio umano poco lontano da qui, in modo più ravvicinato rispetto all’altra volta, quindi dovrete aggiungere diverse informazioni ai vostri appunti. Il Velo è più intenso, questa volta: se vi manterrete ad una distanza sufficiente, impedirà agli Umani di avvertire la vostra presenza in qualsiasi modo, non solo attraverso la vista – non accadranno spiacevoli inconvenienti come nell’ultima lezione, quindi. È raro che a Cherubini così immaturi venga concesso di osservarli così da vicino, per cui esigo» sottolineò il termine con un fremito delle ali, ricordando loro di essere un arcangelo, al di là della cordialità con cui li trattava «la massima attenzione da parte vostra. Niente mormorii, risatine o simili. Se qualcuno ha altre intenzioni, sono certa che troverà molto istruttivo tornare allo Specchio e godersi l’Espiazione in attesa degli altri.»
Doveva essere una lezione importante e forse anche rischiosa, per rendere Ramiel così seria. Nonostante l’istintivo timore per la minaccia, tuttavia, Amitiel non poté impedirsi di provare una scarica di eccitazione: gli Umani erano un argomento proibito ai più immaturi, su cui non aveva mai potuto porre troppe domande. Le era stato insegnato a provare compassione per la loro fragilità, e che il compito degli Angeli era di proteggerli e guidarli, per salvaguardare le loro anime dall’ingordigia degli Sconsacrati. Poco altro le era stato concesso di sapere, poiché forse si temeva che, parlandone troppo, i fragili Cherubini si sarebbero lasciati corrompere dalla debolezza degli Umani. Amitiel, un po’ per propria inclinazione, un po’ perché era un argomento proibito, era stata sempre curiosa nei loro riguardi.
Attraversarono in volo campi di erba rada e giallastra, popolati da creature mai viste prima: bestie a quattro zampe, ossute e sporche, che emettevano versi raccapriccianti. Gli Umani, spiegò Ramiel, come tutti gli esseri mortali avevano bisogno di nutrirsi, perciò allevavano animali per cibarsi della loro carne e del loro latte – peccato che nessuno di loro sapesse cosa fosse, questo latte.
Non solo la loro anima, ma anche il loro corpo era più fragile: si danneggiava facilmente e di rado riusciva a rigenerarsi, necessitava di cibo e acqua, doveva riposare anche da adulto, aveva sensi meno sviluppati. Li avvisò anche che emanavano un odore proprio, non dovuto agli oli di cui si cospargevano.
Capirono meglio cosa intendesse quando si trovarono sospesi su un villaggio – niente di più che una manciata di capanne cadenti ammassate attorno a un pozzo –, respirandone il lezzo nauseante. Non assomigliava a nulla che avessero mai percepito prima: nemmeno chi aveva già osservato gli Umani, nella precedente discesa, si era spinto tanto vicino da poter sentire l’odore e il suono del loro villaggio.
«La particolarità maggiore di tutti gli esseri terreni, però, è che il loro corpo cambia in modo molto rapido.» continuò Ramiel, quando ebbe di nuovo l’attenzione degli allievi. Vedendo che uno si stava sfiorando i capelli, dubbioso, aggiunse: «Non sto parlando solo di questo, Zephon. Anche se, in effetti, i loro capelli crescono molto più velocemente.»
Indicò loro alcune figure minuscole che si rincorrevano ridendo tra le stradine sterrate, e poi un’altra rugosa, curva, che avanzava lentamente trasportando un secchio d’acqua. Non assomigliavano a nessuna persona che Amitiel avesse mai visto.
«Nascono dal ventre delle loro donne – non chiedetemi come, l’anatomia la lascio volentieri al ciclo superiore. Da giovani sono di dimensioni ridotte, e di ridotto intelletto: i Cherubini più immaturi, al loro confronto, sono quasi adulti. Maturando, crescono fino a raggiungere, nel fiore della loro vita, un aspetto simile al nostro. Poi decadono sempre più velocemente, diventano più deboli, la loro pelle rugosa, i loro sensi meno acuti.»
Le matite scorrevano rapide sui taccuini, interrompendosi solo quando gli allievi lanciavano sguardi curiosi e a volte un po’ disgustati verso il basso. Ramiel ripeteva spesso i concetti, costringendoli a riscriverli ogni volta, e spiegava lentamente: lasciava il tempo di osservare ciò che stava illustrando, concedeva pause, si assicurava sempre che tutti avessero capito.
S’interrompeva di frequente per parlare con i Guardiani e i Custodi che, ad intervalli regolari, si avvicinavano per controllare che fosse tutto tranquillo. Amitiel notò che il Custode cambiava quasi sempre, e tra i tanti riconobbe solo Ridwan, l’insegnante di Anane; il Guardiano invece era sempre lo stesso, l’arcangelo che l’aveva accompagnata quando era stata convocata dall’Autorità.
Non era una lezione dal ritmo particolarmente intenso, ma complessa per i contenuti: parole come fame o famiglia erano estranee ai Cherubini, concetti difficili da comprendere e da assimilare. Il sole era scivolato quattro volte dietro l’orizzonte, quando Ramiel terminò di spiegare le funzioni vitali degli Umani, per passare alla loro organizzazione.
Amitiel, anche se provata per aver trascorso tutto il tempo in volo sul villaggio, era ammaliata. La voce dell’arcangelo apriva porte di mondi misteriosi, le sue dita pallide e affusolate indicavano scene di una dolcezza sconosciuta.
Una madre che stringeva al seno un bambino – «Le donne sono disposte a morire per i propri figli.», ripeteva spesso Ramiel. Amitiel si sentiva scaldare il petto per quell’amore, e stringere lo stomaco perché nessuno sarebbe mai morto per lei, invece.
Ragazzini che giocavano con pietre e legni, concentrati – «Sanno anche essere crudeli.» ammoniva Ramiel ogni volta. Amitiel si chiedeva come potessero esserlo quei visi sorridenti e ingenui, e se non fosse peggiore l’indifferenza che i Cherubini mostravano gli uni per gli altri.
Vecchi che raccoglievano attorno a sé i più giovani per narrare antiche leggende – «Hanno una vita breve, ma le loro credenze si perpetrano per generazioni, attraverso i racconti degli anziani.» diceva Ramiel quando accadeva. Amitiel provava invidia per i miti che popolavano l’infanzia degli Umani, e delusione per la storia vera e triste e crudele che veniva insegnata ai Cherubini.
Doveva essere strano, vivere al modo degli Umani. Avere dei genitori, dei fratelli di sangue, dei figli, un nucleo da non abbandonare mai – senza essere cresciuti da estranei che quasi non ricordavano il tuo nome, senza essere spostati da un gruppo all’altro sradicando i propri legami ad ogni cambio di classe, senza dover chiamare fratelli persone che s’interessavano a te solo in quanto futuro adulto di possibile utilità. Avere la certezza che prima o poi sarebbe finito tutto, le gioie e le sofferenze, i legami, le fatiche. Avere su di sé aspettative umane, non il peso soffocante di un compito divino. Avere la libertà di amare e odiare e chiedere e decidere.
Doveva essere molto strano, sì.
...doveva essere bello.
Prima che si rendesse conto di averlo pensato, uno strillo acuto attirò l’attenzione di tutti gli allievi, distogliendola da quelle riflessioni. Risuonò un’altra volta e un’altra ancora, e ancora e ancora, sempre più flebile ma sempre più bestiale, disperato. Raccapricciante.
Avevano da poco visto la settima alba di lezione e ancora l’inquietudine per le ombre notturne non li aveva abbandonati del tutto, così come il sonno tardava a lasciare gli Umani: doveva essere per questo che tutti continuavano indifferenti le proprie attività, senza dar segno di essersi accorti di nulla, mentre i Cherubini sorvolavano la manciata di capanne con frenesia, cercando di capire da dove provenisse quello strillo agghiacciante. L’insegnante rimase impassibile, senza rimproverarli o rassicurarli, e con un gesto pacato della mano fece segno di attendere al Custode e al Guardiano che si stavano avvicinando.
«Qui.» chiamò Ramiel, l’allieva, con voce rotta. Subito i compagni la raggiunsero ai limiti del villaggio, appena prima delle ultime abitazioni, sopra un vicolo angusto che quasi non avevano notato. Dei bambini erano in cerchio, chini su qualcosa – forse ciò che emetteva quegli strilli, ormai ridotti ad un lamento sommesso, quasi coperto da soddisfatte risa infantili.
«Sedete pure in tre o quattro su ogni tetto: gli Umani non si accorgeranno di nulla, il Velo vi rende silenziosi e inconcepibili. Crederanno sia qualche animale, se sentiranno qualcosa. Su, che aspettate?» li esortò l’insegnante, imperscrutabile «Sedete e godetevi lo spettacolo.»
Obbedirono, incerti, posandosi cautamente sui tetti dalla consistenza cedevole. Non capivano cosa stesse accadendo: i bambini scagliavano sassi e calci verso terra, così compatti che dall’alto non si distingueva ciò che stavano colpendo. Ridevano ed esultavano in una lingua sconosciuta, roca e gutturale, che però l’arcangelo comprendeva.
«Non tradurrò ciò che stanno dicendo. Posso dirvi che sono insulti, ingiurie, ma non ho intenzione di sporcarmene le labbra.» disse, gelida.
Il lamento, intanto, diveniva sempre più flebile.
L’inquietudine germogliava nei Cherubini, un vago senso d’orrore, l’impressione che ciò che stava accadendo fosse sbagliato – eppure quei bambini sembravano così allegri, così puri! Come potevano fare qualcosa di male?
«Bambini, venite ad aiutarmi.» tradusse Ramiel, quando una donna, gridando, si affacciò all’ingresso del vicolo. Giunta la risposta di due dei ragazzini, tradusse ancora: «Ancora un po’, madre. Sì, madre, ancora un po’, abbiamo catturato un gatto.» ascoltò la donna «Venite, ho detto, e state lontani da quella bestia. E anche voi... – ha usato dei nomi, qui – vostro fratello vi cerca.»
Un singhiozzo strozzato sfuggì a diverse allieve, quando i cinque bambini corsero nella strada principale, rivelando qualcosa rannicchiato a terra. Un ammasso di pelo nero e carne esposta; ferite profonde, graffi, lacerazioni. E tanto, tanto, tantissimo rosso. Qualcuno chiuse gli occhi o stornò lo sguardo, disgustato; altri fissarono Ramiel, senza capire perché stesse loro mostrando quel... quella cosa. L’omonima allieva si strinse il capo tra le mani, artigliando le ciocche rosse con angoscia, e si accasciò contro la spalla di Amitiel, accanto a lei.
«Gatto.» mormorò quella, stordita. Gatto. Doveva chiamarsi così, quella cosa. Un animale. Gatto. Gatto gatto gatto. Era un bell’animale – in precedenza, per lo meno, lo era stato. Gatto.
Un massacro.
Quei bambini ridevano, esultavano e uccidevano.
Gatto.
Un maledetto massacro.
Gatto gatto gatto.
Rosso. Sangue. Ovunque. Rosso. Uguale alle ali dei Cherubini alla prima classe, e non sarebbe più riuscita, mai mai mai più riuscita, a guardarne uno senza aver voglia di piangere e urlare.
Gatto.
Amitiel, senza pensare, si gettò dal tetto verso quel corpo in agonia. Vi atterrò di fronte con un tonfo attutito e, inginocchiata sul terriccio impastato di sangue, allungò una mano tremante per sfiorarlo. Quello emise un flebile lamento ancor prima che lo toccasse, terrorizzato, volgendosi a fatica verso di lei – forse il Velo funzionava solo sugli Umani. Aveva perso un occhio, notò il cherubino, fermando la mano a mezz’aria con un sussulto. Tutto il muso era percorso da ferite dai bordi slabbrati, là dove le pietre avevano colpito con più forza. Non osò guardare da vicino il resto del corpo: bastavano il dolore e il panico folle dell’animale a farle capire quanto quei bambini, ridendo ed esultando, si fossero accaniti su di lui. Sanno anche essere crudeli. Ramiel aveva ragione.
Ma il gatto, il gatto cosa aveva fatto? Perché quel massacro?
Gatto. Gatto gatto gatto.
Gatto.
Cosa c’entrava il gatto?
Si accorse che le lacrime le avevano inondato il viso solo quando alzò gli occhi da quell’ammasso di carne e sangue. All’entrata del vicolo stava immobile una figura esile, resa sfocata dal pianto, ma comunque riconoscibile come un bambino piuttosto piccolo. Non era uno dei cinque che avevano massacrato il gatto – gatto gatto gatto, cosa c’entrava il gatto? –, o si sarebbe probabilmente scagliata contro di lui, senza curarsi della reazione dell’insegnante.
Il bambino non si mosse, fissando l’animale da sotto la frangia scura, con espressione stupita e disgustata. Non sembrava vedere Amitiel, o accorgersi dell’ombra che proiettava, o delle macchie di sangue – sangue, sangue, sangue ovunque, sangue del gatto, ma cosa c’entrava il gatto? – sui suoi vestiti. Probabilmente non vedeva nemmeno quelle.
Le sembrò quasi che il bambino avesse alzato lo sguardo su di lei, fissandola per qualche istante, per poi lasciarlo vagare lungo i tetti dov’erano radunati gli altri Cherubini. Ma probabilmente lo stava solo distogliendo dal corpo del gatto, perché un secondo dopo diede le spalle al vicolo e corse via. Doveva essere rimasto disgustato anche lui per quel massacro. Ma gli altri bambini, perché l’avevano fatto? Perché ridevano esultavano uccidevano?
«Perché?» sfiatò, dando voce all’interrogativo che silenziosamente si stavano ponendo tutti.
Alzò lo sguardo verso l’insegnante. Ramiel, affiancata dal solito Guardiano e da un Custode che non conosceva, era in piedi su un tetto, impassibile e silenziosa. Distante. Come se il massacro non l’avesse toccata.
Ma c’era rosso, così tanto rosso – rosso come il terriccio impastato di sangue, rosso come le ali dei Cherubini, rosso come i capelli di Ramiel che era atterrata accanto a lei e adesso la stava allontanando da quel corpo in agonia.
«Perché?» ripeté più forte.
«I bambini sanno essere crudeli.» le rispose l’insegnante, impassibile «Gli Umani sanno essere crudeli. Tentati dagli Sconsacrati, si allontanano da Dio, dalla sua luce, dalla sua bontà, e fanno questo. O di peggio, anche; e su altri Umani, non su animali.»
«Non c’erano Demoni, qui. Non c’erano Caduti. Non sono stati tentati, per loro era un gioco. E anche gli altri Umani... perché non li hanno fermati, quando hanno sentito gridare il gatto? Perché?»
«Perché è parte della natura umana.»
«Ma-»
«Amitiel.» la richiamò «Parleremo anche di questo, ma ora dobbiamo andare.»
«E l’animale?» chiese Ramiel, l’allieva, prima che la compagna potesse ribattere ancora.
«Morirà.» le rispose la donna, con un bagliore di amarezza nello sguardo freddo.
«Non possiamo salvarlo?»
«No, Ramiel. Non possiamo interferire con le decisioni degli Umani o le loro conseguenze.»
«Per favore.» mormorò quella, chinando il capo, in lacrime «Per favore
«No.»
Gli altri allievi tacevano, sconvolti e nauseati. Era stata loro insegnata la compassione; perché, allora, non potevano alleviare le sofferenze di una vittima?
Perché gli Umani avevano scelto di farlo soffrire.
Il rancore serpeggiava tra le loro coscienze pure, sporcandole.


«Ramiel.» le sussurrò all’orecchio il Guardiano accanto a lei, chinandosi per essere alla sua altezza.
«Non dire niente.»
«Ramiel, è solo un gatto.»
«Devono imparare.»
«È solo un gatto, ed è vivo. Ci è ancora permesso salvarlo.»
«Ma loro devono imparare.»
«Guarda le loro essenze. Vuoi davvero farli sporcare per questo?» le posò una mano sulla spalla esile, senza stringere «Non soffocare la loro compassione. Alimentala e impareranno ad averne anche per gli Umani.»
«Non davanti ai Cherubini, Gabriel, lo sai.» mormorò, scostandosi dal suo tocco.
«Non stanno guardando noi. Stanno guardando la morte – la stanno imparando nel modo peggiore, Ramiel.»
«Se li assecondo, crederanno di potersi intromettere quando vogliono.»
«Spiega i limiti, ma non renderli più rigidi di quanto già non siano. È tuo dovere incoraggiare la loro compassione.»
«Sono io l’insegnante, Guardiano. È tuo dovere proteggerci, non spiegarmi come svolgere il mio compito.»
«È mio dovere starti accanto.» ribatté, posandole di nuovo una mano sulla spalla.
«Gabriel... i Cherubini.» protestò, allontanandosi per la seconda volta.
«Cherubini, sì. Hanno tempo per imparare i limiti. Per ora, insegna la compassione – non soffocarla, o rischia di tramutarsi in rancore.»
«...queste lezioni mi uccidono.» sospirò.
«È tuo dovere.»
«Mi uccidono ugualmente.» mormorò «Mi fa male, vederli così.»
«Potresti evitarlo.»
«Non posso essere morbida, lo sai. Non in questo.»
«Ogni volta lo stesso discorso, hai notato?»
Il loro volto, sino a quel momento, era rimasto congelato nell’impassibilità; solo un lieve sorriso increspò le labbra di Ramiel, a quelle parole, ma scomparve subito.
«Ogni volta lo stesso discorso» ripeté il Guardiano «e ogni volta finisce nello stesso modo.»
«...e io che ho chiesto un gruppo della quinta proprio per evitare queste lezioni.»
«Quinta o sesta, finirai sempre per darmi ragione.» affermò con un ghigno malcelato.
«Ricordami di chiedere la seconda classe, la prossima volta. Almeno andrò sul sicuro.»
«Oh, Ramiel, così mi ferisci. In tal modo non ci vedremmo mai.»
«Appunto.»
Soffocò una risata – era suo dovere mostrarsi serio – e si voltò verso i Cherubini in attesa di ordini. Incoraggio l’altra con una lieve stretta, poi allontanò la mano dalla sua spalla e spiccò un balzo verso le due giovani inginocchiate davanti all’animale. Udì Ramiel dare il permesso di salvare il gatto e si chinò per prenderlo tra le mani, ma l’allieva dai capelli rossi lo precedette: sfiorandolo con dita delicate, chiuse gli occhi e respirò piano, in un tentativo di calmarsi.
Gabriel non si aspettava che riuscisse davvero a fare qualcosa: era giovane, inesperta e autodidatta, e l’animale in fin di vita. Invece, sotto le mani del cherubino – inaspettatamente ferme, come quelle di un vero Guaritore – s’intravide un bagliore bianco, lingue sottili che lambivano le ferite e placavano il dolore. Era solo una pallida imitazione del vero Fuoco della Guarigione, ma stava funzionando: lentamente gli squarci si richiusero in evidenti cicatrici, le articolazioni piegate in angoli anormali assunsero pose più naturali, lo sguardo perse l’annebbiamento dato dalla sofferenza e si fece più lucido. Quando la giovane lasciò ricadere le mani in grembo, stanca, Gabriel avvertì le essenze dei Cherubini bloccare il proprio ansioso turbinio, congelate nell’attesa. Solo le più mature si tesero per ampliare le Percezioni, senza ottenere nulla – appena in grado di intuire le anime umane, la scintilla di vita di un animale era troppo incerta e flebile perché riuscissero a coglierla.
La scintilla di quell’animale, in particolare, era quasi sul punto di estinguersi; ma c’era.
Se ne accorsero anche gli allievi, quando il gatto si alzò barcollando e corse via, terrorizzato. Vivo.
Le essenze tornarono a vorticare, in preda al sollievo e alla gioia, il rancore già diminuito. Era un cuore pulsante di emozioni, intense come sapevano essere solo quelle dei sensibili Cherubini. Il Guardiano colse un sorriso sul volto di Ramiel, più adatto dell’espressione gelida che aveva simulato fino a quel momento, e fu quasi certo di sorridere a propria volta. Ma era suo dovere rimanere vigile e lucido, e subito pensò che quell’impeto di esultanza era troppo percepibile: la cautela prestata fino ad allora sarebbe stata inutile, con quell’invito a venire individuati e attaccati.
Gettò uno sguardo inquieto a Ramiel, cui lei rispose con un movimento brusco della mano – il polso esile ruotato di scatto verso di sé, le dita sottili inarcate come artigli. Il gesto di una belva che ritira l’arto ferito; il gesto di un Guardiano che suggerisce di andarsene. E Ramiel, sotto i sorrisi e l’aria materna, era Guardiana e belva.


I colori si mordevano l’un l’altro, ferendo i suoi occhi sconvolti. Non era più il silenzio di una pianura ingiallita dal sole o il fruscio di un bosco nero di ombre. Non era più la dolcezza dell’affetto materno o l’immagine cupa di un’antica leggenda. Non era più nulla ed era tutto: un turbinio di colori violenti di cui non capiva il senso, macchie indistinte che non riusciva a mettere a fuoco. Solo pochi dettagli erano chiari, netti come cicatrici.
Poteva incolpare le lacrime che continuavano ad inondarle il viso, o l’errore era solo nella sua mente angosciata?
C’era il rosso del sangue sulle sue mani, quello lo vedeva bene, e sul terreno e sulla divisa bianca. E rosso anche sulle sue ali, così nitido che avrebbe voluto strapparsele via, pur di non vedere le piume che le sfioravano le spalle.
C’era il nero del pelo – quel poco ancora integro, quel poco non insanguinato – del gatto. E anche se Ramiel aveva dato il permesso di salvarlo, e anche se l’altra Ramiel l’aveva guarito, e anche se poi era diventato più nero e meno rosso, comunque rimaneva l’angoscia. La rabbia. Nera, la immaginava quella rabbia, perché rosso era già l’orrore.
C’era l’azzurro del cielo a cui aveva alzato gli occhi, un azzurro spietato e indifferente, che non si tingeva di grigio e non si bagnava di pioggia. Non per il dolore di un gatto. Non per la crudeltà di un bambino. Non per le lacrime di un cherubino. Dov’era l’amore, dov’era la compassione?
C’era la voce distaccata di Ramiel che ordinava di andarsene, senza un accenno di dolcezza, senza una rassicurazione. Era brava a nascondere le emozioni, la donna, ma Amitiel non lo sapeva: per lei, quella voce aveva solo il colore del cristallo – un bagliore trasparente, abbagliante, impietoso. L’avrebbe paragonata al ghiaccio, se l’avesse conosciuto.
I colori si mordevano l’un l’altro, ferendo il suo animo nero di rabbia e rosso d’orrore.





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Angolo autrice
Grazie per letture e preferiti/seguite/ricordate. State diventando sempre di più *^* E, come sempre, un ringraziamento speciale a chi commenta! Se avete dubbi/consigli/critiche, sarò ben felice di rispondervi.
Se trovate ripetizioni di frasi/verbi a poca distanza, sono volute. Amitiel è troppo sconvolta per non avere pensieri monotoni, quasi circolari.
Al prossimo aggiornamento!
   
 
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