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Autore: Redrum    12/11/2006    2 recensioni
Quarto e centrale episodio della saga di Ray. Forse troppo crudo. Reale. Il più cupo, finora. Da adesso tutto cambierà.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
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L’ALBA NERA

E invece quell’abbraccio finì. Fu inevitabile, come farti schizzare la pancia dalle onde appena entri in acqua, avete presente, no? Quando tu non vuoi bagnarti perché hai freddo, e tiri in dentro l’addome, ma alla fine arriva un’onda e ti spruzza lo stomaco con piccole goccioline maledettamente ghiacciate. Mi è accaduto così, più o meno. Solo che io volevo che l’onda mi colpisse di nuovo, così mi ero immerso speranzoso nel mio mare, per ritrovarmi in bonaccia. Mare piatto, vento a forza zero. L’acqua nemmeno un po’ increspata. Che fregatura, eh? Fu così non solo per me, immagino. Un po’ tutti i miei amici – e anche quelli che non conoscevo, penso – si sono ritrovati disorientati e spaesati, in questo giugno maledetto del 1997, dopo la chiusura anticipata della scuola di Hogwarts. E’ stato un giorno tremendo, e non ricordo di aver mai pianto così tanto in tutta la mia vita. Adesso, se devo essere sincero, non ricordo nemmeno che giorno sia. Il funerale c’è stato un giorno dopo la morte del Preside… Dio, quella notte. Il 6 giugno. Quella non la scorderò mai più, su questo non ci sono dubbi. Ora nessuno di noi ha più dove andare… tutto quello che abbiamo fatto è stato distrutto di colpo, senza alcun preavviso. Siamo stati tutti divisi. Non so più dove sia Steve, forse se n’è andato lontano con la sua famiglia, chissà. Luke, Sid, Ryan, Michael… chi li ha più visti? Non ho idea di che fine abbia fatto Eric, Eka se ne è andata chissà dove senza nemmeno salutarmi, Nick sarà a casa sua nascosto a farsi i cavoli suoi… dopotutto è un Purosangue, e se Voi-Sapete-Chi ha intenzione di sterminare i Mezzosangue, beh… Lui è a posto per un po’. Almeno finchè i Mangiamorte non scoprono che i suoi nonni erano nell’Ordine della Fenice. Non ho più visto Johnny, Beverly, Becky Shadwell… Chissà dove sono finiti Daniel e Simon, probabilmente insieme a fare scorta di fumetti da leggere. Ho perso di vista pure le mie cugine Ellie e Jane… Jack – che ora è accanto a me – mi ha detto che sono andate insieme a nascondersi con i suoi genitori in una casa su una collina, in un posto con il nome di un antenato dei Grifondoro, o qualcosa di simile. Sto insieme anche a Sal, Liam e Mark: come me, sono gli unici a non volersi nascondere. Preferiscono stare a giro, a cercare di capire gli sviluppi della guerra imminente. Già, perché la guerra, checché ne dicano quelli al Ministero, ci sarà. E sarà tremenda.

Ormai l’avete capito, ma ho perso di vista anche Iris… e Julie. Di loro, veramente, non so più nulla. Ho paura che sia successo loro qualcosa di grave, e per questo ogni mattina spulcio le pagine della Gazzetta del Profeta, ma senza alcun risultato. Meno male. Spero di poterla rivedere… sì, lei, Julie. Spero di incontrarla di nuovo. Anche se il mare ormai è in bonaccia. Non sto a dirvi altro, sarebbe noioso e – almeno per me – scomodo. Adesso devo solo pensare alla situazione in Inghilterra: Voi-Sapete-Chi non sta lasciando molte tracce di sé, e questo fa pensare alla calma prima della tempesta. Bene, speriamo che questa tempesta arrivi presto, così incresperà di nuovo il mare, e io potrò bagnarmi di nuovo con le sue onde. Non so cosa stia succedendo nel resto del mondo, ma ho come la brutta impressione che questa guerra non si limiterà alla Gran Bretagna. Spero solo di sbagliarmi.

Mi alzo in piedi, staccando la schiena dalla corteccia dell’acero. Qualche frammento di legno e qualche goccia di resina probabilmente mi sono rimasti appiccicati alla maglietta, ma non mi importa un granché, a dire la verità. Indirizzo verso l’alba lo sguardo ancora velato dal sonno. E’ un’alba strana, oscura, gonfia di pioggia: un’alba nera. Se devo essere sincero rispecchia un po’ il mio stato d’animo, già provato da una scomoda dormita ai piedi di un albero, terminata alle cinque e mezza di mattina in modo un po’ brusco: mi sa che a svegliarmi è stato quel dannato gallo della fattoria dei Beckford, giù in fondo alla vallata. Un giorno o l’altro lo strangolo, e la vedremo chi canta. Mi giro verso i miei amici, ancora dormienti. I sacchi a pelo su cui si sono messi ormai sono quasi del tutto stropicciati, e oserei dire che una buona metà delle loro superfici non svolge il proprio compito, a giudicare dalla posizione di Sal, che – immerso fino ai denti nell’erba – occupa praticamente tutto lo spazio di Jack: mi meraviglia che mio cugino non si sia ancora svegliato e non l’abbia menato… beh, lo farà tra breve. Mark è quello più composto, sdraiato su di un fianco con la faccia rivolta verso il fiume, una striscia bluastra che taglia in due la valle sottostante. Liam invece se ne sta raggomitolato come un gatto, con la testa dalla chioma riccioluta appoggiata a una radice particolarmente rigonfia. Percorro una decina di metri lontano dal posto dove ho dormito fino a pochi secondi fa, e scuoto le scarpe da ginnastica per liberarmi dagli sterpi. Mia madre sarà a casa, in pensiero per me, per i miei cugini, per tutti noi… Ma ormai non ha più senso chiudersi in casa, non più, ora. I tempi sono cambiati, e mia madre lo sa. Anche mio padre lo sa. Lo sanno tutti, e noi sappiamo quando è il momento di correre al riparo. Ma per ora dobbiamo svolgere il nostro compito: dobbiamo andare in città per vedere com’è la situazione, per cercare i nostri compagni. Gli altri sono sempre addormentati. Li lascerò dormire ancora un po’, poi li sveglierò e partiremo verso la valle. Mi sembra ancora impossibile che qualche settimana fa ero a scuola, preoccupato di venire espulso per colpa di Liam e delle sue droghe leggere. E ora sono qui, a passare la notte su una collina, all’aperto, sotto un albero, con quattro ragazzi come me, a fare la vedetta a turni. Così è la vita, gente.

*

La città è quasi deserta. C’è un cielo plumbeo che annerisce tutto sotto di lui, come un lugubre carboncino. Tra la nebbia un gatto raspa con le zampette in una pozza di olio rappreso sull’asfalto. Le imposte alle finestre sono tutte sbarrate. I cassonetti della spazzatura traboccano di rifiuti: i netturbini certo non verranno a ritirarli, di questi tempi. Jack scruta l’orizzonte come un cecchino, alla ricerca di movimenti sospetti. Non ci sono Marchi Neri o segni alcuni del passaggio di Mangiamorte. Ci muoviamo in gruppo compatto, le bacchette magiche strette nei pugni, sotto le magliette. Sostiamo per un attimo sotto un lampione storto, dove Liam tira fuori una bottiglia d’acqua, la sorseggia un po’, e poi la passa a Mark. Beviamo tutti a turno, per rinfrescarci. Intanto un foglio di giornale annerito ci svolazza accanto, frusciando contro lo zoccolo del marciapiede.

«Cosa cavolo ci facciamo, qui?», mormoro una volta staccate le labbra dalla bottiglietta di plastica. Jack la afferra dalle mie mani e la passa a Liam, che la ripone nello zaino sdrucito.

«Cerchiamo notizie», dice semplicemente, e poi indica il giornale roteante sopra un tombino. «Raccoglilo, Ray».

Mi chino e lo prendo per un lembo. A giudicare dalla superficie della carta, sembra che si sia appena fatto un viaggetto su una pila di sterco di cavallo. Ma comunque.

«Cosa dice?», fa Mark allungando lo sguardo per cercare di scorgere almeno un titolo significativo. Jack scuote la testa. Evidentemente non c’è scritto niente che ci interessi. Mio cugino però non butta via la pagina: la ripiega e se la ficca in tasca, corrucciato.

«Andiamo, su», propone in tono spiccio. «Magari troviamo qualcos’altro».

Ci allontaniamo dal lampione, lungo la carreggiata, e non posso fare a meno di chiedermi perché diavolo non possiamo parlare come una volta. Nessuno di noi ha molta voglia di scherzare, immagino. Evidentemente mi sbaglio, perché Mark – apparentemente senza motivo alcuno – se ne esce con una battuta su due cavalieri che incrociano i loro peni in segno di reciproca stima. Sal scoppia a ridere. Dopodiché non ci vuole molto perché l’atmosfera si allenti un po’, e io ne sono segretamente lieto. Jack alza la testa verso le facciate delle case, mezze occultate dalla nebbia.

«Cavolo, gente… sembra Silent Hill», sibila voltandosi verso di noi con gli occhi sgranati. Non ho la minima idea di che cosa stia blaterando. Comunque annuisco per farlo contento. Liam intanto sta calciando una lattina di Pepsi, facendola sbatacchiare sull’asfalto, e Mark gli intima di smetterla.

«Ho fame», borbotta Sal.

«Anch’io!», ringhia Jack tutt’a un tratto. «Ma cerco di non pensarci, e se qualcuno mi ci fa pensare gli mangio le palle!»

Io ho voglia di un gelato, ma non lo dico a Jack perché ho una stravagante teoria secondo cui i genitali potrebbero servirmi, prima o poi. Certo, è solo una teoria, eh! Mentre Mark appoggia il volto alla vetrina polverosa di un bar, schermandosi gli occhi con le palme delle mani, io tossisco sonoramente. Cavolo, ci mancava anche il mal di gola. E’ il prezzo da pagare per dormire sotto le stelle. Mi blocco subito, perché ho sentito un rumore. Anche Liam sembra averlo sentito, perché ha estratto la bacchetta e la sta puntando verso qualcosa oltre un banco di nebbia che sembra una cassetta delle lettere. Ma c’è qualcuno dietro. E’ una persona che avanza zoppicando e pestando sul marciapiede con una verga. Appena esce allo scoperto, vedo che è un uomo sui sessant’anni con un bastone da passeggio, delle pantofole spelacchiate ai piedi, pantaloni della tuta incrostati di saliva e orina, e un maglione fatto in casa agganciato alle spalle ricurve. Fissa Liam spaurito, con gli antichi occhi azzurri tremolanti di paura come candele, dietro i radi capelli brizzolati. Il vecchio punta contro mio cugino il dito flagellato dall’artrite.

«Mi arrendo! Non puntarmi quella pistola addosso!», geme coprendosi il volto con l’altra mano, quella che regge il bastone. Liam abbassa la bacchetta e la infila nella tasca posteriore dei jeans, guardandoci in cerca di supporto.

«N-non era una pistola, s-signore…», cerca di spiegare al vecchio.

«Già», interviene Jack. «E’ una bacchetta». L’anziano signore rilassa le braccia e le lascia ricadere lungo il corpo, ma non sembra reagire alla notizia di avere davanti a sé dei giovani maghi.

«E’ un Babbano», fa Mark scuotendo la testa. Io mi chino avvicinando la bocca all’orecchio del signore.

«Cosa sta succedendo in questa città?», gli chiedo.

«Non… non mi ricordo…», mormora aggrottando le folte sopracciglia. «Io… ci sono dei… ci sono i terroristi, qua fuori»

Appoggio la mano sulla spalla di Jack.

«Ecco cosa hanno detto i telegiornali locali ai Babbani… Ecco perché sono tutti chiusi in casa», sussurro a mio cugino.

«Già… il Ministero avrà avvertito maghi e non-maghi in modi diversi, come quella volta con l’evasione di Black…»

«I miei vicini Babbani sapevano solo che era un pluriomicida latitante», interviene Mark.

«Okay…», mormoro, e poi mi rivolgo di nuovo al vecchio, che per tutta la nostra discussione è rimasto immobile a fissarsi le punte delle babbucce. «Senta… Lei deve ritornare a casa, è pericoloso stare qua fuori»

Il signore si guarda intorno come un topolino spaurito.

«Io non… io non ricordo più…», sospira tremante. Un brivido mi percorre la spina dorsale. Quest’uomo ha l’Alzheimer, penso terrorizzato. Come cavolo facciamo a riportarlo a casa?

«Stia tranquillo», dice Sal al signore, sistemandosi la collana che porta appesa al collo. «Ora, si ricorda come si chiama?»

«Peter», fa il vecchio, un po’ più sicuro di sé.

«Okay… e di cognome?»

Il vecchio Peter sembra fare uno sforzo immenso per ricordare, poi inarca le sopracciglia e si erge in tutta la sua statura, come se dovesse ricevere un premio.

«Il mio nome è Peter Galsworthy, insegnante di letteratura inglese», declama chiudendo gli occhi, in tutto e per tutto simile a un bambino delle elementari che recita una poesia imparata a memoria. «Ma molti mi chiamano ‘il vecchio Pete’…», aggiunge sottovoce come per rivelarci un segreto. «Pensano che sia un po’ strambo, sapete?»

«Lei non è strambo, si è solo perso», fa distrattamente Liam, che intanto è entrato in una cabina telefonica. «Porca zozza, non c’è l’elenco!»

«Proviamo in quel bar», propone Mark indicando la vetrina attraverso cui aveva guardato poco prima, «E’ vuoto, magari cerchiamo lì»

«Buona idea», annuisce Jack. «Andiamo, su».

Senza farsi vedere dal vecchio punta la bacchetta contro la maniglia della porta e fa scattare la serratura con un incantesimo non verbale. Dopodiché la tiene aperta e ci fa passare tutti, vecchio Pete compreso: alla fine entra e la richiude.

Il bar, se possibile, è ancora più oscuro e tetro della strada, nonostante le finestre e le vetrate siano spalancate. Il bancone è coperto di cartacce, macchie di the, interessanti costellazioni di zucchero, e alcuni anelli di caffè lasciati da tazze appoggiate lì chissà da quanto. Uno straccio sudicio pende dall’orlo del banco, sgocciolando roba nerastra sul pavimento piastrellato. C’è un poster sbilenco dei West Ham attaccato al muro, ormai sbiadito dagli anni, mentre appeso al lampadario sopra il tavolo da biliardo sta un 33 giri di Bob Dylan, e giurerei di aver visto un profilattico usato, laggiù per terra. Jack scruta nell’oscurità alla ricerca del telefono, e poi indica un angolo della stanza con l’indice teso. Sal corre verso l’apparecchio e rufola nel vano sotto di esso. Ne estrae un grosso elenco telefonico gonfio per l’umidità. Lo apre e sfoglia le pagine febbrilmente, mentre noi ci avviciniamo a lui. Il vecchio Pete invece preferisce colpire col bastone la sporcizia sul pavimento. Mi auguro che non trovi il profilattico.

«Ecco! Galsworthy!», esulta Sal colpendo col dito in fondo a una pagina. «Ce ne sono tre, ma il più vicino a questa zona è ‘Galsworthy, Jonathan, Addison Street, 4198’»

«Ah! Addison!», esclama Pete tutto contento, e Liam allarga le braccia con un sorriso.

«Visto? Si ricorda! Siamo a posto», dice, anche se molto probabilmente il vecchio non si ricorda un bel nulla. Secondo me non ha proprio capito nulla di ciò di cui stiamo parlando. Certo, forse in uno sprazzo di lucidità si è riferito a quel giornalista del ‘700 inglese, ma meglio non essere troppo ottimisti. Afferro Pete per la collottola proprio mentre sta per utilizzare una tazza come pantofola, e, aiutato dai miei amici, lo conduco fuori dal bar.

*

Addison Street è in realtà una viuzza alquanto stretta e angusta; le case non hanno giardino e le loro facciate si fronteggiano – da un lato all’altro della strada – a una distanza di sei o sette metri, a occhio e croce. Il numero 4198 però ha una porta molto più pulita di quelle adiacenti, con un lucido battente in ottone posto al centro, e una piccola cassetta delle lettere incassata nel muro accanto allo stipite. Sull’architrave una lunetta di vetro trasparente lascia intravedere l’anticamera all’interno. Jack si mette accanto a me, dinanzi alla porta, suona il campanello, e aspettiamo. Sono un po’ preoccupato perché il vecchio non dà segni di aver riconosciuto la sua abitazione, anzi, sembra assai più interessato a un frammento verde di bottiglia di birra che luccica sull’asfalto. Poi il portone si apre lentamente, e un uomo baffuto sulla quarantina, con capelli corvini ormai limitati ai lati della testa, si affaccia lanciando sguardi timidi all’indirizzo mio e di Jack.

«Sì?», mormora cercando di apparire disinvolto. «Desiderate qualcosa, ragazzi?»

Sal si avvicina a me e mio cugino, mentre Mark e Liam cercano di distogliere Pete dalla sua nuova occupazione.

«Senta…», inizia Jack. «Lei è il signor Jonathan Galsworthy?»

«In persona. Mi cercavate?»

«Beh, vede», si intromette Sal. «noi abbiamo trovato suo… beh, insomma un suo parente, non so…»

«…Abbiamo ritrovato Peter, signore», finisco io per lui. Jonathan spalanca gli occhioni, allunga la testa oltre le spalle di Jack, e per la prima volta si accorge del vecchio, che se ne sta accanto a Mark e Liam, intento a controllarsi le tasche posteriori dei pantaloni.

«Papà!», esclama, e il vecchio Pete volta il capo, sorpreso.

«Dice a me?», borbotta sommessamente a Mark, che annuisce. Liam cerca di non ridere e si guarda i piedi con le labbra strette in una smorfia. Intanto Pete ha posato gli occhi sul figlio e gli ha fatto un cenno disinvolto, per ritornare a guardarsi il didietro.

«Ragazzi, non so come ringraziarvi», balbetta Jonathan con gli occhi luccicanti. «Non mi ero nemmeno accorto che era sparito, sapete, lui ha una malattia molto grave, non si ricorda, e a volte sparisce…»

«Sì, lo so, anche mia nonna aveva l’Alzheimer», faccio io in tono comprensivo.

«Ah, lo chiamano così, ora?», chiede Jonathan stupito. Io aggrotto le sopracciglia e non dico nulla. Ma come, ‘ora’? Quel morbo lo chiamano così da quando l’hanno scoperto!, mi domando fra me e me. Jonathan mi ignora e continua.

«Non fa niente, comunque io l’avevo lasciato in camera, dopo quell’attacco non era più prudente farlo andare in giro per la città…»

Accidenti, penso. Un attacco di cuore. Meno male che non gli è successo quando era con noi.

«…e così io ero di sotto in cucina, mi preparavo il the, e mi ero messo a leggere, e poi siete venuti voi!», esclama stringendoci la mano a tutti. «Credevo foste i miei vicini di casa, fanno un tale chiasso... E il povero Pete... diamine, non l’avevo neanche sentito scender giù e uscire di casa, si sarà Smaterializzato senza rendersene conto, poverino, a volte succede, non è vero, papà?»

Il vecchio Pete annuisce con vigore ed esclama: «Urca!», ma io non ci faccio caso, perché sto pensando a tutt’altro. Anche i miei compagni hanno assunto la mia stessa espressione stupefatta.

«Signor Galsworthy…», mormoro. «Lei è... non è un Babbano?»

Jonathan scoppia a ridere fragorosamente.

«Io? No, certo che no! E nemmeno Peter lo è, se è per questo!»

«Ma allora... quel discorso sulla malattia... Lei non sapeva il nome della demenza senile...»

«Macché demenza senile!», fa Jonathan sventolando la mano con impazienza. «Peter è stato ricoverato al San Mungo dopo un attacco dei Mangiamorte un mese fa!»

«Allora... L’attacco di cui parlava...», chiedo io, sentendomi sempre più un perfetto imbecille.

«Già, è stato orribile...», annuisce il signor Galsworthy. «Volete entrare? Il the dev’essere quasi pronto»

Accettiamo con piacere, e Jonathan, dopo aver fatto entrare il padre, ci conduce attraverso la famosa anticamera, dove un attaccapanni soffre sotto il peso di innumerevoli cappotti pelosi. Superiamo la cucina, dove un bollitore sta sospeso da solo sopra un fornello, e una bustina di the verde sta svolazzando attraverso la stanza, ed entriamo nel salotto, dove Jonathan ci fa sedere su delle poltrone, mentre lui va a mettere a letto il vecchio Pete. La stanza è ben arredata, e i cuscini delle poltrone sono comodi e caldamente accoglienti. Liam si sporge in avanti per afferrare un cioccolatino da una scatoletta in legno al centro del tavolo, ma Jack gli colpisce il dorso della mano con forza. Quasi mi sto per complimentare con lui per il tentativo di rieducare quel disgraziato, ma poi mi accorgo che tutta quell’azione era per mangiarsi il cioccolatino. Mentre Jack rumina avido, Mark si alza e perlustra il salotto, fermandosi ad osservare una serie di foto in cornice appoggiate sopra una cassettiera in mogano. Dopo poco si volta verso di me all’improvviso, e nello stesso momento Jonathan fa il suo ingresso nella stanza.

«Allora... vi siete messi comodi?», chiede cortese sfregandosi le palme delle mani con vigore. «Prendete pure un cioccolatino, se volete, non fate complimenti!», aggiunge, e Jack gli sorride coi denti sporchi di cacao, poi allunga la mano e ne afferra una manciata dalla scatola. Mark si risiede accanto a me, e Sal appoggia i gomiti sulle ginocchia e si sporge verso Jonathan.

«Signor Galsworthy...», chiede lentamente. «Come mai si è messo a parlare di Smaterializzazione con dei perfetti sconosciuti... non sapeva se noi eravamo maghi o no...»

«Beh... ho riconosciuto quella», risponde lui indicando la collana di Sal. «Rumore Bianco, a Hogsmeade, giusto?»

«Ma come...?»

«Conosco anch’io quella bottega, la frequentavo quando ero giovane... ero anch’io un rockettaro, sai?»

«Davvero? Allora conosce Brandon Stewart, il proprietario?»

«Sal, idiota, come fa a conoscere Brandon, che ha ventitré anni?», lo schernisce Jack, e Sal arrossisce come un ferro incandescente.

«Il tuo amico ha ragione, figliolo... Però conoscevo Nathan Stewart, era lui il proprietario del negozio quando ci andavo io, e credo sia il padre del ragazzo che conosci tu», spiega Jonathan mettendosi a sedere su una sedia imbottita. «E’ tanto che non vado a Hogsmeade, ma chi ci va più?... Ahimè, di questi tempi, è meglio non vagare tanto per negozi... A proposito, voi che ci facevate, a giro per le strade? Non è prudente!»

«Stavamo cercando notizie... su cosa sta succedendo...», risponde Jack. «Lei, signore, ha sentito qualcosa di insolito, di questi tempi? Volevamo sapere quali sono le mosse dei seguaci di Lei-Sa-Chi...»

«Ah, ragazzi, ma voi andate proprio in cerca di guai...», gracchia Jonathan, ma si vede che sta ridendo con gli occhi. «Comunque, no, non si sente più niente da un bel po’, qua in città... E la gente sta in casa nascosta, ad aspettare, aspettare...»

«Ma allora cosa diavolo pensa di fare Lei-Sa-Chi?!», sbotta Liam. «Deve pur avere un piano!»

«Sembra stia aspettando qualcosa , prima di agire...», ipotizzo, ma non ne sono poi così convinto. Jack invece sembra accettare la mia tesi, infatti annuisce:

«... Boh, forse hai ragione, Ray.... Magari Tu-Sai-Chi sta radunando un esercito...»

«Quello era ovvio», fa Jonathan scuotendo la testa. «Il problema è, più tempo Voi-Sapete-Chi ci fa aspettare senza agire, significa che più tempo sta impiegando a radunare l’esercito... e più grande sarà l’esercito!»

«Dobbiamo crearne uno anche noi...», azzarda Liam. «Dobbiamo rivolgerci al Ministero per proporlo!»

«Il Ministero ci starà già pensando», dice Jonathan alzando le spalle. «Non potete pretendere di fare una cosa così grande e impegnativa tutti da soli... E’ meglio che andate, ora. Tornate a casa, e nascondetevi, come tutti quanti. E’ pericoloso vagare per la città, non si sa cosa potrebbe accadere, dico sul serio...»

Il signor Galsworthy si alza e ci conduce all’ingresso. Vedo con la coda dell’occhio Jack che agguanta l’ultima tonnellata di dolcetti, prima di uscire dal salotto. Jonathan tiene aperto il portone e ci fa uscire.

«Grazie ancora per tutto, ragazzi... Non so come avrei fatto senza di voi...»

«Grazie a lei per l’accoglienza...», fa Sal gentile.

«... E per i cioccolatini», aggiunge Jack con la bocca così piena che mi meraviglio che riesca ad emettere un qualsiasi suono. Liam si blocca sulla soglia e si volta verso l’uomo.

«Mi scusi, signor Galsworthy...», inizia mio cugino, grattandosi la nuca.

«Dimmi pure, figliolo.»

«Se... se dovesse esserci un esercito...», balbetta Liam a voce bassa, ma tutti noi riusciamo ad udirlo perfettamente. «... sì, insomma, se qualcuno organizzasse la controffensiva a Lei-Sa-Chi e ai suoi uomini... Lei parteciperebbe?»

Jonathan sembra pensarci per un’eternità prima di prendere una decisione.

«Certamente, ragazzi... Io ci sarò», annuisce con fermezza. «Ci sarebbero tutti. Tutti noi dovremmo esserci»

«Anche i Babbani?», chiede Liam chiudendo gli occhi come se stia aspettando l colpo di grazia di un boia, e subito rabbrividisco: l’idea è folle, ma non totalmente priva di senno. Jonathan evidentemente cerca di rimanere impassibile, ma il volto gli è diventato color cemento. La bocca gli trema lievemente, poi l’uomo la apre e risponde sottovoce.

«E’... è una pazzia», tartaglia. «... ma temo non ci sia altra scelta, sì»

Liam annuisce e fa un cenno di saluto a Jonatham. Noi lo imitiamo, e il signor Galsworthy socchiude gli occhi. Poi rientra in casa senza voltarsi indietro e chiude dietro di sé la porta massiccia del numero 4198.

Jack si volta e molla un paccone in testa a Liam.

«Si può sapere che ti salta in mente, di chiedere una cosa del genere?!», gli sibila rabbioso.

«Non è niente di male...», protesta Liam massaggiandosi la nuca. «Era solo una domanda...»

«... E quella minchiata sui Babbani? Da dove ti è uscita?!»

«Jack, non è...», inizio io lentamente. «... non è poi come stupida, come idea... voglio dire... se ci sarà una guerra della portata di cui ha parlato il signor Galsworthy, non sarà facile nasconderla ai Babbani... dovremmo farli partecipare con le loro armi, è in gioco anche la loro, di vita...». Jack mi lancia uno sguardo allucinato, come se non stesse credendo alle sue orecchie.

«Ma ti rendi conto di cosa comporterebbe una cosa del genere, Ray?», mi abbaia contro incredulo, e Mark lo segue a ruota.

«Si andrebbe incontro alla più vasta rivelazione del mondo magico mai vista prima! Il Ministero dovrebbe lavorare anni, per cancellare e modificare le memorie di tutti i Babbani!»

«E chissenefrega, ragazzi!», urla Sal all’improvviso. «Qui si sta parlando delle vite delle persone! Per quello che ne sappiamo, dopo la guerra potrebbe anche non esistere più, un Ministero... se non abbiamo un esercito, finiremo schiacciati! Non ci sarà più modo di tornare indietro, lo capite o no?»

«Sal ha perfettamente ragione», annuisce Liam serio. «Dobbiamo organizzare le nostre forze per contrastare Voi-Sapete-Chi...»

«...per essere pronti, quando attaccherà», concludo. «Nessuno ci impedisce di farlo. E nessuno impedisce ai Babbani di combattere insieme a noi, quando con la guerra sarà in ballo anche il loro destino»

«E allora che vuoi fare?», chiede Mark stupefatto. «Andare porta a porta a dire ai Babbani ‘mi scusi, i maghi esistono, sono uno di loro, uno dei nostri è diventato un perfetto stronzo e vuole annientarci tutti, che ne dice di prendere una pistola e unirsi a noi’?»

«Niente del genere. Spetterà al Ministero coinvolgere i non-maghi, quando sarà il momento. Più saremo, e meglio sarà... Galsworthy ha ragione, il Ministero starà già pensando al suo esercito... Ma questo non vuol dire che noi non possiamo aggiungerci il nostro

«Quindi che vuoi fare, Ray?», domanda Jack, e una luce nuova gli brilla negli occhi.

«Radunare tutti i nostri amici... tutti i ragazzi che troviamo. A Hogwarts eravamo tantissimi, non possono essere tutti spariti, no?»

«Già!», esclama Sal. «Harry Potter aveva organizzato l’ES, tempo fa! Possiamo cercare anche lui e i suoi amici!»

«Ci sto, ragazzi», fa Liam deciso. «E’ anche un’occasione per riunirci, no?»

«Va bene, avete ragione», accetta Mark, e posa la sua mano sulla mia spalla. «Ma... per i Babbani, come faremo? Dovremmo proporre noi, questa cosa, al Ministero!»

«Quello sarà l’ultimo passo... il più difficile», risponde Jack. «Intanto iniziamo a contattare tutti quelli che conosciamo, e iniziamo ad allenarci come fecero Potter e i suoi compagni, quell’anno a Hogwarts»

«Da chi possiamo andare per primi?», chiede Sal. «Chi è che sappiamo dove sta?»

«Mia sorella», risponde Jack. «E sua cugina Ellie», aggiunge accennando a me con il capo. «Stanno coi miei, in un paesino in collina»

«Jane saprà dove sono nascoste le sue amiche, possiamo ottenere delle informazioni da loro...», propone Mark.

«Allora andiamo», faccio io. «Com’è che si chiama, quel paesino, Jack?»

«Godric’s Hollow».

*

Godric’s Hollow è un insieme di poche decine di casette in legno e pietra arroccate su una collina verdeggiante, al di là del fiume, dalla parte opposta a quella dove ci siamo appostati io, Jack, Sal, Mark e Liam questa mattina. Lo posso vedere, ad alcuni chilometri di distanza, sopra di me, mentre coi miei compagni oltrepasso la fattoria dei Beckford – quella del gallo maledetto – e mi incammino su per il pendio erboso, affondando le scarpe da ginnastica nel terreno morbido. Gli altri sbuffano e ansimano per la fatica accanto a me, mano a mano che la pendenza e la scivolosità del terreno aumentano; il cielo sopra di noi è sempre carico di pioggia e velato da lembi grigi di nebbia. Una volta entrati nel villaggio raggiungiamo la quinta casa sulla destra, una piccola costruzione con un cancellino arrugginito e un muretto in pietra che la cinge da tutti i lati, lasciando pochi metri di giardino spelacchiato a circondare in spessore il perimetro dell’edificio. Mentre oltrepassiamo il cancello e percorriamo il vialetto di ghiaia fino alla porta d’ingresso, noto che tutte le finestre – non solo di questa, ma di tutte le altre case – sono completamente sbarrate o oscurate da tende. Bussiamo alla porta, e vedo una tenda scostarsi al piano di sopra: una ragazza con gli occhi verdi ci sta scrutando attentamente da dietro la finestra. Deve essere mia cugina, penso, e subito ne ho la conferma, perché sento la sua voce imprudentemente stentorea abbaiare:

«Jane! E’ Ray con gli altri ragazzi!»

Io mi colpisco la fronte con la mano.

«Ma che cavolo urla?!», sbuffo. «Stupida...»

Dopo nemmeno dieci secondi la porta si apre, e Jane, la sorella di Jack, ci accoglie dentro casa. La ragazza ha una camicetta rossa, pantaloni di jeans a mezza gamba, e delle Vans ai piedi, e porta i ricci capelli castani sciolti sulle spalle. Ha un gran sorriso stampato in faccia, e questo mi solleva molto: finalmente qualcuno felice, non avrei sopportato di vedere musi lunghi per tutto il nostro soggiorno lì. Lasciamo gli zaini e le felpe in anticamera, e subito Sal riesce a distruggere un soprammobile di vetro urtandolo per sbaglio col gomito: l’Elefante-In-Una-Cristalleria colpisce ancora. Jane ci dice che i suoi genitori sono in città. Mia cugina Ellie intanto ci raggiunge in cucina e ci prepara un delizioso caffè. Dopo averlo bevuto, rimaniamo seduti attorno al tavolo di legno, mentre con un incantesimo Jane fa riporre da sole le tazze, i piattini e i cucchiai. Ellie appoggia i gomiti sul ripiano e mette il mento tra le mani, fissando Sal con gli occhi sognanti: ha da sempre avuto una cotta per lui, lo sanno anche i sassi.

«Allora?», chiede. «Che combinate da queste parti?»

Sal borbotta qualcosa tipo ‘passavamo di qui’, mentre Jack tenta di Appellare una merendina dalla credenza con la sua bacchetta magica. Sua sorella se ne accorge in tempo: l’incantesimo infatti è troppo forte, col risultato di far sfrecciare verso mio cugino una ventina di snack al cioccolato e cocco, e Jane riesce miracolosamente a schivarli nascondendosi sotto al tavolo. Liam scoppia a ridere, e così fa pure Mark, ma io so che presto l’atmosfera si raggelerà di nuovo: tossicchio lievemente per farmi notare, e, dopo aver ricevuto degli sguardi seriosi da Jack – anche se con i granelli di cocco sul mento non è che incuta poi questa grande autorità –, inizio a raccontare tutto ciò che ci è accaduto, compresa la teoria dell’esercito e dei Babbani. Alla fine del racconto però solo Ellie ha la faccia disgustata, la solita espressione di ribrezzo che ostenta ogni volta che andiamo a vedere un horror al cinema; Jane invece annuisce con lentezza, lo sguardo serio e pensoso.

«Sì, Ray...», mormora piano. «Credo sia una buona idea. Bisogna iniziare a radunare gente per un nostro esercito»

Jack esulta a bassa voce: evidentemente non vede l’ora di fare il cecchino o qualcosa di simile. Espiro sollevato e passo alla domanda successiva:

«Dobbiamo... dovremmo trovare tutti gli altri, ma...», incomincio esitante. «Noi non sappiamo dove sono... non è che tu... magari...?»

«Ryan è in città con suo cugino Sid e altri due ragazzi... Christopher e Freddie, di Tassorosso... non so se li conosci...»

«Mai sentiti...», sbotta Sal tamburellando con la bacchetta sul tavolo, riuscendo a dare fuoco alla tovaglia.

«Li conosco io, vai avanti, Jane», lo rimbecco, e subito punto la mia bacchetta, pronuncio «Aguamenti!», e spengo il fuoco appiccato da quel demente.

«... insomma, stanno vicino alla metro, in un appartamentino...», prosegue Jane, mentre Ellie seguita a fissare Sal in modo alquanto morboso. «... Se volete poi passiamo a trovarli, oppure mandiamo un gufo a Ryan per dirgli di venire qui...»

«Perfetto, ci penso io...», fa Mark alzandosi dal tavolo. «L’indirizzo?»

«4197 Addison Street», recita Jane sottovoce, e Sal scatta in piedi sbattendo il palmo della mano sul tavolo (e sfasciando una zuccheriera, fra l’altro).

«Ma che cazzo, è la casa accanto a quella dove eravamo noi! Quella del vecchio Pete!», esclama spazientito. «Jonathan ci parlava dei suoi vicini, e non ci abbiamo nemmeno fatto caso!»

«Poco importa, almeno sappiamo pure dov’è esattamente...», dice Mark, mettendosi a scrivere il messaggio. «Il gufo dov’è, Jane?»

«Era qui, poco fa... Ariel

«Che nome di merda», borbotta Jack, mentre una piccola civetta nera come la pece plana sulla credenza fischiando di felicità; Mark arrotola la pergamena in un piccolo tubicino sottile.

«L’ho scritto nel modo più ambiguo possibile... Ryan capirà... Anche se la lettera venisse intercettata, nessun altro capirebbe»

«Okay», fa Jane, sistema la lettera sulla zampetta di Ariel, e piazza la civetta sul davanzale. La bestiola fischia contenta e svolazza per la stanza scompigliando i capelli a tutti i presenti prima di decidersi ad uscire.

«Perfetto», dico. «E ora, chi possiamo chiamare?»

«Dunque... Non ho idea di dove sia Steve, né di dove siano Daniel e Simon... forse sono con Luke da qualche parte, lo chiederemo a Ryan, forse lui lo sa...»

«Iris e Julie?», chiedo senza riuscire a trattenermi, e Sal mi lancia un’occhiataccia.

«Non ne ho idea, mi spiace...»

«...E gli altri di Tassorosso? Nicholas?», chiede Liam.

«Nicholas è a casa sua, da solo, sarà il caso di contattarlo, prima o poi...»

«Già, lo sapevo», borbotto.

«Però so dove sono gli Shadwell...», aggiunge Jane. «Michael e Becky stanno qua vicino, però più in alto di Godric’s Hollow, in una casa isolata dalle altre. Michael l’ho visto poco fa, scendeva quaggiù al villaggio a comprare da mangiare, è sempre fra le nuvole, come al solito... l’ho salutato e mi ha fatto un cenno, così», (e imita la faccia addormentata di Michael in modo straordinariamente somigliante), «e penso che Becky invece stia a casa...»

«Sta sempre con quello?...», chiede Mark.

«Devon? Sì, ma lei continua imperterrita a non volere... beh insomma... avete capito, no?»

«Un applauso!», esulta Liam. «Fa benissimo, quello è un deficiente!»

«...E lui continua ad andare a trovarla, sperando di combinare qualcosa...», ride Jane scuotendo la testa.

«... ma il massimo che può combinare con lei è una partita a carte!», conclude Ellie, e tutti ridiamo.

«Dài, allora andiamo a trovare gli Shadwell, vi va?», propongo. «Possiamo aggiungerli all’esercito»

«Vai, perfetto! Andiamo!», esulta Sal, anche se non credo lo faccia esattamente per l’esercito.

*

Il percorso per arrivare alla casa degli Shadwell è decisamente monotono e dannatamente faticoso, perché si tratta di una strada tutta in salita. Durante la camminata Sal ci allieta con le sue epiche esperienze sessuali, così io e Mark facciamo finta di non sentire e ci dedichiamo al Gioco del ‘mai’. Non so se ci avete mai giocato, è quello che devi avere una bottiglia di roba alcolica, e uno fa una domanda tipo ‘mai fatta questa cosa’, e se l’hai fatta devi bere. Beh, noi non abbiamo nulla di alcolico dietro, perciò – per non consumare l’acqua – decidiamo di sostituire la bevuta con una pernacchia. Sì, lo so, è patetico, ma sapete anche voi come sono i viaggi lunghi.

Dopo dieci minuti ci siamo già rotti di questo gioco, anche perché Jack continua a fare pernacchie a domande come ‘mai ucciso un uomo a colpi di Omniocolo’ oppure ‘mai fatto sesso con un Dissennatore’, quindi il passatempo è diventato un po’ una merdata. Liam approfitta del fatto che Jack è distratto per rollarsi un cannone grosso come un megafono, ma dopo poco la puzza è insopportabile anche per Jean-Baptiste Grenouille, quindi Jack non può più ignorarla, e finisce per agguantare dalla bocca del cugino quell’obbrobrio e distruggerlo sotto le suole delle scarpe. Intanto io e Mark siamo passati a un altro prodigio dei Passatempi-Per-Allietare-I-Viaggi-Interminabili, vale a dire la morra cinese, che abbandoniamo subito perché qualche imbecille (Sal) si diverte a trasformarmi la mano destra – a seconda delle occasioni – in un paio di forbici, in un foglio di carta, in un sasso o – e questa è la sua preferita – in un enorme fallo gommoso. Ellie e Jane si sono appena unite a noi nel favoloso Gioco della Verità, quando finalmente scorgiamo la dimora di Michael e Becky: è una casa in cima a una collinetta, che torreggia sopra Godric’s Hollow. E’ molto carina, dipinta in giallo, e parecchio grande. La raggiungo correndo, e noto subito che la porta è socchiusa, così mi volto verso gli altri:

«Che fortuna, Michael dev’essere tornato proprio adesso!», esclamo. «Dài, andiamo!»

Ci avviciniamo alla porta e io, senza entrare, mi schiarisco la voce e chiamo i miei amici.

«Michael!! Becky! Siamo noi, uscite?»

Nessuna risposta. Riprovo, con voce un po’ più alta.

«Ragazzi, sono io, Ray! Ci siamo tutti, possiamo entrare?»

Ancora niente. L’interno della casa è silenzioso in modo quasi opprimente. Inspiro profondamente per fare un ulteriore tentativo, quando sento un lieve tonfo, come un piede scalzo sulle mattonelle, seguito da un piccolo singhiozzo. Mi salta il cuore in gola. Appoggio il palmo della mano sulla porta e la apro lentamente.

«Becky? Sei tu?»

Gli altri mi stanno alle spalle mentre io metto il piede sulla soglia e mi affaccio dentro l’abitazione. Sento dei fruscii lievi ma insistenti, e subito ho come l’impressione che ci sia qualcuno che striscia per terra, a pochi metri da me. Gli occhi mi si abituano alla penombra, e riesco a scorgere un divano e una rampa di scale. Per terra c’è un tappeto variopinto, e per un attimo mi incanto a fissarne i colori, le forme e gli sgargianti disegni. Poi mi accorgo che c’è qualcuno, nell’ombra, accasciato a terra, che singhiozza con la testa abbassata, a pochi centimetri dal pavimento lucido.

«Becky?»

Qualcuno dei miei compagni apre ulteriormente la porta dietro di me: la stanza è invasa dalla luce, e io vedo. Vedo tutto quanto, di colpo, come una enorme orribile diapositiva, e, per quanto io provi a chiudere gli occhi, non riesco a farla scomparire dal buio dietro le mie palpebre, dove sembra essersi impressa come un calco. Vedo chi è, la persona accasciata ai miei piedi, e improvvisamente non so più niente. Non capisco più niente di me, di chi mi sta dietro inorridito, della mia vita, del mondo. So solo che odio una persona più di qualunque altra sulla Terra, so solo che questo meriterebbe di essere ucciso, forse da me... So che meriterebbe di morire, perché è questo che spetta a chi fa una cosa simile. Becky Shadwell, quindici anni, è distesa, completamente nuda, con le gambe raggomitolate in posizione quasi fetale. Con una mano tenta di sollevarsi da terra, le dita sottili affondate nella peluria del tappeto, mentre l’altra l’ha spostata per coprire l’inguine, tenendola a distanza come se provasse disgusto a toccarsi. Mi chino su di lei, chiamandola per nome, mentre lei inizia a piangere senza fermarsi. Cerco di sollevarla da terra tenendo le mie mani sotto le sue ascelle, e anche in quella situazione non posso fare a meno di chiedermi come faccia ad avere una pelle così perfetta. Lei distende le gambe, e, anche se non voglio, vedo l’interno delle sue cosce macchiato di sangue e seme, e subito sono pervaso da una rabbia così grande da risultarmi quasi spaventosa. Non provo altro: solo rabbia e tenera compassione. Mai una situazione del genere può essere meno erotica. Becky alza lo sguardo verso di me, e io sono consapevole di averla amata, un tempo, e in quel momento capisco anche perché, ma mentre lei è li, nuda, con il suo corpo candido e soffice davanti a me, ogni cosa di lei non mi riporta al passato e a ciò che ho provato per lei. Anche quando mi abbraccia, così piccola, e morbida, e dolce, e sento i suoi seni caldi premermi sull’addome, e percepisco i suoi peli pubici contro il dorso delle mie mani inerti, niente di tutto questo mi fa pensare al sesso. L’unico desiderio bruciante che ho, mentre cingo le sue spalle con le mie braccia e sento il profumo dei suoi lunghi capelli castani, senza vedere i miei compagni dietro di me, è quello di veder soffrire fino alla morte il bastardo che ha violentato Becky Shadwell. E penso a molte cose, mentre lei mi singhiozza sul petto, bagnandomi di lacrime la maglietta. Penso che so anche chi è, il figlio di puttana che ha fatto tutto questo. Penso che si chiami Devon, il bastardo. Penso anche che il suo cognome inizi per ‘B’, perché è così che dicevano le iniziali, no? D.B. Sarà Babbington, sarà Baskerville... sarà chi cavolo ti pare, ma qualunque sia il nome, è di colui che ha tentato di uccidermi con un Lethifold, tre anni fa, e che adesso ha stuprato una ragazzina di quindici anni solo perché non voleva concederglisi. E, sorpresa delle sorprese, penso anche che questo rotto in culo sia un dannato Mangiamorte. Mi stacco dall’abbraccio e mi volto verso Jane, senza guardarla. Le dico di trovare una coperta per Becky, e di accompagnarla in bagno per lavarsi. Dico a Ellie di restare con loro. Poi guardo negli occhi Mark, e Jack, e Liam, e Sal, e dico, con tutta la calma che mi è rimasta:

«Andiamo, dobbiamo trovare quel Devon. Io lo uccido.»

Jane sussulta alle mie spalle, e la sento chiedere a Becky:

«Cosa? E’ stato Devon?»

Becky singhiozza di nuovo, poi tira su con il naso e mormora:

«S-sì

Non mi occorre altro per essere più deciso di quello che sono. Sfodero la bacchetta dalla tasca dei jeans, e i miei amici fanno lo stesso. Mi volto verso le ragazze.

«Torniamo subito», dico seccamente, e, seguito dagli altri, esco di casa e chiudo la porta alle mie spalle.

Quello che faccio è correre a perdifiato, macinando ghiaia e terra sotto le All-Star, respirando fino a farmi bruciare i polmoni, come se stessi ingoiando liscivia. Jack è accanto a me, il volto percorso da sforzo e rabbia: anche sua sorella ha l’età di Becky, quindi capisco cosa sta provando in questo momento. Mark e Sal sono alle mie calcagna, li sento sbuffare dietro di me, le scarpe che pestano per terra con suoni schioccanti, come colpi di pistola. Vedo Liam che mi sorpassa leggermente, mettendosi di fianco a Jack, la bacchetta levata davanti a sé. D’improvviso, proprio sopra Godric’s Hollow, scorgo una persona con un mantello nero a ricami verdi svolazzare a venti metri da terra, a cavalcioni di un manico di scopa, una Nimbus Mille, mi sembra; non che mi importi un granché, ma i miei occhi in questo momento scorgono più dettagli di quanti non ne vogliano vedere. Riconosco l’uniforme di Serpeverde, e urlo:

«DEVON!»

Il ragazzo si gira, e io vedo i capelli mori rasati quasi a zero, la mascella volitiva e lo sguardo tagliente di Devon Barkley (ecco qual è il nome!). Mark e Liam puntano le bacchette contro la coda della scopa, urlando contemporaneamente due incantesimi diversi.

«Diffindo!», grida Mark.

«Incendio!», ringhia Liam. I due raggi di luce emessi dalle bacchette magiche si intrecciano fino a formare un unica potente saetta luminosa rossa e bianca. L’incantesimo di Mark mozza in due il manico di scopa, e la coda svolazza in modo scoordinato fin sopra un acero lì vicino. Devon si aggrappa disperatamente al manico in legno, mentre il secondo incantesimo gli fa prendere fuoco una scarpa. Il ragazzo rotea per aria, lasciando dietro di sé una scia di fumo grigiastro e un forte odore di gomma bruciata, fino a cadere ai piedi di un albero. Io corro verso il corpo disteso a terra, il cervello che mi pulsa dolorosamente contro le tempie. Non posso fare a meno di pensare che poco prima anche Becky era distesa in terra a quel modo, e così la rabbia mi cresce dentro come acqua bollente in una pentola. Apro la bocca e grido qualcosa, non mi rendo conto nemmeno di quali parole stiano uscendo dalla mia bocca, so solo che, mentre urlo, lacrime gelide mi scorrono sul volto, bagnandomi le guance e raccogliendosi in perline sotto la mandibola. Spingo Devon contro il terreno e mi inginocchio accanto a lui, gettando la mia bacchetta a terra. Vedo la sua scarpa sinistra ormai accartocciata e squagliata dal calore, col simbolo della Nike che si rapprende tutto e si scioglie emettendo sottili riccioli di fumo. Non do a Devon nemmeno il tempo di aprir bocca. Non penso nemmeno al fatto che non ho mai fatto rissa in vita mia. Colpisco il ragazzo agli zigomi, rovesciandogli la faccia di lato; al terzo colpo il sangue schizza sull’erba e sulle radici dell’albero come se ne avessi fatto esplodere un gavettone pieno fino all’orlo. Sento la pelle lacerarsi sotto le mie nocche, con piccoli rumori orrendi, scricchiolanti, sinistri. Io stesso ho paura a guardare e a sentire gli effetti dei miei colpi. Anche quando, ormai in preda ai singhiozzi, gli colpisco il naso sfasciandogli il setto, non ho il coraggio di guardare le mie mani, su cui percepisco il lento e fluido scorrere del sangue. L’ultimo colpo vuole essere un fatale cazzotto sfascia-denti, ma le forze mi mancano, e sento Jack prendermi per una spalla e tirarmi indietro. L’unica cosa che riesco a fare è raccogliere la bacchetta.

«Ray, adesso basta... Vieni con me», mi dice mio cugino, e io gli voglio più bene che mai per la sua calma e la sua tranquillità. Devon, intanto, si è alzato puntellandosi coi gomiti sul terreno. Volta verso di me il volto insanguinato, e per la prima volta mi accorgo di avergli fatto anche un occhio nero. Niente male.

«Forza, finocchio», mi bisbiglia Devon. «Vigliacco... mi attacchi quando non me l’aspetto...»

«Tu hai violentato una ragazzina di quindici anni!», grido senza riuscire a trattenermi. «Chi è il vigliacco, eh? Chi è lo stronzo, eh? Pezzo di merda, bastardo! Meriteresti di morire!»

«E allora perché non mi uccidi? Eh? Uccidimi, su! Perché non lo fai?...». Le parole di Devon sono come ferro incandescente sul mio stomaco. Stringo la bacchetta e gliela punto contro, ma senza fare nulla. Percepisco i miei compagni trattenere il fiato.

«Perché non mi ammazzi?», ripete Devon, gli occhi luccicanti di pazzia. Si strappa via un lembo della manica, che evidentemente gli ho lacerato senza rendermene conto, e lo getta via, lasciando scoperto l’avambraccio: un teschio con un serpente che gli esce dalle mascelle mi fissa con occhi vuoti, impresso nella sua carne. «Perché non mi ammazzi? Hai visto cosa sono, perché non lo fai?...», continua a dire con la voce tremante ma terrificante. «... Perché sei un vigliacco anche adesso», conclude con un ghigno storto, tergendosi il sangue dalla guancia.

«No», faccio io, abbassando la bacchetta. «Non ti uccido perché sono un Grifondoro, e non un bastardo Serpeverde come te, come Piton... come lui... Voldemort». Devon trasalisce a sentir pronunciare quel nome e io gioisco segretamente per l’effetto che ho ottenuto. Devon china la testa, e io mi distraggo quel tanto che basta per essere colto alla sprovvista, quando all’improvviso il ragazzo fa saettare la bacchetta magica contro di me.

«Avad--»

«Expelliarmus!», lo anticipa Sal, e la bacchetta vola via dalla mano di Devon. Di colpo mi sento tirare per i capelli, e mi rendo conto che c’era qualcun altro, dietro di me, pronto ad attaccarmi. Devon non era solo: dovevo immaginarmelo. La persona ignota mi getta a terra all’indietro, e la schiena mi sbatte su un sasso. Vengo colpito sulla spalla, sul collo e sul mento da una gragnola di cazzotti: un dolore al di là dell’immaginabile, stemperato dalla rabbia verso l’aggressore. All’improvviso la presa sui miei capelli si allenta, e gli occhiali mi scivolano un po’ sul naso sudato, mentre Jack colpisce furiosamente la persona sconosciuta. Mi volto e la riconosco: è Daniel Montague. Mio cugino lo colpisce sullo sterno, poi Montague lo afferra per il collo e lo colpisce alla sprovvista alla schiena e sotto la cintura. Jack geme e si piega in avanti, mentre l’altro lo afferra ai fianchi per buttarlo a terra. A quel punto Jack si volta a velocità incredibile, e colpisce Montague in faccia, sulle spalle, sul petto, spingendolo indietro. Lo colpisce sugli occhi, agli zigomi, gli spacca entrambi gli incisivi con un cazzotto diretto in bocca, e vedo i denti rotolare sul prato come due biglie d’avorio. Mi viene da piangere. I rumori prodotti dai pugni di mio cugino sono fortissimi, secchi, rimbombanti, orribili. Me li sento echeggiare in testa. Montague mi lancia uno sguardo terrorizzato prima di essere colpito per l’ultima volta, sulla fronte. Poi cade a terra, inerte come un pupazzo, rantolando parole confuse e senza senso. Mio cugino si avvicina a me, e gli altri ragazzi ci raggiungono. Devon si alza a fatica e raccoglie la bacchetta, ma tutti noi lo teniamo sotto tiro. Ci fissa con sguardo duro, mentre si china su Montague.

«Ci rivediamo», sibila osservandomi attentamente, come per studiarmi.

«Quando vuoi», ribatto, e, scortato dagli altri, mi allontano, dirigendomi verso la casa degli Shadwell. Durante il cammino nessuno fiata. Quando entriamo in casa Michael non è ancora tornato, e Ellie sta in camera a far compagnia a Becky. Jane si avvicina a noi, e guarda terrorizzata i volti insanguinati di me e Jack.

«Lascia perdere», fa mio cugino. «Come sta lei?»

«Ha avuto fortuna», risponde Jane cercando di controllarsi. «Aveva le mestruazioni quando è successo... Non rimarrà incinta»

«Michael?», chiedo pulendomi il sangue dalle mani.

«Tornerà tra poco...», fa Jane. «... Ma c’è un’altra cosa.»

«Cosa?»

Jane ci guarda attentamente, e mi pare di scorgere un fremito di felicità nei suoi occhi. Poi risponde, scandendo le parole con lentezza:

«Li ho visti, scendevano giù dal colle poco fa, diretti a Godric’s Hollow...»

«Ma chi?», chiedo nuovamente, spazientito.

«Harry Potter, Ron Weasley, e Hermione Granger».

  
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