In ricordo dei tempi passati e di una
passione mai estinta…
“PROPRIETA’ PRIVATA”
di
Lilly81
Non
esiste nulla al mondo in grado di racchiudere al suo interno un altro mondo
quanto le mura di una casa.
Un
pertugio scavato in una parete può offrire un’angolazione
più di una finestra spalancata.
L’intimità
che si ha tra le mura di un’abitazione, intese nel significato stretto di
sovrapposizioni di calce e di mattoni, il senso di protezione e di segretezza
che queste infondono non si provano in prossimità di
una finestra senza tende.
La
pietra sorregge l’umanità intera, la seleziona in stili e classi sociali, la
solleva su gambe di cemento armato e gli assicura equilibrio laddove lo
comprimono le forze gravitazionali.
Di
pietra sono fatte le ali degli uomini, non di piume. Messe l’una sull’altra, consentono
loro di occupare e di vivere lo spazio sovrastante il
proprio capo.
Come
sarebbe possibile, in altra maniera, per l’uomo ergersi e condurre la propria
esistenza disinvoltamente anche soltanto a dieci metri da terra?
Quanti
segreti, altresì, nascondono le pietre di una casa! Se solo avessero la facoltà
di parlare!
Sanno
ascoltare bene, però, e qualche volta fanno da intermediarie.
Se
si usa un pennello o un colore non sempre nasce arte, ma può accadere che una
parola scritta su di un muro, una sola, sia più incisiva e tagliente di un
intero discorso fatto con la lingua.
Non
solo le ali degli uomini, dunque, ma anche le parole possono essere fatte di
pietra!
Bulma
fissava sgomenta il muro di cinta di casa sua.
Da
lontano, mentre ritornava al calar del crepuscolo dal parrucchiere di fiducia, dopo
una fila estenuante di tre ore e dieci minuti fatta di chiacchiericci da gossip,
asciugacapelli e caschi per permanenti, odore di lacca e di tinture, le sembrò, man mano che si approssimava alla cupola della
Capsule Corp., che il muro di cinta, in particolare la parte contigua al
cancello principale, avesse come una ferita nel fianco.
Dalle
pietre, annerite dallo smog e scrostate dall’umidità e dalla pigrizia di suo
padre, che da anni non provvedeva ad una tinteggiata
nello sforzo tutto suo di trovare un colore originale e alternativo, sgorgava
un liquido di colore rosso intenso, il quale, colato fino a metà, si era
solidificato a contatto con l’aria e adesso rassomigliava a quelle lacrime di
sangue che erompono d’improvviso, secondo leggende popolari, sul volto di certe
statue.
Bulma, da
scienziata qual era, non credeva nei mistici miracoli e quel rosso ebbe
un’unica accezione quando arrivò sulla sponda del marciapiede opposto e si
fermò sulle strisce pedonali.
Tra
un passaggio e l’altro delle auto in corsa, in attesa che il semaforo segnasse
il verde, osservò con un moto intermittente, quasi fotografico, ciascuna di
quelle lettere incise sul muro di casa sua con una bomboletta spray da quattro
soldi.
Incurante
del rosso, quello del semaforo, si gettò tra le auto in corsa, si guadagnò
qualche clacson e qualche “vedi dove vai, cretina!” ed
entrò trafilata in casa.
“Tesoro,
come stai bene!”, esclamò sua madre che giungeva da un’altra entrata recando
tra le braccia una confezione doppia di crocchette per il gatto, appena
acquistata presso il negozio di animali che sorgeva all’angolo della strada.
“Vegeta
cascherà ai tuoi piedi quando ti vedrà”, pigolò con le
palpebre trasognate. “Quanto sei fortunata ad essere
così giovane ed avvenente, vorrei avere la tua età!”.
Con
i capelli tagliati di nuovo corti, un vestitino dello stesso colore, le
scarpette bianche da tennis, Bulma dimostrava almeno
due lustri in meno.
Ma
la ragazza non badò al complimento e nemmeno al micio nero che sgattaiolò dal
vaso di terracotta in cui se ne stava nascosto, si infilò
di soppiatto tra un paio di gambe toniche e nude e accorse al richiamo dell’altra
padrona, che pure sfoggiava bene i suoi anni dietro il grembiulino con i voile
a scacchi bianchi e rossi.
“Non
ci posso credere!”, urlò Bulma. “Lo
ha fatto un’altra volta! Quella maledetta scritta è
comparsa di nuovo sul muro!”, puntò un dito infuriato in quella direzione.
La
sig.ra Brief smise di pensare a Vegeta e tornò a
sbattere di nuovo le palpebre.
“Cara,
ma chi si diverte a scrivere una cosa simile?”. Sembrava preoccupata, ma non
abbastanza, perché la signora in questione viveva in un mondo tutto suo e
quando ne veniva fuori, mostrando due grandi occhi
azzurri, sembrava uscita da una fiaba.
“Se
lo scopro, giuro che farà una brutta fine!”.
“Tuo
padre non ha avuto il tempo di riparare la telecamera di sorveglianza. Sostiene
che sia stata rotta di proposito. Non pensava certamente che
quella scritta comparisse una seconda volta”.
“E’
furbo il bastardo”, meditò Bulma con la bocca ridotta
ad una piega torva.
“Perché non chiedi aiuto a Vegeta? Potrebbe fare qualcosa…”.
Ecco che la sig.ra Brief era ritornata nel suo mondo,
fatto di pasticcini, di biscotti a forma di cuore e di cioccolatini al latte
con ripieno di nocciole.
“Che vuoi che gliene importi? Quella offesa sono io!”.
Strinse le nocche delle dita, ravvivò la piega dell’acconciatura con uno scatto
del collo sottile e bianco e se ne andò con fare oltraggiato.
***
Scrutare
le stelle richiede conoscenza ed esperienza. Vegeta non lo faceva per passione
e meno che mai per romanticismo. Guardare il cosmo equivaleva a perlustrare le
sue tasche o sfogliare un album di vecchi ricordi; era pressappoco come affacciarsi
dal balcone di casa e contemplare l’asfalto sottostante.
Per
il principe dei saiyan l’universo altro non era che il parcheggio di un qualsiasi campo di
battaglia, la superstrada che lo conduceva al lavoro, il paesaggio brullo e
arido che compariva dall’oblò della propria vettura.
Il
telescopio posizionato in cima alla cupola della
Capsule Corp., dove il Sig. Brief gestiva un
laboratorio astronomico, non era diverso dal televisore, dallo stereo, dall’aspirapolvere
o da qualsiasi altro elettrodomestico di fattura terrestre: era letteralmente
inutile.
Non
si punta un cannocchiale nel proprio “giardino”; non serve un binocolo per
guardare la “finestra” di fronte casa.
Così
la pensava fino a due giorni prima, quando per caso o per noia, andando a zonzo
per la casa al termine dei suoi allenamenti quotidiani, si era imbattuto in
quello strumento assai sofisticato, con il marchio
della Capsule Corp. che riluceva sul metallo bronzeo e un treppiedi solido
quanto tre colonne di cemento.
Assiso
su una piattaforma circolare rivestita di una moquette di porpora, faceva
mostra di sé come un’inestimabile scultura di bronzo in un museo.
Era
accaduto, così, che la pupilla dilatata del suo occhio destro restasse
inchiodata alla lente per almeno due ore e da quel momento
il telescopio smettesse di essere elettrodomestico per assurgere al rango di indispensabile
strumento scientifico.
Era
almeno da due sere che il sig. Brief sorprendeva il saiyan a scrutare con interesse la notte cosmica.
Con
la sigaretta incollata sotto i baffi, questi entrò, si sedette al tavolo
ingombrato da mappe stellari e si apprestò a passarle in rassegna con la flemma
usuale.
Ogni
tanto, sollevava il capo incanutito e da dietro le lenti gettava
un’occhiata interrogativa al saiyan assorto
profondamente nelle sue esplorazioni.
Doveva
trattarsi di qualcosa di importante se disertava la
camera gravitazionale per tutto il pomeriggio e preferiva starsene con le gambe
saldate al tappeto, piuttosto che massacrarle come generalmente faceva.
Più
volte fu sul punto di aprire bocca, ma altrettante
mantenne i baffi incollati alle labbra. Poi pensò che, a parte un grugnito, non
avrebbe corso rischi a porre una domanda più che ragionevole e la anticipò con
un colpo di tosse, giusto per rompere il silenzio.
“Ti
sei accorto pure tu di quelle strani luci?”.
Vegeta
staccò finalmente la pupilla dilatata dalla lente del telescopio e vide
dall’ampia vetrata circolare che il buio era calato definitivamente anche sulla
Città dell’Ovest. Il riflesso dei vetri restituì l’espressione di un volto colto
alla sprovvista.
“Non
riesco a capire cosa siano”, continuò il vecchio lisciandosi i baffi. “Non mi sembra uno sciame di polvere stellare e neppure una flotta
di navicelle. Si direbbero dei punti di luce in
movimento, delle forme di vita extraterrestre che si muovono con intelligenza”.
Pure
Vegeta si era accorto di quel nugolo di luci pulsanti che andavano e venivano
dal pianeta Terra come le api da un fiore, ma per il principe dei saiyan non erano punti luminosi in movimento e neppure
forme primordiali di vita extraterrestre.
La
verità era che non era intenzionato a fornirgli dettagli sulla comune scoperta e
la fortuna volle che l’arrivo di Trunks distogliesse
l’attenzione del vecchio.
Il
bambino arrivò alla guida della sua nuova bicicletta. Era blu fiammeggiante e
si sollevava fino a due metri da terra. Suo nonno gliela aveva “prodotta” e
confezionata con un nastro da regalo appena il giorno prima, facendo incidere
il suo nome sul telaio e sulla gomma delle ruote.
Quando
doveva fare un regalo al nipotino, qualsiasi altra ricerca passava in secondo
piano; non contavano a nulla le conferenze, i mercati internazionali, le
campagne promozionali e il progresso dell’umanità in generale.
Trunks fece
un giro circolare intorno al tavolo dove se ne stava
seduto lo scienziato, trillando ripetutamente il campanello, e si fermò solo nel
momento in cui la ruota anteriore urtò la pedana circolare rivestita dalla
moquette di porpora.
A
quel punto, restò con il manubrio tra le mani, indeciso se tornare indietro o
fare finta di niente, e tutta la baldanza e il fracasso con cui era entrato si
spensero sotto le sopracciglia severe di suo padre e il gesto abitudinario
delle braccia intersecate.
Un
fascio di luce proveniente da un faro pendente dal soffitto irradiava la chioma
acuminata e indorava le spalle massicce.
Assiso
su quel podio, seppure con i muscoli smussati da abiti civili, gli parve il
supereroe del cartone animato appena visto alla televisione, ma quello cattivo.
A
quattro anni e mezzo non era facile scegliere la mossa giusta e attese
intimidito che fosse l’altro a concludere
l’inquisizione.
Così,
riprese a pedalare con calma intorno al tavolo soltanto quando l’uomo si voltò
e tornò a dilatare la pupilla contro la lente del telescopio.
“Finalmente
ti ho trovato, amore della nonna!”, varcò l’uscio
automatico la sig.ra Brief. “Non è giusto che tu mi
faccia girare a vuoto per tutta la casa!”. Nemmeno la corsa intrapresa alla
ricerca del nipote era riuscita a scomporre il suo sorriso e i suoi modi affettati.
Quando
sentì la voce della donna, Vegeta capì che il silenzio di quel luogo era
irrimediabilmente compromesso. La madre di Bulma
avrebbe profanato anche la quiete di un tempio sacro.
A
volte non sapeva davvero dove trovasse la forza di
tollerare la sua presenza e di non alzare un dito - solo una falange ne sarebbe
bastata – per eliminarla dalla faccia della terra.
Questa
sua pazienza era il tributo da pagare per vivere sotto quel tetto. Non c’era
modo di esserne esentato: era un patto sottinteso.
L’idea
di Bulma di relegare i suoi genitori
nell’appartamento più piccolo in mansarda aveva fatto sì che la sua pazienza di
saiyan non si abbassasse al di
sotto della soglia di allarme.
Alla
fine, a contatto con la donna, aveva sviluppato quella stessa attitudine che hanno coloro che vivono in campagna a tollerare i ragni, le
vespe, i calabroni, le lucertole, le lumache: era questione soltanto di
abitudine.
“Allora,
Trunks, lo sai che stasera ci sarà una grande festa
nei giardini pubblici?”.
Il
bambino si arrestò dinanzi al grembiule con i voile a scacchi bianche e rossi e
le babbucce col muso di coniglio.
“Una
festa?”. La bicicletta sembrava ad un tratto meno
interessante di qualche attimo prima.
Anche
Vegeta, non appena sentì parlare di festa, tese l’orecchio, ma con aspettative diverse dal figlio.
I
terrestri usavano certe parole che producevano nel suo orecchio un cigolio fastidioso,
come di un cancello arrugginito, e non era un problema di lubrificazione del
condotto uditivo: lo stridio era nel suono stesso della parola e, in quel
momento, era come se ascoltasse una lingua diversa dalla sua. Una vita intera,
forse, non sarebbe bastata per apprendere quel linguaggio.
“Ma come… tua madre non ti ha parlato della festa del drago
di fuoco?”.
“Il
drago di fuoco?”, si illuminarono i grandi occhi
azzurri.
Nella
sua fantasia di bimbo quel drago di fuoco significava tutto e non significava niente, ma una festa nei giardini pubblici
equivaleva a giostre, zucchero filato, scorte di caramelle; se poi fosse comparso
pure un drago di fuoco, sarebbe stato il massimo del divertimento.
Ogni
cinque anni, nei primi tre giorni del mese di giugno, si mise a raccontare il
nonno, i giardini pubblici della Città dell’Ovest diventavano teatro dei fuochi
d’artificio più spettacolari, che si concludevano con
l’esplosione in cielo del cosiddetto drago di fuoco: tre teste di serpente, di
diverso colore, che si rincorrevano nel cielo fino a separarsi in uno scintillio
fragoroso che riversava sulla città una pioggia d’argento ritenuta di buon
auspicio in vista della stagione imminente.
Non
reggeva il confronto con l’apparizione di Shenron, ma
era altrettanto suggestivo e c’era gente devota che al
colore della testa di serpente che si spegneva per ultima attribuiva
significati diversi.
“Oh! E’
meraviglioso!”, spalancò la bocca il piccolo saiyan, intanto che le gambe e le braccia, percorse da
formicolii, già smaniavano di andarci.
“Mi
portate voi, vero?”. Si mise a saltellare sul posto.
“Ma certo!
E’ da tanto che non ci andiamo!”. La donna ricordava
che Bulma aveva pressappoco l’età di Trunks quando l’aveva condotta la prima volta. Rammentava
con precisione il vestitino di colore rosa che le aveva messo e i nastri di
raso con i quali le aveva intrecciato i capelli… ma i
suoi ricordi non riuscivano ad andare oltre questa rievocazione.
“Ci
siamo stati cinque anni fa”, le ricordò il marito.
“Allora
ho ragione io. Cinque anni sono troppi, caro, non ti pare?”
“Ma se la festa si tiene ogni cinque anni!”, ribatté l’altro.
“Trunks non andrà da nessuna parte”.
Il
bambino sentì che la smania si bloccava nelle fibre dei suoi muscoli come un
boccone finito di traverso.
La
voce di Vegeta costrinse la sig.ra Brief a spalancare
una volta tanto le palpebre e ad uscire dal suo mondo
di pasticcini e di biscotti, e riuscì persino a scollare la sigaretta dello
scienziato da sotto i baffi.
Il
saiyan si allontanò dal telescopio, e dall’alto della
piattaforma vide che i suoi interlocutori non erano diversi da un manipolo di
soldati rimasti impietriti.
Quante
volte Napa e Radish,
dinanzi ad un ordine suo, gli avevano rivolto quell’espressione?
“Al
parco ci andrai domani mattina, ma non stasera”.
“Hem… non è la stessa cosa”, osò contraddirlo il vecchio. “Non
potrà vedere i fuochi d’artificio”.
Trunks
guardava il nonno e sentiva che le sue argomentazioni e la sua posa non erano
sufficientemente forti. Non era quello il momento di mettersi a pulire gli
occhiali sul camice bianco. Possibile che solo sua madre fosse in grado di
tenere testa a quell’uomo? Neppure sperò nell’aiuto della nonna, la quale stava
di certo meditando con quale pasticcino circuirlo.
“Non
mi interessa”. Scese dalla piattaforma con un balzo
felpato.
“Ma non è giusto!”, proruppe il figlio che aveva ereditato un
po’ del piglio materno e al momento giusto sapeva farne sfoggio.
Vegeta
lo degnò finalmente di uno sguardo.
“E’
un ordine!”.
E
quando suo padre induriva la mascella a quel modo, Trunks
sapeva che Vegeta stava parlando non al bambino ma al guerriero che era dentro
di lui, non ancora plasmato, ma pur sempre esistente.
Soltanto
che questa volta il drago di fuoco lo seduceva più delle prospettive lontane di
allenamento nella stanza gravitazionale.
Al
momento, in fondo, era solo un bambino e non ricordava di essersi comportato
male nelle ultime ventiquattro ore per meritare una presa di posizione tanto
severa.
“Perché
non lo porti tu, allora?”, pigolò la sig.ra Brief.
Ecco
la signora ritornata nel suo mondo di pasticcini, di biscotti a forma di cuore
e di cioccolatini al latte col ripieno di nocciola!
Lo
scienziato temette per l’incolumità della consorte nel momento in cui Vegeta le
passò accanto e si fermò alla sua altezza col passo superbo di un generale.
“Se
Trunks vorrà vedere i fuochi, lo farà dal terrazzo,
ma non metterà un piede fuori da casa né questa sera, né le prossime due. Intesi?”.
E
se ne andò lasciandoli con la spina dorsale diritta e i talloni ravvicinati di
tre soldati scrupolosamente in riga.
***
Era
una prerogativa delle donne di quella casa profanare il silenzio di luoghi
sacri; empie sacerdotesse, madre e figlia, non avevano rispetto di nessuno e di
niente.
Nell’atmosfera
di una serata asciutta e taciturna, mentre l’intera popolazione era affluita
nei lontani giardini pubblici e poteva sentirsi il battito secco di ali di una
falena contro la luce, l’oscillazione del ventilatore, il sottofondo del
frigorifero, il gocciolio della fontana sull’acciaio inox, le lamentele
farneticanti di Bulma irruppero nel salotto e
produssero nell’orecchio di Vegeta non uno ma un’estensione assordante di quei maledetti
“cigolii”: dieci, cento, mille cancelli rugginosi che si spalancavano e si
richiudevano in contemporanea davanti a lui.
A
confronto, parole astruse come “festa”, generando nell’aria una vibrazione più debole,
finivano per trovare nel suo vocabolario extraterrestre persino un sinonimo e
un contrario.
Non
sempre parlare la stessa lingua equivale a comprendersi; e molte volte il
principe dei saiyan si era ritrovato a pensare che il
suo soggiorno sulla terra sarebbe stato meno traumatico se i suoi interlocutori
si fossero espressi a gesti.
“Io non ne posso più! Capisci? Sto impazzendo!”. Si
piantò davanti a lui con le gambe rabbiosamente divaricate e le mani tra i
capelli.
Della
deliziosa piega realizzata dal parrucchiere era
rimasta una frangetta appiccicata alla fronte accaldata e una ciocca appuntata
con noncuranza dietro l’orecchio sinistro.
“Non
una, ma ben quattro scritte su ogni entrata! E’ un affronto intollerabile!”.
Vegeta
finì di scolare la bottiglia di birra.
“Di
cosa stai parlando?”, fece senza interesse chiudendo il frigorifero.
“Vuoi
farmi credere che non te ne sei accorto? Chiunque può vederla, a meno che tu non abbia messo piede fuori da qui o non
sappia leggere. E’ la seconda volta che imbrattano il muro di
casa nostra!”.
Servirsi
di un possessivo al plurale era una tattica che Bulma
aveva incominciato ad adoperare già da qualche anno per coinvolgere Vegeta
nella vita di tutti i giorni e ricordargli che era parte integrante di una
famiglia.
La
prima volta che il saiyan aveva utilizzato il
possessivo “nostro” era stato per riferirsi al divano
nel soggiorno, ma quando aveva detto “nostro figlio”, senza neppure rendersene
conto, era stato investito del dono divino di saper parlare e interpretare tutte
le lingue.
“Non
è bastato che stamattina abbia cancellato la scritta; oggi pomeriggio ne ho
trovata un’altra e poco fa mi sono accorta che la stessa si trova su ogni
entrata laterale!”.
“Quale
scritta?”.
“Ci
tieni davvero a saperlo?”. Appuntò i gomiti.
Vegeta
fece una scrollata di spalle e continuò a spalmare il burro sul pane.
“Puttana!
Ecco cosa c’è scritto là fuori!”.
Dinanzi
all’indecifrabile piglio di Vegeta e al coltello che smise solo per un istante
di spalmare il burro, l’altra seguitò:
“Se
c’è una cosa che non ho mai sopportato è sentirmi dare
della poco di buono!”.
“Hai
la coda di paglia, forse?”, fece sarcastico, infarcendo la pagnotta di pane con
wurstel e sottaceti.
Questo
era uno di quei modi di dire che aveva imparato stando sulla Terra. Solo su
questo pianeta aveva trovato abitanti in grado di citare metafore per ogni
occorrenza.
Bulma,
tanto per menzionare una persona a caso, ne diventava l’esemplare più
caratteristico quando si rivolgeva a lui con espressioni del tipo “avere gli
occhi foderati di prosciutto”, “gettare la pietra e nascondere la mano”, “can
che abbaia non morde”, “prendersi un dito con tutta la mano”, “raccomandare la
pecora al lupo”, “avere i peli sul cuore”, “fare orecchie da
mercante”, “nascondersi dietro un dito”, ma quello che non riusciva ad
afferrare era “menare il can per l’aia”. Qui… cascava proprio dalle nuvole!
“Certo
che no! Ma è evidente che esiste qualcuno che lo
pensa. A chi altri quella scritta potrebbe essere rivolta in
questa casa se non a me?”.
“A
tua madre, magari”, fu lesto a risponderle.
Le
servì un istante per afferrarne il senso; il tempo di sbattere due volte le
palpebre e poi di scuotere la testa:
“Non
dire sciocchezze!”, l’apostrofò.
“Allora è un tuo… come dite voi sulla terra…
ammiratore…”, fece mellifluo, storcendo la bocca affamata, “che spera di far
colpo attirando l’attenzione. Perciò dovresti esserne contenta”. Addentò l’intera pagnotta
con un solo boccone.
“Non
se è un ammiratore frustrato. Questa storia mi sta dando sui
nervi…”, increspò le labbra e incominciò a piagnucolare sprofondando sul divano.
“Che ho fatto per meritare di essere additata così? Sono una
donna perbene che lavora dalla mattina alla sera, sono una madre!”.
Certo
non era una santa, ma se da adolescente aveva promesso qualcosa
lo aveva fatto solo per salvarsi la pelle… o per ottenere la sfera a quattro
stelle, le avrebbero ricordato Muten e Son Goku. Ma
questi, all’epoca dei fatti, erano un vecchio eremita col dorso di tartaruga e
un bambino con la coda di scimmia: non erano uomini per i quali valesse la pena farsi tanti scrupoli. La vergogna, poi,
provata nel rendersi conto di non avere le mutandine era stata sufficiente a forgiare
il suo senso del pudore per gli anni a venire.
“Ho
avuto nella mia vita un solo fidanzato; nonostante i suoi tradimenti non l’ho
mai ricambiato con la stessa moneta…”.
Vegeta
era curioso di scoprire con quel melodramma dove sarebbe andata a parare,
giusto per togliersi lo sfizio di smontarle il palcoscenico e decretarne il
fiasco.
“Alla
fine, l’unico uomo con il quale sono andata a letto è quello con cui ho fatto
un figlio!”, gli rinfacciò, nemmeno fosse stato lui a mettere in discussione la
sua integrità.
Allora,
per non correre il rischio di subire un epilogo sdolcinato e di sentire i
sottaceti arrampicarsi a picconate lungo l’esofago, sentì il bisogno di aggiungere:
“Come
dargli torto… quel terrestre ti tradiva perché non riceveva niente in cambio”.
“E’esattamente il contrario”, puntualizzò acida. “Non riceveva
niente in cambio perché non mi fidavo”. Poi, come se volesse recuperare il copione
dimenticato e ritornare nel suo personaggio, scosse la testa con una movenza
più delirante di prima:
“Aaah! Si può sapere questo cosa
c’entra?”.
A
quel punto, Vegeta decise di piantarla in asso e di andare a prendere un po’
d’aria fresca fuori al terrazzo.
In
lontananza le cime degli alberi dei grandi giardini pubblici sembravano preda
di un principio di incendio; le strade circostanti,
intersecate tra loro, avevano fatto confluire tutta la linfa vitale verso
quell’unico centro. Solo Cell avrebbe potuto generare
una tale desolazione, se non fosse stato esiliato all’inferno.
“Ti
sembra giusto che venga offesa in questo modo?”.
Bulma lo
aveva seguito senza demordere, ma il brusco contatto con la brezza notturna e
il cielo stellato le aveva quietato lo spirito e
lasciata soltanto una piega amara delle labbra.
Quando
era stato a letto con lei la prima volta, a Vegeta non
interessava affatto sapere quanti uomini avesse avuto, nella stessa misura in
cui scoprirla inesperta lo aveva lasciato nella più totale apatia. Puttana o
illibata non avrebbe fatto alcuna differenza quella volta e anche in quelle
successive.
Così
era stato fino ad un certo punto.
Quando,
poi, aveva scoperto che durante un amplesso poteva esserci più intimità in una
mano intrecciata alla sua che nel movimento sincronico dei rispettivi ventri,
il discorso si era fatto più contorto: se Bulma dava
tutta sé stessa, lo faceva soltanto perché si trattava
di lui. E il pensiero di questo possesso, di questo “omaggio” che qualche volta
riceveva e qualche volta andava a prendersi, incominciava
a procurargli un inspiegabile quanto appagante piacere.
“La
cosa non può lasciarti indifferente. Chi offende me, offende
di riflesso anche te. Sono o non sono tua moglie?”.
Anche
questa era una tipica espressione terrestre che Vegeta aveva finito per
assimilare senza neppure conoscerne la sfumatura: moglie, concubina, compagna,
convivente o amante non facevano alcuna differenza.
“E perché mai? Io non mi offendo se mi danno della puttana!”.
Lo disse con tutta serietà mentre si sedeva sulla balaustra, con le braccia
incrociate sul petto, la spalla poggiata contro il muro e una gamba sospesa nel
vuoto senza paura.
“Se
è un tentativo di fare dell’umorismo, ti assicuro che non ti è riuscito per
niente!”. Si strinse nelle spalle perché la brezza sulle spalle scoperte era
insidiosa a quell’ora e l’estate, quella vera, non era
ancora incominciata.
“Allora,
cosa vuoi da me?”. Vegeta arrivò bruscamente al dunque.
Mentre
se ne stava in equilibrio precario sopra la balaustra e indifferentemente
sarebbe potuto scendere da un lato o dall’altro, Bulma
apparve, a confronto, in tutti i suoi limiti fisici, le sue paure, la sua gracilità umana. Raramente si scavava questo divario tra loro, ma in quel
momento fu lampante.
“Sono
spaventata”, confessò mordendosi un labbro.
Vegeta
le lanciò un’occhiata e vide che aveva incominciato a intrecciare una ciocca di
capelli intorno al dito, il che era cosa preoccupante perche Bulma Brief ci teneva
alla piega dei suoi capelli, soprattutto se era appena uscita dal parrucchiere
dopo tre ore e dieci minuti di fila.
Il
saiyan notò che il taglio corto e sbarazzino metteva
in risalto la linea flessuosa e nivea del collo; che la giugulare pulsante e indifesa
le donava una grazia più di ogni altra acconciatura sfoggiata in quegli anni,
ma questo non glielo avrebbe mai detto.
In
verità, non ragionò neppure in questi termini, ma il senso era pressappoco
questo.
“Potrebbe
essere un malintenzionato, un maniaco…”, soggiunse Bulma,
mordicchiando la ciocca fin dove le permetteva la lunghezza. “Quando sono
rientrata in casa ho avuto la sensazione di essere stata
seguita”.
Vegeta
si sistemò con inquietudine sul granito della balaustra. Tuttavia, disse:
“Fammi il piacere! C’erano centinaia di persone in strada fino a un
paio d’ore fa!”.
Ma
lei sosteneva che le peripezie sperimentate in tanti anni al fianco di Goku e
dei suoi compagni avessero accentuato in lei il sesto senso per i pericoli e
che era certa ci fosse qualcuno a tallonarla anche quando era uscita di mattina.
“Che
cosa ti piacerebbe che facessi se lo trovassi?”, le domandò fermentando sotto
la lingua uno strano, saporito veleno.
Sebbene
la penombra realizzasse sul suo volto ampie chiazze scure, che potevano essere
di sangue o di fango, come di niente, Bulma colse la
sua espressione di sfida e capì dall’intonazione che il destinatario del
messaggio non era il presunto malintenzionato.
Fu
colta alla sprovvista e le sue spalle ebbero un sussulto.
“Ecco…”,
si umettò le labbra, senza sapere se stesso dando una
risposta a Vegeta o per prima alla sua coscienza. “Mi piacerebbe sapere
innanzitutto cosa ha contro di me e poi…”.
“Poi
cosa?”, suggerì l’altro, porgendole un po’ del suo veleno.
“Dargli
una lezione”, pronunciò lentamente, mentre sotto la frangetta si facevano strada una molteplicità di alternative ed era
indecisa se propenderne per una definitiva o soltanto provvisoria. Non voleva
la morte di nessuno, o forse… sì.
A
quel punto, Vegeta scoppiò a ridere e c’era stato un tempo in cui dinanzi a
quella risata molte persone erano impallidite.
“In
questo momento sei più saiyan di quanto lo sia io”,
le disse con uno sguardo lusingatore. “Che tornaconto posso
avere io a sporcarmi le mani con un terrestre qualunque? Risolvi il problema
da sola o rivolgiti alla polizia! Ah, dimenticavo! Potresti
chiedere aiuto pure a Mister Satan!”.
“Ma
non ti interessa che potrebbe farmi del male?”,
rovesciò le mani sui fianchi.
“Avrei
potuto farti del male anch’io molto tempo fa”, assaporò l’ultima goccia di quel
veleno dolciastro che aveva fermentato sotto la lingua, mentre allungava, con
la carezza viscida di un tentacolo, una mano dietro la nuca scoperta di lei e
sentiva con le dita che in quel punto i capelli erano più corti. “Eppure non l’ho fatto. O forse sì?”,
insinuò ambiguo.
Bulma
socchiuse gli occhi e lasciò che lui scompigliasse
piano la chioma ancora per qualche altro istante, con quella movenza rude
eppure passionale di quando faceva l’amore. Quando sollevò le palpebre si accorse che c’era un uomo fermo sotto il
lampione sul marciapiede prospiciente la casa.
Si
nascose con un guizzo dietro la spalla di Vegeta e sussurrò spaventata:
“E
se fosse quel tizio laggiù?”.
Il
saiyan, allora, seguì la direzione del suo sguardo e
vide che l’uomo sul marciapiede fumava una sigaretta, aveva una spalla poggiata
al lampione, una mano sprofondata nella tasca, e sembrava aspettasse qualcuno.
Era calvo, vestito con eleganza, con qualche anno in più a loro.
“Se
fosse quel tizio laggiù, ti consiglierei di chiuderti subito in casa”, e
scoppiò di nuovo a ridere, alla sua maniera subdola, quando vide che lei
davvero indietreggiava.
“Se
mi succederà qualcosa, mi avrai sulla coscienza!”, lo mandò al diavolo e
scomparve oltre l’ampia vetrata.
Rimasto
solo, balzò a terra e poggiò i gomiti sulla ringhiera. Nel momento in cui la
luce alle sue spalle fu spenta, notò che l’uomo sul marciapiede sollevava la
testa nella sua direzione.
Stette
così per un altro po’ di tempo, col dorso piegato di una pantera, ad annusare
l’odore di terra bagnata sprigionato dalle siepi vaporizzate dall’acqua giù nel
giardino.
Alzando
gli occhi al cielo, contemplò con piglio pensoso quel drappo sanguigno e
nebuloso oltre il quale rilucevano le stelle. Quando in lontananza questo incominciò
a tingersi di pennellate di vario colore, abbozzate e subito depennate con
capriccio dal suo autore, accompagnate dal fragore di trincee e dall’esalazione
di polvere da sparo, capì che la quiete era cessata e decise di battere pure
lui in ritirata.
Nel
dedalo di corridoi appena rischiarati dalle luci notturne, arrestò il passo
molto prima di raggiungere la sua camera collocata in fondo al corridoio.
Nella
stanza di Bulma, l’abatjour proiettava una luce
azzurrognola sul letto ancora intatto e sulla moquette erano stati ammassati
gli abiti del giorno.
Dal
bagno annesso proveniva lo strofinio dello spazzolino sui denti, interrotto da
uno sputo nel lavandino e dal rumore dell’acqua corrente.
Quello
che attirò la sua attenzione, nel momento in cui la sponda del letto si piegava
ad accogliere il suo peso, fu una macchia di colore rosso scuro che imbrattava
uno degli indumenti lasciati sulla moquette.
Si
alzò e vide che si trattava delle mutandine di Bulma: lo schizzo di sangue era fresco. Allora, emise come
una specie di respiro di sollievo; gettò l’indumento laddove lo aveva trovato e
si distese sul letto con un braccio incrociato dietro la testa.
“Non
pensavo venissi a dormire qui”. Bulma, che aveva i
nervi a fior di pelle, sussultò nello scoprire all’uscita dal bagno che una
presenza ingombrava le sue lenzuola a righine rosa.
Con
addosso la camiciola di cotone e i piedi nudi, andò a
scostare le tendine e a gettare un’occhiata alla strada. La prospettiva non era
la stessa di quella del terrazzo e non vide altro che un cane sollevare la
zampa vicino al lampione e scomparire oltre l’incrocio.
Poi
chiuse i vetri, azionò il climatizzatore e i fuochi
d’artificio furono ridotti al borbottio di una pentola sul fuoco.
“Se
ti interessa saperlo”, la informò Vegeta con scherno,
“il maniaco è salito nell’auto di una donna, le ha messo un braccio intorno
alla spalla e se ne sono andati insieme”.
“Ormai
è chiaro che la questione ti diverte molto”, fece rassegnata, sistemando il
cuscino.
Con
Vegeta al suo fianco, almeno, sapeva di poter dormire tranquilla e che non avrebbe
corso il rischio di svegliarsi nel cuore della notte e sorprendere il suo
persecutore ai piedi del letto con le intenzioni peggiori.
Sul
soffitto bianco doveva esserci scritto qualcosa di molto interessante se
entrambi lo fissarono senza dire niente per lunghi istanti.
Fu
Vegeta ad avere per primo un’ispirazione e ad andare a poggiare la testa sul suo
grembo.
Lungi
dall’essere un atto d’amore, l’odore del sangue lì era più intenso; poteva
sentire persino il suo utero stillarlo goccia dopo goccia,
battere come un secondo cuore, espellere con naturalezza quello che il suo seme
non aveva fecondato.
Bulma,
ancora pensierosa, passò una mano tra i suoi capelli e con l’altra cercò le
dita ruvide posate sul guanciale accanto a lei.
Quell’atavica
pulsazione del suo ventre non era mai stata così rassicurante e quando ella, guadando il polpastrello destro, gli domandò se per
caso avesse usato dell’inchiostro rosso o se si fosse ferito, lui riuscì a
rispondere con la voce impastata dal sonno che si trattava nient’altro che di
mercurio cromo.
***
Usare
l’olio di gomito per pulire la facciata imbrattata della casa le dava più
soddisfazione che programmare un robot che assolvesse l’incarico. Con la carta
vetrata e un secchio di vernice gialla, aveva già cancellato tre delle quattro
scritte.
Trunks,
che non scendeva dalla sua bicicletta se non per andare a dormire o fare i suoi
bisogni, la osservava strofinare il muro con rabbia e masticare qualche brutta
parola.
“Mamma,
che cosa c’è scritto?”.
Trunks
sapeva già leggere, ma l’inchiostro colato e le lettere troppo ravvicinate rendevano
l’interpretazione più ostica.
Bulma, dal
canto suo, subì quel dito puntato, così puro ed ingenuo,
come un ulteriore atto d’accusa.
Ebbe
la percezione che le auto e tutte le persone che percorrevano la strada - la
signora col passeggino, il vecchio col bastone, l’impiegato col doppio petto - si
fermassero per guardare lei e le puntassero mille di
quei diti contro.
“No,
tesoro, non c’è scritto niente di importante”, fece
una pennellata più incisiva e sorrise fintamente, constatando, ad un esame più
attento, che di dito puntato contro c’era solo quello del figlio.
“E
allora perché lo cancelli?”, si grattò la tempia.
“Perché
non si scrive sui muri altrui. Imparalo!”.
Trunks allora
concluse che ogni occasione, anche quando non aveva colpa, fosse buona per
muovergli un rimprovero. Sulla bocca del fanciullo
riapparve il broncio per il divieto imposto di andare ai giardini pubblici,
nonché la vergogna per essere crollato dal sonno davanti alla finestra prima
che apparisse il drago di fuoco.
“Mamma,
stasera perché non mi porti tu alla festa?”, provò a chiedere, sapendo che era
l’unica ad esercitare un ascendente su Vegeta e che,
in ogni caso, godeva di un’autonomia tutta sua.
Non
ricordava, infatti, che per andare dal parrucchiere o ai grandi magazzini, sua
madre dovesse ottenere l’approvazione di Vegeta.
Bulma si
passò una mano sulla fronte, coperta dalla bandana con la quale aveva raccolto
i capelli, e sistemò la bretella della salopette di jeans.
“Chiedilo
ai nonni”.
“Ma papà ieri ha detto di no!”.
“Guarda
che non è una festa così eccezionale, si tratta di qualche fuoco d’artificio con
la pretesa di disegnare una forma rassomigliante ad un
drago”, e non considerava, così dicendo, che, dopo aver assistito alle
apparizioni di Shenron e di Polunga,
aver viaggiato nel cosmo, visitato un pianeta verde, conosciuto dio e sedotto
perfino il principe di un popolo guerriero, più niente potesse destare la sua
meraviglia.
“Qualche volta ti farò vedere un drago vero,
ma stasera non ho voglia di andare da nessuna parte”.
Non
era questa la risposta che si aspettava. Tutte le altre volte, strizzando un
occhio, gli diceva che avrebbe pensato lei a
convincere suo padre.
Stava
per battere in ritirata, col ciuffetto di glicine cadente sulla piccola fronte scoraggiata,
quando ricordò l’altra ragione per cui l’aveva cercata
e le disse che il nonno aveva bisogno di lei nel laboratorio... delle stelle.
Le disse così perché il termine “astronomico” proprio non gli veniva in mente.
Con
le mani e la salopette sporca di vernice gialla, la fronte imperlata di sudore
e un passo irritato, Bulma raggiunse lo scienziato meditabondo
accanto al telescopio e con la perenne sigaretta incollata sotto i baffi.
Venne
così a sapere di quelle strane luci o forme di vita extraterrestre che andavano
e venivano dalla Terra come le api da un fiore. Fu informata anche
dell’interesse che avevano suscitato in Vegeta tanto da distrarlo dai suoi
allenamenti.
“Ma davvero?”, si massaggiò il mento con perplessità, prima
che la pupilla si dilatasse contro la lente e appurasse pure lei che non si
trattava di comuni navicelle.
“E
Vegeta cosa pensa che siano?”.
“Esattamente
niente”.
L’uscio
automatico si chiuse alle spalle del saiyan. Bulma lo vide avanzare col suo incedere sicuro e
strafottente.
“Se
non si tratta di niente, allora perché sei di nuovo qui?”, chiese la donna.
“E
chi ti dice che io stia dando importanza ad un po’ di
polvere di stelle? Avanti, scansati!”. Balzò sulla
pedana.
“Ehm…
la polvere stellare non si muove con quei movimenti simultanei”, si intromise il vecchio.
“Questo
lo so, papà, ma diamo il tempo a sua altezza perché se ne renda conto con i
suoi stessi occhi”.
Approfittando
della distrazione del saiyan, il vecchio fece segno a
Bulma di allontanarsi e le raccontò sottovoce che
Vegeta era rimasto così impressionato da quelle manifestazioni di luce da
impedire a Trunks di andare alla festa del grande
drago di fuoco.
Bulma,
allora, rispose che non c’era sempre un nesso tra ciò che Vegeta vedeva e le
decisioni che prendeva; che se fosse stato qualcosa di
allarmante egli avrebbe già indossato la sua armatura. Concluse
che non aveva tempo da perdere, dovendo pensare a un maniaco che la
perseguitava, e lasciò il laboratorio.
Era
certa che entro sera avrebbe beccato il colpevole con le mani nel sacco.
Posizionate
delle telecamere in punti solo a lei conosciuti, monitorò la situazione dei
quattro ingressi standosene nel suo ufficio.
Qui
sua madre le portò una limonata nel tardo pomeriggio insieme a dei tramezzini a
forma di cuore che aveva affettato in pochi minuti. Un tempo, era solita preparare
questi spuntini pure a Vegeta, ma poiché questi aveva farneticato più volte di
odiare le cose a forma di cuore, per assecondare la sua fantasia si limitava a
tagliarli a forma poliedrica.
“Non sei neanche venuta a pranzo. Mangia qualcosa”. Ma i dolori mestruali le avevano tolto la fame e Bulma si limitò a sorseggiare la bevanda facendo tintinnare
i cubetti di ghiaccio.
Non
staccò gli occhi dai monitor neppure quando la madre annunciò che alla festa
del drago di fuoco era successo qualcosa di molto strano.
Conoscendola,
doveva trattarsi di qualche sciocchezza che aveva appreso al supermercato, ma
la donna disse di no con molta convinzione.
“Non
ero al supermercato, ma dal fioraio e lì ho sentito che almeno tre donne sono
scomparse dai giardini pubblici la scorsa sera”.
“Cosa vuol dire scomparse?”, fece scettica l’altra,
mordicchiando la cannuccia.
“Oh,
non saprei…”, ci pensò qualche istante su con gravità per poi annunciare con
ritrovata euforia: “Comunque stasera ci andrò insieme a tuo padre. E’ così
romantico guardare i fuochi d’artificio! Dovresti portarci
anche Vegeta!”.
Bulma
rinunciò ad ottenere altre spiegazioni e si mosse
subito a consultare il computer. La prima pagina dei principali quotidiani
riportava la notizia della scomparsa di tre giovani donne durante la festa del
drago di fuoco e si precisava come tra le suddette non intercorressero rapporti
di conoscenza alcuna.
Il
marito di una di queste sosteneva che la donna era stretta al suo braccio quando,
dopo l’esplosione dei primi fuochi d’artificio, aveva sentito la presa della
mano allentarsi.
Il
padre di un’altra delle tre ragazze, invece, raccontava, che sua figlia, poco
più che sedicenne, non era più ritornata dai bagni pubblici, presso i quali si era recata insieme alla sorella maggiore, che
sosteneva, in un’altra intervista, di averla lasciata a fare la fila mentre lei
compiva l’urgenza per prima.
Dunque,
mentre tra i pensieri di Bulma si faceva
sempre più strada la connessione tra il maniaco dei giardini pubblici e i
messaggi comparsi fuori casa sua, l’ulteriore notizia della scomparsa di un
bambino, avvenuta sempre durante la festa del drago di fuoco, sbarrò il passo a
questa congettura, e allora ricordò ciò che le aveva raccontato suo padre in
merito al rifiuto di Vegeta di mandare Trunks ai
giardini pubblici.
Sugli
schermi dei monitor che sorvegliavano il muro di cinta, intanto, le ombre si allungavano con innocuo procedere, e tra queste scorse
il profilo di Vegeta che calpestava il ciottolato in prossimità dell’uscita con
fare circospetto.
Si
alzò e si affrettò a raggiungerlo in cerca di un chiarimento, e siccome non
aveva trovato un minuto di tempo per andare al bagno, percorse le scale e i
corridoi con la sensazione che al ritorno avrebbe potuto torcere l’assorbente al
pari di una spugna.
Sulla
fronte preoccupata c’era ancora un graffio di vernice gialla.
Diede
un’occhiata circolare al giardino, rischiarato dalle luci dei lampioni che proprio
in quel momento si azionavano, e vide che di Vegeta non
c’era più neppure l’ombra.
La
speranza che non avesse spiccato il volo le fece risparmiare altro fiato
prezioso, poiché, non appena varcata l’uscita, si imbatté
proprio in lui sul ciglio del marciapiede; e la cosa che più la sconvolse fu
che egli teneva tra le mani una bomboletta di spray di colore rosso e sul muro era
ricomparsa la famigerata scritta.
“Non
posso crederci… allora sei tu?”, restò annichilita, mentre un soffio improvviso
di vento le scompigliava la frangetta.
Il
sospetto che si trattasse di lui nel momento in cui,
la sera prima, aveva scoperto i polpastrelli sporchi di vernice e non di
mercurio cromo, come lui aveva sostenuto, era stato bandito nello spazio
sovraffollato delle idee più assurde che avesse mai concepito.
Scoppiò
in lacrime e gli andò a tempestare il petto di inutili
pugni. “Come hai fatto a stare tutti questi anni con me se era questa
l’opinione che avevi? Che ti ho fatto per meritare questo?”.
Da
quando il saiyan aveva accettato di vivere sotto il
suo stesso tetto non aveva avuto occhi che per lui. Nessuno avrebbe mai pensato
che l’egoista Bulma Brief
potesse riuscire ad amare un uomo incondizionatamente per quello che era e non
per quello che sperava sarebbe diventato, amando
persino la bestia che era in lui e rinunciando alla facilità di qualsiasi altra
vita coniugale.
“Perché
non me lo hai detto in faccia? Ti sei nascosto dietro ad un muro! Vigliacco!”.
Se
a Vegeta montò una rabbia tremenda non fu per quelle
lacrime, né per essere stato scoperto o per le accuse mosse con vigore tanto
patetico. Se c’era una cosa che non sopportava era
l’ottusità della gente, in particolare quella di chi millantava di continuo il
contributo che rendeva all’umanità intera grazie al proprio ingegno.
A
volte si domandava come quella donna avesse fatto ad
escogitare il radar cerca-sfere, a viaggiare alla volta di Namecc,
a costruire un macchina del tempo, a neutralizzare la potenza di un androide
indistruttibile. In momenti come questi, nel sofisticato
circuito dei suoi neuroni, qualche meccanismo si inceppava, e l’intelligenza si
liquefaceva come grasso che cola: non sempre il processo di lubrificazione
avveniva con sollecitudine.
“Stupida
e deficiente terrestre!”, le afferrò i pugni e la trascinò con violenza dinanzi
all’iscrizione ancora fresca.
Bulma fu
costretta a guardare in faccia la realtà contro il suo volere, dimenandosi senza
successo sotto la pressione micidiale di quelle dita.
“Possibile
che tu non sappia distinguere quello che vedi? Se solo fossi andata
oltre le apparenze, ti saresti accorta che non si tratta di alfabeto
terrestre!”.
Il
vento smise di scompigliarle la frangetta e i rumori circostanti furono
intrappolati in un’ampolla infrangibile di vetro.
La
donna, sgranando gli occhi, osservò ognuna di quelle lettere e vide, ad un esame più attento, che l’asse centrale della lettera
“A” aveva forma semicircolare, che le due lettere “T” avevano inclinazioni
speculari e la base della lettera “N” era unita in un unico segmento.
“Non
sono stata la sola a sbagliare. Mio padre e mia madre
hanno letto quello che ho letto io…”, farfugliò scioccata.
Adesso
che ci rifletteva, solo Trunks
non era riuscito a decifrarne il senso.
“Allora
siete un’intera famiglia di imbecilli!”.
“Ma si può sapere cosa c’è scritto?”, ritornò in sé, col
ritrovato piglio di donna di scienza.
Se
c’era un’altra cosa che Vegeta detestava era giustificare
le azioni che compiva, ma giunto a questo punto non poteva esimersene.
La
mascella sembrò compiere lo stesso sforzo che avrebbe compiuto
se avesse masticato pietre:
“Proprietà
privata. Ecco che cosa significa!”.
***
Si immagini
un popolo che, simile ad uno sciame di lucciole, viaggi nello spazio sottoforma
di bagliori e che soltanto nell’atmosfera di un pianeta assuma consistenza corporea.
Scevro
da intenti bellicosi, nella ricerca perpetua di evolvere le proprie
caratteristiche, assorbe dall’origine dei tempi il patrimonio genetico di altri
popoli.
Confluisce
il meglio e il peggio di ogni etnia nel cosiddetto “popolo delle razze
incrociate”, che semina e raccoglie ad ogni suo
passaggio, progredisce e si imbarbarisce senza fare distinzioni. Possono avere
peli, squame, pelle liscia, occhi rubini, gialli o azzurri. Hanno i poteri
magici di Namecc, l’indole superba dei saiyan, l’ingegno degli Tsufuru, le
tecniche di teletrasporto di Yardrat, il temperamento
pacifico degli abitanti di Shamo, il dono della
prescienza dei Kanassani; eppure nessuna di queste
connotazioni prevale in essi, se non l’istinto primordiale di unirsi ad altre
genti.
Bulma
scosse la testa. Il racconto di Vegeta, seppure ermetico, era
stato chiaro fino ad un certo punto.
“Vuoi
dire che portano via donne e bambini di altri pianeti con lo scopo di mescolare
la propria razza? E’ un popolo mostruoso almeno quanto il
vostro!”.
Le
lanterne accese sulla terrazza realizzavano un chiaroscuro su ogni tratto in
tensione del suo profilo. Non si era ancora accorta che una piccola chiazza di
sangue iniziava a dilatarsi sul cuscino della poltrona in fibra sintetica.
“Non c’è violenza da parte loro. Le donne sono fecondate con un atto simile ad un processo di… impollinazione. Generalmente,
questo può accadere soltanto al calar del sole e hanno un tempo di permanenza su
ogni un pianeta che non supera i quattro giorni”.
“E
quella scritta? A cosa serve scrivere proprietà privata?”.
Il
saiyan fece ancora un altro sforzo:
“Proprietà
privata è un messaggio in codice che si usa per dire loro di passare oltre”.
Come
un angelo sterminatore davanti al sangue di agnello, così quella dicitura paralizza
i loro istinti e ne devia i percorsi.
Forse
fu per quel sangue uterino che impregnava l’orlo delle mutandine che Bulma, gettando la schiena contro la poltrona con un sospiro di sollievo, spiegò che in quei giorni non avrebbe
mai potuto correre pericolo.
Ma questo
Vegeta lo sapeva.
Era
Bulma a dimenticare il dettaglio del bambino e delle
donne scomparse alla festa del drago di fuoco, senza
considerare le altre misteriose sparizioni registrate in varie parti del globo.
Si
aggiunga dunque, a rigor di completezza, che nel “popolo delle razze
incrociate” esiste un’elite pura, la quale non si allontana mai dal remoto
suolo patrio e governa con autorità e giustizia. A loro sono condotte
donne fertili e bambini da allevare.
Si
narra, ma questa potrebbe essere una leggenda per fare sogni più tranquilli,
che una volta giunti su quel pianeta dalla forma di disco esagonale, incastonato
in un cielo dai colori più svariati, non si desideri più tornare indietro,
perché un regno di pace e di grande armonia come questo, dove le diversità si
cercano e mai si respingono, non esiste in nessun angolo dell’universo.
Bulma,
che non ci teneva affatto a finire in un posto simile,
restò pensierosa e alla fine esclamò come colta da una profonda ispirazione:
“Eri
tu ad inseguirmi quando mi allontanavo da casa. Non è così?”.
Il
mento di Vegeta roteò nella direzione opposta a quella dove si trovava lei.
Appoggiato
al parapetto, incominciò ad avvertire su tutto il corpo un
prurito da orticaria. Succedeva sempre ogni volta che prendeva a tirare
quell’aria e Bulma abbozzava quel sorriso da fanciulla innamorata.
“Sei
stato molto… dolce… a preoccuparti per me e per tuo figlio”.
Dolce?
Altro
che cigolio di mille cancelli rugginosi! Questo era il deragliamento di un treno
sotto la metropolitana!
Vegeta
portò d’istinto una mano all’orecchio come se gli avessero urlato dentro.
Mentre
Bulma si avvicinava a lui ostentando audacia e
sicurezza, il principe dei saiyan restò impietrito
con la schiena contro il parapetto.
“Non…
non ci provare più a pronunciare una simile roba”, farfugliò.
Per
sua fortuna, l’interesse della donna si spostò al di là delle
sue spalle. I coniugi Brief, a braccetto,
percorrevano il giardino con i vestiti delle grandi occasioni. La signora
saltellava allegramente facendo roteare la borsetta e, strano a dirsi, il sig. Brief, dismesso il camice bianco, non aveva la sigaretta
incollata sotto i baffi.
In
lontananza, il rombo dei fuochi d’artificio annunciava l’inizio della festa.
Trunks,
salito sulla terrazza più alta, sgranocchiava popcorn nella speranza di
mantenersi sveglio fino all’apparizione del drago di
fuoco.
“Ma dove vanno quei due? E se a mia madre succedesse
qualcosa?”, gli strinse con apprensione il braccio.
L’occhiata
interdetta di Vegeta fu assai significativa, poiché
era uno di quei momenti in cui l’intelligenza di Bulma
si liquefaceva come grasso che cola; tuttavia si tolse la soddisfazione di
esclamare mentre se ne andava:
“E’
un vero peccato che sia vecchia. Sarebbe stata l’occasione giusta per
togliermela dai piedi una volte per tutte!”.
FINE