Buio.
Non una luce, nemmeno la luna se la sentiva di uscire
allo scoperto.
Un’ombra si mosse, facendo tornare la tenda nella sua posizione iniziale, vi fu un leggero tintinnìo:
la campanella che le aveva regalato e che lei aveva attaccato al cordino della tenda, assieme ai nastri
raccattati in più di cinque anni.
Non emise un fiato, solo l’alzarsi e l’abbassarsi
regolare del petto.
Alle lacrime non servono suoni, loro escono e basta;
un leggero fastidio all’angolo dell’occhio, la vista che si appanna. Di brutto
c’è il dolore alla bocca dello stomaco, non si può farlo
uscire.
Si asciugò gli occhi con il dorso della mano.
Sicuramente si sarebbe sporcata di mascara, rendendo le occhiaie ancora più profonde.
Sorrise.
Chissà come mai nei momenti di maggior dolore la mente
umana si ritrova a pensare alle cose più
futili.
Si passò una mano tra i capelli, poi rimase immobile, le
braccia lungo i fianchi, le dita strette a pugno.
Non
voleva scostare di nuovo la tenda, sapeva che l’avrebbe visto.
Sul marciapiede, dietro la rete, sotto il lampione
morto, le mani in tasca e lo sguardo fisso verso la tenda
tirata.
Come ogni sera.
Lo stomaco le si contorse in una fitta dolorosa, ma non si mosse di un millimetro.
Il dolore le dava quasi un senso di
liberazione.
D’altronde era colpa sua e ne pagava volentieri le
conseguenze. Lei e la sua maledettissima paura di mostrarsi per ciò che era.
Cosa pretendeva se teneva il suo vero io sotto
chiave?
…Solo lui era riuscito a forzarne la serratura, ma poi lei l’aveva allontanato.
Non perché si fosse spinto troppo in là, quello le
piaceva. Il problema era che aveva fatto uscire anche la parte di lei che doveva
rimanere in ombra, e da cui era stata
sopraffatta.
Basta, stava diventando
retorica.
Cedendo ad un impulso momentaneo, allungò la mano verso la tenda, stringendo la stoffa.
Il campanello tintinnò di nuovo.
Il velcro si strappò leggermente, così che un lembo di
stoffa bianca pendeva in modo asimmetrico sul parquet.
Un rumore.
Non se ne preoccupò, la casa ne aveva molti, e la porta
era chiusa a chiave.
Si morse il labbro, la mano teneva sempre in pugno la stoffa liscia. Diede uno strattone e il sottile velo cadde.
Un fruscìo,
seguito dal suono sordo del campanello.
Come volevasi dimostrare.
La sagoma era scura, ma i suoi occhi, ormai abituati
al buio, la distinguevano senza problemi.
Una scintilla.
Chissà quante ne aveva fumate… Brutto vizio, ma non lo poteva biasimare, ce l’aveva anche lei.
All’improvviso le tornò alla mente
un’immagine.
Una mano aperta, un piccolo anello luccicante. La gioia che le saliva alla gola, per poi esplodere in un grido. I suoi occhi sorridenti. La bocca che le diceva cose senza importanza, in certe occasioni le parole valgono zero.
Poi ancora.
Aria tiepida, il rumore delle fronde mosse dal vento, un leggero profumo di resina. Le mani di lui sui suoi occhi, il pulsare doloroso al basso ventre, un corpo che aderiva al suo.
E ancora.
Lacrime. Il viso di lui stravolto in una maschera di orrore, un dolore sordo allo stomaco, parole dure, la porta che sbatteva. Un’angoscia senza fondo, come un pozzo aperto.
E ancora.
L’aria sulla pelle, fredda, dura. Lo sferragliare della carrozza del treno, una voce che predicava ad intervalli regolari, voci che si confondevano tra loro.
Il vuoto.
Brutto,
irrazionale, cattivo, senza cuore.
Appoggiò la fronte al vetro, guardando fuori. La sagoma era sempre lì, con la testa piegata di lato.
Sorrise, certa che lui l’avrebbe
ricambiata.
Dopotutto tra di loro non era cambiato nulla, solo una promessa non mantenuta, ma i sentimenti non guardano a certe piccolezze. Che stupida, fino ad allora non aveva fatto altro che nasconderli
sotto una montagna di
doveri.
Increspò le labbra in una smorfia disgustata, poi alitò sul vetro.
Alzando lo sguardo notò gli adesivi a forma di cristalli
di neve.
Li aveva attaccati due anni prima per Natale, ma non li aveva più voluti togliere, le davano la sensazione che non fosse tutto perduto.
Rimase in quella posizione per un tempo che le sembrò interminabile, anche se l’orologio dello stereo decretava fossero le due e dieci.
Due minuti, una vita intera: risate, corse, passeggiate, sorrisi, rumori, suoni, profumi.
E ancora.
L’acqua, il silenzio, la musica assordante, i fuochi d’artificio.
Una fitta al cuore, vertigini, le lacrime ricacciate
indietro malamente. E poi, un braccio attorno alla sua vita, che la stringeva
possessivamente.
Si abbandonò sulle ginocchia, la testa appoggiata sulle mani, il naso appiccicato al vetro.
Vista da fuori doveva sembrare buffa.
O divertente.
O triste.
Strano
come cambino i colori a seconda
dell’umore.
Il suo sguardo puntò per un momento verso la strada.
C’era.
Una sola differenza, il volto rivolto verso l’alto, ad
immergersi nel buio.
Le ginocchia iniziarono a dolerle, ma non si mosse, incantata a guardare quella figura che sembrava pregare. Si alzò di scatto e con un gesto fulmineo spalancò la finestra, l’aria fresca sulla pelle e un profumo persistente di caffè.
Si appoggiò con entrambe le mani alla ringhiera del balcone e aprì la
bocca, per poi richiuderla.
Non serviva pronunciare quel
nome.
La testa della sagoma puntò di nuovo verso la sua direzione.
Si sedette sul marmo freddo, le mani ancora saldamente
aggrappate al ferro della ringhiera.
Perché era ancora lì? Con tutto quello che gli aveva fatto patire…
Perché era lì, sotto un lampione che non funzionava, a consumarsi?
Perché i suoi occhi erano ancora per
lei?
Iniziò a tremare.Si strinse le braccia al petto.
Se lui poteva rimanere al freddo per delle ore, lei
non sarebbe stata da meno.
Sorrise. Lui amava la sua
testardaggine.
Un’ immagine.
Lo sguardo alzato verso di lui, una mano che lo schiaffeggiava, ancora parole inutili. Il gelo, la rabbia, la vendetta.
E ancora.
La pietra fredda, un tramonto rosso fuoco, l’odore
dell’erba appena tagliata. Una mano sulla sua spalla, parole, due bocche che si
cercano.
Una lacrima le scese per la guancia, fermandosi sul
mento.La raccolse e la leccò.
La figura in strada si mosse.
Una scintilla.
Un debole scatto.
Lo osservò a lungo.
Un rumore la fece voltare.
Rumori di mani che cercavano di forzare la porta, suoni
incomprensibili.
Prima o poi tutto deve
finire.
Osservò incuriosita le sue mani, sembravano tinte di un colore scuro.
Scherzi del
buio.
La porta si aprì, il letto impedì che si spalancasse
completamente. Voci concitate, mani che cercavano di spostare il
mobile.
Si alzò in piedi.
Un dito premette l’interruttore. Grida, voci, suoni.
Si coprì istintivamente gli occhi, poi iniziò a guardarsi intorno.
Rosso.
Rosso dappertutto.
Un corpo seduto contro l’armadio, la gola recisa, segni
mortali sul petto, una pozza rossa a terra.
Sorrise.
Si avvicinò al cadavere e baciò le labbra ormai viola.
Tornò sul balcone.
La figura
era sempre lì.
Sentì delle mani che la strattonavano, urla, rumori.
Guardò fuori finché non lo perse di vista, il viso sorridente, le lacrime rapprese sulle guance, le mani sporche di sangue inermi.
Arrivò in strada. Vide che il lampione funzionava di nuovo.
Se n’era andato…
Comprese.
Il volto di lui.
Terrore, lacrime, parole inutili.
Un coltello.
Il sangue.
La pace, infinta, buona.
Le mani che gocciolavano, un torpore
improvviso…
Il risveglio.
Il suo volto fuori dalla finestra che la osservava.
Per sempre.
Spalancò la bocca e cacciò un urlo privo di suono.
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