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Autore: Dernier Orage    19/05/2012    3 recensioni
Un pomeriggio invernale tra tempeste, cielo plumbeo e strada bagnata.
L'amore di due ragazzi in una città francese del 1980.
Riscritta dopo quattro anni, corretta, leggermente modificata.
Genere: Malinconico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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L'uomo è un'inutile passione.
(Jean-Paul Sartre)




Febbraio 1980.
La lezione trascorreva lenta e noiosa, i tre interrogati rispondevano con insicurezza alle semplici domande poste dalla professoressa, una signora di mezz’età, magra, alta e spigolosa, dall’aria severa e malevola. La classe era ampia e dispersiva, i banchi di legno, antichi e ingombranti, erano molto distanziati gli uni dagli altri, non c’era molta luce, il cielo era cupo e buio, ogni tanto l’aula si illuminava per i fulmini, subito seguiti dai loro compagni tuoni. Un braccio nelle prime file era alzato nel tentativo di catturare l’attenzione della professoressa grigiastra.
- Non ho il libro, potrei spostarmi vicino ad Alunir?- Chiese una voce grave e incerta. Al cenno affermativo della donna, il ragazzo raggruppò i suoi oggetti e, a sguardo basso, marciò davanti a tutti i compagni di classe, che lo osservavano borbottando astiosi.
Stephane Alunir era seduto nell’ultimo banco, vicino alla finestra, isolato dal resto della classe perché i professori non giudicavano il suo comportamento adeguato all’ambiente scolastico. Eppure ogni giorno aveva i compiti fatti, le lezioni studiate, seguiva le spiegazioni, prendeva voti alti nelle verifiche scritte, ma i professori preferivano notare i lividi in viso, i capelli spettinati, i vestiti laceri, il rifiuto di presentarsi alle interrogazioni e la poca remissività. Stephane. Aveva dei grandi occhi scuri spalancati e dolcissimi, capelli quasi neri, lisci, un po’ stopposi e sempre spettinati e scompigliati, viso gentile, dalla fronte ampia e la pelle come quella di una persona che non vede il sole da parecchi giorni per colpa di una malattia, le labbra sensuali.
Stephane si affrettò a togliere lo zaino dal banco e a poggiarlo sul marmo del pavimento. Ismael, sorridendo nervoso e inclinando la testa di lato, si sedette affianco all’amico. Tremava, aveva freddo, il riscaldamento in quella scuola non era mai alla temperatura adatta. Gettò uno sguardo alla cattedra, la professoressa stava sbraitando su quanto poco tempo si dedicasse allo studio in quella classe.
Stephane gli poggiò la giacca di pelle sopra le spalle, per riscaldarlo, sorridendo scrisse con una matita sul banco poche parole: ciao! Finalmente! Ieri mi sei mancato troppo.
Ismael si voltò a guardarlo, gli occhi scuri si concatenavano con il grigio dei suoi. Prese un foglio di carta, velocemente disegnò delle lettere piccole, precise, leggere: scusami, ieri sono stato all’ospedale, ho avuto un’altra crisi.
Stephane letto quello, afferrò il foglio e scrisse velocemente, in una calligrafia caotica e imprecisa: come un’altra crisi? Quando? Cosa ti hanno detto? Tua madre? Ora come stai? Si voltò ad osservare Ismael, il viso ovale, gli zigomi ricoperti dalle efelidi, gli occhi grigi, sempre velati, erano leggermente infossati, circondati da un’ombra. I capelli, ricci, ribelli, voluminosi, gli circondavano il viso come un’aureola, il colore, quel castano con i riflessi freddi.
Ieri mattina mi sono svegliato e mia madre mi ha detto che quella notte avevo avuto un altro attacco, quindi mi avrebbe accompagnato all’ospedale per un controllo. I medici hanno detto le solite cose, niente alcol, niente fumo, niente di niente. Scrisse fulmineo, mantenendo la calligrafia elegante e senza sbavature.
- Alunir, Chalm, zitti o finite dal preside.- Tuonò la professoressa.
- Ma non stiamo mica parlando!- Protestò Stephane incrociando le braccia.
- Taci Alunir, abbi almeno il buonsenso di non peggiorare la tua situazione già critica. In quanto a Chalm, non ti permetterò di plagiarlo ulteriormente, ci metterò due secondi a firmare la tua bocciatura.- Continuò la professoressa togliendosi gli occhiali e portandosi una stanghetta tra le labbra. Stephane stava per ribattere, ma dopo aver incontrato lo sguardo implorante di Ismael, le parole gli morirono in gola.
Quando la professoressa distolse l’attenzione dall’ultimo banco, nella classe riprese il classico e snervante brusio. Stephane si passò una mano tra i capelli, sospirando. Riprese in mano la matita, incidendo la carta: mi sei mancato veramente. Stasera ti fermi a casa mia?

La campanella suonò proprio mentre la grigiastra professoressa di Latino stava per dettare i compiti per il lunedì successivo. Come di tacito accordo la classe si dileguò verso l’uscita della classe, per i corridoi a mischiarsi con altre classi e altre genti, altri micromondi immensi e minuscoli, piccoli staterelli autarchici e sempre in guerra tra loro, magari per una parola da parte di un prof. stimato, una partita a calcio, rugby o pallanuoto, il numero dei bocciati ogni anno, ogni cosa era un pretesto per prevalere sulle altre classi.
Stephane e Ismael camminavano fianco a fianco per le fredde e strette strade di Brest, una città portuale come tante altre, in perenne ricostruzione dopo le bombe. Stephane, la giacca in pelle lasciata aperta nonostante la temperatura glaciale, le mani cacciate nelle tasche, a giocherellare con la scatolina di latta dove teneva le sigarette. Ismael con il cappotto a doppiopetto nero, con il bavero rialzato fino a coprire il labbro superiore.
Stephane abitava in palazzo di cinque piani, a circa un chilometro dalla scuola, in un appartamento da cinque stanze piccole, accoglienti e luminose. Viveva con sua madre, una cameriera in un locale molto frequentato dai militari della base navale. Un giorno Stephane malinconico disse ad Ismael che non aveva mai conosciuto suo padre e temeva fosse un soldato che magari aveva amato per solo una notte sua madre durante una licenza. La cosa che lo lasciava basito era l’amore solo per una notte, come lo intendeva lui, solo una notte e poi basta. Finito, scomparso. Dissolto, evaporato, se fosse mai esistito.
- Mamma! Sono a casa!- Urlò Stephane cacciandosi le mani nelle tasche del giubbino. Annik Alunir era una donna splendida, di neanche quarant’anni, alta, slanciata e dalla pelle luminosa. Dagli occhi scuri come quelli del figlio, circondati da delle lunghe ciglia, i capelli scuri tagliati a caschetto, portati con la riga a sinistra. Non era truccata e indossava un maglione da uomo, arancione, largo e lungo fino a metà coscia, dei fuseaux neri e delle scarpe da ginnastica che lasciavano scoperte le caviglie.
Appena vide i due ragazzi li tempestò di domande e affermazioni, felice per non essere più sola in casa: - Ciao! Oh, ci sei anche te! Tutto bene a casa? E’ da tanto che non vedo tuo padre. Stef… come è andata a scuola? Madame Cypril mi ha telefonato per dirmi che durante le sue lezioni non ti sei comportato bene. Vuole bocciarti.-
- Salve, mio papà è via per lavoro.– Rispose Ismael togliendosi il cappotto.- La Cypril oggi ha dato di nuovo in escandescenza. Noi non abbiamo fatto nulla di male.-
- Ma mamma! Non le crederai mica? Non può bocciarmi, siamo solo a Febbraio. Scusa, non puoi dire anche a Côme di telefonarti per dirti come mi comporto? Mi elogerebbe come il secondo artista francese contemporaneo.- Protestò Stephane aprendo la porta della sua cameretta e facendo cenno di seguirlo ad Ismael.
- E il primo chi sarebbe?- Domandò distrattamente Annik.- Iniziate a fare i compiti per domani, quando è pronto vi chiamo.-
- Mael, ovviamente! Domani niente scuola! - Esclamò il figlio dall’altra stanza.- C’è assemblea d’Istituto quindi niente compiti né giustificazioni. E i compiti per lunedì li abbiamo già fatti.-
La camera da letto di Stephane era piccola ma accogliente, tinteggiata recentemente di bianco, con una grande finestra che mostrava il porto. C’era un letto ordinato, un divano piccolo divano a due posti vecchio e logoro, una scrivania coperta di carte, cassette, libri e quaderni, una sedia sommersa da abiti neri, degli scaffali e uno specchio a figura intera. Alle pareti erano appiccicati con il nastro invisibile articoli musicali e testi di canzoni.
Stef chiuse a chiave la porta e si coricò sul letto senza neanche togliersi gli stivali, afferrò la chitarra, il cui manico gli si era piantato in un fianco e iniziò a strimpellare una canzone che inizialmente l’amico non riconobbe. Ismael si era avvicinato alla finestra e seduto sul largo davanzale. Al di là del vetro uomini in salopette blu e dal viso abbronzato per il lavoro all’aperto erano indaffarati a sbarcare le casse di legno da una nave svedese con un sistema di carrucole. Il respiro di Ismael aveva appannato una porzione di vetro.
- Dai, vieni qua…- Mormorò Stephane sporgendosi e poggiando la chitarra sulla moquette. Ismael gli si avvicinò e si inginocchiò sul copriletto grigio scuro, poggiò i gomiti sulle ginocchia di Stephane, allungò il collo e gli posò le labbra su un angolo della bocca, lasciando dei baci leggeri.
- Sai che non dovremmo farlo, se tua madre…- Sussurrò Ismael staccandosi dalle labbra dell’amico e fissandolo negli occhi cioccolato.
- Shhh… tranquillo.- Disse Stephane baciandolo con foga e contemporaneamente sbottonandogli la larga camicia che avvolgeva il suo corpo in mille sbuffi. Il petto chiaro era coperto da una maglietta a mezze maniche nera, dei Doors, logorata dall’utilizzo, l’aveva comprata tre anni prima a Parigi, in vacanza con la famiglia. Stephane la sollevò, facendo rabbrividire Ismael, il suo corpo era coperto da graffi e lividi, alcuni violacei, altri già giallognoli, con il bordo impreciso bluastro. Stephane trattenne il respiro.
- Fanno tanto male?- Chiese tracciando il contorno delle ferite, con uno sguardo triste.
- Ora no, ma appena torna la percezione, torna assieme al dolore per le ferite. La mia casa è piena di spigoli, piena di oggetti. Non è importante, lascia mia madre disperarsi per cose che non può cambiare, come se non ci fossero situazioni peggiori. Ora siamo solo noi due, e tua madre a distanza di una parete, tu non temi di essere scoperto e io ti voglio baciare.- Disse a voce bassa Ismael gettando le braccia al collo dell’amico e schiacciandolo contro il materasso, baciandolo e giocherellando con la lingua.

- Hey! E’ pronto. Venite…- Annik stava bussando alla porta.
Ismael si staccò dalle labbra di Stephane, si alzò e velocemente si richiuse la camicia. Stephane si passò una mano tra i capelli, per scompigliarli ancora di più del solito.
Il piccolo tavolino – Annik sosteneva che fosse uno spreco di legno comprarsi un tavolo più grande, visto che al massimo cenavano in tre - era accostato alla parete. La ‘sala da pranzo’ non era altro che uno spazio occupato da quel minuscolo tavolino, accerchiato da tre sedie e pile di scatoloni pieni di libri, riviste, dischi e articoli ritagliati da giornali. Quel minuscolo tavolino era ricoperto da una tovaglia blu con dei giganti girasoli gialli stampati sopra.
- Mamma… sidro o birra ?- Domandò Stephane, aprendo il frigorifero e facendo cessare il ronzio della serpentina.
- Non sarebbe meglio qualcosa di analcolico ?- Annik fissò il frigo, nella vana speranza che non ci fosse niente con qualche grado di alcol. Non le piaceva che suo figlio bevesse, anche se poco. Odiava le sigarette che gli vedeva tra le labbra carnose, così dissimili dalle sue. Però non protestava perché pure lei fumava, odiava l’ipocrisia e quello sarebbe stato un atteggiamento ipocrita e non rispettoso nei confronti del figlio.
- Allora vada per la Kronenbourg.- Stephane fece rotolare le tre lattine fino al centro del tavolino e si sedette vicino ad Ismael.
Annik aveva preparato in tre piatti, delle fette di pane e delle ciotoline con del sugo caldo.
- Che piani avete per oggi? Io resto a casa a riposarmi per stasera, ritornerò domani mattina. Mael, tu resti a dormire? Tua mamma lo sa già? Puoi chiamarla, se vuoi…- Disse distrattamente Annik, con sguardo materno. La prima volta che lo vide era un bimbetto di sette anni, col visino piccolo e diafano che sbucava da una voluminosa frangia riccia, dai modi cortesi e amorevoli, un bimbo che teneva sempre nelle taschine dei pantaloni dei cerotti che non sapeva neppure mettere, nel caso un suo compagno di giochi si fosse fatto male, nonostante che per guarire la ’bua’ sarebbe bastato un suo sorriso, e non mancava, ma il piccolo Mael attribuiva la scomparsa delle lacrime esclusivamente al tenero medicamento.
- Si potrebbe uscire sul tardi e non rientrare neanche per cena…- Lasciò in sospeso Stephane.- Mael, cosa ne pensi ?-
- Ho chiamato mia madre dal telefono della scuola, preferirei non parlarle almeno fino a domani.- Rispose Mael sorridendo dubbioso.- Per me va bene tutto, però forse è meglio aspettare che smetta di piovere.-
- Sì, hai ragione. Non restate fuori fino a tardi, per favore.- Ormai Annik si era abituata, ogni ordine che dava veniva costantemente trasgredito, con Stephane le conveniva chiedere, e quasi sempre otteneva. Il figlio la sera sarebbe tornato ad un orario decente, niente litigi e niente problemi. E poi, Stephane le chiedeva di uscire di notte solo quando il giorno dopo la scuola non c’era. Questo le bastava, infondo lei a sedici anni non aveva il permesso di uscire con gli amici neanche il pomeriggio, e si era ripromessa di essere molto più aperta con eventuali figli.
- Certo, intanto fuori fa freddo e il venerdì non c’è nulla di interessante.- Sbuffò Stephane, poi, rivolto ad Ismael.- Tutto bene? Non mangi niente…-
La signora Alunir sorrise, in fondo non aveva un figlio perfetto, però umano e sensibile, nonostante i professori si lamentassero sempre per il comportamento, Stephane non picchiava mai nessuno. Poteva reagire, certo, ma non portava rimorso, non era capace di odiare e fare del male a qualcuno.
- Va tutto bene, veramente, è che… non ho tanta fame.- Mormorò Ismael.- Ho fatto un’abbondante colazione.-
Stef alzò lo sguardo al cielo:- Non è vero. Ti odio quando fai così. Mangia almeno un po’. Mangia almeno qualcosa. Fallo almeno per me.-
- Va beh, se non ha fame non mangia, lo fai pure te, quindi… volete qualcos’altro ?-
- Il dolce.- Borbottò Stephane guardando con astio il piatto ancora pieno dell’amico. Non ci poteva fare nulla, semplicemente assisteva all’autodistruzione del ragazzo. Del suo ragazzo, come definiva nei suoi pensieri, senza neanche il coraggio di dirglielo.
- Anche io, per favore.- Disse Ismael con voce appena percettibile. Annik fece un occhiolino al figlio e posò sul tavolo delle piccole ciotole di vetro con della frutta sciroppata.- Grazie mille.-
Annik sorrise, ormai lo conosceva da anni, era così diverso da suo figlio. Era più ordinato, preciso, silenzioso. Era meno impulsivo, chiacchierone, famelico. Quando era più piccolo e chiedeva l’ospitalità perché non sopportava i litigi dei suoi genitori, le domandava sempre perché non sposava Jean Jacques Chalm, suo padre e non lo adottavano. Lei piuttosto imbarazzata gli rispondeva che lui una mamma già l’aveva e che non era così facile sposare una persona.
- Ti faccio sentire una musicassetta.- Pronunciò Stephane alzandosi, raggruppando i piatti e le posate e poggiandole nel lavandino. Ismael aiutò Annik a scrollare la tovaglia fuori dalla finestra, una pioggia di briciole inondò la strada, e poi a piegarla.
- Ieri Alice è tornata da Londra, ha portato un sacco di cose, tra cui questa cassetta di un gruppo inglese, Stef l’avrà ascoltata tutta la notte. C’è un pacchetto anche per te.- Spiegò Annik, spedendo poi i due in camera, lasciando intendere che più che aiutarla, in cucina, le complicavano la vita.
- Questa camera ha preso fin troppa luce.- Affermò Stephane chiudendo con uno scatto le tende. Pochi spiragli di luce filtravano dagli strappi e dalla stoffa lacera. La porta era nuovamente chiusa a chiave. Il ragazzo inserì la musicassetta nel registratore, premette il tasto play.
No light, no people, no speak, no people, no cars, no people, no food, no people.
- E’ di un gruppo che si chiama The Cure, la cura, piuttosto interessanti. Si intitola Grinding Halt.- Disse Stephane porgendo all’amico un foglietto con i titoli delle canzoni. La musica era semplice, scarna. La copertina della cassetta era di un rosa scuro, con degli elettrodomestici in mezzo. Ismael, l’avesse vista in negozio, senza ascoltarla, non l’avrebbe mica comprata.
Stopped, short, grinding halt, everything’s coming a grinding halt.
- Come si è trovata Alice in Inghilterra ?- Chiese Ismael. Alice, Londra. Alice era la sorella minore di Annik, la zia di Stephane. Aveva ventisette anni, quindi Stephane la trattava più come una sorella che come zia.
No sound, no people, no clocks, no people, no fine, no people, no me, no people.
- Oh, tutto bene, si è divertita tantissimo, ci torna fra tre settimane. Dice che l’hanno assunta in un negozio di dischi e si trova bene, dice che è pieno di gente giovane e c’è molto più fermento che in Francia. Ci sono i punks.- Rispose Stephane afferrando un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi. Il fiammifero sfrigolò contro la carta vetrata della confezione di cartoncino, il fiammifero sfrigolò contro la carta della sigaretta. Stopped, short, grinding halt, everything’s coming a grinding halt. – Adorerei andare nella via più trafficata, in mezzo alla strada, e baciarti. Magari mentre passa la Cypril, o tua mamma…- Inspirò, provò ad offrire una sigaretta ad Ismael, non voleva, gli soffiò uno sbuffo di fumo in viso, lo faceva soltanto perché all’amico non aveva mai dato fastidio, questo. Slow down, slow down, no people, slow down, everything’s coming to a…- Ti danno fastidio questi discorsi. Io ti amo, punto.-
Stephane era a disagio, stava gesticolando e non sapeva se cacciarsi le mani in tasca o passarsele tra i capelli per scompigliarseli, optò per riaprire i tendoni.
- E lo so…- Rispose triste Ismael mordicchiandosi l’interno delle guance.- Anche io.-
Aveva ripreso a piovere e le gocce picchiettavano al vetro della finestra. Giù al porto, degli uomini si affrettavano per ricoprire con dei teloni impermeabili dei sacchi di juta. Stephane gli voltò le spalle, frugò tra gli abiti gettati disordinatamente sulla sedia di legno, tirò fuori dalla monocromia nera un pesante maglione di lana ruvida. Lascivamente si sfilò dal collo la camicia bianca spiegazzata, senza nemmeno sbottonarla.
- Sei complicato. A volte mi sembra che tutto sia finzione, non intendo come bugia ma come realtà celata, nascosta, e mi sento impossibilitato a comprenderti. Non è una bella sensazione.- Mormorò Stephane aprendo la finestra e gettando sul davanzale il mozzicone di sigaretta. Tra due navi, cariche di container di metallo e di legno, si intravedeva la linea dell’orizzonte. Il mare era grigio scuro, agitato, il cielo plumbeo, tranquillo. Non era una zona calma, l’edificio dava direttamente sul porto, tutte le ore poteva capitare di essere svegliati dalle fastidiosissime sirene delle navi. – Dio! Che giornata triste, non mi capita quasi mai, lo sai. Però, non so. Quanto spleen. Non è buffo detto così, spleen? E’ solo una parola… melanconia.-
Ismael seguiva con lo sguardo i suoi movimenti, Stephane era seduto sul largo davanzale, con la finestra aperta, al quinto piano. Coperto unicamente da dei pantaloni neri e degli stivali dello stesso colore. Il ragazzo riccio si alzò di scatto e lo trascinò nella camera, spingendolo sulla moquette lacca solferino con tutte le forze che aveva. Richiuse la finestra e i tendaggi. Gli gettò addosso il maglione:- Sei indecente.-
- E questo ti piace.- Rispose beffardo Stephane, scoprendosi ancora di più. Con le dita agili stava slacciando i bottoni dei pantaloni e abbassando la cerniera.
- Sì, decisamente, mi piace.- Ismael sorrise sinistro.- La corriera passa tra venti minuti. Se ci sbrighiamo riusciamo anche a fare un salto nel negozio di musica.-
Stephane annuì, si richiuse i pantaloni e indossò il maglione, slacciò e riallacciò gli anfibi.
- Mettiti qualcosa di pesante, là si congela.- Gli consigliò Stephane. Ismael chiuse i bottoncini della camicia.- Proprio nulla, eh? Togliti dalla mente che ti farò da crocerossina.-
- Non sarebbe male. Hanno da poco aperto un sexy shop, magari lì potrai trovare qualche vestitino più adatto al pavimento che al corpo.- E si infilò il cappotto.
Stephane guardandosi allo specchio strinse le labbra finché non sbiancarono.
Annik si intravedeva dalla porta accostata, era distesa a letto nella penombra, si era addormentata. Stephane scarabocchiò due frasi su un bigliettino, lo poggiò sul comodino, accanto agli occhiali da sole.

Davanti alla fermata della corriera c’era un negozio di musica e chincaglierie, i due ragazzi, con il pretesto di vedere gli ultimi dischi usciti, si ripararono lì dalle ultime gocce di pioggia. Ismael aveva notato che ogni mese si aggiungeva sempre più nero nel negozio. Era iniziato con delle magliette a mezze maniche di alcuni nuovi gruppi, poi erano comparsi dei pantaloni con un’infinità di laccetti, ed ora in un ripiano c’erano degli stivaletti neri a punta, con delle fibbie metalliche.
Stephane aveva gettato un’occhiata all’esterno, attraverso la vetrina :- Ora dobbiamo andare, ripassiamo la settimana prossima?-
- Ah, perfetto, magari ne ordino qualche copia in più. Ciao!- Disse distratto il negoziante sfogliando una rivista sportiva.
La corriera stava per ripartire, gli ultimi metri li fecero in volata, gesticolando all’autista. Appena saliti si beccarono delle occhiate di sbieco da parte delle vecchiette, alle prese con un ipotetico ritardo causato da quei ragazzini scellerati. Ismael gettò dei franchi all’autista e andarono a sedersi negli ultimi posti.
Nella corriera c’era veramente poca gente, qualche anziana signora carica di borse della spesa, un uomo in camicia e cravatta, un ragazzo alto e dinoccolato e tre sedicenni, due veramente graziose, una dai capelli castano chiaro mossi, l’altra rossa,che gettavano continuamente occhiate a Stephane e una dai capelli biondi, raccolti sopra la nuca in un chignon largo e disordinato, intenta a leggere un libro.
- Qual è la più carina?- Mormorò Stephane alzandosi e scrollandosi la polvere immaginaria dal chiodo. Raccolse uno sguardo interrogativo da parte di Ismael.
Ismael fissò le spalle strette nella giacca di pelle di Stephane. Il moro inarcò la schiena e scambiò qualche battuta con le tre ragazze. Raggiante tornò indietro.
- Nel caso tu abbia voglia di tradirmi.- Rise fragorosamente.- Le due smorfiosette si chiamano Lilian e Juliette, la biondina si chiama Michelle. Ho chiesto delle informazioni, l’ultima corsa dell’autobus è alle undici.-
- E’ un orario decente.- Annuì Ismael.
- La biondina, Michelle, mi ha detto che dove andiamo noi non ha piovuto. Quindi non c’è neanche l’erba bagnata. Prima di tutto ho te, poi ci sono sigarette. Sto divinamente.- Stephane aveva un’espressione entusiasta. Il riccio sorrise triste, bastava poco a renderlo felice, cose normalissime, però si sentiva estremamente inadatto, pieno di interrogativi e problemi, non normale, non semplice, impossibile da soddisfare e soddisfarsi. La sua presenza, sigarette oppiate che rollava durante le lezioni, per non perdere tempo, affermava. Sigarette spesse, forti, di quelle che dopo due tiri fanno bruciare la gola. Dell’alcol. Di qualsiasi liquido, generalmente compravano quello che costava meno, lattine di Kronenbourg e bottiglie di sidro, a mischiarli in quantità uguali. E ogni tanto qualche tavoletta di LSD, cartoncini viola, visto che erano i semplici da procurare. Chi ti vende la roba c’è in ogni scuola. Nei vizi, Stephane, sembrava sempre più grande della sua età.
Ismael poggiò la fronte sul freddo finestrino appannato e, nascosto dalle pieghe del cappotto, strinse forte la mano di Stephane, giocherellando con le dita e sfregando per cancellare una scritta a pennarello sul dorso.
La corriera si fermò sbandando leggermente. Tranne loro due nessun’altro scese dal mezzo. Il parcheggio era desolato, parte di una cinta era crollata e si vedeva uno scorcio del mare, tempestoso e scuro. I due ragazzi accucciandosi passarono oltre il muretto. La strada non era asfaltata, solo erba incolta e pietre. Sulla destra c’erano i resti di un’antica abbazia, sconsacrata e selvaggia. In giro non c’era anima viva.
Il mare era burrascoso, rifletteva il grigio scuro del cielo. La costa era alta, un precipizio di metri e metri. Non c’erano né parapetti né steccati. Il mare sotto di loro si infrangeva negli scogli aguzzi. Ismael e Stephane scesero attraverso dei gradini scolpiti nella pietra per parecchie decine di metri, fino ad una sorta di piattaforma livellata nella roccia (secoli prima utilizzata da pirati e contrabbandieri o almeno così fantasticavano).
Ismael gettò per terra lo zaino nero, vi frugò dentro e tirò fuori un blocco da disegno, un astuccio con poche matite e nessun colore e un paio di lattine di birra. Si rivolse verso il mare, per catturarlo e liberarlo sul foglio di carta, in tutta la sua forza e violenza. Il mare nutre e il mare uccide. Il mare è lì, vita e morte. Genesi, apogeo e l’inesorabile fine. Forse per allietare il tardo pomeriggio, il cielo iniziò a schiarirsi e rasserenarsi, tanto da mostrare l’orizzonte tinto di rosso, il declino della sfera luminosa e il crepuscolo. Il silenzio era sovrannaturale e durò per parecchi minuti.
- Sai, tutto questo è perfetto.- Mormorò Stephane scrutando l’orizzonte.
- Tu credi ?- Disse Ismael con tono ironico.
- Sei un cinico, affascinante sì, ma troppo, troppo cinico. Gli artisti non dovrebbero essere così, i filosofi magari sì, ma gli artisti assolutamente no.- Borbottò Stephane attaccandosi alla lattina e soffiandoci dentro.- Quindi io sono convinto che questa tua freddezza sia solo un’arma, letale, lo ammetto, ma solo una tecnica per non essere ferito. In situazioni ben più intime riesci a tirare fuori molto più ardore, lo so bene.-
Ismael arrossì un poco e si voltò. Non gli venne in mente nessuna frase poetica, nessuna considerazione esistenziale. Era una sensazione, una sensazione primitiva. Voleva dargli un po’ di calore. Lo baciò con foga, qualsiasi cosa per strappargli quell’espressione afflitta. Voleva avere più contatto con lui, contatto fisico, perché quello mentale si estingueva quasi subito o continuava unidirezionale. Si capivano anche solo a sguardi, spesso uno terminava le frasi dell’altro, ma questo non importava a Stephane, Ismael erigeva un muro difensivo ogni volta che si parlava di lui. Si allontanò per guardarlo negli occhi. Grigio scuro, non riflettevano niente, per Stephane erano come un antico testo aramaico, incomprensibili, o forse semplicemente non decifrabili. Ismael sorriso imbarazzato, accese una sigaretta oppiata e fece un tiro.
- Io ti amo e, ma… non so dimostrarlo. Lo sai che ti amo, vero?- Sussurrò Ismael abbracciandolo stretto, attento a non bruciarlo, e posandogli un bacio leggero sul collo.
- Non fosse inverno e non avessimo tutti questi metri di rocce aguzze sotto ti butterei in mare! - Sorrise Stephane.- Se ci trovassimo in zone calde saresti già in acqua.-
- Meglio qua.- Ismael soppesò per qualche secondo le parole, poi aggiunse:- Per le vacanze potreste venire te, Charlotte e Maurice nella mia casa di campagna.-
- Tu credi che ci lascino andare?- Chiese dubbioso Stephane.- Però sarebbe bello…-

Stephane rabbrividì.- Forse è meglio avviarsi verso casa, qui l’aria è glaciale.-
- Ritorneremo…- Mormorò Ismael fissando il mare scuro e violento. Una promessa delicata, fatta da un ragazzino al grande oceano. Risalirono fino al faro, rosso e bianco, colori vividi che risaltavano nel buio, restaurato da appena una dozzina d’anni. St. Mathieu, dipinto a caratteri cubitali. La luce bianca del proiettore ogni quindici secondi illuminava il mare. Guidava i navigatori nei secoli dei secoli. E amen. Lanterna, muta salvatrice. La tua voce sono le onde? Le onde che si infrangono con violenza contro la costa frastagliata. A Stephane sarebbe piaciuto poter entrare nel faro e magari fermarsi per la notte, però era una cosa piuttosto improbabile visto che era anche la dimora del custode. Gli era capitato più volte di poter salire, di giorno, sicuro di non mettere a rischio la navigazione, di arrampicarsi sopra quella scala a chiocciola stretta e disagevole. La vista era splendida, sopra le rovine da una parte, sopra il mare dall’altra. Notturno splendore glaciale. Stephane sospirò, prendendo Ismael per un braccio e conducendolo dentro l’antica abbazia benedettina.
Un pavimento di prato verde smeraldo, un soffitto di cielo blu scuro a tratti illuminato da delle piccole stelle, altre timide si nascondevano dietro delle nubi. Le pareti non erano più imponenti, non sembrava una gabbia ma un rifugio. Ismael fece aderire la schiena ad un muro umido, si lasciò scivolare sulla pietra e distese le gambe sull’erba. Appoggiò la nuca alla parete chiudendo gli occhi.
- Mael…- Stephane gli si accovacciò sulle ginocchia. Gli accarezzava il viso col dorso della mano, gli accarezzava il corpo con lo sguardo caldo e dolce.
- Cosa stiamo facendo?- Mormorò Ismael, sfiorandolo con le dita lunghe e ossute.
- Viviamo.- Rispose Stephane alzando le spalle e sorridendo.
- E’ vivere? Vivere veramente, intendo.- La voce di Ismael condusse Stephane dentro il suo mondo, dentro i suoi pensieri:- E’come se tutto fosse confuso e indefinito. Come se queste pietre potessero crollarci addosso e noi non sentire niente. Affogare ma non bagnarsi. Smettere di respirare ma continuare a vivere.-
- Mael!- Esclamò Stephane piegando la testa di lato.- Lo sai di essere terribilmente complicato? Se così è, così sia. Non è importante. Nulla ha valore, o forse tutto? Ma cosa ha più valore di cosa? Quello che dico non ha senso. Ma noi abbiamo un senso? Non credo.- Faceva freddo e l’umidità entrava nelle ossa, attraverso giacche, maglioni e camicie.
Faceva freddo e due ragazzini si riscaldavano avvinghiati in un’antica chiesa abbandonata.


Io non amo affatto l'uomo: io amo ciò che lo divora.
(André Gide)




   
 
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