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Capitolo 3: You Waited Long Enough
“Fratellone,
sei sicuro di volerci andare da solo?”. Disse Al, seduto di
fronte a Edward,
che tornato in una mise di pelle nera più consona alla sua
persona, lucidava i
nuovi auto-mail d’assetto invernale comprati e montati da
poco a Rush Valley.
Sul treno di ritorno a East City, Ed sembrava più essersi
preparato per la
guerra che per andare a recuperare Roy. Certo, se solo Al avesse
saputo,
avrebbe capito che per suo fratello andare in guerra sarebbe stata una
passeggiata in confronto, ma questa era un’altra storia.
“No, Al, te l’ho detto. E’ una cosa che
riguarda solo me. E poi ci metterò
poco, te lo prometto, dovesse anche chiedermi in ginocchio di lasciarlo
marcire
lì, me lo trascinerò dietro!”. Mise via
la stoffa con cui stava pulendo il
braccio e osservò la mano scintillante, sorridendo. Si
aggiustò poi la coda di
cavallo e con lo sguardo brillante fissò il fratello.
“Tu devi solo pensare a
riunire tutta la squadra, capito?” e guardò fuori
dal finestrino. “Bene, stiamo
per arrivare… Al, non tornerò in albergo,
prenderò direttamente il primo treno
disponibile” avvisò. Entrambi si alzarono,
raccogliendo i bagagli e quando il
treno si fermò definitivamente, scesero, per poi separarsi
con qualche
raccomandazione. “Mi raccomando, Nii-san! Sta’
attento!”, ma Ed era già in
cammino verso l’altro binario.
Doveva ammetterlo, distrarsi non sembrava essere così
difficile. Bastava tenere
la mente occupata e fissare il vuoto il più possibile.
Facile, no? Però – e
c’era sempre un però –, non aveva ancora
fatto i conti con la sua coscienza
notturna e né con il rivedere l’amore di una vita.
Senza pensieri, Edward prese il secondo treno dopo circa
un’ora. Stravaccato
nella cabina prenotata, le palpebre gli si chiusero contro la sua
volontà e
finì nel mondo dei sogni.
“Roy, ti ho mai detto che insegni delle lingue
inutili?”. Il tedesco lo
guardò piccato.
“Il fatto che tu non riesca a capirle non significa che siano
inutili, solo che
tu sei stupido. Tsk”.
“Eppure il tedesco l’ho imparato come
niente!”.
“Pffff, è più facile di quanto si
creda! E poi il latino e il greco non sono
lingue per tutti, mi dispiace” affermò,
imboccandolo con la torta di mele.
“E meno male!” bofonchiò, sputacchiando
un po’ di cibo e facendo alzare gli
occhi al cielo all’altro. Inghiottì il boccone e
tornò a sproloquiare parlare:
“Pensa se tutti parlassero come quei matti dei greci!
Bah!”. Roy scosse il
capo, scandalizzato. Era incredibile quanto quel ragazzo fosse
testardo… e pure
ignorante.
“Comunque… continuo a non capire come, da dove
vieni tu, nessuno conosca questi
popoli. Avete mica una storia diversa?” scherzò,
imboccando ancora Ed, che
masticò energico, rimanendo in una calma inquietante, carica
di parole mai
dette.
“Roy?”
“Sì?”
“Se io ti dicessi che vengo da un altro mondo mi
crederesti?”. Roy lasciò il
cucchiaino nel piatto e lo fissò serio.
“Ed, non esistono i mondi paralleli. Credo tu abbia passato
troppo tempo con
quel Fritz Lang, sai? Secondo me quello non ci sta con la testa,
dai”. Ed
sospirò.
“Sì, ma se io… se io ti dicessi che
invece un mondo parallelo esiste,
dove c’è un Roy Mustang tale e quale a te, ma con
peculiarità sottilmente
diverse… mi crederesti?”. Rimasero in silenzio,
ognuno perso nei propri
pensieri, sino a quando Ed non smosse la situazione.
“Non mi rispondi?”. Roy riprese il cucchiaino e lo
imboccò, come per farlo star
zitto.
“Talvolta il silenzio del saggio vale più del
ragionamento del filosofo: è una
lezione per gli impertinenti e una punizione per i colpevoli,
Edward” e guardò
fuori dalla finestra, per evitare gli occhi del suo amato e pazzo
compagno.
“Roy?”
“Sì?”
“Io vengo da un altro mondo che è parallelo a
questo. Si chiama Amestris e lì
esiste qualcosa che per voi è pura magia, ma che noi
conosciamo come alchimia.
Sfrutta vari principi, fra cui lo Scambio Equivalente, ed è
a causa di
quest’ultimo, che dopo una serie di folli peripezie, ho
dovuto sacrificare il
mio corpo per salvare la vita a mio fratello. Sarei dovuto morire, ma
invece
sono passato oltre il Portale e sono finito qui”
spiegò, sicuro di sé. Roy si
alzò dal bordo del letto e lasciò il piattino e
la forchetta sullo scrittoio,
mentre Edward riprendeva. “Contro la mia volontà,
ho conosciuto gli alter ego
di coloro che erano i miei amici, compreso te, ovviamente, che
lì eri il mio
superiore”. Roy si tolse le scarpe e si slacciò la
camicia, facendo finta che
Ed non stesse nemmeno parlando. “Alfons, il ragazzo con cui
vivevo prima, era
l’alterego di mio fratello e anche se ormai sono passati
quattro anni da quando sono
qui, sto ancora disperatamente cercando il modo di tornare a
casa!” esclamò,
sempre grondante di un’immensa speranza.
“Io… Roy, dannazione, mi vuoi
ascoltare?!”. Il moro smise di vestirsi e si girò
a guardarlo.
“Cosa dovrei fare Edward? Tu mi stai parlando di una cosa
totalmente assurda…
mi stai dicendo che sei praticamente… non lo so, un essere
sconosciuto, che non
appartiene alla mia dimensione! Che cosa vuoi che ti dica?
Bravo?!” sbottò,
scocciato. “Io… non ne voglio sapere
niente” ammise. “Voglio rimanerne
all’oscuro. Io sono un uomo del mio tempo, Ed, non posso
andare più in là di
così. Ho dovuto accettare i tuoi pazzeschi arti meccanici,
ho dovuto accettare
di non comprendere i tuoi strani studi, Ed, ora fa’ tu per me
una cosa:
promettimi che non tornerai indietro e che non me ne parlerai mai
più”.
Tutum.
Edward si svegliò di soprassalto per uno scossone del treno
e guardandosi
sperduto intorno alla ricerca di Roy, trovò solo una
vecchietta che lo
osservava incuriosita. Si pulì col dorso della mano sinistra
la piccola scia di
bava e appoggiò la fronte al finestrino, guardando il
paesaggio. Si trovavano
già in un territorio innevato… chissà
quanto aveva dormito. Cercò di
trovare il sole e di vedere quanto fosse alto, ma i nuvoloni glielo
impedirono.
Comunque, era certo che dovevano essere già nel primo
pomeriggio data la fame
che sentiva e decise così di andare nel vagone ristorante a
mangiare qualcosa.
Poco dopo aver finito il pranzo, si rese conto che erano quasi arrivati
e si
sbrigò a tornare in cabina a indossare il pesante cappotto
imbottito, i guanti
e una sciarpa calda, per avviarsi così armato di bagaglio
all’uscita.
Una volta sceso dal treno, i primi fiocchi di neve cominciarono a
scendere e
s’affrettò non poco, allora, ad andare a lasciare
la valigia nell’albergo
prenotato. Sbrigate le pratiche per la consegna della stanza, Ed
sembrò
intenzionato a incamminarsi subito sulla montagna per raggiungere la
baita
del Colonnello, ma l’albergatore glielo sconsigliò.
“Ragazzo, è una follia! Sta arrivando una
tempesta! Rimani qui e non uscire o
potresti anche non tornare più!”. Per un istante
l’ex alchimista sembrò
pensarci sul serio, poi fece no con la testa. Era sopravvissuto per
anni al
clima freddissimo della Germania e aveva passato anche due settimane
nella
gelida Mosca: non solo poteva, ma doveva andare alla baita.
Bene, non era così facile come credeva. Il vento era
fortissimo, tagliente e
nonostante gli automail ora fossero più leggeri, erano
comunque un grande
intralcio. Incrociò le braccia, per stringersi di
più il cappotto. Il freddo
era tremendo, ma quando alzò per un istante la testa, quel
che vide nello
scorcio di un istante, quella specie di macchia marrone, lo
inondò di un
estemporaneo e improvviso calore. Legno. Avanzò verso
ciò che gli era parso di
vedere ed ebbe conferma dell’apparizione: aveva raggiunto
Mustang. Accelerò il
passo, saltando sulla neve e si precipitò alla porta,
prendendola a pugni.
Nessuno gli rispose. Provò ad aprire e notò che
non era chiusa a chiave, così
entrò, chiudendo la porta. Fu investito dal leggero tepore
di un fuoco mezzo
spento e togliendosi la giacca, scosse il capo per liberarsi dalla
neve. Avanzò
nel minuscolo ingresso e chiamò, piano, per istinto
più che altro, il
Colonnello per nome.
“Roy?” se ne pentì molto, ma poi
continuò, optando per qualcosa di più neutro.
“C’è nessuno?”. Si
guardò in giro cautamente, osservando l’ambiente.
Non c’era
arredamento. Qualche sedia, un tavolo, un letto oltre il caminetto e
due
piccoli stanzini, probabilmente cucina e bagno. Fu da uno di questi due
che
Mustang apparve.
“Acciaio!” lo stupore era tale che
sembrò quasi rimbalzare fra le pareti.
Edward lo fissò, altrettanto scioccato, mentre il suo
sguardo era inchiodato
sulla grossa benda nera che gli copriva parte del viso.
“Colonnello” lo salutò, sulla difensiva.
Era spaventoso e terrificante guardare
la fotocopia dell’uomo che aveva tanto amato senza un occhio
e senza la
possibilità di poterlo anche solo chiamare per nome.
“Non sono più un Colonnello, Acciaio”
corresse, visibilmente amareggiato.
“E io non sono più Acciaio, Colonnello
Mustang” ribatté, più
orgoglioso.
Rimasero in silenzio a fissarsi e l’unico occhio di Roy,
brillante di pura e
semplice felicità, sembrava illuminare la stanza come le
languide fiamme del
camino non riuscivano a fare. Come se fosse, dopo tanti tentativi,
ripartita
quella macchina il cui motore lo aveva abbandonato lungo la strada.
“Non sei cambiato. A parte il fatto che sei diventato
più alto…” e gli si
avvicinò, per rapportare la sua nuova statura alla propria.
La differenza non
era più molta, ormai.
“Vorrei dire la stessa cosa di lei, ma vedo che invece ha
deciso di darsi alla
pirateria” lo prese in giro e con un cenno del capo
indicò la sua benda. Roy
sbuffò – come faceva sempre anche un altro stupido.
“Fullmetal, chiudi il becco e dimmi che razza di fine hai
fatto per tutto
questo tempo!” abbaiò e gli offrì un
posto vicino al fuoco.
“E’ una storia lunga” rifiutò
la sedia e si piazzò davanti a lui “che
verrà
dopo”.
“E prima che succede?” domandò, curioso.
“Succede che mi deve spiegare per quale motivo ha abbassato
la testa ed è
scappato qui, come un coniglio, come il più viscido degli
homunculus!” lo
afferrò per il colletto, irruento come fosse ancora il
sedicenne di un tempo.
“Ha lasciato tutto, mandando all’aria anni e anni
di sacrifici! E per cosa? Per
paura di uno stupido giudizio della Corte Marziale?! Non ha mai pensato
che il
suo sogno potesse essere anche quello di qualcun altro?!”.
Roy si beò di quegli
scintillanti occhi dorati per cui tanto aveva sofferto.
“Mi avrebbero accusato di omicidio… stavo
rischiando la pena di morte, Edward”.
“E allora?! Da quando Roy Mustang ha paura della morte? Da
quando ha paura di
qualche vecchio bacucco capace di star solo seduto dietro a un
tribun-…” non
parlò più, Ed. Fu Roy a prender parola, a
cambiare le carte in tavola – o forse
a mettercele –, perché lo baciò. Il
maggiore degli Elric aveva pensato a tutto,
davvero, a ogni cosa, ogni evenienza, era preparato anche a
combatterci, con
Mustang. Ma non era preparato a dover ricevere il suo amore. Di
nuovo.
“Ed, perdonami. Non avrei dovuto, è
stato uno stupido cedimento, fingi che
non sia successo nulla, ti prego” agitava le mani,
preoccupato d’aver rovinato
tutto con quello stupido, stupido bacio! Forse un po’ meno
sconsiderato di
quello che però ora era Ed a dargli.
L’intero universo, allora, sembrò piegarsi nel suo
punto più accecante, ovvero
su quei due corpi avvinghiati, simbolo di un’apocalisse che
diventa mistica
redenzione e di un processo d’autodistruzione che significa
libertà.
“Lieber*, hai mai pensato a quanto incredibilmente
importanti siano le
parole? Solo a seconda di come le si usa si possono creare infinite
combinazioni e possibilità. Se poi si aggiunge la variabile
del quando e con
chi, diventa impossibile calcolarne l’effettiva
potenza” mormorò un
affascinante professore di Letteratura Anticaria vicino a un giovane
scienziato
mentre erano intenti a guardare le stelle. “Le parole sono di
chi ha il
coraggio di prendersene la responsabilità”.
“Non c’è bisogno di pensarci. Tutti lo
sanno” biascicò distratto l’altro.
“Ma dare per scontato qualcosa è il modo migliore
per perderla di vista. In
questo caso, perderne di vista l’importanza”. Ed lo
guardò annoiato.
“Ma devi sempre fare di ogni cosa un trattato
filosofico?”
“Ed, insomma! Io sono qui, faccio parte di questo mondo!
E’ mio dovere
partecipare, anche solo con la mia testa, a questo grande, enorme
flusso che è
l’intera terrena umanità! Non voglio essere un
dannato ignavo!”. Edward lo
guardò e decise che forse era pronto. Prese un gran respiro,
pronto a dire la
più grande di tutte le eterne verità.
“Uno è tutto, tutto è uno,
Roy”. Il moro si girò, perplesso.
“Cosa?”
“Tu sei tu, ma sei anche il tutto. Senza di te, il tutto non
esiste. E senza
quello che tu chiami grande flusso, non esisti tu”.
“Meraviglioso… dove hai sentito questa frase? Di
chi è quest’aforisma? O è di
tua impronta? Sembra riassumere il mio dilemma!”
l’anima da insegnante si
ravvivò, pronta a investigare ogni cosa. Edward ne rise, un
po’ divertito.
“E’ solo un detto popolare molto famoso dalle mie
parti”.
Dopo la tempesta, e si parla sia di quell’esterna
che di quell’interna alla
piccola casa, su quello stesso letto adesso c’era qualcosa di
peccaminoso
quanto celeste nei fiati e nei sudori mescolati.
“Ed…” ansimò, stringendo il
compagno tremante. “Io ti…”
“Non dirlo, ti prego! Ti prego, non
dirlo…” si staccò da lui, mentre gli
occhi
felini terrorizzati e i capelli disordinati e bagnati dal sudore gli
davano
un’aria quasi folle. “Tu non sai la
verità ancora, perciò non dirlo! Le
parole hanno un peso troppo, troppo grande”.
L’ex Colonnello era senza
fiato.
“Ed, ti ascolto. Ti ho aspettato quattro anni, ti
aspetterò per altri quattro
minuti”.
“Hai aspettato abbastanza, Roy.
Devi sapere” e gli argini del fiume si
ruppero. Gli raccontò ogni cosa, dai viaggi in Francia alla
convivenza con
Alfons, dalla sua morte all’incontro col suo alterego. Roy
rimase sobriamente
in silenzio, rispettoso di qualcosa che scindeva da lui e da chiunque
esistesse
qui ad Amestris. Mai sforare in questioni che non ci riguardano.
La lunga serie di aneddoti non finì tanto presto, a dire il
vero, ma quando Ed
finì fiato, parole e forze, Roy gli fece una carezza, in cui
rinchiuse tutto
quello che Acciaio voleva sentirsi dire. Poi il peso delle parole fece
il
resto.
“Ti amo, Ed. In
qualunque dimensione tu possa scappare”.
Note:
*Lieber: caro. Ha più o meno lo stesso significato di 'Dear'
in inglese, ma lo si trova anche nella nostra accezione di 'Amore mio'.