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Autore: Raksha3    05/06/2012    1 recensioni
"Erano cambiate molte cose, soprattutto per Dylan. Il modo in cui lei si sporgeva dal suo angolo di materasso per avvicinare il naso a quello di lui, era la cosa che più lo faceva sorridere. Non si era mai sentita speciale, ma tutto era cambiato."
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Domani può cambiare.

A Sbarbi che rallegra le mie buie
giornate con i suoi super scleri sui feticisti.
A tutte le ragazze del Fandom di HP che ogni sera
mi fanno sciogliere con delle foto molto... molto...
non so nemmeno come catalogarle.
Grazie alla mia Bumbunì, che è sommersa di scuola
da capo a piedi e spero di risentirla presto, prima del prossimo anno.
Grazie a tutte, davvero.

“Vattene! E' colpa tua se tua madre è morta, è colpa tua se mi sento uno straccio ogni giorno da diciotto anni, è colpa tua se la mia vita va a rotoli ogni minuto che passa. Dylan, vai via e torna quando non sono in casa perché non ho alcuna voglia di vedere la tua orribile faccia. VATTENE, figlio del diavolo!”, urlò l'uomo sbattendo a terra un vaso del salotto. Il ragazzo di fronte a lui, con i capelli in disordine e lo sguardo arrabbiato, si sentiva perso, si sentiva solo. Corse fuori da quella casa vuota e fredda, sbattendo la porta, con la voglia di non tornare mai più. L'epiteto con il quale il padre lo aveva appellato era ormai ricorrente anche nei momenti di solitudine, lo sentiva bruciare dentro alla testa, scorticare le sue difese e graffiargli le tempie. Era davvero possibile che un padre odiasse suo figlio?
Quello che era accaduto ormai era routine. Tutti i giorni quando l'anziano uomo tornava da lavoro, provato da tutti gli sciagurati eventi dei suoi quarant'anni, e vedeva il figlio seduto al tavolo della cucina, qualche volta persino addormentato su qualche libro, gli urlava contro di andar via fino al mattino seguente, per non poter sentire il suo respiro che aveva distrutto quello della sua adorata moglie.
Dylan correva, non si sarebbe fermato finché non avesse messo molti passi tra sé e quella casa. Teneva gli occhi chiusi, le palpebre schiacciate per non vedere il grigio scuro del suo mondo, lui non vedeva a colori. Non esistevano le sfumature, non esisteva l'arcobaleno, c'era solo il nero, il grigio e il bianco che lo accecava e lo disorientava.
Si fermò dentro al parco del Quartiere, un posto poco frequentato ma tranquillo, dove poteva rilassarsi e ascoltare i rumori del paese. Voleva pace, voleva una vita serena lontano da quell'uomo che lo picchiava da quando aveva cinque anni, che si divertiva a graffiare la sua pelle chiara con le mani callose. Ormai, si sentiva lontano da tutti, escluso dal mondo.
Si avvicinò ad un auto e si guardò il viso. Era davvero lui quel ragazzo magro e sofferente?
Gli occhi grigi velati di false speranze e i capelli disordinati dalle notti piene di incubi, il viso smunto e mangiato dalla fame che faceva per evitare che suo padre l'accusasse di pesare sulle sue spalle. Che poteva farci se doveva ancora andare a scuola per trovare uno straccio di lavoro in futuro?
Dal naso gli penzolava un piercing, ad anello come le mucche - così l'aveva apostrofato una sua vecchia compagna di scuola quando l'aveva visto -; l'aveva fatto in un momento di ribellione, voleva qualcosa che desse un vero motivo a suo padre di chiamarlo teppista, o ribelle. Erano ribelli quelli con i piercing?
Quella sera, le risposte alle sue domande si attardarono ad arrivare e disteso su di una panca al di sotto del gazebo centrale al parco, ammirava il cielo e continuava a chiedersi tutte le cose che in quegli anni si erano accavallate nella sua mente.
Parlava con sé stesso e si addormentò domandandosi e rispondendosi, poteva contare solo sulla sua persona.
Nei suoi sogni c'era la mamma, c'era quella donna dai capelli neri e lisci che si occupava di lui, ma che ricordava a malapena. C'erano gli occhi azzurri magnetici e pieni di vita che debolmente si spegnevano, e poi c'era suo padre che lo prendeva a calci. Tormentato e deriso dalla vita si girava e rigirava su quella panca, sudando nonostante fosse autunno, nonostante si gelasse. Intorno, il buio era padrone e si scontrava con la tenue luce della luna.
Si svegliò di scatto quando, nel sonno, la bara di sua madre veniva adagiata sotto terra. Era ora di tornare a casa, se così poteva definirla.
Gli alberi frusciavano e qualche macchina passava per i viottoli del Quartiere. Quel posto era sempre stato il suo rifugio, si sedeva sotto al gazebo con le braccia incrociate al petto e pensava, anche quando era piccolo. Nei suoi ricordi riguardava quel bambino piagnucolone e si meravigliava di essere diventato forte, di non versare mai una lacrima.
Si fermò di fronte al cancellino traballante della casa e la osservò per qualche istante.
Solitamente in una casa ci si sente al sicuro, ci si sente protetti dal mondo esterno, invece lui aveva paura ad entrare ed affrontare quel pezzo di passato che bruciava nel presente. In salotto, la moltitudine di foto di sua madre lo guardava sorridente, con amore; aveva voglia di rinchiuderle in una scatola e non farle uscire mai più per non sentirsi così colpevole.
Salì senza far rumore al piano di sopra, dove suo padre dormiva e russava placidamente, e si chiuse la porta della sua camera alle spalle. Era una stanza spoglia che non trasmetteva nessuna emozione. I muri grigi e appena ridipinti facevano contrasto con i mobili vecchi e scheggiati. Il letto cigolava e Dylan fece di tutto per non far troppo rumore; se suo padre l'avesse scoperto a casa si sarebbe sicuramente infuriato, ma l'unica fortuna era che c'erano due stanze a dividerli e la porta chiusa a chiave.
Diede un'occhiata alla sveglia e notò che erano le una passate, era l'ora di addormentarsi e perdersi in quel buio più oscuro della notte.

Si svegliò di malumore, era chiaro che non era riuscito a riposarsi a dovere e che nemmeno il sonno aveva sciolto i suoi nervi tesi. Suo padre non russava più nella sua camera e probabilmente se n'era andato di corsa, senza preparargli la colazione; dopotutto non l'aveva mai fatto.
Si vestì velocemente, nonostante non avesse la minima voglia di andare a scuola, e scese ciondolando. C'era Maria, sveglia e sull'attenti in salotto a spolverare le varie mensole ricoperte dalla dimenticanza.
Maria era la donna di servizio che suo padre aveva assunto qualche anno addietro, era bassa e grassoccia ma era l'unica che gli voleva bene. Si accorse di lui quando sentì la macchina del caffé passare e la sedia del tavolo della cucina strisciare sul marmo del pavimento.
“Dylan! Buongiorno, vuoi che ti proparo qualchi cosa?”, domandò la donna sudamericana. La pelle scura del viso la faceva sembrare un po' sporca, ma gli occhi scuri erano la sua carta d'identità, la classificavano nella colonna di "madre apprensiva, tata geniale, donna amorevole". Dylan l'adorava e non voleva farla affaticare troppo, faceva già tanto sopportando le richieste pressanti di suo padre. Occuparsi tutti i giorni di quelle mensole piene di tristezza - oltre che di polvere - avrebbe fatto innervosire un santo, ma mai Maria. Il ragazzo scosse la testa per rispondere di no.
“Sei pallido e magro, ragazzo mio. Ti sciuporai la salute.”
“Grazie, Maria, ma non ho molta voglia di mangiare. Ci vediamo dopo, non affaticarti.”, disse il ragazzo salutandola dalla porta di casa. Un'altra giornata aveva inizio e Dylan sperava che non sarebbe mai arrivata l'ora di tornare in quella villetta piena di cattiveria.
Mentre passeggiava sulla strada per l'istituto si accorse di avere degli occhi puntati sulle spalle. Non si trattenne dal guardare in direzione del parco, sua culla di dolore ogni sera. Dei lunghi capelli rossi scuro venivano disordinati dal vento freddo e coprivano il viso. Vide poco di quegli occhi, ma gli bastò per esserne rapito. Il verde pallido di due iridi grandi, quasi sproporzionate la rendeva misteriosa, le dava uno sguardo profondo e colmo di angoscia. Ci impiegò qualche secondo a capire che non stava bene fissare una ragazza sconosciuta e abbassò lo sguardo sul cemento, ma quando lo rialzò per dare un'altra sbirciatina, lei non c'era più.
Un sogno, forse?, si domandò continuando a fissare il punto in cui pochi secondi prima quel turbinio di fiamme era apparso. Diede un'occhiata all'orologio, il tempo era tutto per lui. Scorreva velocemente facendo ticchettare le lancette e modulando la vita di ogni persona. Il tempo donava le rughe alle persone e la saggezza. In quel momento si accorse di quanto fosse in ritardo e corse verso l'entrata della scuola.
La campanella trillò nel secondo esatto in cui toccò il pavimento della sua aula.
Un ragazzo con dei lunghi capelli scuri legati in un codino gli si avvicinò. Jeremy era sempre stato un amico fidato, pronto a lasciare tutto per ascoltarlo, ma Dylan non si fidava delle persone. Gli toccò la spalla con una mano e sorrise.
“Ehy, ragazzone, dov'eri finito stamattina? Ti aspettavamo all'entrata.”, esclamò guardandolo afflosciarsi al suo posto.
“Mi sono svegliato tardi.”
“Ah, caro mio, ti sei perso qualche novità.”
Dylan si chiese perché Jeremy doveva sempre renderlo partecipe delle stupide notizie scolastiche. Juliet stava con Mark e poi l'aveva lasciato per Aver. A lui non interessavano i pettegolezzi e faceva finta di ascoltare. La sua mente era assente, ancora rinchiusa tra le coperte di camera sua. Qualche volta ricordava gli anni passati alle elementari, in cui tutti i bambini giocavano allegri in cortile mentre lui si distendeva sul prato e guardava le nuvole, tantando di scovarne qualcuna strana.
“...E quei capelli, un turbinio di fiamme, secondo me.”. La frase dell'amico lo fece ritornare nel suo corpo, in quella via stretta del Quartiere, in quell'istituto malandato.
“Come? Di che parli?”. Sembrava tutto così familiare.
“Sì! I capelli della Nuova.”, esclamò Jeremy indicando fuori dalla finestra. La stessa ragazza del parco, con l'uniforme scolastica e i capelli sciolti, stava passeggiando in cortile accompagnata da una donna e un professore. Dylan la osservò per qualche minuto, prima che Jeremy lo richiamasse nell'aula.
“Vedi? Ti sei perso qualche novità, lo ripeto.”
“Chi è?”, domandò eccitato. Quella ragazza lo aveva perforato con il suo sguardo mezzora prima e l'aveva attratto a sé con quei capelli così rossi e lunghi.
“E' una Nuova, sta nella III F. E' passata stamattina mentre ti aspettavamo. Si dice sia un tipo strano, cacciata da tre scuole diverse. Ha i capelli di un rosso favoloso e...”
“Questo già lo so! Il nome, Jerry, il nome!”
“Nessuno lo sa, ancora.”, disse Jeremy prima che l'insegnante lo facesse sedere al suo posto.
Una ragazza misteriosa con un aspetto e un carattere misterioso. Dylan era sorpreso. Il senso di solitudine che quello sguardo gli aveva lasciato addosso era troppo forte, incatenante. Certo, non gli interessava conoscerla, ma voleva almeno sapere perché lo aveva fissato in quel modo, come se fosse una richiesta di aiuto. Forse si era resa conto di quanto sporco si sentisse agli occhi di tutti e lo aveva fulminato in modo che non le si avvicinasse mai, Dylan non poteva saperlo.

Angolo autrice:

EHEHEHEH bene, insomma, via, non so come cavolo iniziare diamine!
Detto questo, il ragazzo è un po' complessato, vedo. Dylan ha una stupenda vita familiare fatta di sorrisi e.... no, faccio schifo a mentire. Dylan è un complessato di mm.. non dico di che. Ha duemila problemi e il paparino che lo odia per aver fatto morire mammina (??), in che modo però? Non potevo di certo dire tutto in un solo capitolo, vero?
La ragazza eeeeeh, ora tutto si complica perché questa qui sarà peggio di lui! Ecco, ho spoilerato, non dovevo.
I miei personaggi solitamente hanno tutti una famigliola felice piena di soldi e sorrisi, per una volta ho voluto cambiare. Sono sotto tortura in questo momento dato che la mia amata Sbarbi vuole che continui questa minchiatina e le altre ragazze del Fandom di HP aspettano le mie recensioni, ma io non sono normale quindi mi sono buttata in una nuova ficcccccccccct, originale, in aggiunta.
Vorrei sapere cosa ne pensate di questo capitolo molto angoscioso (lo so non uccidetemi di negatività, il sole esiste per tutti vero Tizi?) <- ci manca pure che mi metta a parlare e citare Tiziano Ferro... Vaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa bene, ooooooookai, adesso posso dileguarmi e lasciare a voi le tastiere.


ps: Barty sei un figo tremendo.

Taiga.
   
 
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