Nel
buio della sua cella, gli occhi di Kagome brillavano
appena, tiepida luce cinerea. Un livore rosato, slavato, quasi il ricordo della
nebbia prima del sopraggiungere del mattino. Mentre si accostava alla parete
più vicina, la guancia sottile che incontrava il gelo della roccia, le sue
iridi cieche ebbero come uno scatto, un fremito nervoso, ultimo ricordo di
un’abitudine a voler guardare un mondo oramai invisibile, oramai perduto.
Appoggiò lentamente le labbra alla pietra umida della sua cella, lasciando che alcune
gocce fresche le scivolassero in gola, rugiadoso sollievo ad una sete smaniosa,
capace fino ad allora di logorarla come rosicchio costante alla base della
lingua.
Socchiuse
lentamente gli occhi, un’espressione di concentrato piacere che addolciva per
un attimo il suo sguardo. Acqua. Semplicemente.
Eppure
per un attimo estasi. Eppure per un secondo ebbrezza.
Lasciandosi
ricadere con un sospiro a terra, il suo corpo che si afflosciava prima contro
il muro e poi molle fino al suolo, si concesse un gemito contratto, flebile
spiraglio fra i capelli già assiepatisi dinnanzi alle iridi socchiuse.
Stare
seduta era un lusso che non poteva permettersi per più di qualche minuto al
giorno. Le ossa del bacino e delle costole sporgevano tanto che temeva
potessero varcare il confine della pelle e spargersi li, tutt’intorno a lei, se
solo avesse osato più dello stretto necessario.
Respirò
a fondo l’aria gelida e umida, flebile contrazione dello sterno, trovandola
insipida sotto i denti, muschiosa fra le narici, un
misto fra ciò che era vivo e ciò che ben presto sarebbe stato morto. Sorrise
piano, mesto spezzarsi delle labbra riarse. Forse
non era la prigione ma solo lei stessa a puzzare così.
Con
un movimento leggero, due dita le scostarono allora i capelli dalla fronte.
Mani affusolate, pelle tiepida, un fresco tepore che si espandeva da quel
semplice gesto inondandole il volto come brivido caldo d’estate. Gemette
ancora, a metà fra la sorpresa e il sollievo, ma non si ritrasse. Era troppo
stanca per reagire. Per rifiutare, dopo
tanto dolore, anche quel misero ricordo di gentilezza. Così, quando le sue
labbra si schiusero per formulare un qualche tipo di domanda, non si sorprese
affatto di non udire parole ma bensì un suono ruvido, monocorde, più simile alle
fusa di un gatto che ad un susseguirsi di sillabe.
Cautamente,
la carezza allora scese, leggera, a lambire la tensione del suo collo sottile,
brivido sommesso in un punto imprecisato fra scapole e schiena, e poi di nuovo
verso l’alto, le mani artigliate che si soffermavano per un istante a contare
una ad una le sue ciglia socchiuse, curve morbide su un volto spigoloso.
Se
si fosse trattato del primo ed unico episodio di questo tipo, certamente ora Kagome non se ne sarebbe sta li ferma e remissiva in un
angolo, complice assente di quel meticoloso contatto. Avrebbe sicuramente
tentato di reagire, di sottrarsi, di scostare quella gentilezza tanto fuori
luogo in quella cella e gridare la propria agonia, la propria rabbia. Ma non
era la prima volta che Inuyasha le faceva visita. Non era il primo giorno che
egli, in silenzio, scendeva in quella prigione per studiarla nell’oscurità, concentrato
e silenzioso, le dita uncinate che esploravano con severo interesse i tratti
della sua mascella, i contorni delle sue labbra. Non le parlava mai. Nessuna
frecciatina malevola, nessun solito commento caustico. Semplicemente, si
limitava ad osservarla come ombra fra le ombre, il respiro lento e vicino che
le donava suo malgrado involontari attimi di calore, istanti di tepore.
Poi,
come di prassi, il ferruginoso schiudersi di una serratura, il gracchiante
cigolio di cardini mal oliati e, proverbiale, il divampare ovunque di luce
rossa, abbagliante, accecante. E con essi, il riprendere della pantomima.
Già
la mano si era scostata, già il flebile tocco delle dita si era negato,
lasciando al suo posto il manchevole ricordo di una sensazione mai più
raggiungibile.
“Buongiorno
Kagome” la voce di Inuyasha la raggiunse poco dopo,
il tono abbastanza pacato da lasciar presumere una calma anche interiore “Come
ti senti?”
______-________-______
Con
un ringhio truce, il mezzo demone ingollò le ultime gocce d’acqua nella
fiaschetta per poi, con la stessa veemenza quasi avesse dovuto annegarla,
infilò la stessa al di sotto della superficie dell’acqua. Meditabondo osservò i
contorni dell’oggetto sfocarsi appena, la corrente del fiume che faceva appena
pressione sul suo braccio come una morbida carezza. Poco distante, il quieto
riposare dei soldati tutt’attorno ai falò, alle tende posticce piantate giusto
per evitare una notte all’addiaccio.
Mentre
il riempirsi della borraccia mandava nel silenzio gorgoglianti borbottii,
Inuyasha alzò appena lo sguardo lasciandolo scorrere sul paesaggio dinnanzi ai
suoi occhi stanchi. Querce, noccioli e altri alberi pesanti coprivano con il
loro verde manto ogni possibilità di visuale, negando la vista di ciò che
l’indomani si sarebbe presentato dinnanzi ai loro occhi in tutta la sua
imponenza, in tutta la sua magnificenza: Zaccar.
Senza
curarsi affatto di aver riempito fino all’orlo la borraccia, il mezzo demone la
estrasse dall’acqua tappandola nuovamente con un gesto secco.
Sospirò.
Non
ricordava i giorni di viaggio. Non ricordava nemmeno le ore di sonno e quelle
diurne passate in groppa ad uno stopposo ronzino incapace di sostenere
un’andatura decente senza che ogni due santissimi minuti ci si dovesse fermare
alla fonte più vicina per rimpinzarlo d’acqua. Ricordava solo il suo voltarsi
di tanto in tanto, imprecando contro i suoi stessi soldati e spronandoli ad
andare più veloce, a non cedere al sonno. Dannati incapaci. Aveva detto loro
che sarebbe andato da solo a Zaccar, che avrebbe
cavalcato in solitaria fino alle sue mura e, sempre in solitudine, avrebbe
accettato qualunque sorte gli si sarebbe posta innanzi. Morte. Incarcerazione.
Redenzione. Qualunque cosa. Ma da solo. Senza quel patetico corteo di suicidi
che, con lui, avevano deciso di percorrere indietro le prodi strade delle
conquiste dei Miyoshi.
“
E’ inutile che veniate, non ci sarà alcuna battaglia” aveva sibilato con
piccata arroganza, un piede a terra e l’altro già nella staffa. Ma non c’era
stato modo di seminarli. L’attimo dopo erano già alle sue calcagna, affannati e
ansanti pur di sostenere la sua fuga verso la “libertà”. Idioti. Con un
movimento secco scostò l’entrata della tenda, intravedendo al suo interno il
tiepido luminare di una candela. Era tardi per commuoversi, tardi per poter
anche solo avvertire l’ombra di un qualsivoglia orgoglio nel vedere una simile
fedeltà, una tale abnegazione al dovere. Eppure, fra giorno e notte, fra
digiuno e insonnia, Inuyasha poteva sentirli li, i suoi cavalieri, cavalcare silenti
dinnanzi ad un destino improbabile, sicuri che, qualunque fosse stato, il loro
generale avrebbe fatto qualcosa di grandioso, di stupefacente.
Ma
di preciso, cosa, esattamente?
Si
lasciò cadere stancamente sulla branda, un puzzo di stallatico e fieno che
saliva immediatamente alle narici ricordandogli di come, nella fretta di
inseguirlo, gli uomini non avevano avuto che il tempo di portare solo qualche
pezza per farne dei giacigli e, fissatele ai cavalli, portarle così, alla
bell’e meglio. Abbozzò una smorfia. C’erano stati tempi in cui era solito
dormire in letti con lenzuola di seta, adornati di preziosi e incisi nei legni
più pregiati. E camminava come un principe fra sale di madreperla, i riflessi
del sole che proiettavano ovunque le sfumature di un mare apparente.
Poco
distante, qualcuno si mosse nel sonno, sospirando appena. Girandosi su un
fianco, anche Inuyasha non potè fare a meno di
sbuffare. C’era stato anche un tempo in cui mai e poi mai si sarebbe ritrovato
a dormir così, da solo, come un disperato cui mancasse il tempo anche di
sfogare i propri capricci. Lui, che più di una volta era entrato in letti già
scaldati da figure morbide e flessuose, le seducenti voci capaci di invocare
solo il suo nome, di pregarlo, pur di avere Inuyasha Miyoshi
per una sola notte. Ed ora eccolo li. Si girò su un fianco, lo yukata rossa che emanava, quasi quanto la branda, un che di
equino. Arricciò il naso. Li a passare notti insonni, a girarsi e rigirarsi in
una tenda che sapeva di muffa e sudore con la sola certezza che, malgrado la
stanchezza, malgrado la spossatezza mai e poi mai avrebbe chiuso occhio.
Nemmeno per un pisolino. No certo che no. Non quando, al solo chiudersi della
palpebra, l’immagine di lei gli
tornava alla mente, spauracchio grigio di un tormento ora impossibile da
governare.
Digrignò
piano i denti, una sensazione di stizza che gli faceva prudere le mani.
Ora
ne era certo. Chiunque l’avesse mandata, qualunque calamità avesse deciso di
far incrociare i loro destini, senza dubbio ce l’aveva con lui. Voleva punirlo.
Castigarlo per tutto ciò che aveva fatto in quei luridi anni di guerre. E il
solo modo che aveva trovato, quale genialità, era stato quello di dannarlo a
vita, di piegarlo ed infine trafiggerlo con il più banale degli artifici, il
più semplice degli stratagemmi: con la seduzione.
Sempre
che di seduzione si potesse parlare.
Con
un mezzo sogghigno, nella mente del mezzo demone tornarono i capelli crespi di
lei, il suo sguardo scavato e, non per ultimo, il corpo macilento, più simile
alla grottesca sembiante di un demone della fame che ad una creatura umana.
Eppure
si, seduzione. Pura e semplice. Il fascino del predatore che, dinnanzi alla
preda spacciata, non possa proprio desistere dal giocare un poco con lei.
Dapprima con indifferenza. Poi con interesse ed infine, prima ancora di
rendersene conto, con passione.
Si
concesse un mezzo sospiro.
Qualcosa
di malato. Certo. Ma c’era poco da stupirsi che uno come lui avesse trovato
seducente qualcosa che di li a poco avrebbe potuto riversare li, sul pavimento
della cella, bile, interiora e quanto di meglio vi fosse in un corpo morente.
Probabilmente erano stati quei lividi scuri, quelle braccia rachitiche a
destare il suo interesse.
O
forse no?
Dalla
stoffa rossastra della tenda, il fuoco mandò un bagliore improvviso, quasi il
simpatetico partecipare di un ascoltatore alle riflessioni del mezzo demone.
Parve
quasi sorridergli, Inuyasha, per la prima volta tremendamente consapevole di
quanto, in fondo, gli era sempre mancato qualcuno con cui conversare. Con cui
azzuffarsi e giocare la parte del sarcastico diffidente. Uno come Sesshoumaru,
ad esempio. E quando finalmente si era accorto di come non fosse del tutto
orribile stare con lui…bè, entrambi avevano deciso di
farsi ammazzare e fine della storia.
Pessimo
fratello, Sesshoumaru. Ma forse, un amico quasi accettabile. Almeno lui aveva
saputo capirlo, alla fin fine.
“Kagome…giusto?” gli aveva detto. Domanda retorica, ovvio.
Eppure nel suo sorriso furbo c’era più di quel suo solito ho vinto io. C’era un per la
prima volta mi spiace di aver ragione.
Così
lui aveva detto, proprio in ultimo, ciò che tutti, a quanto pare sapevano. La
sua strana passione. Quel suo attaccamento davvero poco professionale all’unica
prigioniera che, nonostante tutto, aveva resistito dal parlare. E quel suo fissarla
nell’oscurità, le dita che si tendevano a toccarla quasi lui fosse stato un
affamato e lei la cosa più deliziosa del mondo. Umana che annegava nel suo
stesso piscio.
Di
nuovo, il suono dei suoi denti che masticavano, instancabili, decine e decine
di imprecazioni.
Ancora
adesso, nel silenzio della fedeltà cui pareva essere circondato, Inuyasha
continuava a chiedersi chi avesse parlato. Chi avesse rivelato le sue visite assidue,
il suo comportamento sempre più strano, quell’attaccamento viscerale che alla
fine l’aveva perfino condotto a desiderarla non come preda ma come donna.
Chi
aveva parlato? Chiunque avesse scritto il suo nome su quel muro bruciato,
sapeva che lui l’avrebbe riconosciuto. E l’invito a Zaccar
fugava ogni dubbio: loro sapevano. Sapevano che lui, come un disperato, avrebbe
sellato il cavallo e sarebbe corso da lei sia che la città stesse bruciando o
che fosse stata ancora in piedi, forte e difesa.
L’aguzzino?
Le ancelle? I domestici?
Da
fuori, un nuovo borbottio, qualcuno che nel sonno rimproverava suo figlio di
qualcosa.
Inuyasha
si mosse a disagio nella branda, le gambe piagate per il troppo cavalcare che
gli mandavano delle fitte dolorose fino alla base del collo.
Impossibile
saperlo. Troppa gente si aggirava per Zaccar. Troppi
armaioli, troppi cavalieri, troppi carcerieri. Troppo di tutto, semplicemente,
per pensare di indicare un giorno il colpevole e staccargli la testa con un
unico, preciso fendente.
Chiunque
fosse stato, insieme ai Lord traditori e ai Sovrintendenti venduti, avrebbe
avuto ciò che meritava, prima o poi. Che fosse stato il nome Miyoshi a farlo o qualcuno meno clemente con chi,
all’occasione, era capace di voltare faccia e darsi al miglior offerente. Magari proprio il nuovo Re delle terre
“libere”….
Per
un breve attimo, la tentazione del sonno che mirava il filo dei suoi pensieri,
Inuyasha si concesse di socchiudere le palpebre, l’iride brunita che si
nascondeva in un sospiro pensoso, più stanco di quanto egli stesso avrebbe mai ammesso.
Avrebbero pagato. Si.
Nessun re che si rispetti vuole delle serpi accanto al suo seggio.
Il
lieve comparire di un sorriso sul suo volto fu l’ultima eco spenta di quello di
Kagome, sagoma screziata che dal focolare pareva a
tratti concretizzarsi dinnanzi al suo sguardo socchiuso. Per un attimo la vide
così, i contorni sfumati nel guizzante bagliore al di là delle palpebre, guardarlo
con fare severo e poi alzare entrambe le mani in direzione del suo volto, il
calore di un sospiro che si infrangeva sulle labbra di lui. Ed Inuyasha immaginò
se stesso chinare appena il capo ed affondare il volto nella curva della spalla
di lei, saggiando con un sospiro il profumo screziato della sua pelle. Fiori ed
incenso e, molto più soffuso, qualcosa di molto simile al fumo. Sentore denso e
greve, unica nota stonata che dagli spiragli della tenda pareva insinuarsi fra
le vesti di Kagome già per metà scostate onde
mostrare le bianche rotondità.
Con
uno scatto Inuyasha riaprì gli occhi, un silenzio glaciale che improvvisamente
si raccoglieva attorno ai lenti battiti del suo cuore. Sincronia anomala,
pulsazione fino ad un istante prima, dimenticata.
L’attimo
dopo il mezzo demone si era precipitato fuori dalla tenda, i suoi passi
affrettati che percorrevano con ampie falcate il campo ancora addormentato. Nessuno
lo udì, salvo che poco dopo tutti quanti furono svegliati dallo spaventato
nitrire di cavalli mentre, più rapido di qualunque essere umano, Inuyasha
montava sul primo che gli fosse capitato a tiro.
“
Principe!” il più lesto nel destarsi e precipitarsi fuori dalla tenda riuscì
per un pelo a posticipare il suo partire al galoppo. Irto sulla sella, il
destriero che compiva qualche giro su se stesso mentre il suo cavaliere
rifletteva rapidamente sul da farsi, Inuyasha gli concesse un’occhiata urgente.
Gli occhi felini guardavano in avanti, ben più in là di quanto fosse realmente
possibile vedere.
“
Zaccar sta bruciando” sibilò il secondogenito con una
smorfia contrita “ Vi concedo il tempo della mia rinomata pazienza per
prepararvi e partire, altrimenti andrò da solo” Con un nuovo mezzo giro, il
cavallo si mosse a disagio, le orecchie che si giravano a più riprese
all’indietro. Con una smorfia Inuyasha serrò la presa attorno alle redini, le
dita che sbiancavano nel tentativo di non spezzarle sedutastante
“Sbrigatevi” concluse asciutto.
Poco
dopo, bardati alla bell’e meglio, i soldati si affrettavano attorno al mezzo
demone, l’aria fredda della notte che rabbrividiva sui loro volti ancora
cisposi di sonno. Tende e vettovaglie erano state lasciate indietro, troppo
pesanti ed onerose per quell’ultimo tratto di viaggio così che gli uomini non
avevano potuto che portarsi appresso solo le cose necessarie per sopravvivere
ad un solo giorno di viaggio, quello che ancora li separava da Zaccar.
Dalla
testa del gruppo, inuyasha scoccò un’occhiata bieca
all’orizzonte nero come la pece. Le fiamme ancora non si vedevano, ma il vento
basso che spirava per le piane di quelle terre aveva ben potuto portarli il
sentore di quanto stava accadendo più avanti.
Nell’incupirsi
del suo sguardo, non potè fare a meno di chiedersi da
quanto fosse cominciato l’attacco e, soprattutto, per quanto ancora sarebbe
durato viste le forze rimaste di stanza nella città.
Un
giorno avrebbero resistito? Le mura di Zaccar
potevano, sole, resistere ad un attacco senza difensori ma con soli attaccanti?
C’era davvero la possibilità di organizzare una resistenza? Una nuova zaffata
al sapore di cenere lo costrinse a socchiudere appena le palpebre.
Per
la prima volta, un’esitazione da parte del soldato più vicino lo avvertì che,
finalmente, anche la sua “scorta” aveva avvertito il puzzo del fumo.
Bene. Si stavano
avvicinando.
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Inuyasha
ricordava le leggende a proposito di Zaccar.
Era
nato e cresciuto fra racconti fantastici e storie senza tempo e fra tutte le
ballate a proposito della Città di Cristallo si aggiudicavano senza dubbio il
primo posto. Città della Notte, Torre d’Avorio, Perla di Yarda.
Ognuno di questi nomi aveva da sempre significato
qualcosa per tutto il mondo, rammentando che le meraviglie non sono fatte solo
per esistere ma quanto più per essere vedute, raccontate, ammirate.
Ed
anche in quell’istante, braciere avvolto dalle fiamme e contratto di urla,
Inuyasha non potè fare a meno di ammirarla, Zaccar. Di perdersi in quella minuzia di particolari
qual’era la pianta circolare, la planimetria a ragnatela delle strutture. La
Torre, monumento ora rosato nell’accalcarsi delle fiamme al crepuscolo.
Con
un ruvido movimento di briglie Inuyasha trattenne lo scartare del proprio
destriero, la mano artigliata che scendeva subito dopo a carezzarne la ruvida
criniera.
E’ quasi finita avrebbe voluto
sussurrargli in un orecchio, certo che nessuno dei cavalieri li vicini avrebbe
potuto sentire, presi com’erano anch’essi dalla visione della Città.
Zaccar brucia, e noi presto saremo con lei. Ma non ebbe in animo
di parlare, sapendo che da li a pochi istanti quegli uomini avrebbero potuto
trovare la morte in suo nome.
Così,
tirando appena le redini a sé si concesse di avanzare di qualche passo per poi
voltarsi verso di loro, un che di solenne nel risplendere alle sue spalle della
Città della Notte che lo costringeva ad esitare un attimo, prima di parlare.
“
Questa è la vostra ultima possibilità” cominciò asciutto “Non sappiamo cosa
troveremo a Zaccar, se una strenua resistenza o una
sconfitta già consumata. Perciò, liberandovi da qualunque dovere nei miei
confronti, vi concedo di scegliere per un’ultima volta: voltate i cavalli e
andatevene e sicuramente nulla e nessuno attenterà alla vostra vita ed oserà
chiamarvi codardi. Rimanete, e preparatevi dunque ad una possibile quanto certa
morte” nervoso, il suo cavallo ebbe un guizzo a sinistra tale da costringere il
mezzo demone ad un colpo di redini. Attese qualche istante, aspettando in
silenzio che qualcuno gli voltasse semplicemente le spalle e prendesse a
cavalcare nella direzione da cui tutti loro erano venuti. Ma quando fu chiaro
che nessuno di quegli uomini se ne sarebbe andato, chinò appena il capo, la postura
rigida che simulava un saluto orientale. Come
preferite avrebbe voluto dire; ma forse in quel contesto non sarebbero
certo state le parole più adatte. Così, più freddamente si lasciò sfuggire un vi ringrazio senza tono, il massimo che
uno come lui avrebbe potuto permettersi. Davvero.
Mentre
voltava il cavallo ed in silenzio prendeva ad avanzare in direzione di Zaccar, si ritrovò stupidamente a pensare che Sesshoumaru
avrebbe certo gradito quel suo atteggiamento, per una volta. Quasi poteva
vedere la sua faccia incipriata ravvivarsi di un mezzo ghigno sarcastico
esprimendo, con la sua solita voce spocchiosa, le sue congratulazioni per
l’improvvisa diplomazia guadagnata, o meglio, la capacità di esprimersi come un essere civile e senziente. Si.
Proprio una reazione alla Sesshoumaru, carattere dal gusto agrodolce, sempre
troppo speziato o pungente per uno come lui che avrebbe pasteggiato con sabbia
e brina per tutta la vita
Dietro
di lui, i cavalieri presero a seguire il suo passo, muti tanto nella voce quanto
nel cuore. Nessuno chiese che tipo di formazione usare, che marcia suonare o a
che andatura andare. Come un corteo funebre lanciato alla carica –il morto
davanti- essi si misero semplicemente
poco distante da lui, insieme subalterni e, forse per la prima ed unica volta,
eguali.
“Estraete
le armi ” ordinò brevemente Inuyasha, le mura di Zaccar
che cominciavano ad emanare i primi, deboli, riflessi madreperla nel riverbero
del sole. “ Che sia già stata presa o ancora dibattuta, questa città non ci
accoglierà con the caldo e sorrisi.” concluse monocorde.
Rigido,
fra i suoi uomini il rumore delle spade estratte dai foderi, il tendersi di
archi fra le dita. Ognuno con in volto la medesima domanda: cosa avrebbero
trovato, una volta superate le soglie della Città? Nelle fiamme potevano
distinguersi urla e sferragli, quasi il concitato animarsi di molte, moltissime
anime. Ma cosa stava davvero accadendo a Zaccar?
Non
dovettero attendere che pochi metri prima che dalle mura ossidiana si
sollevasse in risposta una schiera compatta di frecce, sottili aghi stagliati
nel brunire del giorno.
“Ripararsi!”
gridò istantaneamente il mezzo demone senza rallentare l’andatura. Poco dopo,
le sagome della Città della Notte che si intravedevano oramai distinte dai
cancelli sfondati, la pioggia aerea si abbatté su di loro, le punte metalliche
a conficcarsi sugli scudi imbracciati a difesa del gruppo.
Voltandosi,
Inuyasha valutò rapidamente i danni. Sospirò, piano, il tempo di un istante di
sollievo. Nessun ferito. Nessuna perdita.
Debole,
fra i suoi uomini scorse una risatina nervosa, capace di distendere per un
breve attimo i volti che facevano capolino da dietro gli scudi. Ed ecco
giungere la seconda raffica.
Questa
volta qualcuno venne colto impreparato venendo brutalmente disarcionato dal
proprio destriero, ma la maggioranza, Inuyasha in testa, riuscì finalmente a
varcare le soglie di Zaccar, la visione infernale
incastonata al suo interno che li costrinse immediatamente ad un improvviso
quanto brutale arresto.
Incapace
di parlare, il mezzo demone avvertì se stesso trattenere dolorosamente il
fiato, un denso fumo che inghiottiva in un istante tanto lui quanto il gruppo
di cavalieri alle sue spalle. Tossì, la gola che si seccava nella nebbia
grigio-rossa che ora li circondava.
“Restate
vicini” gridò con sforzo, le parole che faticavano a trovare l’aria in cui
espandersi. Frastornato, il suo cavallo mandò un basso nitrito nervoso, il
crepitio degli incendi tutt’attorno che rischiarava di vivide fiamme
l’infernale parodia di quella che un tempo era stata considerata la Città dei
Sogni.
Stessi
muri, stessa città. Tranne suo fratello, tranne le sue vesti non più da
battaglia, Tranne i suoi uomini, misera combriccola se paragonata all’esercito
del passato.
E
così, in un attimo, tutto diverso.
Alzando
una mano sulla fronte già imperlata di sudore, Inuyasha fu costretto a
strizzare gli occhi per il riverbero degli incendi. Dall’alto delle mura si
alzò un grido d’allarme, segnale che malgrado la confusione qualcuno sarebbe
comunque sopraggiunto per accoglierli.
“
Avanziamo” ordinò ciononostante il mezzo demone. Ora non c’era Sesshoumaru con
cui scambiare uno sguardo stizzito. Con cui condividere quell’ultimo attimo di
tensione prima dell’assalto finale. Con cui, infine, commentare piccati la
scarsa accoglienza ricevuta. Così, rammaricandosi –forse per la prima volta- di
notare lamiera e acciaio piuttosto che pizzo e sete preziose, Inuyasha lasciò
che il rumore di passi alla carica e spade sguainate lo raggiungesse,
stemperando il fumo nebuloso attorno a loro di una marea informe di corpi e
armi. Trasse un respiro contratto, serrò forte la mascella ed infine, nel
liberarsi della sua vera natura, scattò in avanti.
Dimentico
del cavallo. Dimentico del calore, delle fiamme, di quello stridio confuso
quali erano i suoi denti l’uno contro l’altro, morso contratto.
Così
di nuovo, poiché era questo che sapeva fare, uccise. Uno, due uomini, le loro
carni che si sfaldavano fra le dita come calde pezze intrise di sangue. Ringhiò
forte, orribilmente, i tratti demoniaci che acquistavano un che di mostruoso
nell’allungarsi dei canini, nello scurirsi della sclera fino a che cremisi,
solo cremisi, la riempì invadendola come eclissi lunare.
E
mentre si sporgeva in avanti, falciata improvvisa, e mentre si catapultava
allora all’indietro, schivata repentina, avvertì il suo nome serpeggiare come
morbo fra le movenze ansiose degli assalitori.
Con
terrore lo riconoscevano. Con sgomento si stringevano alle spade nell’istante
in cui, implacabile, essi si trovavano proprio dinnanzi a lui, minaccia oramai
inevitabile. Ed infine, Ccn orrore si lasciavano
sfuggire grida insipide un attimo prima che la sua ferocia li assalisse facendo
di loro un nulla.
Inuyasha.
Inuyasha.
Seppe
allora che l’avrebbero ricordato così. Così mentre, Tessaiga
nella mano destra, affondava le dita uncinate nel corpo di un innocente. Un
ghigno sul volto, un grido fra le labbra –quasi un ruggito di fiera, di bestia-.
“Inseguiamoli!”
sputò dunque quando i pochi rimasti tentarono di darsi alla macchia fra le
fiamme di Zaccar. A piedi prese a correre, nube
cremisi in fumi ardenti. Dietro di lui, lo scalpiccio di zoccoli e di piedi
armati.
Serrò
di nuovo la mascella, prese ancora un lungo, doloroso respiro, ed in quella si
slanciò in avanti, il corpo che compiva un mezzogiro
prima di atterrare di peso sull’uomo alla testa del drappello.
Il
sonoro crack delle ossa del poveretto mentre una dopo l’altra andavano in pezzi
sotto i suoi piedi fu l’eco stordita del grido terrorizzato che si sparse istantaneamente
nell’aere circostante. L’attimo dopo, come api
impazzite, i ribelli si disperdessero tutt’attorno.
Troppo comodo,
ragazzi. Davvero troppo comodo.
Subito
lo scattare del mezzo demone. Subito il precipitarsi dei suoi soldati ad
acciuffare i sopravvissuti ora starnazzanti ovunque come oche impazzite.
“Avanti”
alla voce secca di Inuyasha seguì il frettoloso ricomporsi dei suoi fedeli e il
nuovo, precipitoso, avanzare nel cuore di Zaccar.
Oramai
l’aria era quasi irrespirabile, scuri addensati di fasciame e pietra che
istante dopo istante si sgretolavano facendo rovinare ovunque cocci infuocati.
Grida sempre più vicine, stridule richieste di aiuto a metà fra l’animalesco e
l’umano parevano l’eco di ogni passo, di ogni singolo movimento. Grondante di
sudore, Inuyasha si deterse la fronte con lo yukata
già intriso di sangue. Sapeva che così facendo il suo volto si sarebbe
trasformato in una maschera brunita, ma non se ne curò. Ghigno soffuso. Meglio quello altrui che il proprio, in
fondo. Chiuse appena gli occhi, il riverbero dei fuochi tutt’attorno che lo
accecava per un istante mentre di nuovo, ali ai piedi, si preparava a balzare
in avanti.
Fu
una guardia a fermarlo, la mano stretta al suo yukata
che tremava impercettibilmente mentre con l’altra gli indicava un punto meno
precisato alla sua destra. Volgendo lo sguardo, il mezzo demone notò allora un
gruppo di donne – apparentemente dei semplici civili – che fuggivano in preda
al panico. Dietro di loro, un nero drappello di ribelli.
“
Voi “ replicò allora secco il mezzo demone mentre rapido si arrestava per
indicare circa metà dei soldati che erano con lui “Aiutate quelle donne e
qualunque altro civile che si trovi in difficoltà” una pausa, la gola che si
contraeva nella sgradevole sensazione dell’Addio “Zaccar
è perduta, ma lo stesso non vale per i suoi abitanti” da dietro l’elmo potè
chiaramente avvertire i suoi fedeli strabuzzare appena gli occhi. A disagio, o
forse solo per scostare una nuvola di fumo più denso, mosse appena Tessaiga nel palmo della mano. Tutti insieme, i suoi
arretrarono di un passo. “Nessuno ama vedere la propria città bruciare, statene
pur certi. Date loro la sensazione di essere in salvo e vedrete quanto è forte
la disperazione di chi in un attimo sta per perdere tutto quanto” aggiunse con
un ghigno richiamando allo stesso tempo il gruppo che avrebbe proseguito con
lui.
“
Quando avrete finito raggiungeteci alla Torre “ concluse ed in quella, con un
balzo, riprese la propria corsa in avanti, strade e rovine che riprendevano a
snodarsi senza resistenza alcuna sotto i suoi piedi votati ad un’unica
direzione, ad una sola meta. Dietro il fiato corto dei suoi. Dinnanzi, il
mastodontico profilo di una struttura aggraziata e altezzosa come Dea troppo
bella, troppo grande per disturbarsi a guardare anche solo una volta in basso.
A lui che come un disperato si dava tanta pena di raggiungerla.
Balzò
di lato, evitando con un movimento leggero l’affondo di una lama sospesa nel
vuoto. Turbinò a destra, staccando nella giravolta il braccio al poveretto che
aveva osato il gesto e nel grido di lui, nel suo accasciarsi a terra moribondo,
alzò una mano verso l’alto, le dita tese che indicavano agli uomini alle sue
spalle di fermarsi.
La
Torre era ormai dinnanzi a loro. Bella, funesta, orribile nel proprio risplendere
di oro e cremisi. Dentro, distintamente, i rumori di una battaglia ancora in
corso.
“
Voi passerete per l’ingresso principale” ordinò con fiato corto. Il fumo aveva
ridotto la sua gola ad una dolorosa crosta di carne e sangue “ Io scenderò
dall’alto. L’uomo che stiamo cercando sarà sicuramente attorniato dai suoi ed
in prima fila a massacrare quelli che ancora si stanno opponendo al suo regno libero e pacifico” la sfumatura gelida
della sua voce non mancò di strappare qualche fredda risatina ai suoi, ora più
sporchi e ammaccati di quanto ricordasse.
Li
vide annuire in silenzio, le dita che si stringevano all’unisono all’else delle
spade per poi picchiarle una ed una sola volta contro la placca frontale delle
proprie armature.
Un
saluto, realizzò il mezzo demone mentre di riflesso si voltava e scattava,
felina agilità, in direzione della Torre alle sue spalle. Non replicò a quel
gesto. Né con una smorfia né con un movimento. Per quel che gli riguardava, non
era ancora giunto il momento dei congedi e degli addii. Se mai vi fosse stato
un saluto, quello sarebbe stato la morte.
Così,
senza inizi e senza fini, il grande Inuyasha Miyoshi
si separò per l’ultima volta dai suoi, dall’ultimo manipolo di uomini che aveva
creduto in lui, che aveva voluto –malgrado tutto- affidargli le proprie vite
certi che nel bene o nel male egli avrebbe saputo farne buon uso. E mentre il
mezzo demone evitava di voltarsi, di guardarli un’ultima volta sparire entro le
grandi porte della Torre non potè evitare di
chiedersi, debolezza ben poco marziale. E
loro? Loro come l’avrebbero ricordato?
Rinfoderò
Tessaiga e rapidamente tese le mani dinnanzi a sé per
aggrapparsi al parapetto più vicino. Si issò, e subito scattò in verticale
verso l’alto afferrandone un altro.
Anche per loro sarebbe
stato l’omicida implacabile, il mostruoso hanyou che,
chino su una montagna di cadaveri, scavi come impazzito alla ricerca di gustose
frattaglie?
Scattò
ancora, finendo di un piano ancora più in alto. Da li potè
avvertire il calore delle fiamme scivolargli lungo la schiena come una carezza
peccaminosa. Rabbrividì.
O, ancora meglio, il
guerriero infallibile, assetato di sangue e vendetta. Implacabile contro gli
umani, insensibile verso i demoni?
Con
uno sbuffo si issò ad un nuovo cornicione, il fiato che rapidamente si faceva
più denso e rasposo. C’era più aria, lassù, eppure
essa pareva non bastare comunque, affamandolo della rassicurante sensazione del
vento e della frescura.
Oppure…oppure…
“…Andiamocene”
Una
voce lo fece immobilizzare. A metà di un colpo di reni, le dita strette attorno
al cornicione più vicino, Inuyasha si bloccò improvvisamente. A pochi metri da
lui qualcuno si stava aggirando frettolosamente all’interno della Torre. Con
sforzo si sollevò di poco, sporgendo a fatica il capo oltre la cornice della
finestra e li, chini su una non meglio precisata baraonda di vesti,
chincaglierie e quant’altro, vide due uomini in nero. Avvertì il proprio
sguardo assottigliarsi di disappunto, la bruciante sensazione della rabbia che
prendeva di nuovo il proprio posto nel suo cuore.
Eccoli, gli uomini. Pensò velenosamente.
In un fruscio si issò al cornicione. Eccoli
mentre, al meglio delle proprie potenzialità, esprimono la più vera essenza
della propria natura.
Caricò
il colpo, preparò il balzo, scelse il bersaglio. E proprio allora uno dei due
lo notò. Troppo tardi, sfortunatamente. Inuyasha
già era in volo, gli artigli che rigavano il vento in un brutale sfilaccio
mortale.
Ma
un attimo prima dell’affondo, un istante prima di vedere quegli idioti scattare
di tutta fretta all’indietro e voltarsi terrorizzati verso la porta della
camera, proprio allora, uno dei due spinse l’altro di lato. Fatale, il colpo
affondò nel suo sterno, abbastanza potente da sfondargli in un sol attimo la
cassa toracica. Sufficientemente forte da bloccare il suo respiro così,
d’improvviso. Quanto bastasse per dare il tempo al suo amico di rantolare a
terra in preda al panico, individuare alla cieca la porta e defilarsi in un
grido confuso.
Ma che diavolo…
Intontito
da quello strano, certamente anomalo, comportamento, il mezzo demone estrasse i
propri artigli dal corpo dell’uno per fiondarsi subito sull’altro ma non fece
in tempo ad accostarsi alla porta che qualcosa di imprecisato – e decisamente
affilato – lo raggiunse ad altezza volto.
Scartò
abbassandosi sulle ginocchia, la lama che eseguiva un rapido taglio orizzontale
alla volta dei suoi capelli d’argento e con un colpo di gambe fece cadere
l’uomo di schiena. “ Dannato assassino…” lo sentì
farfugliare prima che lo sopprimesse con un affondo alla gola.
Dopo
di che, il silenzio. Ansimò con sforzo, gocce di sudore che scivolarono dal suo
volto per rigare quello dell’uomo sotto di lui. Deglutì piano, a fatica, dita
rosse che tremavano di adrenalina conferendo un che di fragile, di impaurito al
suo tirarsi in piedi, pulirsi le vesti dal sangue, riprendersi dalle parole che
il morente gli aveva appena rivolto.
Chiudendo
gli occhi si chiese perché egli non fosse scappato. Perché, nel sacrificio del
suo compagno, egli non avesse semplicemente deciso di salvarsi la vita ed
informare contemporaneamente gli altri di sotto che Inuyasha Miyoshi –proprio lui- era finalmente arrivato. Dilemmi irrisolvibili,
come la quasi totalità di ciò che riguardasse gli uomini e le loro
incomprensibili pulsioni. Che, in fondo, vi fosse davvero qualcosa in loro? Un che di affatto trascurabile?
Il
sollevarsi di grida alcuni piani più sopra –forse la sala del trono- gli fecero
brutalmente ricordare dove si trovasse e quanto ogni secondo fosse stato
prezioso.
Ci sarebbe stato un
tempo per pensare, ed oramai Inuyasha iniziava a credere che esso sarebbe stato
ben più lungo di quanto mai avrebbe creduto possibile.
Avanzò
in punta di piedi in quella che si sarebbe detta una comune sala da pranzo,
tavolate e sedie sparse alla rinfusa per il pavimento madreperla, finché non
trovò l’imboccatura della ciclopica scala che a perdita d’occhio si snodava per
tutta la lunghezza della Torre.
Bella come la
ricordava. Imponente come tutte le cose più belle dovrebbero essere.
Da
li, i piedi nudi a calcare furtivi i fitti gradini, prese a salire un piano
dopo l’altro, cadaveri sanguinanti e corpi moribondi che ostruivano il
passaggio rendendo la pietra scivolosa e maleodorante. Quando fu certo di
trovarsi esattamente sotto al piano da dove provenivano i rumori di battaglia
tornò all’esterno della torre, lasciando che il suo agile corpo si sporgesse
per afferrare i cornicioni più alti. Solo allora, solo dopo aver risalito un
paio di ampi finestroni si arrischiò a sbirciare all’interno della Torre.
Ammiccò
piccato, ancora una volta rammaricandosi che accanto a lui non vi fosse stato
Sesshoumaru. Peccato. Avrebbe certamente trovato la cosa alquanto divertente.
Goliardica, anzi. “ Non si può dire che
al destino manchi il senso dell’umorismo, fratello” avrebbe detto con un
mezzo sorriso.
Socchiudendo
le palpebre in una smorfia snervata, Inuyasha non potè
far altro che dargli ragione, piegare il capo di lato –per vedere meglio- e scrollare le spalle. “ Si, Sesshoumaru ”
sibilò ruvidamente, la mano che si sporgeva per afferrare ampi tendaggi posti
ai lati di ampie vetrate “ Il Destino ha sempre avuto un ottimo senso
dell’umorismo per quanto riguardasse noi. Sempre ” e con quell’ultima, piccata,
frase, si buttò nel vuoto della sala da Ballo, luogo dove tutto era iniziato e
dove, con tutta probabilità, tutto sarebbe finito.
Ondeggiò
una, due, tre volte, il corpo che trovava nell’aria la giusta armonia, la
perfetta simbiosi fra vento e caduta finché, slancio distratto, prodezza
leggera e silenziosa, egli si lasciò andare al vuoto. Braccia e gambe. E corpo.
E quel busto un poco torto all’indietro, un poco flesso quasi una mano
invisibile reggesse il semplice, pur perfetto, librarsi del mezzo demone
nell’infinito, nell’eterna bellezza di una caduta.
Mezzo
giro, e il contemporaneo estrarsi di Tessaiga, la
lucentezza della lama che proiettava aguzzi riflessi tutt’attorno, ghigni
sornioni di una creatura senziente.
Lama
avida. Lama servizievole. Lama la cui anima pareva il sorriso, quel sorriso
ghignante che un giorno Inuyasha aveva finito col perdere.
Sospirò,
onde argento e neve che per un attimo si mischiavano dinnanzi ai suoi occhi
coprendo ogni cosa –muri, archi, pietre e stelle- di un’unica patina soffice e
candida. Poche gocce di sangue qua e là.
Ultimo slancio. Ultimo
salto del vuoto prima della fatale ricaduta. Prima di toccare, forse per
un’ultima volta, il terreno.
E
proprio quando gli fu necessario respirare, recuperare fiato e vita da
quell’unico, solo, respiro, Inuyasha atterrò improvvisamente nel bel mezzo
della sala, Tessaiga che compieva un mezzo giro fra
le dita del mezzo demone per poi posarsi sulla nuda gola di una donna in nero.
Lunghi
capelli color della notte, pelle alabastro e due occhi di fulgida, lucente,
perla.
Sorrise,
le labbra che si chiudevano sulla curva dell’orecchio di lei in un sussurro
senza voce.
“Bungiorno, Kagome”.
Ed eccomi di nuovo qui^__^
Meglio non ricordare quanto tempo è passato dall’ultimo capitolo, soprattutto perché UFFICIALMENTE posso dirvi che la storia è finita. L’ho scritta. L’ho –quasi- controllata tutta e quindi è molto probabile che io la posti prima dei soliti due anni di travaglio*__*
Spero davvero possano piacervi le scelte fatte in queste battute finali, compreso il tono sempre più umano dato ad Inuyasha su cui ho spessissimo avuto dei dubbi della serie “Ma così non perderà il suo tono da bel-tenebroso-me ne sbatto?”. Il ritorno alla Torre è un voluto –ritorno al principio- dove il tentativo sarebbe quello di far risaltare quanto ancora persiste e quanto invece è cambiato sia nell’animo del mezzo demone che del mondo che lo circonda, stravolto dagli eventi che più o meno coscientemente l’hanno visto partecipe. Vi prego, ditemi se vi piace questo “deja-vu”o se me lo potevo proprio risparmiare….ç__ç
Come sempre ringrazio coloro che mi seguono/seguivano e che hanno commentato i miei LENTI capitoli uno dopo l’altro.*bacio* Spero ancora in un vostro commento/apprezzamento/critica.^___^ Besos!
Elendil.