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Autore: Elendil    10/06/2012    1 recensioni
“ Non mi piace che le persone che uccido ritornino in vita”disse in un sussurro nel suo orecchio.
La sentì ridere piano.
“ Ma io non sono morta...Inuyasha”
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nel buio della sua cella, gli occhi di Kagome brillavano appena, tiepida luce cinerea. Un livore rosato, slavato, quasi il ricordo della nebbia prima del sopraggiungere del mattino. Mentre si accostava alla parete più vicina, la guancia sottile che incontrava il gelo della roccia, le sue iridi cieche ebbero come uno scatto, un fremito nervoso, ultimo ricordo di un’abitudine a voler guardare un mondo oramai invisibile, oramai perduto. Appoggiò lentamente le labbra alla pietra umida della sua cella, lasciando che alcune gocce fresche le scivolassero in gola, rugiadoso sollievo ad una sete smaniosa, capace fino ad allora di logorarla come rosicchio costante alla base della lingua.

Socchiuse lentamente gli occhi, un’espressione di concentrato piacere che addolciva per un attimo il suo sguardo. Acqua. Semplicemente.

Eppure per un attimo estasi. Eppure per un secondo ebbrezza.

Lasciandosi ricadere con un sospiro a terra, il suo corpo che si afflosciava prima contro il muro e poi molle fino al suolo, si concesse un gemito contratto, flebile spiraglio fra i capelli già assiepatisi dinnanzi alle iridi socchiuse.

Stare seduta era un lusso che non poteva permettersi per più di qualche minuto al giorno. Le ossa del bacino e delle costole sporgevano tanto che temeva potessero varcare il confine della pelle e spargersi li, tutt’intorno a lei, se solo avesse osato più dello stretto necessario.

Respirò a fondo l’aria gelida e umida, flebile contrazione dello sterno, trovandola insipida sotto i denti, muschiosa fra le narici, un misto fra ciò che era vivo e ciò che ben presto sarebbe stato morto. Sorrise piano, mesto spezzarsi delle labbra riarse. Forse non era la prigione ma solo lei stessa a puzzare così.

Con un movimento leggero, due dita le scostarono allora i capelli dalla fronte. Mani affusolate, pelle tiepida, un fresco tepore che si espandeva da quel semplice gesto inondandole il volto come brivido caldo d’estate. Gemette ancora, a metà fra la sorpresa e il sollievo, ma non si ritrasse. Era troppo stanca per  reagire. Per rifiutare, dopo tanto dolore, anche quel misero ricordo di gentilezza. Così, quando le sue labbra si schiusero per formulare un qualche tipo di domanda, non si sorprese affatto di non udire parole ma bensì un suono ruvido, monocorde, più simile alle fusa di un gatto che ad un susseguirsi di sillabe.

Cautamente, la carezza allora scese, leggera, a lambire la tensione del suo collo sottile, brivido sommesso in un punto imprecisato fra scapole e schiena, e poi di nuovo verso l’alto, le mani artigliate che si soffermavano per un istante a contare una ad una le sue ciglia socchiuse, curve morbide su un volto spigoloso.

Se si fosse trattato del primo ed unico episodio di questo tipo, certamente ora Kagome non se ne sarebbe sta li ferma e remissiva in un angolo, complice assente di quel meticoloso contatto. Avrebbe sicuramente tentato di reagire, di sottrarsi, di scostare quella gentilezza tanto fuori luogo in quella cella e gridare la propria agonia, la propria rabbia. Ma non era la prima volta che Inuyasha le faceva visita. Non era il primo giorno che egli, in silenzio, scendeva in quella prigione per studiarla nell’oscurità, concentrato e silenzioso, le dita uncinate che esploravano con severo interesse i tratti della sua mascella, i contorni delle sue labbra. Non le parlava mai. Nessuna frecciatina malevola, nessun solito commento caustico. Semplicemente, si limitava ad osservarla come ombra fra le ombre, il respiro lento e vicino che le donava suo malgrado involontari attimi di calore, istanti di tepore.

Poi, come di prassi, il ferruginoso schiudersi di una serratura, il gracchiante cigolio di cardini mal oliati e, proverbiale, il divampare ovunque di luce rossa, abbagliante, accecante. E con essi, il riprendere della pantomima.

Già la mano si era scostata, già il flebile tocco delle dita si era negato, lasciando al suo posto il manchevole ricordo di una sensazione mai più raggiungibile.

“Buongiorno Kagome” la voce di Inuyasha la raggiunse poco dopo, il tono abbastanza pacato da lasciar presumere una calma anche interiore “Come ti senti?”  

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Con un ringhio truce, il mezzo demone ingollò le ultime gocce d’acqua nella fiaschetta per poi, con la stessa veemenza quasi avesse dovuto annegarla, infilò la stessa al di sotto della superficie dell’acqua. Meditabondo osservò i contorni dell’oggetto sfocarsi appena, la corrente del fiume che faceva appena pressione sul suo braccio come una morbida carezza. Poco distante, il quieto riposare dei soldati tutt’attorno ai falò, alle tende posticce piantate giusto per evitare una notte all’addiaccio.

Mentre il riempirsi della borraccia mandava nel silenzio gorgoglianti borbottii, Inuyasha alzò appena lo sguardo lasciandolo scorrere sul paesaggio dinnanzi ai suoi occhi stanchi. Querce, noccioli e altri alberi pesanti coprivano con il loro verde manto ogni possibilità di visuale, negando la vista di ciò che l’indomani si sarebbe presentato dinnanzi ai loro occhi in tutta la sua imponenza, in tutta la sua magnificenza: Zaccar.

Senza curarsi affatto di aver riempito fino all’orlo la borraccia, il mezzo demone la estrasse dall’acqua tappandola nuovamente con un gesto secco.

Sospirò.

Non ricordava i giorni di viaggio. Non ricordava nemmeno le ore di sonno e quelle diurne passate in groppa ad uno stopposo ronzino incapace di sostenere un’andatura decente senza che ogni due santissimi minuti ci si dovesse fermare alla fonte più vicina per rimpinzarlo d’acqua. Ricordava solo il suo voltarsi di tanto in tanto, imprecando contro i suoi stessi soldati e spronandoli ad andare più veloce, a non cedere al sonno. Dannati incapaci. Aveva detto loro che sarebbe andato da solo a Zaccar, che avrebbe cavalcato in solitaria fino alle sue mura e, sempre in solitudine, avrebbe accettato qualunque sorte gli si sarebbe posta innanzi. Morte. Incarcerazione. Redenzione. Qualunque cosa. Ma da solo. Senza quel patetico corteo di suicidi che, con lui, avevano deciso di percorrere indietro le prodi strade delle conquiste dei Miyoshi.

“ E’ inutile che veniate, non ci sarà alcuna battaglia” aveva sibilato con piccata arroganza, un piede a terra e l’altro già nella staffa. Ma non c’era stato modo di seminarli. L’attimo dopo erano già alle sue calcagna, affannati e ansanti pur di sostenere la sua fuga verso la “libertà”. Idioti. Con un movimento secco scostò l’entrata della tenda, intravedendo al suo interno il tiepido luminare di una candela. Era tardi per commuoversi, tardi per poter anche solo avvertire l’ombra di un qualsivoglia orgoglio nel vedere una simile fedeltà, una tale abnegazione al dovere. Eppure, fra giorno e notte, fra digiuno e insonnia, Inuyasha poteva sentirli li, i suoi cavalieri, cavalcare silenti dinnanzi ad un destino improbabile, sicuri che, qualunque fosse stato, il loro generale avrebbe fatto qualcosa di grandioso, di stupefacente.

Ma di preciso, cosa, esattamente?

Si lasciò cadere stancamente sulla branda, un puzzo di stallatico e fieno che saliva immediatamente alle narici ricordandogli di come, nella fretta di inseguirlo, gli uomini non avevano avuto che il tempo di portare solo qualche pezza per farne dei giacigli e, fissatele ai cavalli, portarle così, alla bell’e meglio. Abbozzò una smorfia. C’erano stati tempi in cui era solito dormire in letti con lenzuola di seta, adornati di preziosi e incisi nei legni più pregiati. E camminava come un principe fra sale di madreperla, i riflessi del sole che proiettavano ovunque le sfumature di un mare apparente.

Poco distante, qualcuno si mosse nel sonno, sospirando appena. Girandosi su un fianco, anche Inuyasha non potè fare a meno di sbuffare. C’era stato anche un tempo in cui mai e poi mai si sarebbe ritrovato a dormir così, da solo, come un disperato cui mancasse il tempo anche di sfogare i propri capricci. Lui, che più di una volta era entrato in letti già scaldati da figure morbide e flessuose, le seducenti voci capaci di invocare solo il suo nome, di pregarlo, pur di avere Inuyasha Miyoshi per una sola notte. Ed ora eccolo li. Si girò su un fianco, lo yukata rossa che emanava, quasi quanto la branda, un che di equino. Arricciò il naso. Li a passare notti insonni, a girarsi e rigirarsi in una tenda che sapeva di muffa e sudore con la sola certezza che, malgrado la stanchezza, malgrado la spossatezza mai e poi mai avrebbe chiuso occhio. Nemmeno per un pisolino. No certo che no. Non quando, al solo chiudersi della palpebra, l’immagine di lei gli tornava alla mente, spauracchio grigio di un tormento ora impossibile da governare.

Digrignò piano i denti, una sensazione di stizza che gli faceva prudere le mani.

Ora ne era certo. Chiunque l’avesse mandata, qualunque calamità avesse deciso di far incrociare i loro destini, senza dubbio ce l’aveva con lui. Voleva punirlo. Castigarlo per tutto ciò che aveva fatto in quei luridi anni di guerre. E il solo modo che aveva trovato, quale genialità, era stato quello di dannarlo a vita, di piegarlo ed infine trafiggerlo con il più banale degli artifici, il più semplice degli stratagemmi: con la seduzione.

Sempre che di seduzione si potesse parlare.

Con un mezzo sogghigno, nella mente del mezzo demone tornarono i capelli crespi di lei, il suo sguardo scavato e, non per ultimo, il corpo macilento, più simile alla grottesca sembiante di un demone della fame che ad una creatura umana.

Eppure si, seduzione. Pura e semplice. Il fascino del predatore che, dinnanzi alla preda spacciata, non possa proprio desistere dal giocare un poco con lei. Dapprima con indifferenza. Poi con interesse ed infine, prima ancora di rendersene conto, con passione.

Si concesse un mezzo sospiro.

Qualcosa di malato. Certo. Ma c’era poco da stupirsi che uno come lui avesse trovato seducente qualcosa che di li a poco avrebbe potuto riversare li, sul pavimento della cella, bile, interiora e quanto di meglio vi fosse in un corpo morente. Probabilmente erano stati quei lividi scuri, quelle braccia rachitiche a destare il suo interesse.

O forse no?

Dalla stoffa rossastra della tenda, il fuoco mandò un bagliore improvviso, quasi il simpatetico partecipare di un ascoltatore alle riflessioni del mezzo demone.

Parve quasi sorridergli, Inuyasha, per la prima volta tremendamente consapevole di quanto, in fondo, gli era sempre mancato qualcuno con cui conversare. Con cui azzuffarsi e giocare la parte del sarcastico diffidente. Uno come Sesshoumaru, ad esempio. E quando finalmente si era accorto di come non fosse del tutto orribile stare con lui…bè, entrambi avevano deciso di farsi ammazzare e fine della storia.

Pessimo fratello, Sesshoumaru. Ma forse, un amico quasi accettabile. Almeno lui aveva saputo capirlo, alla fin fine.

Kagome…giusto?” gli aveva detto. Domanda retorica, ovvio. Eppure nel suo sorriso furbo c’era più di quel suo solito ho vinto io. C’era un per la prima volta mi spiace di aver ragione.

Così lui aveva detto, proprio in ultimo, ciò che tutti, a quanto pare sapevano. La sua strana passione. Quel suo attaccamento davvero poco professionale all’unica prigioniera che, nonostante tutto, aveva resistito dal parlare. E quel suo fissarla nell’oscurità, le dita che si tendevano a toccarla quasi lui fosse stato un affamato e lei la cosa più deliziosa del mondo. Umana che annegava nel suo stesso piscio.

Di nuovo, il suono dei suoi denti che masticavano, instancabili, decine e decine di imprecazioni.

Ancora adesso, nel silenzio della fedeltà cui pareva essere circondato, Inuyasha continuava a chiedersi chi avesse parlato. Chi avesse rivelato le sue visite assidue, il suo comportamento sempre più strano, quell’attaccamento viscerale che alla fine l’aveva perfino condotto a desiderarla non come preda ma come donna.

Chi aveva parlato? Chiunque avesse scritto il suo nome su quel muro bruciato, sapeva che lui l’avrebbe riconosciuto. E l’invito a Zaccar fugava ogni dubbio: loro sapevano. Sapevano che lui, come un disperato, avrebbe sellato il cavallo e sarebbe corso da lei sia che la città stesse bruciando o che fosse stata ancora in piedi, forte e difesa.

L’aguzzino? Le ancelle? I domestici?

Da fuori, un nuovo borbottio, qualcuno che nel sonno rimproverava suo figlio di qualcosa.

Inuyasha si mosse a disagio nella branda, le gambe piagate per il troppo cavalcare che gli mandavano delle fitte dolorose fino alla base del collo.

Impossibile saperlo. Troppa gente si aggirava per Zaccar. Troppi armaioli, troppi cavalieri, troppi carcerieri. Troppo di tutto, semplicemente, per pensare di indicare un giorno il colpevole e staccargli la testa con un unico, preciso fendente.

Chiunque fosse stato, insieme ai Lord traditori e ai Sovrintendenti venduti, avrebbe avuto ciò che meritava, prima o poi. Che fosse stato il nome Miyoshi a farlo o qualcuno meno clemente con chi, all’occasione, era capace di voltare faccia e darsi al miglior offerente. Magari proprio il nuovo Re delle terre “libere”….

Per un breve attimo, la tentazione del sonno che mirava il filo dei suoi pensieri, Inuyasha si concesse di socchiudere le palpebre, l’iride brunita che si nascondeva in un sospiro pensoso, più stanco di quanto egli stesso avrebbe mai  ammesso.

Avrebbero pagato. Si. Nessun re che si rispetti vuole delle serpi accanto al suo seggio.

Il lieve comparire di un sorriso sul suo volto fu l’ultima eco spenta di quello di Kagome, sagoma screziata che dal focolare pareva a tratti concretizzarsi dinnanzi al suo sguardo socchiuso. Per un attimo la vide così, i contorni sfumati nel guizzante bagliore al di là delle palpebre, guardarlo con fare severo e poi alzare entrambe le mani in direzione del suo volto, il calore di un sospiro che si infrangeva sulle labbra di lui. Ed Inuyasha immaginò se stesso chinare appena il capo ed affondare il volto nella curva della spalla di lei, saggiando con un sospiro il profumo screziato della sua pelle. Fiori ed incenso e, molto più soffuso, qualcosa di molto simile al fumo. Sentore denso e greve, unica nota stonata che dagli spiragli della tenda pareva insinuarsi fra le vesti di Kagome già per metà scostate onde mostrare le bianche rotondità.

Con uno scatto Inuyasha riaprì gli occhi, un silenzio glaciale che improvvisamente si raccoglieva attorno ai lenti battiti del suo cuore. Sincronia anomala, pulsazione fino ad un istante prima, dimenticata.

L’attimo dopo il mezzo demone si era precipitato fuori dalla tenda, i suoi passi affrettati che percorrevano con ampie falcate il campo ancora addormentato. Nessuno lo udì, salvo che poco dopo tutti quanti furono svegliati dallo spaventato nitrire di cavalli mentre, più rapido di qualunque essere umano, Inuyasha montava sul primo che gli fosse capitato a tiro.

“ Principe!” il più lesto nel destarsi e precipitarsi fuori dalla tenda riuscì per un pelo a posticipare il suo partire al galoppo. Irto sulla sella, il destriero che compiva qualche giro su se stesso mentre il suo cavaliere rifletteva rapidamente sul da farsi, Inuyasha gli concesse un’occhiata urgente. Gli occhi felini guardavano in avanti, ben più in là di quanto fosse realmente possibile vedere.

Zaccar sta bruciando” sibilò il secondogenito con una smorfia contrita “ Vi concedo il tempo della mia rinomata pazienza per prepararvi e partire, altrimenti andrò da solo” Con un nuovo mezzo giro, il cavallo si mosse a disagio, le orecchie che si giravano a più riprese all’indietro. Con una smorfia Inuyasha serrò la presa attorno alle redini, le dita che sbiancavano nel tentativo di non spezzarle sedutastante “Sbrigatevi” concluse asciutto.

 

Poco dopo, bardati alla bell’e meglio, i soldati si affrettavano attorno al mezzo demone, l’aria fredda della notte che rabbrividiva sui loro volti ancora cisposi di sonno. Tende e vettovaglie erano state lasciate indietro, troppo pesanti ed onerose per quell’ultimo tratto di viaggio così che gli uomini non avevano potuto che portarsi appresso solo le cose necessarie per sopravvivere ad un solo giorno di viaggio, quello che ancora li separava da Zaccar.

Dalla testa del gruppo, inuyasha scoccò un’occhiata bieca all’orizzonte nero come la pece. Le fiamme ancora non si vedevano, ma il vento basso che spirava per le piane di quelle terre aveva ben potuto portarli il sentore di quanto stava accadendo più avanti.

Nell’incupirsi del suo sguardo, non potè fare a meno di chiedersi da quanto fosse cominciato l’attacco e, soprattutto, per quanto ancora sarebbe durato viste le forze rimaste di stanza nella città.

Un giorno avrebbero resistito? Le mura di Zaccar potevano, sole, resistere ad un attacco senza difensori ma con soli attaccanti? C’era davvero la possibilità di organizzare una resistenza? Una nuova zaffata al sapore di cenere lo costrinse a socchiudere appena le palpebre.

Per la prima volta, un’esitazione da parte del soldato più vicino lo avvertì che, finalmente, anche la sua “scorta” aveva avvertito il puzzo del fumo.

Bene. Si stavano avvicinando.

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Inuyasha ricordava le leggende a proposito di Zaccar.

Era nato e cresciuto fra racconti fantastici e storie senza tempo e fra tutte le ballate a proposito della Città di Cristallo si aggiudicavano senza dubbio il primo posto. Città della Notte, Torre d’Avorio, Perla di Yarda. Ognuno di questi nomi aveva  da sempre significato qualcosa per tutto il mondo, rammentando che le meraviglie non sono fatte solo per esistere ma quanto più per essere vedute, raccontate, ammirate.

Ed anche in quell’istante, braciere avvolto dalle fiamme e contratto di urla, Inuyasha non potè fare a meno di ammirarla, Zaccar. Di perdersi in quella minuzia di particolari qual’era la pianta circolare, la planimetria a ragnatela delle strutture. La Torre, monumento ora rosato nell’accalcarsi delle fiamme al crepuscolo.

Con un ruvido movimento di briglie Inuyasha trattenne lo scartare del proprio destriero, la mano artigliata che scendeva subito dopo a carezzarne la ruvida criniera.

E’ quasi finita avrebbe voluto sussurrargli in un orecchio, certo che nessuno dei cavalieri li vicini avrebbe potuto sentire, presi com’erano anch’essi dalla visione della Città.

Zaccar brucia, e noi presto saremo con lei. Ma non ebbe in animo di parlare, sapendo che da li a pochi istanti quegli uomini avrebbero potuto trovare la morte in suo nome.

Così, tirando appena le redini a sé si concesse di avanzare di qualche passo per poi voltarsi verso di loro, un che di solenne nel risplendere alle sue spalle della Città della Notte che lo costringeva ad esitare un attimo, prima di parlare.

“ Questa è la vostra ultima possibilità” cominciò asciutto “Non sappiamo cosa troveremo a Zaccar, se una strenua resistenza o una sconfitta già consumata. Perciò, liberandovi da qualunque dovere nei miei confronti, vi concedo di scegliere per un’ultima volta: voltate i cavalli e andatevene e sicuramente nulla e nessuno attenterà alla vostra vita ed oserà chiamarvi codardi. Rimanete, e preparatevi dunque ad una possibile quanto certa morte” nervoso, il suo cavallo ebbe un guizzo a sinistra tale da costringere il mezzo demone ad un colpo di redini. Attese qualche istante, aspettando in silenzio che qualcuno gli voltasse semplicemente le spalle e prendesse a cavalcare nella direzione da cui tutti loro erano venuti. Ma quando fu chiaro che nessuno di quegli uomini se ne sarebbe andato, chinò appena il capo, la postura rigida che simulava un saluto orientale. Come preferite avrebbe voluto dire; ma forse in quel contesto non sarebbero certo state le parole più adatte. Così, più freddamente si lasciò sfuggire un vi ringrazio senza tono, il massimo che uno come lui avrebbe potuto permettersi. Davvero.

Mentre voltava il cavallo ed in silenzio prendeva ad avanzare in direzione di Zaccar, si ritrovò stupidamente a pensare che Sesshoumaru avrebbe certo gradito quel suo atteggiamento, per una volta. Quasi poteva vedere la sua faccia incipriata ravvivarsi di un mezzo ghigno sarcastico esprimendo, con la sua solita voce spocchiosa, le sue congratulazioni per l’improvvisa diplomazia guadagnata, o meglio, la capacità di esprimersi come un essere civile e senziente. Si. Proprio una reazione alla Sesshoumaru, carattere dal gusto agrodolce, sempre troppo speziato o pungente per uno come lui che avrebbe pasteggiato con sabbia e brina per tutta la vita

Dietro di lui, i cavalieri presero a seguire il suo passo, muti tanto nella voce quanto nel cuore. Nessuno chiese che tipo di formazione usare, che marcia suonare o a che andatura andare. Come un corteo funebre lanciato alla carica –il morto davanti-  essi si misero semplicemente poco distante da lui, insieme subalterni e, forse per la prima ed unica volta, eguali.

“Estraete le armi ” ordinò brevemente Inuyasha, le mura di Zaccar che cominciavano ad emanare i primi, deboli, riflessi madreperla nel riverbero del sole. “ Che sia già stata presa o ancora dibattuta, questa città non ci accoglierà con the caldo e sorrisi.” concluse monocorde.

Rigido, fra i suoi uomini il rumore delle spade estratte dai foderi, il tendersi di archi fra le dita. Ognuno con in volto la medesima domanda: cosa avrebbero trovato, una volta superate le soglie della Città? Nelle fiamme potevano distinguersi urla e sferragli, quasi il concitato animarsi di molte, moltissime anime. Ma cosa stava davvero accadendo a Zaccar?

Non dovettero attendere che pochi metri prima che dalle mura ossidiana si sollevasse in risposta una schiera compatta di frecce, sottili aghi stagliati nel brunire del giorno.

“Ripararsi!” gridò istantaneamente il mezzo demone senza rallentare l’andatura. Poco dopo, le sagome della Città della Notte che si intravedevano oramai distinte dai cancelli sfondati, la pioggia aerea si abbatté su di loro, le punte metalliche a conficcarsi sugli scudi imbracciati a difesa del gruppo.

Voltandosi, Inuyasha valutò rapidamente i danni. Sospirò, piano, il tempo di un istante di sollievo. Nessun ferito. Nessuna perdita.

Debole, fra i suoi uomini scorse una risatina nervosa, capace di distendere per un breve attimo i volti che facevano capolino da dietro gli scudi. Ed ecco giungere la seconda raffica.

Questa volta qualcuno venne colto impreparato venendo brutalmente disarcionato dal proprio destriero, ma la maggioranza, Inuyasha in testa, riuscì finalmente a varcare le soglie di Zaccar, la visione infernale incastonata al suo interno che li costrinse immediatamente ad un improvviso quanto brutale arresto.

Incapace di parlare, il mezzo demone avvertì se stesso trattenere dolorosamente il fiato, un denso fumo che inghiottiva in un istante tanto lui quanto il gruppo di cavalieri alle sue spalle. Tossì, la gola che si seccava nella nebbia grigio-rossa che ora li circondava.

“Restate vicini” gridò con sforzo, le parole che faticavano a trovare l’aria in cui espandersi. Frastornato, il suo cavallo mandò un basso nitrito nervoso, il crepitio degli incendi tutt’attorno che rischiarava di vivide fiamme l’infernale parodia di quella che un tempo era stata considerata la Città dei Sogni.

Stessi muri, stessa città. Tranne suo fratello, tranne le sue vesti non più da battaglia, Tranne i suoi uomini, misera combriccola se paragonata all’esercito del passato.

E così, in un attimo, tutto diverso.

Alzando una mano sulla fronte già imperlata di sudore, Inuyasha fu costretto a strizzare gli occhi per il riverbero degli incendi. Dall’alto delle mura si alzò un grido d’allarme, segnale che malgrado la confusione qualcuno sarebbe comunque sopraggiunto per accoglierli.

“ Avanziamo” ordinò ciononostante il mezzo demone. Ora non c’era Sesshoumaru con cui scambiare uno sguardo stizzito. Con cui condividere quell’ultimo attimo di tensione prima dell’assalto finale. Con cui, infine, commentare piccati la scarsa accoglienza ricevuta. Così, rammaricandosi –forse per la prima volta- di notare lamiera e acciaio piuttosto che pizzo e sete preziose, Inuyasha lasciò che il rumore di passi alla carica e spade sguainate lo raggiungesse, stemperando il fumo nebuloso attorno a loro di una marea informe di corpi e armi. Trasse un respiro contratto, serrò forte la mascella ed infine, nel liberarsi della sua vera natura, scattò in avanti.

Dimentico del cavallo. Dimentico del calore, delle fiamme, di quello stridio confuso quali erano i suoi denti l’uno contro l’altro, morso contratto.

Così di nuovo, poiché era questo che sapeva fare, uccise. Uno, due uomini, le loro carni che si sfaldavano fra le dita come calde pezze intrise di sangue. Ringhiò forte, orribilmente, i tratti demoniaci che acquistavano un che di mostruoso nell’allungarsi dei canini, nello scurirsi della sclera fino a che cremisi, solo cremisi, la riempì invadendola come eclissi lunare.

E mentre si sporgeva in avanti, falciata improvvisa, e mentre si catapultava allora all’indietro, schivata repentina, avvertì il suo nome serpeggiare come morbo fra le movenze ansiose degli assalitori.

Con terrore lo riconoscevano. Con sgomento si stringevano alle spade nell’istante in cui, implacabile, essi si trovavano proprio dinnanzi a lui, minaccia oramai inevitabile. Ed infine, Ccn orrore si lasciavano sfuggire grida insipide un attimo prima che la sua ferocia li assalisse facendo di loro un nulla.

Inuyasha. Inuyasha.

Seppe allora che l’avrebbero ricordato così. Così mentre, Tessaiga nella mano destra, affondava le dita uncinate nel corpo di un innocente. Un ghigno sul volto, un grido fra le labbra –quasi un ruggito di fiera, di bestia-.

“Inseguiamoli!” sputò dunque quando i pochi rimasti tentarono di darsi alla macchia fra le fiamme di Zaccar. A piedi prese a correre, nube cremisi in fumi ardenti. Dietro di lui, lo scalpiccio di zoccoli e di piedi armati.

Serrò di nuovo la mascella, prese ancora un lungo, doloroso respiro, ed in quella si slanciò in avanti, il corpo che compiva un mezzogiro prima di atterrare di peso sull’uomo alla testa del drappello.

Il sonoro crack delle ossa del poveretto mentre una dopo l’altra andavano in pezzi sotto i suoi piedi fu l’eco stordita del grido terrorizzato che si sparse istantaneamente nell’aere circostante. L’attimo dopo, come api impazzite, i ribelli si disperdessero tutt’attorno.

Troppo comodo, ragazzi. Davvero troppo comodo.

Subito lo scattare del mezzo demone. Subito il precipitarsi dei suoi soldati ad acciuffare i sopravvissuti ora starnazzanti ovunque come oche impazzite.

“Avanti” alla voce secca di Inuyasha seguì il frettoloso ricomporsi dei suoi fedeli e il nuovo, precipitoso, avanzare nel cuore di Zaccar.

Oramai l’aria era quasi irrespirabile, scuri addensati di fasciame e pietra che istante dopo istante si sgretolavano facendo rovinare ovunque cocci infuocati. Grida sempre più vicine, stridule richieste di aiuto a metà fra l’animalesco e l’umano parevano l’eco di ogni passo, di ogni singolo movimento. Grondante di sudore, Inuyasha si deterse la fronte con lo yukata già intriso di sangue. Sapeva che così facendo il suo volto si sarebbe trasformato in una maschera brunita, ma non se ne curò. Ghigno soffuso. Meglio quello altrui che il proprio, in fondo. Chiuse appena gli occhi, il riverbero dei fuochi tutt’attorno che lo accecava per un istante mentre di nuovo, ali ai piedi, si preparava a balzare in avanti.

Fu una guardia a fermarlo, la mano stretta al suo yukata che tremava impercettibilmente mentre con l’altra gli indicava un punto meno precisato alla sua destra. Volgendo lo sguardo, il mezzo demone notò allora un gruppo di donne – apparentemente dei semplici civili – che fuggivano in preda al panico. Dietro di loro, un nero drappello di ribelli.

“ Voi “ replicò allora secco il mezzo demone mentre rapido si arrestava per indicare circa metà dei soldati che erano con lui “Aiutate quelle donne e qualunque altro civile che si trovi in difficoltà” una pausa, la gola che si contraeva nella sgradevole sensazione dell’Addio “Zaccar è perduta, ma lo stesso non vale per i suoi abitanti”  da dietro l’elmo potè chiaramente avvertire i suoi fedeli strabuzzare appena gli occhi. A disagio, o forse solo per scostare una nuvola di fumo più denso, mosse appena Tessaiga nel palmo della mano. Tutti insieme, i suoi arretrarono di un passo. “Nessuno ama vedere la propria città bruciare, statene pur certi. Date loro la sensazione di essere in salvo e vedrete quanto è forte la disperazione di chi in un attimo sta per perdere tutto quanto” aggiunse con un ghigno richiamando allo stesso tempo il gruppo che avrebbe proseguito con lui.

“ Quando avrete finito raggiungeteci alla Torre “ concluse ed in quella, con un balzo, riprese la propria corsa in avanti, strade e rovine che riprendevano a snodarsi senza resistenza alcuna sotto i suoi piedi votati ad un’unica direzione, ad una sola meta. Dietro il fiato corto dei suoi. Dinnanzi, il mastodontico profilo di una struttura aggraziata e altezzosa come Dea troppo bella, troppo grande per disturbarsi a guardare anche solo una volta in basso. A lui che come un disperato si dava tanta pena di raggiungerla.

Balzò di lato, evitando con un movimento leggero l’affondo di una lama sospesa nel vuoto. Turbinò a destra, staccando nella giravolta il braccio al poveretto che aveva osato il gesto e nel grido di lui, nel suo accasciarsi a terra moribondo, alzò una mano verso l’alto, le dita tese che indicavano agli uomini alle sue spalle di fermarsi.

La Torre era ormai dinnanzi a loro. Bella, funesta, orribile nel proprio risplendere di oro e cremisi. Dentro, distintamente, i rumori di una battaglia ancora in corso.

“ Voi passerete per l’ingresso principale” ordinò con fiato corto. Il fumo aveva ridotto la sua gola ad una dolorosa crosta di carne e sangue “ Io scenderò dall’alto. L’uomo che stiamo cercando sarà sicuramente attorniato dai suoi ed in prima fila a massacrare quelli che ancora si stanno opponendo al suo regno libero e pacifico” la sfumatura gelida della sua voce non mancò di strappare qualche fredda risatina ai suoi, ora più sporchi e ammaccati di quanto ricordasse.

Li vide annuire in silenzio, le dita che si stringevano all’unisono all’else delle spade per poi picchiarle una ed una sola volta contro la placca frontale delle proprie armature.

Un saluto, realizzò il mezzo demone mentre di riflesso si voltava e scattava, felina agilità, in direzione della Torre alle sue spalle. Non replicò a quel gesto. Né con una smorfia né con un movimento.  Per quel che gli riguardava, non era ancora giunto il momento dei congedi e degli addii. Se mai vi fosse stato un saluto, quello sarebbe stato la morte.

Così, senza inizi e senza fini, il grande Inuyasha Miyoshi si separò per l’ultima volta dai suoi, dall’ultimo manipolo di uomini che aveva creduto in lui, che aveva voluto –malgrado tutto- affidargli le proprie vite certi che nel bene o nel male egli avrebbe saputo farne buon uso. E mentre il mezzo demone evitava di voltarsi, di guardarli un’ultima volta sparire entro le grandi porte della Torre non potè evitare di chiedersi, debolezza ben poco marziale. E loro? Loro come l’avrebbero ricordato?

Rinfoderò Tessaiga e rapidamente tese le mani dinnanzi a sé per aggrapparsi al parapetto più vicino. Si issò, e subito scattò in verticale verso l’alto afferrandone un altro.

Anche per loro sarebbe stato l’omicida implacabile, il mostruoso hanyou che, chino su una montagna di cadaveri, scavi come impazzito alla ricerca di gustose frattaglie?

Scattò ancora, finendo di un piano ancora più in alto. Da li potè avvertire il calore delle fiamme scivolargli lungo la schiena come una carezza peccaminosa. Rabbrividì.

O, ancora meglio, il guerriero infallibile, assetato di sangue e vendetta. Implacabile contro gli umani, insensibile verso i demoni?

Con uno sbuffo si issò ad un nuovo cornicione, il fiato che rapidamente si faceva più denso e rasposo. C’era più aria, lassù, eppure essa pareva non bastare comunque, affamandolo della rassicurante sensazione del vento e della frescura.

Oppure…oppure…

Andiamocene

Una voce lo fece immobilizzare. A metà di un colpo di reni, le dita strette attorno al cornicione più vicino, Inuyasha si bloccò improvvisamente. A pochi metri da lui qualcuno si stava aggirando frettolosamente all’interno della Torre. Con sforzo si sollevò di poco, sporgendo a fatica il capo oltre la cornice della finestra e li, chini su una non meglio precisata baraonda di vesti, chincaglierie e quant’altro, vide due uomini in nero. Avvertì il proprio sguardo assottigliarsi di disappunto, la bruciante sensazione della rabbia che prendeva di nuovo il proprio posto nel suo cuore.

Eccoli, gli uomini. Pensò velenosamente. In un fruscio si issò al cornicione. Eccoli mentre, al meglio delle proprie potenzialità, esprimono la più vera essenza della propria natura.

Caricò il colpo, preparò il balzo, scelse il bersaglio. E proprio allora uno dei due lo notò. Troppo tardi, sfortunatamente. Inuyasha già era in volo, gli artigli che rigavano il vento in un brutale sfilaccio mortale.

Ma un attimo prima dell’affondo, un istante prima di vedere quegli idioti scattare di tutta fretta all’indietro e voltarsi terrorizzati verso la porta della camera, proprio allora, uno dei due spinse l’altro di lato. Fatale, il colpo affondò nel suo sterno, abbastanza potente da sfondargli in un sol attimo la cassa toracica. Sufficientemente forte da bloccare il suo respiro così, d’improvviso. Quanto bastasse per dare il tempo al suo amico di rantolare a terra in preda al panico, individuare alla cieca la porta e defilarsi in un grido confuso.

Ma che diavolo…

Intontito da quello strano, certamente anomalo, comportamento, il mezzo demone estrasse i propri artigli dal corpo dell’uno per fiondarsi subito sull’altro ma non fece in tempo ad accostarsi alla porta che qualcosa di imprecisato – e decisamente affilato – lo raggiunse ad altezza volto.

Scartò abbassandosi sulle ginocchia, la lama che eseguiva un rapido taglio orizzontale alla volta dei suoi capelli d’argento e con un colpo di gambe fece cadere l’uomo di schiena. “ Dannato assassino…” lo sentì farfugliare prima che lo sopprimesse con un affondo alla gola.

Dopo di che, il silenzio. Ansimò con sforzo, gocce di sudore che scivolarono dal suo volto per rigare quello dell’uomo sotto di lui. Deglutì piano, a fatica, dita rosse che tremavano di adrenalina conferendo un che di fragile, di impaurito al suo tirarsi in piedi, pulirsi le vesti dal sangue, riprendersi dalle parole che il morente gli aveva appena rivolto.

Chiudendo gli occhi si chiese perché egli non fosse scappato. Perché, nel sacrificio del suo compagno, egli non avesse semplicemente deciso di salvarsi la vita ed informare contemporaneamente  gli altri di sotto che Inuyasha Miyoshi –proprio lui- era finalmente arrivato. Dilemmi irrisolvibili, come la quasi totalità di ciò che riguardasse gli uomini e le loro incomprensibili pulsioni. Che, in fondo, vi fosse davvero qualcosa in loro? Un che di affatto trascurabile?

Il sollevarsi di grida alcuni piani più sopra –forse la sala del trono- gli fecero brutalmente ricordare dove si trovasse e quanto ogni secondo fosse stato prezioso.

Ci sarebbe stato un tempo per pensare, ed oramai Inuyasha iniziava a credere che esso sarebbe stato ben più lungo di quanto mai avrebbe creduto possibile.

Avanzò in punta di piedi in quella che si sarebbe detta una comune sala da pranzo, tavolate e sedie sparse alla rinfusa per il pavimento madreperla, finché non trovò l’imboccatura della ciclopica scala che a perdita d’occhio si snodava per tutta la lunghezza della Torre.

Bella come la ricordava. Imponente come tutte le cose più belle dovrebbero essere.

Da li, i piedi nudi a calcare furtivi i fitti gradini, prese a salire un piano dopo l’altro, cadaveri sanguinanti e corpi moribondi che ostruivano il passaggio rendendo la pietra scivolosa e maleodorante. Quando fu certo di trovarsi esattamente sotto al piano da dove provenivano i rumori di battaglia tornò all’esterno della torre, lasciando che il suo agile corpo si sporgesse per afferrare i cornicioni più alti. Solo allora, solo dopo aver risalito un paio di ampi finestroni si arrischiò a sbirciare all’interno della Torre.

Ammiccò piccato, ancora una volta rammaricandosi che accanto a lui non vi fosse stato Sesshoumaru. Peccato. Avrebbe certamente trovato la cosa alquanto divertente. Goliardica, anzi. “ Non si può dire che al destino manchi il senso dell’umorismo, fratello” avrebbe detto con un mezzo sorriso.

Socchiudendo le palpebre in una smorfia snervata, Inuyasha non potè far altro che dargli ragione, piegare il capo di lato –per vedere meglio-  e scrollare le spalle. “ Si, Sesshoumaru ” sibilò ruvidamente, la mano che si sporgeva per afferrare ampi tendaggi posti ai lati di ampie vetrate “ Il Destino ha sempre avuto un ottimo senso dell’umorismo per quanto riguardasse noi. Sempre ” e con quell’ultima, piccata, frase, si buttò nel vuoto della sala da Ballo, luogo dove tutto era iniziato e dove, con tutta probabilità, tutto sarebbe finito.   

Ondeggiò una, due, tre volte, il corpo che trovava nell’aria la giusta armonia, la perfetta simbiosi fra vento e caduta finché, slancio distratto, prodezza leggera e silenziosa, egli si lasciò andare al vuoto. Braccia e gambe. E corpo. E quel busto un poco torto all’indietro, un poco flesso quasi una mano invisibile reggesse il semplice, pur perfetto, librarsi del mezzo demone nell’infinito, nell’eterna bellezza di una caduta.

Mezzo giro, e il contemporaneo estrarsi di Tessaiga, la lucentezza della lama che proiettava aguzzi riflessi tutt’attorno, ghigni sornioni di una creatura senziente.

Lama avida. Lama servizievole. Lama la cui anima pareva il sorriso, quel sorriso ghignante che un giorno Inuyasha aveva finito col perdere.

Sospirò, onde argento e neve che per un attimo si mischiavano dinnanzi ai suoi occhi coprendo ogni cosa –muri, archi, pietre e stelle- di un’unica patina soffice e candida. Poche gocce di sangue qua e là.

Ultimo slancio. Ultimo salto del vuoto prima della fatale ricaduta. Prima di toccare, forse per un’ultima volta, il terreno.

E proprio quando gli fu necessario respirare, recuperare fiato e vita da quell’unico, solo, respiro, Inuyasha atterrò improvvisamente nel bel mezzo della sala, Tessaiga che compieva un mezzo giro fra le dita del mezzo demone per poi posarsi sulla nuda gola di una donna in nero.   

Lunghi capelli color della notte, pelle alabastro e due occhi di fulgida, lucente, perla.

Sorrise, le labbra che si chiudevano sulla curva dell’orecchio di lei in un sussurro senza voce.

Bungiorno, Kagome”.

 

­­­­­­­­­­­­­­­

Ed eccomi di nuovo qui^__^

Meglio non ricordare quanto tempo è passato dall’ultimo capitolo, soprattutto perché UFFICIALMENTE posso dirvi che la storia è finita. L’ho scritta. L’ho –quasi- controllata tutta e quindi è molto probabile che io la posti prima dei soliti due anni di travaglio*__*

Spero davvero possano piacervi le scelte fatte in queste battute finali, compreso il tono sempre più umano dato ad Inuyasha su cui ho spessissimo avuto dei dubbi della serie “Ma così non perderà il suo tono da bel-tenebroso-me ne sbatto?”. Il ritorno alla Torre è un voluto –ritorno al principio- dove il tentativo sarebbe quello di far risaltare quanto ancora persiste e quanto invece è cambiato sia nell’animo del mezzo demone che del mondo che lo circonda, stravolto dagli eventi che più o meno coscientemente l’hanno visto partecipe. Vi prego, ditemi se vi piace questo “deja-vu”o se me lo potevo proprio risparmiare….ç__ç  

Come sempre ringrazio coloro che mi seguono/seguivano e che hanno commentato i miei LENTI capitoli uno dopo l’altro.*bacio* Spero ancora in un vostro commento/apprezzamento/critica.^___^ Besos!

Elendil.

  
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