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Autore: ethelincabbages    11/06/2012    16 recensioni
Sarebbe bello avere qualcuno, qualcosa da chiamare ‘male’. Come nelle fiabe, ci sono l’eroe e il cattivo, i buoni e i malvagi, le sfide da superare per poter crescere. È bello il mondo delle fiabe. Ma gli eroi non sopravvivono nel mondo reale, si nascondono, si perdono, cadono, e i cattivi si confondono tra le tue stesse dita. Matto. Una cicatrice dopo l’altra e un cuore vuoto. Matto.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Famiglia Dursley, Harry Potter, Hermione Granger, Nuovo personaggio | Coppie: Harry/Hermione
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'Hidden Harmony is better than the Obvious'
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La dedica di questa one-shot è divisa in sei parti
a roxy_xyz
 tu se’ la mia maestra e ‘l mio autore
tu se’ solo colei da cu’ io tolsi
di questo fandom passion e amore,
 tantissimi auguri di buon compleanno!

 

a Kamura
a kla87
a The4Clois
a Quistis Fabi
al gruppo Cercando chi dà la roba alla Rowling
la mia seconda famiglia
Happy Birthday-A!

Infine, devo un ringraziamento
a Kukiness,
senza la quale questa storia
non sarebbe giunta a conclusione.

 


Il matto

Il teatro è vuoto. Come ogni sera. Il cartellone all’ingresso urla al vuoto ‘Spettacolo di Magia’. Nessuno si ferma più a leggere. Nessuno crede più alla magia.

Nemmeno tu.

*

Clap. Una goccia di acqua piomba giù nel lavello, sui piatti ammassati della sera prima. Clap. Fa sempre così, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Basterebbe stringere meglio i rubinetti o sostituirli. Ma non ne ha voglia. Clap. Non lo sente neanche più, è un altro rumore indistinto che si confonde dietro le orecchie, lontano, tra i ragazzini che giocano a pallone sotto di lui, i tacchi della ragazza del piano di sopra, e lo sferragliare del treno.

Non sente più niente.

Dorme. Tenta di prolungare quella fase di dormiveglia incosciente un minuto, solo un minuto in più senza sapere niente, senza capire niente, solo un minuto in più. Ma la puzza della macchia di birra sul comodino gli ritorna prepotentemente nelle narici. Apre l’occhio destro: un cavallo alato rincorre un prato verde. Poi anche il sinistro: il cavallo vola, corre, con le sue ali di legno, ma il prato si allontana, rotola giù.

Sdenk. È la lattina che è caduta a terra, la lattina verde. Allunga una mano e acciuffa gli occhiali. Il cavallo alato ha smesso di volare, è immobile e ha un’ala spezzata. Si è rotta durante un risveglio come questo: la sua mano aveva cercato a tentoni di spegnere il fischio della sveglia e aveva schiaffeggiato l’abat-jour, un Pegaso monco appartenuto a  Lily.

Era di Lily. È per questo che lo conserva ancora. Lily, niente di più che un’ombra evanescente tra tante altre ombre sepolte nel passato. Ma era sua madre, gli hanno detto, e tanto basta.

Scalcia via il lenzuolo e indossa la maglietta abbandonata sulla testiera: la stampa scolorita mostra il nome di una rock band che conosce appena, ma l’orlo non gli arriva alle ginocchia e le maniche corte non gli coprono il braccio, come accadeva con le vecchie t-shirt di suo cugino.

Certe volte gli sembra ancora di sentire i silenzi sbiaditi di sua zia, ha come l’impressione di non avere mai abbandonato davvero quella casa, come se portasse ancora dietro i lividi lasciati dalle spalle di suo cugino che lo spingevano contro il muro, come se lo spioncino del sottoscala non fosse stato mai aperto. E in fondo, cosa c’è di diverso in questo nuovo sgabuzzino per le scope: un letto? Un lavello? Una cucina? Una finestra che si apre sui clacson dell’ora di punta?

“La gente normale a quest’ora ha già lavorato mezza giornata.” È quello che borbotterà la signora di sotto appena lui metterà piede sulle scale; spunterà da dietro la porta con uno straccio in mano o una scopa, o un sacchetto della spesa. E lui allontanerà il borbottio, dietro le orecchie, come il rubinetto rotto.

Normale. Che vorrà mai dire essere normale? Quei tagli lungo le braccia sono normali? Quegli sfregi sul viso sono normali? Autolesionismo, dicevano. Solo una cicatrice è sempre stata lì, sul sopracciglio destro, uno zig-zag sbilenco; non c’è ricordo del suo viso riflesso che non porti quel marchio. Da bambino gli piaceva pensare fosse il suo segno distintivo, come la esse di Superman, il ragno di Spiderman, eroi fin troppo lontani adesso.

In fretta si sciacqua il viso. Ha bisogno di un caffè. Di vedere gente, di ammazzare il tempo senza ammazzare se stesso, prima di tornare a lavoro. Forse dovrebbe anche rifornire il frigo.

Scivola via, giù dalle scale, evitando lo sguardo di disapprovazione della signora al piano di sotto. Scivola giù, via da lì, sperando di confondersi nel cicaleccio indistinto della gente. I loro rumori sono molto più tollerabili quando non sono comprensibili. Scivola, nelle strade, una uguale all’altra, insieme al pallone rotondo e alle urla dei bambini che lo rincorrono. Scivola giù, la metro sferraglia nel buio, e gente salta, entra, esce. Tre minuti è il tempo che ti è concesso per fermarti a pensare. Anche troppo.

Un ragazzino strimpella una chitarra all’angolo, tra una rampa di scale e un’altra. Sembra una vecchia ballad, ma dura giusto un attimo, ricoperta dalla fretta della gente, le scale mobili, e la voglia di tornare di nuovo fuori, all’aria aperta.

Uno dopo l’altro scorrono i manifesti delle nuove repliche di Wicked, il prossimo mese inizia un nuovo adattamento della Tempesta. I colori accessi, le lettere ingigantite e ripetute, le immagini e i significati lampanti e nascosti delle locandine accompagnano il viaggio di ogni londinese, come la voce metallica e i percorsi lineari e colorati nel treno, impersonalmente familiari.

Si stupisce sempre di trovare quella locandina ancora lì: le mani aperte a farfalla, le luci che scendono dall’alto, le lettere che si stagliano una dopo l’altra, confondendosi – Il più grande spettacolo di magia degli ultimi vent’anni, Dennis Derrida, Prestigiatore di fama internazionale. Sono davvero pochi quelli che hanno il coraggio sufficiente ad assistere agli spettacoli del prestigiatore di fama internazionale Dennis Derrida, dal nome fasullo come i suoi spettacoli. La magia è un’altra cosa, pensa sempre, quando vede quell’omuncolo giocherellare con i suoi armadi e le sue spade. E nessuno ci crede più.

“Non esiste quella robaccia… la magia!” urlava suo zio, sbatteva la porta e chiudeva lo spioncino.  E lui restava immobile ad aspettare la stanza farsi buia, con la voglia di far esplodere i suoi soldatini di piombo. Era sicuro, era così sicuro che qualcosa ci fosse, che il serpente fosse scappato, come per magia. Ma lo zio urlava, urlava sempre, Dennis Derrida è un buffo ometto francese coi baffi finti a cui piace illudere se stesso prima degli altri, e Harry Potter non ha più otto anni, non si illude più, pulisce le scale in un teatro di terza categoria. Non esiste la magia, Harry.

Esiste la signora asiatica con le occhiaie che lo guarda male e gli porge il caffè. “Prego, una sterlina e cinquanta.”

“Grazie, ecco a lei.”

Ed esiste quel caldo amaro che gli scuote i sensi e la gola.

Una meta, una alla volta, gli dicevano sempre le infermiere, un obiettivo alla volta: non urlare durante il sonno, non parlare di occhiali a mezzaluna e cappelli a punta, né di tane, né di mangiatori di morte. Adesso la sua meta, unica, sembra essere il prossimo Sainsbury’s disponibile: acqua, birra, luci al neon, biscotti, aria condizionata, burro d’arachidi, carne in scatola, pavimenti lucidi, caramelle, passi rapidi e rotelle che ronzano dietro le orecchie.

Un bambino sta guardando le caramelle che ha in mano con colpevole desiderio. Harry è da tanto che non si sente in colpa di mangiare palline gommose o altre schifezze del genere.

“Ciao.” Il bambino sorride. Non deve avere più di cinque anni, ha la frangia spettinata e qualche dentino in meno. Le mani trovano facilmente la via della bocca. Guarda verso di lui con curiosità.

Harry è tentato dall’idea di spettinargli ancora di più i capelli e regalargli qualche caramella, ma, immobile. Si stupisce dal suo stesso istinto. “Ciao,” biascica.

“Io sono Sam, e tu?”

“Harry,” risponde, abbozzando quel che resta di un sorriso. È la prima volta, dopo tanto tempo, che ha voglia di non deludere qualcuno. Gli dispiacerebbe lasciare quel bambino scontento.

“Ti piacciono gli orsetti?”

“Gli orset-?”

“Sammy lascia stare il signore! Lo stai importunando.” Importunando. Che parola bizzarra nella bocca di una ragazzina. “E non mangiarti sempre le dita!” Una bambina poco più grande, forse la sorella, acciuffa la mano di Sam. “Lo scusi,” si rivolge a Harry, alza gli occhi grandi e sorride, un immenso sorriso impaziente. “Scappa sempre via quando siamo in giro con papà. Sa, lui non è preciso come la mamma, si distrae un po’ troppo. E Sammy si diverte a importunare la gente. È così che si dice dare fastidio. Me lo ha detto la mamma.” Scrolla le spalle, mentre il fratellino cerca di liberarsi dalla sua presa salda. Deve essere difficile vivere con una sorellina così, ma anche piuttosto divertente. “Sammy farebbe bene ad ascoltarla di più.”

Harry vorrebbe rassicurare la bambina. Sammy non stava facendo proprio niente di male. A parte desiderare gli orsetti gommosi. “Sammy non mi stava importunando. È un bravo bimbo.” Il sorriso gli riesce pieno, questa volta. Guarda la bambina dritta negli occhi.

Hermione?

“Ha dei begli occhi, signore.” Verdi e profondi. Harry lo sa, glielo ha detto Hermione.

“Anche i tuoi sono belli.” Grandi e curiosi. Come quelli di Hermione.

 “Oh, credo che dovremmo andare. Arrivederci, signore.”

Hermione. Un altro regalo della sua fantasia. Era forte e coraggiosa, Hermione, e gli dava il sostegno quando ne aveva più bisogno. Era calda come un abbraccio e fragile come un sorriso. Chissà che viso aveva Hermione? Non lo ricorda più.

Hermione era la sposa di Leonte, accusata ingiustamente di aver tradito il marito con il suo migliore amico, Polissene. Questo lo ricorda. All’istituto, una ragazza, una delle volontarie, gli leggeva Racconto d’inverno, perché Hermione era il nome che gli era rimasto in bocca quando lo avevano trovato semicosciente a Sandwood Bay, estremo nord scozzese, con un ginocchio rotto, tre costole incrinate e diversi lividi su ogni parte del corpo.

Non c’erano volti nel suo passato, né alcun senso, solo il ricordo di una lotta, lampi di luce e un pezzetto di legno stretto nella mano destra. Come una bacchetta magica. Era rimasto al Caithness General Hospital per sei settimane, a cercare di guarire, capire chi fosse e cosa fosse successo. Non riusciva a lasciare il legnetto dalla mano, né quelle quattro sillabe dalle labbra. La sua infanzia con i Dursley era tornata lentamente, confondendosi con sogni di locomotive e ragazzi dai capelli rossi. Il legnetto prendeva senso nelle sue invenzioni ma non nella convinzione dei medici.

I suoi zii erano stati costretti dal buon costume a riconoscerlo come loro nipote. Non volevano aver niente a che fare con quel matto, ma non potevano neanche abbandonarlo a se stesso, ora che non poteva prendersi cura di sé. I vicini e il capo di Vernon non avrebbero approvato. D’altronde, Vernon l’aveva sempre detto che il ragazzo avrebbe fatto una brutta fine. Bisognava tenerlo al sicuro, ma a debita distanza, perciò lo avevano spedito al Bethlem Royal Hospital.

L’istituto è stata la sua casa per anni. Gli abbracci, le locomotive, i legnetti, i capelli rossi, i libri polverosi continuavano a tornare ma venivano quotidianamente allontanati. C’erano le mete da raggiungere, una alla volta, gli incubi notturni da dimenticare, un’intera vita da ricostruire, le parole dei medici da seguire, le urla, i rumori da allontanare. A un certo punto, ha semplicemente smesso di nominarli: sia l’essere orribile con il viso serpentino e gli occhi rossi che lo perseguitava ogni notte, sia le risate forti di tre ragazzi alla luce di una bacchetta magica.

Matto. “Non esiste quella robaccia… la magia.” Non esiste la magia. Castelli? Bacchette? Candele libranti in aria? Cattivi da vincere? Maghi Oscuri? Troppo semplice così. Sarebbe bello avere qualcuno, qualcosa da chiamare ‘male’. Come nelle fiabe, ci sono l’eroe e il cattivo, i buoni e i malvagi, le sfide da superare per poter crescere. È bello il mondo delle fiabe. Ma gli eroi non sopravvivono nel mondo reale, si nascondono, si perdono, cadono, e i cattivi si confondono tra le tue stesse dita. Matto. Una cicatrice dopo l’altra e un cuore vuoto. Matto.

Perché pensarci? Meglio correre per le strade di Londra per arrivare in ampio anticipo a lavoro. Gli occhi larghi e curiosi delle bambine chiacchierone cosa sono poi? Hermione. Non esiste.

Davvero?

Distratto, giù per Shaftesbury Avenue, si lascia quasi sfiorare da un autobus di linea. Troppo facile cadere per caso sotto le ruote di un autobus. Amleto non lo ammetterebbe; anche lui faceva parte delle sue letture in istituto.

Il teatro è vecchio e piccolo, nascosto in un angolo di Saint Martin Lane. Prima di entrare dal retro, Harry pulisce lentamente le scarpe. Non gli piace far rumore e prova ancora un certo timore reverenziale per l’aria vittoriana e vintage che la saletta rivestita in legno lucido e velluto color pesca emana. Persino la stanza del personale ne è pervasa.

Indossa la divisa con calma e nasconde la spesa nell’armadietto. Sente, nella stanza accanto, il grande prestigiatore di fama internazionale ciarlare con le sue assistenti, ha una voce fastidiosa e terribilmente acuta per un uomo. Getta un’occhiata nell’altra stanza: l’omuncolo sta preparando il numero per stasera, la sigaretta accesa che gli pende dalla mano destra, con la sinistra indica alla ragazza come sistemare la testa quando farà il numero con le spade.

Stringe i pugni contro i fianchi. Vorrebbe saltargli addosso e mandarlo letteralmente al diavolo. Cosa ne sa lui di cosa vuol dire sentire l’energia dentro di te espandersi verso la bacchetta? Ha mai provato l’eccitazione di un incantesimo ben riuscito, confermato dalla risata del tuo migliore amico? Ha mai provato lui la sensazione di armonia pacifica col mondo regalata dal proprio Patronus? Cosa ne sa lui?

Si impone di ignorarlo. Si dirige silenzioso in sala grande, la scopa in mano.

Canticchia, per coprire il fastidio. Allontanare i rumori.

Dimentica di pensare, Harry. Dimentica di pensare, matto. Respira il profumo del palco, sbatti i piedi contro le assi di legno. Dimentica. Ricorda. Senti.

“Adesso sappiamo cosa fare la prossima volta che non riesco a imparare un incantesimo, basta che mi minacci con un drago. Pronti... Accio Dizionario!”

“Harry, l'hai imparato davvero!”

Fai il tuo lavoro, Harry. Pulisci il palco. Ignora l’omuncolo che si finge mago. Dimentica. Ricorda. Lily e il suo cavallo alato, gli occhi grandi e curiosi. Senti i vecchi rumori, voci chiare, adesso.

“Un amore potente come quello di tua madre lascia il segno: non una cicatrice, non un segno visibile... Essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre, anche quando la persona che ci ha amato non c'è più. È una cosa che ti resta dentro, nella pelle.”

Chiudi gli occhi, Harry. Ascolta il ricordo.

“Vengo con te.”

*

Il teatro è vuoto. Come ogni sera. Il cartellone all’ingresso urla al vuoto ‘Spettacolo di Magia’. Nessuno si ferma più a leggere. Nessuno crede più alla magia.

Ma tu no.

La vedi ancora camminare, a passi brevi, veloci e nervosi, come se dovesse correre a dirti qualcosa ma il decoro le impone di trattenersi. La vedi attraversare la sala, lo sguardo corrucciato, impegnato in qualche strana riflessione, occhi grandi, anche se stanchi. Senti i suoi sospiri. Respiri il profumo di pesca e carta nuova e erba fresca e querce e pini e arbusti d’autunno.

Ride.

Hermione.
 


   
 
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