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Autore: Lilith in Capricorn    08/07/2012    6 recensioni
Piccolo racconto sentimentale e introspettivo, scritto completamente di getto, dopo aver ascoltato "Me and Bobby McGee" di Janis Joplin.
Piccolo assaggio: "Ma cos’è la libertà? Quella cosa che io e te abbiamo tanto cantato e musicato sotto il cielo nuvoloso, Matt, ti dirò: è solo una parola. Un’altra parola per dire che non si ha più nulla da perdere, che si è toccato il fondo, che ci siamo spiaccicati al suolo e siamo semplicemente in attesa di evaporare, di tornare a quel cielo meraviglioso da cui proveniamo, per ricominciare la spettacolare caduta da capo, ancora più emozionante e fantastica di prima."
Grazie in anticipo per tutti quelli che recensiranno o semplicemente leggeranno!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Come ho detto nella presentazione, il breve racconto nasce dopo aver ascoltato una canzone di Janis Joplin: Me and Bobby McGee. la traduzione si trova su molti siti, se vi interessa ^^. Non voglio appesantirvi ulteriormente, leggete e se vi va recensite! Spero davvero che vi piaccia!


 

"Freedom" is just another word for "nothing left to lose"
“Libertà” è solo un’altra parola per dire che non si ha più nient'altro da perdere

 



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Ho sempre amato la pioggia. Il ripetitivo, ritmico, intenso ticchettio delle fredde gocce sulla terra nuda, sulle fresche piante o sullo squallido, polveroso asfalto di una qualunque città… è il suono stesso della vita che scorre, piove, gocciola incessante, di attimo in attimo e le leggi fisiche non permettono che sia altrimenti, non le consentono di scegliere un percorso differente, magari opposto, così come la pioggia non può salire. Non è vero? Non è così?

Peccato, perché se io fossi una goccia vorrei proprio poter tornare subito indietro, dopo essermi spiaccicata al suolo e aver confuso la mia essenza con quella di altri milioni di mie simili. Dove vivevo da bambina pioveva in continuazione, quasi tutti i giorni. E per noi, abituati così, non era mai stato un problema: giocare a schizzare e sguazzare fra le pozzanghere del cortile era quanto di più pazzo e divertente mi piacesse fare.

I giorni in cui la pioggia cessava io ero triste. Mia madre, scherzosamente, mi definì una “sirenetta di terra”, amante dell’acqua del cielo. Forse era vero, forse è proprio così, perché io ho sempre sentito un legame particolare fra me e gli acquazzoni.

Pioveva, il giorno in cui sono nata, così come quello in cui ho iniziato la scuola, quando mia sorella si è sposata, la sera che è morta mia madre, la mattina che sono andata via di casa senza una meta, senza un soldo, all’avventura. Pioveva anche il giorno in cui conobbi Matt.

Ricordo che ero non molto distante da una città poco lontana da Chicago e stavo tentando di raggiungerla a piedi, godendomi le piacevoli carezze delle lacrime delle nuvole. Erano gli anni sessanta, non era infrequente che ragazzi un po’ scapestrati viaggiassero così, spesso in gruppo.

Matt aveva un piccolo furgoncino Volkswagen, uno di quelli tutti colorati, pieni di disegni psichedelici, ormai entrati nella storia. Mi vide camminare sul ciglio della strada, rallentò, cercando di avanzare alla mia stessa velocità e si offrì di darmi un passaggio in città, assieme ai due suoi amici che erano con lui.

«E perché mai?» domandai. «Non vedi che bella pioggia che viene giù oggi?» gli dissi, spalancando le braccia e girando su me stessa come una ballerina in uno di quei vecchi carillon. «Proprio perché piove, ti sto offrendo un passaggio» ribatté lui, ma io rifiutai ancora.

Lui mi guardò sgranando gli occhi: che begli occhi avevi, Matt, così neri, profondi e insondabili come due pozzi senza fondo, eppure così luminosi, innocenti e pieni di vita, come quelli di un bambino curioso e furbacchione.

Allora, mi dedicasti uno dei tuoi migliori sorrisi: uno di quelli che sembrano uno spicchio di luna splendente e ti illuminano tutto il viso. Chissà cosa pensasti tu di me, poiché dopo scendesti dal furgoncino dicendo che avresti raggiunto i tuoi amici a piedi, assieme a me, dato che non ti fidavi a lasciare sola una ragazza così carina e delicata. Non li raggiungemmo mai.

«E così ami la pioggia?» buttasti lì con nonchalance, giusto per iniziare un’insolita e informale conversazione. «Si e lei ama me!» ti risposi ridendo. «Come fai a saperlo? Te l’ha mai detto lei?» mi domandasti, in parte divertito e in parte incuriosito. «Me lo dice sempre. E poi, se non mi amasse non mi avrebbe mai portato un ragazzo così bello come te…» Mi guardasti stupito e lusingato, con l’ingenuità di un cucciolo e, tirando fuori la tua chitarra, mi domandasti: «Ti piace anche Janis?»

Ci fermammo in un posto vicino, in mezzo agli alberi e alla natura, immersi nel verde come due creature fantastiche, come due folletti dei boschi. Tu accarezzasti e pizzicasti a lungo le corde, seguendo il ritmo incessante e irregolare della pioggia battente, componendo musiche che racchiudevano in sé l’animo stesso della foresta.

Io cantai su di esse i miei versi pazzi e improvvisati, mettendo a nudo per te i segreti più profondi della mia anima selvaggia. Danzai come un derviscio, in piena estasi, accarezzata dalle tiepide gocce del temporale estivo. Poi scivolai, caddi a terra.

Tu, preoccupato, mollasti subito la chitarra e venisti verso di me, per essere sicuro che stessi bene. Ci guardammo negli occhi a lungo. Ci sussurrammo segreti e dolcezze come mai avevamo fatto con nessun altro. Poi facemmo l’amore.

Travolgente, selvaggio, eppure tenero e dolce, quasi come due ragazzini alla loro prima volta. E non era forse così, in un certo senso? Avevi mai amato, tu, prima? Avevi mai provato una sensazione tanto languida e intensa, che sale e sale dai piedi fino ai capelli, passa per lo stomaco, solletica il cuore e imporpora le guance? Io no, mai, ma in quel momento fui sicura di amarti, sebbene non ti avessi mai visto prima, nonostante neanche ti conoscessi poi così bene.

Il giorno seguente, facemmo l’autostop e continuammo a farlo per molto tempo ancora, girammo praticamente tutti e cinquanta gli States, fra giornate di sole e lunghi, piacevoli temporali. Cantammo, suonammo e ballammo ovunque e con chiunque, molta gente iniziò addirittura a parlare di noi. Noi.

Sembrava che non si potesse parlare dell’uno senza nominare l’altro, sembrava che fosse tutto perfetto, che nulla dovesse cambiare mai, che saremmo rimasti per sempre così, perché noi eravamo perfetti, cantando il soul e il blues, danzando con la pioggia, amandoci col corpo e con l’anima.

O, almeno, questo era quello che gli altri vedevano. Ma io sapevo. Tu sapevi. E non abbiamo fatto nulla per evitare la fine, forse perché non pensavamo che fosse necessario, forse perché volevamo che accadesse, forse perché non eravamo poi così perfetti come credevamo, forse perché l’amore, prima o poi, finisce e basta, chi lo sa.

So solo che un giorno arrivammo al nostro capolinea. Non ricordo nemmeno dove fosse, forse nei pressi di L.A., nella calda California, in uno dei rari e preziosi giorni uggiosi. Ti lasciai andare via. Mi dicesti che volevi una casa e una nuova vita, mi dicesti che saresti stato felice così e che anche io lo sarei stata, se avessimo chiuso tutto lì e subito. Io annuii con semplicità e nostalgia, prima di fare un’ultima volta l’amore.

Ma sai che ti dico? Ora sono qui, alla fermata del treno, dentro i miei jeans strappati e scoloriti e la mia bandana rossa tutta rovinata e scucita (l'anima, probabilmente, è ridotta anche peggio) in attesa delle dolci, fredde lacrime del cielo a farmi compagnia. E qui, oggi, scambierei tutti i miei domani per un singolo ieri, perché stare semplicemente bene con te, per me, era perfetto e non desideravo né necessitavo di qualcosa di più.

Forse tu starai pensando la stessa cosa, guardando il panorama fuori dalla tua bella casa; forse, osservando l’incessante infrangersi delle gocce sulle foglie, ripensi a quei giorni e vorresti poterne riavere indietro almeno uno. Forse, anche tu vorresti che le gocce potessero precipitare anche verso l’alto, se lo desiderano.

O forse, magari, sotto un temporale, pensi solo che sarebbe il caso di aprire un ombrello e che le fastidiose gocce dovranno aspettare l’evaporazione, per poter finalmente tornare al cielo e sgomberare i marciapiedi. L’evaporazione, sì, forse è quello l’unico modo per riavere di nuovo il tuo corpo stretto al mio, un giorno; ma fino ad allora, io rimarrò qui, spalmata sull'asfalto bagnato, libera dal mio passato, libera dalla spaventosa caduta che mi ha portata qui, libera da te, proprio come hai detto tu: libera di vivere.

Ma cos’è la libertà? Quella cosa che io e te abbiamo tanto cantato e musicato sotto il cielo nuvoloso, Matt, ti dirò: è solo una parola. Un’altra parola per dire che non si ha più nulla da perdere, che si è toccato il fondo, che ci siamo spiaccicati al suolo e siamo semplicemente in attesa di evaporare, di tornare a quel cielo meraviglioso da cui proveniamo, per ricominciare la spettacolare caduta da capo, ancora più emozionante e fantastica di prima.

Oh, no, già… io non sono una goccia e quando sarò evaporata, non potrò partecipare ad un secondo acquazzone o almeno non posso esserne del tutto sicura. Beh, pazienza, vorrà dire che continuerò a guardare le altre gocce cadere, cantaando e ballando sotto di esse, gridando il tuo nome al Signore.

«Mi senti, Signore? Mi senti? Sto gridando il nome del mio amato più forte che posso! Mi senti, Matt?»


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