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Autore: Nebula216    18/07/2012    2 recensioni
"[...] -Dottore... F-Finisca la seduta... per favore.-
Questa richiesta, vicina al pianto, mi lascia basito: lei vuole finire la seduta, non... non mi era mai capitato.
Annuisco, poco convinto, tornando a sedere dietro la scrivania: prendo fiato.
-Famiglia.-
-Affetto.-
-Pistola.-
-Poliziotto.-
Annoto le ultime due risposte, prima di passare all'ultima domanda.
-Auto.-
Ancora silenzio[...]"
Il titolo è ripreso dal film "A Dangerous Method".
Una mini-fic HidanxLara particolare, con il mondo della psicologia come sfondo.
Konan e Jiraya sono delle semplici comparse.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hidan, Jiraya, Konan, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Capitolo 3

 
30 Maggio, ore 19:30
Transfert

 
Ho appena salutato il penultimo paziente della giornata quando scorro, con calma, il taccuino che uso per i casi più seri, fra cui Lara Scarlett.
La settimana scorsa non ho avuto molti risultati purtroppo, spero con la seduta di oggi di trovare delle soluzioni o, quantomeno, la via giusta da seguire per aiutarla: non posso e non voglio fallire.
Stanco, mi allento la cravatta nera attorno al colletto della camicia viola funerale, osservando il temporale che, furioso, imperversa sulla città: un mese fa si pativa un caldo infernale, ed ora invece la gente fa i conti con il diluvio universale.
Sbuffo, controllando lo schema delle associazioni libere risalente alla settimana scorsa, uno schema che non mi fa ottenere alcuna illuminazione improvvisa: mi sembrano soltanto parole messe a caso, non mi indicano la strada giusta da seguire nella terapia.
Le luci, sia quelle della scrivania che quelle del soffitto, si spengono per un microsecondo a causa di un fulmine, il primo della giornata, facendomi riprendere dallo stato catatonico nel quale ero caduto; annoiato, guardo l’orologio che porto al polso…
Le 19:35.
È in ritardo, stranamente… perché?
Il telefono squilla, costringendomi a rispondere.
-Sì Konan?-
-Dottore, io devo andar via. Lascio un post-it alla porta per la paziente, va bene?-
Mi strofino gli occhi con il pollice e l’indice della mano sinistra.
-Certo, sì sì… vai pure a casa Konan.-
-Arrivederci.-
Risponde, prima di riattaccare la cornetta e farmi tornare alla mia attesa: non è mai arrivata in ritardo, è la prima volta. La faccenda mi turba, facendomi pensare di male in peggio: la cosa più terribile per lei, in questo momento, sarebbe troncare la terapia, cosa che quel generale sembra ben disposto a fare.
Sospiro, pronto per andar via, quando la porta dello studio si apre all’improvviso, spaventandomi un poco…
Lara.
Ha il fiatone e gli abiti che indossa, dei jeans e una camicia tenuta aperta sopra una canotta verde salvia, sono a dir poco zuppi d’acqua piovana, per non parlare dei capelli che le si appiccicano al volto, come farebbero delle alghe marine sul volto di una sirena.
-…Lara…-
Riesco a dire soltanto questo, sorpreso di vederla nello studio: prende fiato, inspirando a pieni polmoni quanta più aria possibile, prima di sedersi sulla sedia di fronte alla mia, dall’altra parte della scrivania.
Le gocce d’acqua le carezzano ogni singolo tratto del viso: palpebre, guance, naso, labbra… per poi cadere nel vuoto; deglutisce, asciugandosi, per quanto possibile vista la manica fradicia della camicia, la faccia.
-Mi scusi dottore… non volevo tardare.-
-Tranquilla… potevi chiamarmi se eri impegnata.-
Le dico con un sorriso, divertito per la situazione strana che si è venuta a creare.
Lei mi guarda, un’occhiata che mi comunica turbamento.
-Sono… scappata. Il generale voleva…-
-Interrompere le sedute.-
La sospendo serio: quel capo dell’esercito non capisce che questa è la cura giusta per la ragazza, non lo pensa affatto!
Reprimendo un istinto omicida, faccio un respiro profondo, concentrandomi sul mio lavoro e sull’obiettivo che mi sono prefissato: capire ed aiutare Lara.
La guardo nuovamente, prima di scrivere su una pagina bianca del taccuino la data di oggi: 30 maggio… una data che le fa accennare un sorriso.
Curioso, ricambio il gesto: la tecnica che voglio usare oggi è già iniziata…
Il transfert.
Tramite questo processo il paziente rende attuali sentimenti passati, che siano positivi come l’affetto e la gioia, o negativi come la rabbia, generando due tipologie di transfert: positivo e negativo. Tali emozioni vengono proiettate verso la figura dello psicoanalista, il quale deve restare distaccato…
Non deve lasciarsi coinvolgere.
-Perché sorridi?-
Le domando, sorprendendola per il quesito.
Arrossisce un poco per l’imbarazzo, e non posso, non riesco, a fare a meno di accennare un altro sorriso.
-Ecco… oggi è il mio compleanno.-
-Davvero? Bhè, allora auguri!-
Le dico sincero, ricevendo come risposta i suoi ringraziamenti: è la prima volta che la vedo serena, e giuro che non sembra affatto una ragazza con traumi psicologici o che altro.
Appare come una ventenne comune… perché lei è davvero così sotto quella gabbia di ricordi opprimenti che la costringono ad avere paura: lei è come me, come tutte quelle persone che ogni mattina si svegliano e corrono per andare a lavoro.
Come tutti quegli studenti preoccupati per un esame imminente… o come le madri che, seppur stanche, calmano i loro figli col sorriso.
Lara non è un mostro pazzo da cui stare alla larga: lei è umana.
-A casa tua ti avranno fatto la festa, non voglio trattenerti.-
Le dico, rendendomi conto che il sorriso, il quale le aveva illuminato il volto in precedenza, si è spento all’improvviso.
Scosta lo sguardo.
-Ci tengo a… questa seduta.-
Ci tiene…
Lei ci tiene ad esser curata…
La sera del suo compleanno.
Poso la penna Parker vicino agli occhiali a montatura fine, congiungendo le mani e fissandola: spero che il transfert funzioni, perché non saprei cosa fare altrimenti.
-Perché Lara non vuoi tornare a casa?-
Le domando, dopo aver soppesato ogni singola parola.
-Io… non ho più una casa da sedici anni dottore. Non ho più qualcosa di mio.-
Un velo di malinconia avvolge la sua voce, raggiungendo ben presto ogni cellula del mio corpo: si sta aprendo, sta rivelando, come un bocciolo primaverile, i suoi petali…
Petali rovinati ancor prima di esser stati sfiorati da qualsiasi essere.
Sorpreso per questi pensieri, cerco di scacciarli il più velocemente possibile dalla mente, continuando a prestare attenzione alle sue parole.
-Perché dici così?-
Domando, prima di vedere le lacrime avvolgerle gli occhi: tristezza… la percepisco…
È un macigno troppo pesante da sopportare.
-Sa dottore… lei… mi ricorda molto mio padre. A-anche lui faceva molte… domande e… e mi rassicurava…-
Ecco, ci siamo, penso con fin troppo interesse.
-Tuo padre?-
Annuisce.
-Lui e mia madre erano le mie guide, le persone a cui volevo più bene in questo mondo. Mio padre mi rassicurava sempre quando ero spaventata. Sa come faceva? Sedeva al piano, mettendomi sulle sue ginocchia, ed iniziava a suonare.
Mia madre, invece, sapeva come farmi tornare il sorriso.-
Silenzio.
Calde lacrime iniziano a scenderle da quegli occhi smeraldini, ormai privi di quella luce che dovrebbe caratterizzare la vita.
Anima dilaniata, occhi morti ancor prima di morire… quanto è stato crudele con lei il destino?
Scoppia a piangere e, come se quel pianto fosse stato quello di un neonato, la mia mano cerca di stringere la sua: il primo errore da parte mia…
Uno sbaglio di cui non me ne rendo conto.
Sobbalza a quel contatto, una lieve risposta al mio gesto sconsiderato, per poi deglutire e guardarmi.
-Dovevamo andare… in una riserva naturale. Volevano farmi vedere… i lupi  e i cervi. Papà aveva… aveva finalmente ottenuto le ferie e… e voleva passarle con noi. Solo che…-
Si blocca di nuovo, fissando confusa le nostre mani unite: so che dovrei lasciarla, però non ci riesco.
Sento il suo dolore, la sua tristezza… sento la sua rabbia.
Si morde il labbro inferiore, nel vano tentativo di reprimere le lacrime.
-Solo che?-
Le domando… innescando involontariamente il timer della sua bomba interna.
Qualcosa di così potente da poter distruggere qualsiasi cosa…
Persino il mio distacco.
-Solo che un imbecille ubriaco ci è venuto addosso con una jeep… facendoci finire fuori strada… MIO PADRE E MIA MADRE, INCINTA PER GIUNTA, SONO MORTI A CAUSA SUA!-
Si alza di scatto, lasciando la presa sulla mia mano: mi mette i brividi sentire il vuoto che ha lasciato, non poter più percepire il calore della sua pelle umida mi scombussola… tutto per me è diventato estraneo.
La guardo, la osservo con occhi diversi da quelli dell’analista che sono stato fin’ora, che continuo ad essere. Mi soffermo su ogni tratto del suo aspetto fisico, cercando di imprimere nella memoria quanti più dettagli possibili.
La piega dei capelli, le sue labbra, il modo in cui si tormenta quello inferiore, la molteplicità di luci ed emozioni contrastanti che stanno illuminando i suoi occhi.
Mi rivolge uno sguardo.
-Io ho perso la famiglia, e la polizia cosa fa!? LO LASCIA LIBERO! TANTO VERO, NON PUO’ ESSER MESSO IN GALERA PERCHE’ LE PAROLE DELLA PICCOLA SOPRAVVISSUTA NON SONO VERE! SONO STANCA DI TUTTO QUESTO, VOGLIO FARLO SOFFRIRE COME E’ SUCCESSO A ME!-
Si stringe le braccia con le mano, la vedo graffiarsi, mordersi troppo le labbra, e a quel punto decido di intervenire: le blocco i polsi quando sta per colpire il vetro della finestra, evitandole così ulteriori ferite.
Lancia urla al limite dell’umano, cariche di odio e tristezza: il suo corpo, ben stretto al mio, sta tremando, fin troppo.
Si dimena, cerca di liberarsi, però non la lascio, non voglio mollarla: tenta di colpirmi con le mani, mi urla di lasciarla… non l’ascolto.
Non voglio farlo.
Le porto le braccia, da sopra la testa, distese lungo i fianchi e leggermente dietro la schiena, una posizione che ci rende ancor più vicini.
La guardo e, dopo poco, lei risponde alla mia chiamata visiva: nessuna parola, non osiamo fiatare, un semplice scambio di sguardi che, per quanto innocente possa apparire, mi condanna al tormento peggiore.
Mi guarda: rabbiosa, impaurita… confusa; non so come la sto fissando, non so come sono i miei occhi: li vedo parzialmente nelle sue iridi smeraldine. Trema, balbetta qualcosa a bassa voce, catturando così la mia attenzione: le labbra appaiono morbide, di quelle talmente perfette da non aver bisogno di rossetti idratanti o roba varia. Eppure, in questa perfezione, non riesco a non notare i difetti: le sue sono tristi, distrutte da un passato troppo doloroso, continuamente minacciate dagli artigli della follia.
Labbra che, un tempo, dovevano essere rosee e pulsanti di vita… labbra che, ora, sono umide e ferite, forse gelide: una bocca che, come il canto delle sirene, inviterebbe chiunque, con la sua tristezza, ad assaporarle.
La luce salta a causa di un fulmine, lasciandoci completamente in balia delle tenebre: temo, non sapendo il perché, una sua possibile lontananza, e il mio corpo reagisce a questo pensiero.
Avanzo un poco verso di lei, continuando a stringerla dolcemente per i polsi.
Indietreggia, con il respiro confuso, fino a quando non colpisce qualcosa, probabilmente la scrivania; non so come, riesco a scostarle i capelli ancora umidi dal volto; avanzo ancora, percependo il suo petto alzarsi ed abbassarsi in maniera frenetica, forse per paura.
Il mio senso del dovere, la mia parte razionale, mi sta imponendo di tornare distaccato nei suoi confronti, sottolinea il mio ruolo di psicoanalista… è inutile, non può nulla contro la carica impetuosa ed irrefrenabile dell’inconscio, guidato da pulsioni tanto primitive quanto distanti l’una dall’altra. Da una parte Eros, comandante dell’istinto di vita e custode di tutto quanto riguardi essa; dall’altra Thanatos, guardiano degli impulsi mortali e distruttivi.
Due tipologie di pulsioni talmente agli opposti da essere inevitabilmente legate: si può esser stabili solo quando entrambe si bilanciano.
In questo momento, però, soltanto una prevale, e non è il Distruttore: la mia anima sta indugiando, non sa cosa fare… se dovessi assaporare e nutrirmi di quelle labbra, non solo potrei perdere il lavoro, ma lei stessa.
Non so come potrebbe reagire.
Freud diceva che “Dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare”… ed aveva ragione.
Io la desidero, adesso, per sempre, finché potrò respirare continuerò a desiderarla… ma c’è e ci sarà sempre un ostacolo, ed è rappresentato dal mio lavoro.
Le sollevo la testa, sfiorando con le labbra la sua bocca.
-D-dottore…-
La zittisco con uno “shh”, ormai accecato dai richiami sempre più forti di Eros: non mi importa delle conseguenze… preferisco provare, fallire, cadere, piuttosto che rinunciare e vivere col rimorso di non aver nemmeno tentato.
Passo il pollice sulle sue labbra, con il tocco più dolce che posso avere.
-Ti prego… è Hidan.-
-…H-hidan…-
Sorrido.
-Sì, sono qui… sono qui.-
  

Angolo autrice: Chiedo venia per il ritardo, ma avevo un sacco di cose da fare (studio per l'esame di stato soprattutto... superato con un bel 80/100!).
Anche questa mini-fic è finita, e spero che vi sia piaciuta.
Bacioni!
Nebula216 <3
   
 
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