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Autore: Leaena    18/07/2012    6 recensioni
«Perché ti amo.»
Sta per dirmi qualcosa, ma non lo fa più.
Inizia a vomitare.
Sangue.
Vomita sangue.
Genere: Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Tonight’s the last to say goodbye

Capitolo primo.
 

Correvo, correvo, correvo.
Correvo verso quella luce bianca. Volevo toccarla, perché ero certa che fosse soffice. Ma come si faceva a toccare una luce? Una cosa impossibile. Eppure qualcosa nel mio subconscio mi diceva che si poteva realizzare. Allora non smettevo mai di correre, nemmeno per un solo istante. Il fiato sembrava non mancarmi mai. La mia meta era quella luce. Dovevo arrivare da lei, ma la distanza fra noi mi pareva chilometri e chilometri…
 
Mi sveglio con l’ansia addosso. È da un mese che faccio sempre lo stesso sogno e la cosa mi dà tanta preoccupazione. E se volesse dirmi qualcosa? Ma che cosa? Ci rifletto spesso su, ma non riesco a trovare risposta e a darmi pace.
Mi passo una mano sul viso, poi mi alzo sui gomiti, mettendomi a guardare fuori dalla finestra. Siamo a inizio dicembre, sono le sette di mattina e il cielo è scuro. Blu intenso. Con questa atmosfera chiuderei gli occhi e cadrei volentieri nel mondo dei sogni, ma non posso.
Mi giro dall’altro lato del letto e striscio piano verso quel batuffolo che dorme tranquillamente.
Prendo la macchina fotografica e faccio una foto a Sara; così potrò per sempre conservare quel volto pacato e sorridente, meraviglioso. Le do un bacio sulla guancia e sul nasino, poi con il dorso della mano inizio ad accarezzarle il volto. Si deve svegliare, purtroppo. Devo portarla all’asilo, mia figlia.
Ultimamente la sto trascurando un po’ per il lavoro e si vede che ci sta male. Molte volte mi chiede di portarla al parco, ma io non riesco mai a trovare una mezz’oretta per portarla; allora chiedo a mia sorella di farlo al posto mio, ma so che non è la stessa cosa. Sara vorrebbe passare del tempo con sua madre, cosa che non accade più in questo periodo.
«Ma-mma, che c’è?» Sbadiglia e strizza gli occhietti.
«Tesoro, è ora di alzarsi.»
«Ma… ma io n-non voglio a-andare all’asilo» mi dà le spalle e chiude gli occhi.
Le accarezzo i capelli e sospiro. Ecco, la solita storia. «Sara, non puoi stare a casa, lo sai.»
Sbuffa e scende dal letto. «Non vuoi mai stare con me!» Poi sento la porta sbattere.
Abbiamo fatto colazione insieme, poi l’ho lavata e l’ho vestita e nel mentre le parlavo, le sorridevo, ma lei è sempre stata chiusa nel suo mutismo. Mi ha ignorato, finché non l’ho portata all’asilo. Santo cielo, non sono sicura che quella bambina abbia solo tre anni. È testarda, anche fin troppo. Mi domando da chi abbia preso, ma so perfettamente di essere come lei, se non peggio. Arrivate all’asilo, non mi ha nemmeno detto “ciao”. Solitamente mi dà un bacio, poi esclama: «Ciao, mammina!» e saltella fino a scuola. Oggi mi è sembrato di averla portata al cimitero.
Arrivo all’ospedale, ma devo trattenere l’impulso di tornarmene a casa. Non ho proprio voglia di andare all’inferno. Il lavoro mi sta stancando sempre di più. Mi toglie tempo e anima e mi sta togliendo pure mia figlia. Quanto vorrei levarmi questo camice bianco, prendere la macchina, andare da Sara e passare tutto il giorno con lei. Mia figlia pensa che non mi manchi, ma in realtà mi manca da morire. Mi manca guardare i cartoni animati al pomeriggio, accoccolate sul divano, mi manca mangiare con lei e vederla sporcarsi il faccino. Mi manca lei.
Ho deluso mia figlia. Complimenti a me!
 
«Buon giorno, dottoressa Michelini.»
«Buon giorno, Lara. Ci sono novità riguardo alla signora con l’idrocefalo?» Giro il mio secondo caffè, ciò che mi fa andare avanti.
«Nessuna. L’ho tenuta d’occhio tutta la notte. Notte tranquilla, devo dire. Ah, dottoressa, la cercano in pronto soccorso per un consulto. Chiedono se può…»
«Se posso andare il prima possibile, lo so. È sempre il solito caos! Non sono nemmeno arrivata che già mi cercano. Il dottor…»
«Non c’è. È andato via prima oggi.»
«E ti pareva! Va be’, mi metto al lavoro. Tu vai a casa. Il tuo turno è finito da un pezzo ormai, no?»
«Ora vado. Buon lavoro, dottoressa.»
«Grazie, Lara. Ci vediamo.» Butto il bicchierino e mi avvio in pronto soccorso, concludendo quella chiacchierata frenetica.
Una pediatra mi ha chiesto un consulto riguardo una bambina di sette anni, che ha costantemente mal di testa.
«Ultimamente vostra figlia è stata ammalata?»
«Sì,» mi risponde la madre «ha avuto l’influenza intestinale, ma abbiamo seguito perfettamente le cure del nostro medico.»
«Ha avuto altro? L’influenza intestinale non porta questi mal di testa. Insomma, si vede dalla sua faccia che le fa malissimo.»
«Ha avuto il morbillo dieci giorni fa.»
«Encefalite post morbillosa. Ci hai pensato?» Guardo la mia collega, che annuisce.
«Grazie, Eva. Volevo solo la tua conferma.»
 
Appoggio la fronte sul vetro. Mi piace stare qui a guardarla; lo farei per ore. Non la conosco, ma so il suo nome perché l’ho chiesto a un’infermiera.
Cristina.
Si chiama Cristina e la prima volta che l’ho vista mi sono sentita mancare. Era così piccola, tutta rannicchiata; sembrava una bambina. Una piccola creatura indifesa. Da allora non c’è giorno che io non passi di qui per vederla; è come un bisogno farlo. Devo controllare se sta bene, se la sua salute migliora. Lei guarda me e io guardo lei, tutto attraverso un vetro. Non siamo mai state vicine a meno di cinque metri, non l’ho mai toccata, non ci ho mai parlato. Ci guardiamo e questo mi basta, anche se vorrei poter accarezzarle quei capelli biondi. Ai miei occhi sono soffici.
«Dottoressa Michelini, la vogliono al telefono.»
Saluto Cristina con la mano e lei mi ricambia con un piccolo sorriso.
«Dottoressa, dicono che sia urgente.»
«Ora vado, un secondo!» Sbuffo. È mai possibile che non possa stare due minuti tranquilla?
«Pronto? Sono la dottoressa Michelini.»
«Eva! Sono Clarissa.» Clarissa? La maestra di mia figlia?
«Sara sta bene?» domando subito. Clarissa non mi ha mai telefonato al lavoro.
«Sì, cioè…»
«Sì o no?»
«Sì, fisicamente sì. Il problema è che non vuole fare pranzo ed è stata tutta la mattina seduta in un angolo da sola, come se fosse in castigo. Non ha mai fatto così.»
«È solo arrabbiata con me.»
«L’ho capito, ma forse sarebbe meglio se te la venissi a prendere, non credi?»
«Sono al lavoro, non posso.»
«Santo Cielo, si sta parlando di tua figlia.»
«Lo so, ma tanto fra qualche ora mia sorella la verrà a prendere e…»
«Non è tua sorella che vuole e lo sai anche tu. Vienitela a prendere. Fallo per lei. Ha bisogno di sua madre.»
Ha bisogno di sua madre.
Dio, perché sono così egoista?
«Va bene, arrivo.» Attacco. Ora devo andare dal primario a dire che esco prima.
«Dottoressa?»
«Ancora? Che c’è?» dico spazientita, senza neanche voltarmi per vedere chi mi cerca. E quando lo faccio, mi pento subito del tono appena usato.
«Cristina» sussurro, guardandola, poi mi mordo un labbro. Che stupida che sono.
«Scusi, non voleva disturbarla» mi sorride, dispiaciuta.
«No, no! Nessun disturbo. Mi ha fatto piacere che… che… e poi non darmi del lei… Eva» le porgo la mano. «Mi chiamo Eva.»
Sorride e mi stringe la mano. La sua stretta è così debole…
«Cristina.»
«So come ti chiami» le dico e non so se ho fatto bene a farlo.
Ride. Forse ho fatto bene. «Sì, lo so. E sapevo come ti chiamassi tu, ma è stato bello presentarsi, come se fosse la prima volta che ci vediamo.»
Le sorrido e non so cosa dirle.
«Se non mi sbaglio, non avevi qualcosa d’urgente da fare?»
Sara! A momenti mi dimentico di mia figlia.
«Sì, grazie per avermelo ricordato. Santo cielo, che sbadata che sono!»
«Figurati. Ci vediamo domani?»
Ci vediamo domani?
Queste parole mi ronzano in testa, senza smettere un attimo. Sulla mia bocca c’è un sorriso spontaneo. «Sì!» esclamo, forse un po’ troppo euforica. La saluto e scappo via.
Il cuore a mille.
 
*
*
*

Ci ho messo un po' a scrivere questo capitolo.
Scrivevo, cancellavo, riscrivevo. Alla fine l'ho fatto a leggere a mia sorella e a lei piace, ma io non ne sono tanto convinta. Spero che a voi piaccia!
L.
 
 

   
 
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