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Autore: LilithJow    22/07/2012    2 recensioni
Il mio nome è Samantha Finnigan. Sono nata e cresciuta a Rossville, una cittadina con poco più di mille abitanti nell'Illinois, Stati Uniti.
Sto per compiere ottanta anni.
Ho vissuto una vita meravigliosa, ho avuto un marito affettuoso e tre fantastici bambini.
Ma non è di questo che sto per scrivere. Sono convinta che alla gente piacerebbe leggere di una grande storia d'amore, con un bel lieto fine, ma purtroppo io e i lieti fine non siamo mai andati d'accordo.
Ciò che state per leggere, perchè se adesso avete queste righe sotto gli occhi, presumo lo stiate per fare, non ne ha neanche l'ombra, o, per meglio dire, dipende dai punti di vista.
Voglio raccontarvi di un periodo particolare della mia vita, di molti anni fa, cinquantacinque per l'esattezza. Per me è come fosse ieri, forse perchè non ho mai dimenticato quello che successe. Impossibile farlo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Quando superammo i confini dell'Illinois, tre ore dopo aver lasciato casa Monroe, Daniel non aveva ancora detto una parola. Il silenzio era stato il protagonista di quel viaggio non programmato che aveva del tutto stravolto la mia vita - come se fino ad allora non lo fosse stata già.
Non sprecai quel tempo, tuttavia: lo usai per pensare a ciò che sarebbe successo. Sarei scappata per chissà quanto tempo, a nascondermi da qualcuno che non conoscevo; Daniel mi aveva informato del fatto di essere ancora in grado di nascondere le proprie e le mie tracce, con una specie di campo d'energia, che avrebbe impedito loro di trovarci. Ne era in grado anche prima, ma tale scudo aveva un limite di tempo che, con la perdita delle ali, era  stato drasticamente ridotto. Avremmo dovuto spostarci in continuazione per non essere trovati. Avevo paura, questo era ovvio, ma, come già detto, lo facevo per l'amore che mi legava a filo doppio a Daniel e ai suoi occhi perfetti.
Qualche volta osai spostare lo sguardo su di lui, ma non troppo. L'ultima volta che l'avevo fatto, quella mia distrazione gli era costata la vita. Non che potesse di nuovo morire.. Non in quel modo, almeno.
Ecco una cosa che non gli avevo chiesto: se fosse scomparso, come sarebbe accaduto?
Ci sarebbe stata un'esecuzione con qualche arma angelica o con uno schioccare delle loro dita, si sarebbe semplicemente smaterializzato?
Rabbrividii al solo pensiero e decisi di evitare domande del genere. Non erano importanti – o relativamente importanti – e il mio compito era anche quello di tirarlo su e di farlo stare bene.
Mi prefissai questo obiettivo: dovevo far star bene Daniel Monroe e lo sarei stata anche io. Era inevitabile: sentivo che ormai eravamo una cosa sola. Essendo il mio angelo custode, poteva essere altrimenti?
Purtroppo, però, le mie buone intenzioni non portarono agli esiti sperati, almeno non subito.
Per i tre giorni che seguirono, alloggiammo in un motel sulla strada statale. I nostri dialoghi non superavano mai le cinque frasi, l'ultima era sempre una mia esclamazione, talvolta una domanda alla quale lui non rispondeva, il che era irritante e opprimente. Non sapevo che avesse, se fosse terrorizzato, o arrabbiato o altro. Glielo domandavo, ma lui o cambiava discorso, oppure, appunto, taceva.
Non avevo intenzione di semplicemente lasciar perdere. Il quarto giorno continuai a porgergli la stessa domanda, cambiando solo l'ordine delle parole, o il modo in cui gliela facevo: “Perchè sei così? Che hai? Puoi dirmi tutto”.
Solo dopo almeno trenta minuti passati con l'avere come risposta un “Niente, non ho niente”, Daniel si decise a parlare.
“Non posso provare troppe emozioni tutte insieme, Sam” mormorò. “Tu ne scombussoli la maggior parte, con la tua sola presenza e io non posso permettermi di lasciarmi andare al sentire in modo opprimente la mancanza di mio fratello. Non posso, perchè se lo faccio, quei pochi poteri che mi restano svaniscono e noi saremmo un grosso punto rosso nei loro radar. Ho bisogno del mio tempo per... Metabolizzare tutto e tenermi concentrato sull'unica difesa che ho.. E che abbiamo”.
Restai per un attimo a bocca aperta, perplessa. Forse non mi aspettavo quel fiume di parole, non mi aspettavo nemmeno di essere io la causa di tutto.
Lo scombussolavo, lo mandavo in tilt e questo era un grosso rischio, come aveva appena detto.
Mi limitai ad annuire, avvicinandomi lentamente a lui, che stava in piedi, davanti alla finestra. Lo baciai rapidamente sulla guancia. “Tutto il tempo che vuoi” sussurrai, con tono dolce e rassicurante.
Non osai fargli ulteriori domande o mettere le fondamenta per dialoghi che lui non voleva fare. Aveva bisogno di tempo e concentrazione per sistemare la nostra protezione e glielo diedi. Per fortuna, non durò troppo. Il giorno dopo riprese a parlarmi, regolarmente. Ripresero gli sguardi, le carezze, i sorrisi.
Stavamo bene, sembravamo quasi una coppia del tutto normale. Degli innamorati che si vergognavano di tenersi la mano in pubblico e ridevano imbarazzati quando qualcuno li vedeva scambiarsi un bacio.
Era bello. Era tremendamente bello, ma orrendamente surreale.
Come potevamo essere normali?
Lui era morto e adesso era un angelo – il mio angelo – ricercato dalla giurisdizione celeste, che lo avrebbe ucciso – non sapevo ancora come – non appena trovato e probabilmente lo avrebbero fatto anche con me, dal momento che ero a conoscenza di troppe cose.
Pensare a certe cose mi intristiva, ma tutto passava quando guardavo gli occhi azzurri di Daniel; allora mi tranquillizzavo e continuavo a vivere sotto la nostra campana di vetro, sicura e fragile al contempo.
Quella campana, tuttavia, era più fragile che sicura.
Solo ricordare quel giorno, mi mette i brividi addosso ancora oggi, anni e anni dopo.
Ero uscita per qualche minuto, una mattina. Volevo recuperare la colazione, sia per me che per lui. Daniel aveva ripreso a mangiare, sebbene non fossi certa che gli servisse davvero, dal momento che non aveva proprio un corpo, e anche a dormire. Lo avevo lasciato assopito nel letto, tra le lenzuola gialle del motel dove alloggiavamo.
Comprai due cappuccini con l'aggiunta di panna e due cornetti e rientrai nella stanza, ma quando lo feci, trovai il letto vuoto. Lui non c'era, non sentivo la sua presenza come di solito accadeva.
“Daniel?” mormorai appena e non feci in tempo a dire o fare altro. Mi sentii afferrare per le spalle da qualcuno di estremamente forte, dalla cui presa non riuscii a liberarmi, sebbene mi stessi dimenando a più non posso.
Qualcosa di ancora più strano accadde all'incirca cinque secondi dopo: ebbi la sensazione di venir sballottata da una parte all'altra, come se stessi facendo il giro della morte sulle montagne russe una decina di volte consecutive. Dovetti chiudere e strizzare gli occhi, trattenendo i conati di vomito.
Quando sollevai le palpebre, non mi trovavo più nella stanza del motel, ma in un luogo indecifrabile. Era tutto buio, eccetto un grande cerchio illuminato di luce bianca, al centro del quale mi trovavo. L'aria era gelida, il che mi fece tremare e se ciò non era dettato dall'abbraccio di Daniel, non mi piaceva affatto.
Daniel.
Lui dov'era?
Mi guardai frettolosamente e nervosamente attorno, con l'affanno, come se avessi corso per chissà quanto. La mia vista sembrava essere annebbiata, sebbene, molto probabilmente, fosse solo una conseguenza del panico e dell'ansia che mi stavano assalendo in modo repentino.
Ad un tratto lo vidi. Vidi Daniel, poco distante, vidi i suoi occhi nella semioscurità, e feci subito un accenno di corsa per raggiungerlo, ma venni bloccata.
“Ferma lì” esclamò qualcuno. Era la voce di una donna, con tono alto, possente e sicuro. Non potei non obbedire e, non appena mi fermai, il cerchio di luce si allargò ulteriormente, non mostrando ancora, tuttavia, le pareti del luogo in cui ci trovavamo – eravamo in una stanza, poi?
Nonostante non potessi muovermi, cercai ancora con lo sguardo Daniel: potevo vederlo meglio, con più luce. Quel che vidi, però, non fu per niente confortante.
Un taglio gli segnava il viso trasversalmente, dal sopracciglio destro fino alle labbra; un livido violaceo si estendeva sull'occhio, dalla stessa parte e sicuramente aveva addosso altri segni in quel momento a me non visibili. Era immobilizzato da qualcuno, due uomini, da entrambi i lati, dei quali non riuscii a vedere i volti.
Solo allora decisi di voltarmi, per scoprire chi mi aveva fermato.
Mi ritrovai davanti una donna con lunghi capelli scuri, un tubino nero addosso, occhi neri come la pece e un rossetto rosso che metteva estremamente in risalto le labbra carnose. Era giovane, non le avrei dato più trent'anni e probabilmente non aveva nemmeno quelli. Il suo aspetto non mi colpì molto, sembrava essere una delle tante donne d'affari che incontravo spesso sul posto di lavoro; quello che lo fece, fu la sua espressione: fredda, pungente. Riuscì a farmi tremare solamente guardandomi.
Solo dopo qualche secondo ebbi il coraggio di parlare: “Dove siamo? Perchè sono qui? Che gli avete fatto?”.
La tempestai di domande: mi ero fatta pressapoco un'idea di chi fossero e ci misi poco a realizzare che, finalmente, ero al loro cospetto.
“Mi avevano detto che eri curiosa” esclamò la donna, muovendo un passo nella mia direzione, facendo schioccare i tacchi a spillo. “Ma questa la definirei più stupidità”.
Avrei volentieri replicato. Mi irritava e se avesse continuato, il mio pugno si sarebbe abbattuto sulla sua faccia perfetta. Questa volta, però, fu la voce di Daniel a precedermi. “Lasciala andare” mormorò, con tono debole “lei non c'entra nulla”.
La donna col vestito nero lo ammonì tempestivamente con lo sguardo e lui tacque, intimorito, così come lo ero io.
“Lei... Sa troppo, piccolo angioletto perchè tu glielo hai rivelato”.
Scossi appena la testa. Era assurdo: perchè erano così in collera con lui?
Aveva violato le loro stupide leggi, non aveva diritto ad un processo? Sarebbe stato decisamente più civile.
“Con tutto il rispetto” esclamai “chiunque tu sia..”.
“Chiamami Evelyn”.
“Evelyn. Beh, con tutto il rispetto, siete voi che l'avete mandato da me, sapendo benissimo quale fosse il nostro rapporto. Insomma, non siete onniscienti? Quale stupido manderebbe a fare da angelo custode qualcuno che è stato così vicino ed è significato così tanto per la persona da proteggere? Per di più, dandomi la possibilità di vederlo, ogni singolo istante. Daniel non ha sbagliato, nemmeno un po', quello... Quello lo avete fatto voi”.
Evelyn accennò un sorriso inquietante, che mi fece raggelare il sangue nelle vene. Le mie parole non l'avevano toccata nemmeno un po'.
Noi non abbiamo mandato proprio nessuno, signorina Finnigan” sibilò. “Lui ci ha supplicato affinchè fossi tu la sua protetta. C'era un accordo tra noi, un patto, un contratto, diciamo, legale, che Daniel ha violato, più e più volte, esponendo l'intera nostra razza ad un rischio enorme”.
Spalancai gli occhi, lo feci non appena terminò la prima parte della frase, ignorando quasi la seconda: lui mi aveva scelta, ben consapevole dei rischi a cui andava incontro. Perchè?
Deglutii, non potevo lasciarmi distrarre da mille supposizioni sul perchè lo avesse fatto. In quel luogo, ovunque fossimo, eravamo in pericolo e una minima distrazione avrebbe potuto essermi – ed esserci – fatale.
“Un rischio enorme?” replicai, tentando di nascondere il mio tono di voce più che traballante. “Solo io so della vostra esistenza, delle regole, di quel che fate e tutto il resto. Non lo direi mai a nessuno, chi mi crederebbe?”.
“Ne saresti sorpresa” ribattè Evelyn, per niente scossa dalla situazione. Ma del resto, che motivo avrebbe avuto per esserlo? In quel momento, lei era la padrona, del tempo e di noi. Le sarebbe bastato schioccare le dita per farci sparire, me lo sentivo fin dentro le ossa.
Abbassai lo sguardo, mentre Evelyn, accompagnata dal fastidioso ticchettio dei tacchi che rifrangevano sul pavimento, muoveva qualche passo attorno a me, finchè mi fu alle spalle. Non osai girarmi, almeno in un primo momento. Lo feci solo quando udii Daniel urlare.
Mi voltai di scatto, vedendolo a terra; i due uomini lo avevano lasciato andare. Evelyn stava in piedi, davanti a lui, tendendo una mano aperta nella sua direzione.
“Lascialo stare!” urlai, facendo subito per gettarmi su di lei, nonostante probabilmente non avrebbe nemmeno funzionato.
E infatti, non riuscii a muovere neanche mezzo passo, che fui bloccata da una sorta di barriera invisibile, provocata da Evelyn.
Ero del tutto impotente, a fissare l'amore della mia vita che si contorceva a terra, urlava e si dimenava a causa degli spasmi di dolore che lo attenagliavano.
“Smettila, ti prego, smettila” supplicai, con le lacrime agli occhi. Evelyn mi ignorò completamente, anzi, sembrò intensificare qualsiasi cosa stesse facendo a Daniel, perchè urlò ancora più forte, rischiando di spaccarmi i timpani.
Allora cominciai ad urlare anche io, pregando ancora quella donna di lasciarlo andare, di smetterla.
Daniel urlava, io urlavo e riuscivo a farlo più forte, tanto che, nemmeno rendendomene conto, non sapendo come, ero riuscita a muovermi.
Avevo superato quella barriera che me lo impediva, chissà in quale modo, ma l'avevo fatto. Mi ritrovai accanto ad Evelyn, che, quando se ne accorse, cambiò subito espressione. Fu sorpresa, perplessa e sconvolta, il che le fece abbassare la guardia per un istante, mentre i suoi occhi rimanevano fissi su di me.
Io mi sentivo allo suo stesso modo: fino a qualche secondo prima, ero paralizzata da un suo solo gesto e avevo paura. D'un tratto, invece, la perplessità lasciò spazio ad una nuova sensazione: mi sentii forte, come se potessi in qualche modo batterla. Sorrisi appena, al pensiero, ma non feci in tempo a fare niente.
Non me ne resi conto, ma Daniel era riuscito a mettersi in piedi. Barcollando, mi raggiunse, mi si gettò praticamente addosso.
L'ultima cosa che udii fu un “No” urlato da Evelyn.
Chiusi gli occhi e, quando li riaprii, eravamo di nuovo nella nostra stanza di motel.

  
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