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Autore: _ivan    03/08/2012    5 recensioni
[ COMPLETATA LA PRIMA PARTE: la seconda verrà scritta e pubblicata al termine di 'Monetarium - la neve e le ombre' ]
Theodore è un ragazzo come tanti: alterna la sua vita tra facebook, videogiochi, televisione e uscite con pochi e fidati amici. Sua madre adora interpretare la parte del tiranno, suo padre quella dell'uomo saccente e un po' troppo pretenzioso. Eppure basta il discorso del presidente degli Stati Uniti, un giorno, a cambiare tutto. Al mondo viene rivelato che..
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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!! piccole note:
grazie a chiunque ha recensito e mi ha donato il suo sostegno. chissà se ci sono anche lettori anonimi, là fuori.
questa è praticamente la fine della prima parte ( ci sarà una piccola aggiunta ma..non anticipo nulla! )


*


CAPITOLO VI

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_6.pdf ]

L‘aria della cucina era gravida dell‘odore speziato della cena, che come al solito era stata servita in perfetto orario alle nove meno un quarto, senza un solo minuto in più o un minuto in meno. Certe abitudini – ahimè - sono dure a morire, in grado di sopravvivere anche alla peggiore delle sventure.
Forse tutto ciò mi sarebbe mancato, un giorno, da qualche parte.
«Fuori discussione Martin, hai sentito tua madre: domani non andrai da nessuna parte.»
«Dai papà, ti prego…»
«La risposta è No.»
Mentre Mart sbuffava, io rimestavo col cucchiaio la minestra di zucca nel piatto. Osservavo le pieghe sulla superficie cremosa e vi cercavo chissà quali forme suggestive, perso nei miei pensieri. Spinsi la punta della posata tra le mie labbra, bagnandole appena col cibo ormai freddo. Il profumo dolciastro mi riempiva le narici. Il caldo sprigionato dai fornelli - spenti da poco - mi si era appiccicato alla pelle.
Martin continuava a parlare, tuttavia la sua ostinazione si trasformò ben presto nelle mie orecchie in un ronzio di sottofondo, fuso bene alle parole ovattate di mia madre, che dal canto suo era al telefono con la zia nella stanza adiacente. Seguii pigramente e con lo sguardo il ronzìo di una zanzara intorno alla lampadina, nuda e appesa al soffitto.
«Theo, sto parlando con te.» la voce di papà giunse da un posto lontano, scuotendomi e facendomi tornare con i piedi e la mente a terra.
«Eh?»
«Ci senti? Ti ho chiesto com’è andata oggi.»
Cercai lo sguardo complice di mio fratello, ma trovai solo un ragazzino affamato intento a sbocconcellare crackers col formaggio. Possibile che non ne avesse mai abbastanza?
Cercai supporto nel cibo e cominciai a mangiare la minestra, forse per guadagnare i secondi di tempo necessari a riordinare le tante idee che mi frullavano nella mente.
«Mh…bene, sì. Solite cose.» alzai le spalle fingendo distacco e disinteresse.
«E’ assurdo che non pensino ad altro.» lo vidi accendersi «Humpsey qui, Humpsey lì. C’è qualcuno in ufficio che ne parla ancora nonostante gli alieni ci siano appena planati sul culo.»
«Tesoro, il linguaggio.» mamma, tornata in cucina, prese posto come capotavola e si riempì il bicchiere d’acqua.
«Ma’» quando Martin aprì bocca piccole briciole di crackers gli scivolarono dalle labbra sul tavolo.
«Niente da fare, Martin» lo precedette lei. Bevve un sorso d’acqua celando appena il suo volto irrigidito, quindi tornò a parlare «tu domani resterai a casa. E lo stesso discorso vale per tuo fratello, è chiaro?»
Annuii, e presto si rassegnò a farlo anche mio fratello, senza tuttavia nascondere la sua contrarietà.
«Non mi sembra il caso che tu vada a scorrazzare in periferia.
A fare cosa, poi? Resta a casa e studia, ottimizza i tempi e approfittane della sospensione delle lezioni.»
«Fai come tua cugina Lizzie.» invece aggiunse papà. Io sorrisi.
«Papà» dissi «Ancora con questa storia…Lizzie si è laureata almeno quattro anni fa.»
«Appunto. Visto? Ha studiato.»
«Voi potete uscire di casa e io no?» si intromise Martin.
«Esatto.» rispose papà.
«Esatto.» fece eco l’altra.
Mart sospirò rassegnato. Era stato sconfitto. Ancora.
«Theo cosa c’hai?» fu mamma a farmi una domanda, questa volta.
«Niente, sono solo un po’ stanco.»
«Ci credo, vi hanno tenuti in questura almeno tre ore, è impensabile! Dovrei mandare una mail di richiamo. Sì, penso che lo farò.»
«Mamma, non ce n’è bisogno.»
«Decido io quando c’è bisogno di qualcosa oppure no. Mangia, che si fredda.»
«E’ già freddo.»
«E allora scaldalo!»
«Non mi va.»
«Ho lavorato tutto il giorno, Theodore. Hai idea di quanto la gente sia impazzita per questa storia? No che non ne hai idea, te lo dico io. Mamma ha lavorato tutto il giorno e nonostante questo si è fatta in quattro per prepararvi la cena. E ora mi ringrazi in questo modo?»
«E ti saresti pure dovuta fare in quattro per cucinare questa cazzo di zuppa acquosa?»
«NON PARLARMI IN QUESTO MODO, THEODORE! Calv digli qualcosa!» cercò aiuto in mio padre, come sempre.
«Hai sentito tua madre.» si limitò a dire lui, come sempre, afferrando con le mani simili a ruspe una manciata di french fries al centro della tavola. Era la sua spalla perfetta.
«Non ho più fame.» dissi alzandomi da tavola «Posso andare?» presi il piatto.
«Fai come ti pare. Tanto fai sempre come ti pare. Ormai io e tuo padre abbiamo perso le speranze. Sempre in giro con quell’altra ragazza che Dio solo sa chi l’ha educata. Hai sentito come ride? E come parla! Non si addice ad una ventenne, sembra più una camionista. Ma che dico camionista, una boscaiola! Oh Calv, dovresti sentirla, la prima volta sono rimasta sconvolta…»
In tutta franchezza non seppi neppure più se stesse continuando a parlare con me o meno. Ebbi l’impressione che non le importasse più di tanto; in fondo a mamma bastava parlare, e solo raramente esigeva di essere ascoltata.
Parlare, imporsi e criticare. Beata lei che ne aveva voglia.
Ne avevo avuto abbastanza di questi teatrini, davvero. Il pensiero che il giorno seguente sarei sparito definitivamente mi fece sentire leggero, vivo.
Martin mi guardò di sbieco chiedendo silenziosamente aiuto.
‘Non lasciarmi solo’, mi diceva con gli occhi mentre mamma continuava a parlare. Un tumulto di parole, come massi che rotolano giù dalla fiancata di una montagna. Mamma lo tirò dentro al discorso obbligandolo a darle una conferma di ciò che stava blaterando, non ricordo a quale argomento si fosse agganciata.
Vidi Martin annuire addomesticato e affondare la testa nel piatto già vuoto.
Mollai tutto e me ne andai al piano di sopra.
Ad ogni scalino consumavo un pensiero.
Ad ogni scalino realizzavo un nuovo desiderio.
 
Sdraiato sul letto di camera mia, fissavo per l’ultima volta il soffitto sotto al quale avevo sprecato la maggior parte del mio tempo da terrestre. Sospirai, seriamente poco convinto di tutte le decisioni prese fino a quel momento, nonché esasperato dall’idea di non poter più tornare indietro. Chiusi gli occhi lasciandomi cullare dai rumori provenienti dall’esterno, per lo più fruscii di foglie e sporadici passaggi di automobili. Non avevo voglia di accendere la tv. Non ancora. Per il momento ne avevo avuto fin troppo. Ero in sovraccarico.
Stupida mamma’. ‘Stupido papà, stupidi tutti’.
Accarezzai la maglietta là dove sulla pelle mi avevano attaccato, con del nastro adesivo, piccoli microfoni e ricetrasmittenti. Sbirciai in direzione della finestre con il presentimento – e la paura – che da un momento all’altro chiunque sarebbe potuto entrare per potermi spiare, aggredire o peggio ancora portar via prima del dovuto.
Cosa succederà domani?
Sollevai appena il bacino per poter tirar fuori dalla tasca posteriore un foglio spiegazzato. Lo aprii e lo portai sopra il mio viso, parallelo al corpo sdraiato.
Osservai l’elenco scritto ordinatamente su tutto il foglio, cominciando dalla metà che non avevo ancora letto:
 

NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO PORTARE CON Sé ALCUN EFFETTO PERSONALE CHE POSSA DESTARE SOSPETTI IN TERZI;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO PARLARE DELLA PROPOSTA CON TERZI, IN NESSUN MODO E CHIUNQUE ESSI SIANO;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO FAR SORGERE DUBBI IN TERZI, DI NESSUNA NATURA E CHIUNQUE ESSI SIANO;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO AVERE RIPENSAMENTI O INDUGI;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO LASCIARE LETTERE, SEGNALI, MESSAGGI D’ALCUN TIPO;
NON è ASSOLUTAMENTE PERMESSO SALUTARE TERZI PRIMA DELLA DIPARTITA;
 
OGNI VIOLAZIONE DEI PUNTI SOPRACITATI VERRà PUNITA IN MANIERA ESEMPLARE E DEFINITIVA.

 
In maniera esemplare e definitiva.
In. Maniera. Esemplare. E. Definitiva.
All’estremità più bassa, nell’angolo destro, la mia firma scarabocchiata siglava il tutto.
Sospirai, ripiegai il foglio e lo infilai nella tasca anteriore dei pantaloni. Scesi dal letto e mi incamminai verso il corridoio. Lì mi fermai a circa metà, alzai lo sguardo e spinsi il corpo verso l’alto, per poter afferrare un anello metallico dipinto di bianco, lo stesso colore del soffitto.
Con il clangore di un antico argano la botola rivelò una piccola scala verticale e di legno: il passaggio verso la soffitta.
Come sempre mi premurai di saltare il secondo gradino ricordandolo poco sicuro. Sentii scricchiolare sotto ai miei piedi il quinto e inaspettatamente anche il settimo, segnato dal lasso di tempo trascorso dall’ultima mia visita. Da quanto tempo non ci salivo? Forse troppo.
Quando raggiunsi la soffitta mi ritrovai inghiottito dalle tenebre. Oltre alla luce proveniente dal piano inferiore, che illuminava appena la zona circostante la botola, a dar vita alla stanza erano anche i raggi dei lampioni esterni, magistralmente filtrari dal vetro sudicio dell’unica finestra presente, sul lato opposto a quello in cui mi trovavo.
Era una grande sala, polverosa e buia.
Inspirai l’odore di umidità e di legno marcio, di vecchio e di stantìo. Lo sentii chiaramente prudere nelle narici. Portai lo sguardo sullo scatolone di fronte ai miei piedi e lo aprii. Una coltre di polvere mi costrinse a tossire, mentre col tatto distinsi nella scatola vestiti di tessuti differenti e probabilmente di mamma e papà. Quando mossi qualche passo in direzione della finestra, urtai una sedia a dondolo e mi piegai in avanti perdendo l’equilibrio. Feci un gran baccano. La mia mano schiacciò con forza la superficie sporca di un comodino alla mia destra, quindi vi strisciò sopra. Sentii le dita ingarbugliarsi in una rete filamentosa, solleticate e pizzicate da quella sensazione spiacevole che mi scosse fin lungo la colonna vertebrale. Schiaffeggiai la mano sporca con quella pulita. Lo feci in maniera isterica, compulsiva, sentendomi già ricoperto di ragni dalla testa ai piedi.
Affrettai il passo per raggiungere, in una cacofonìa di scricchiolii incerti, il lato opposto della sala. Mi fermai sotto alla finestra e la aprì, felice di venire a contatto – seppur indirettamente – col mondo esterno. Alle mie spalle le ombre danzarono nascondendo chissà quali segreti.
Ho sempre amato andare in soffitta, specialmente da piccolo. Un luogo così con la giusta creatività può tramutarsi in un lussuoso bazar delle Mille e Una Notte.
Quando correvo in quella stanza non ero più Theodore. Quando ero Indiana Jones potevo fare qualunque cosa, dal salvare il mondo intero al non essere giudicato da mamma e papà. E quando dissotterravo qualche magnifica reliquia, che nella realtà altro non era che una vecchia latta impolverata, tra le mie mani assumeva le fattezze di vecchi gioielli sepolti dal tempo. E allora mi sentivo importante, unico, invincibile.  E non importava cosa pensasse la gente, perché dentro di me sorridevo. ‘Se solo sapessero chi sono realmente’, pensavo con la mia mente da bambino ‘cambierebbero idea’.
A distanza di anni mi ritrovai a pensarci in quella stessa soffitta. Tante cose erano cambiare da allora. Io in primis non ero più lo stesso.
Se solo sapessero chi sono realmente’ pensai mentre sbirciavo il cielo nero oltre la finestra ‘forsegli alieni  non  mi vorrebbero portare con loro sull’altro pianeta. Non sono poi così speciale’.
Pensai a mamma e papà, a Martin e Cassie e Erv e i miei compagni dell’università.
Se solo sapessero chi sono realmente’ pensai scavalcando la finestra e mettendo il primo piede sulle tegole rese scure dalla notte ‘forse tutti loro capirebbero che sotto sotto posso essere importante anch’io. Se gli alieni mi hanno voluto è perché sono speciale. Forse miimpedirebbero di  partire. Forse piangerebbero. Forse.
Perché tutto questo? Perché adesso? PerchéIo?
 
Gattonai lentamente, muovendomi di un solo metro in un minuto circa. Ora potevo sentire il ronzìo delle pale degli elicotteri che riempiva la notte.
Mi sdraiai sul tetto, quindi strofinai la schiena contro le tegole per una decina di secondi prima di trovare la posizione più comoda. Le sentivo premere dure e porose contro la pelle. Ad una manciata di metri alla mia sinistra, i pannelli solari mi pareva emettessero un sottile e flebile sibilo, come se stessero respirando immersi in un sonno profondo.
La luce gialla dei lampioni irrorava la strada in maniera fioca, conferendo all’ambiente un aspetto fumoso e suggestivo. Respirai a fondo e fissai il non-cielo sulla mia testa: se non avessi saputo della presenza dell’astronave forse avrei potuto scambiarla per una normale notte senza stelle. Il globo bianco alla mia destra, tuttavia, come un faro nella tempesta mi richiamava con l’attenzione verso Buckingham Palace.
Che stessero parlando con la regina proprio in quell’istante?
Mi grattai il ginocchio, forse punto da una zanzara. La frescura della notte mi costringeva di tanto in tanto a rinchiudermi su me stesso. Dopo tutto era pur sempre ottobre.
Ci misi un po’ a capire che quello sul ciglio della strada non era un oggetto ma bensì una persona: il connubio miopia-penombra non mi veniva certo in aiuto. Proprio lì, appoggiato al cancello della villa degli Humpsey ormai spogliata dei nastri gialli della polizia, un uomo in un pesante cappotto scuro stava fumando un sigaro. O forse era una donna corpulenta, e quella era una pipa.
Mi sembrò di vederlo alzare il viso nella mia direzione. Mi sembrò anche di scambiarlo per uno spettro, un’ombra inquietante. Mi sembrò qualunque cosa, perché alla fine di quella giornata infinita non ne potevo davvero più di tutto ciò che mi aveva travolto e stravolto.
Che fosse uno di loro? Mi stavano tenendo d’occhio?
Col fiato pesante, diedi un’occhiata attorno: dietro la tenda dei McCoughney forse qualcuno mi stava guardando. Dentro la macchina posteggiata lì, in fondo alla via, qualcuno poteva scattarmi delle foto. E poi dietro al bidone dell’immondizia, sulla cima dell’albero nel giardino sul retro, perfino nella cuccia del cane dei Carvey, nonostante da lì non riuscissi neppure a vederla.
La verità è che potevano essere dappertutto, che potevano fare di me quello che volevano. La consapevolezza mi burciava dentro. Quella situazione mi stava stretta. Quella Pelle mi stava stretta. Quella stessa pelle che cominciai a grattare attraverso la maglia, proprio lì sul petto dove il nastro adesivo tirava i pochi peli bruni.
Sono in gabbia.
Mi faranno sparire.
Mi faranno sparire.
Mi faranno sparire.
«THEODORE HUGHES!»
La voce di mia madre mi riportò così bruscamente alla realtà da farmi sobbalzare. Dio solo sa come feci a restare sul tetto senza scivolare giù, dritto tra i vasi di gerani.
«E stai attento!» mi rimbeccò «Theo, perché devi sempre farmi preoccupare in questo modo, eh? Lo sai che non voglio che tu salga qui, quante volte te lo devo dire? Vieni qui. Cosa ci fai sul tetto, siete tutti impazziti, forse? Aveva ragione tuo padre.»
Sbuffai sconsolato e già tristemente consapevole che questa mia ennesima battaglia guerra sarebbe finita con una sconfitta. Privo di energie per poter ribattere, gattonai verso la finestra e feci per rientrare in mansarda.
«Si può sapere cosa stavi facendo?»
«Niente, mi riposavo»
«E mi spieghi perché allora abbiamo speso i soldi per un letto, se per riposare te ne vai là fuori?» la sentii sospirare sconsolata, nella penombra rischiarata dalla luce esterna. Mi riempii nuovamente le narici dell’odore di marcio. Vidi mille emozioni scambiarsi il posto sul volto di mia madre, segnato da rughe espressive che da sempre avevo attribuito al suo continuo imbronciarsi. I riflessi dorati dei lampioni le bagnavano la pelle conferendole un aspetto esotico, etereo.
«Theodore…cerca solo di non fare così. Non in questi giorni, almeno.»
«Non ho fatto un cazzo!»
«Ecco, non si può parlare con te! Ti stavo dicendo una cosa in maniera tranquilla!»
«Tu non sei mai tranquilla!»
«Sono tua madre, e tu non mi rendi di certo il compito più semplice. Cosa vuoi che faccia se vedo mio figlio sul tetto, i salti di gioia? Pensavo volessi buttarti! Theodore è un periodo difficile.»
«Non chiamarmi Theodore. Mi dà fastidio.»
«Ecco, vedi? Adesso nemmeno più col tuo nome posso chiamarti.»
«Senti ma cosa vuoi, eh? Non potevi lasciarmi a fare i cazzi miei sul tetto?»
«Modera il linguaggio, Theodore, resto pur sempre tua madre.»
«Sì insomma, hai capito.»
«Ti ho portato da mangiare.»
Seguii il suo sguardo e vidi il toast nell’ombra, poggiato in un largo piatto, su un comodino polveroso e sgangherato. Da lì, non ebbi più il coraggio di rialzare gli occhi. Mi concentrai piuttosto sulle mie budella, in pieno cataclisma. Le sentii aggrovigliarsi come serpenti, mosse dal rimorso, annodarsi e contorcersi sotto pelle. Mamma si era mossa per me e io mi ero ostinato come sempre a trattarla nel peggiore dei modi.
Sentii pesare sul mio viso il silenzio afoso e polveroso di quella stanza.
Ma in fondo non era colpa mia. Era colpa sua, che aveva aperto il discorso con quel fare brusco. In alternativa non avrei fatto così. Io mi ero solo adattato, ecco cosa avevo fatto.
Eppure…
«Grazie.» dissi soltanto, sentendo la mia coda strofinare tra le gambe.
«Vedi di finirlo, ok? Non hai mangiato niente a cena.»
L’aria si era distesa, riappacificata.
«Grazie mamma.» ripetei.
«Ah, adesso mi dici grazie. Dovresti chiedermi scusa, altro che.»
Di primo acchito mi venne da rispondere male, ma per amor di quiete mi trattenni e strinsi le dita contro il bordo arrotondato del piatto piano. Mi costrinsi ad un respiro profondo e silenzioso, quindi accennai un sorriso e guardai oltre la finestrella.
«Mamma, mi vuoi bene?»
Forse per suggestione, percepii la sua sorpresa pur non guardando il suo volto o i suoi movimenti. Sentii la sua energia vibrarmi contro il corpo.
«Che domande fai? Io e papà ti vogliamo bene, lo sai.»
«Non papà. Tu. Tu mi vuoi bene?»
«Tesoro, il fatto che discutiamo è…insomma, hai un carattere difficile, ma non vuol dire che non ti voglia bene.»
Sentii i nostri cuori in sintonia, ma non era abbastanza. Per me non era mai abbastanza. Non ho mai saputo quando fermarmi.
«Ma preferisci Martin.» dissi trattenendo lo sguardo verso l’esterno.
«Theo, non fare il bambino. Siete tutti e due miei figli.»
«Ma preferisci Martin.» dissi ancora.
«Non è che preferisca Martin, però…»
«Ok dai. Grazie per il toast.»
Però. Aveva detto ‘però’.
La guardai in viso e scavai nei suoi occhi immersi nell’ombra.
La odiai, seppur solo per un momento.Lo stress mi stava cambiando. O forse stava solo facendo emergere quello che ero realmente?
Il suo sguardo dispiaciuto incontrò il mio, e allora capii che nonostante tutto mi voleva bene, questa volta per davvero. Oltre le parole, oltre le preferenze ed oltre i danni.
Sospirai e feci per scavalcare nuovamente la finestra.
«Non farti male, mi raccomando. Non farmi preoccupare.»
Annuii, felice del fatto che avesse deciso di lasciarmi andare.
Ero libero di andare. Ero libero. Libero.
La vidi allontanarsi mentre mi sporsi con la parte superiore del mio corpo verso l’interno, per recuperare il piatto e portarmelo fuori.
«Ah, mamma.»
«Sì? Dimmi!»
Era speranza quella che avevo sentito?
«MhNiente…domani vado con Cassie sulle colline, volevo dirtelo.»
Sentii il suo sospiro nella polvere.
«Ok. Proverò a dirlo a tuo padre. Fai come vuoi, Theo. Basta che fai attenzione, ok? Io mi fido di te, so che sei un ragazzo intelligente, anche se a volte ti perdi un po’ in quello che fai e non usi propriamente un linguaggio educato. Se solo non facessi così…»
«Mamma, va bene. Basta, davvero. Grazie.»
«Mh. Prego. Dai, buona notte. Mangia.»
Seguii i suoi passi fino a quando lo sguardo me lo permise. Ne saggiai l’essenza anche con l’udito, prima di tornare completamente all’esterno e strisciare verso la posizione assunta prima del suo arrivo. Addentai il toast e sentii il formaggio fuso rafreddato appiccicarsi al palato. Il cuore del pane ancora tiepido contrastava con il freddo della spessa fetta di prosciutto. Sembrava gomma, ma era dannatamente buono. Il toast più buono che ricordo d’aver mai mangiato.
Mamma mi voleva bene. Mamma si fidava di me.
E quello era stato il mio addio.
Sentii il cuore svuotarsi e lo stomaco riempirsi mentre, con gli occhi assottigliati, sbirciavo in direzione della strada.
E lui era lì: l’uomo col cappotto mi stava guardando.
 
Quando il cellulare suonò nella tasca dei miei pantaloni per poco non ebbi un infarto. Era Ervin, e salvo i saluti iniziali mi persi gran parte dei suoi discorsi, concentrandomi piuttosto sul frinire di una cicala, un rumore atemporale e pieno di sfumature.
«E quindi niente, è andata così.» disse dall’altro capo della cornetta, mentre con lo sguardo mi perdevo nel grande manto nero del cielo. Talvolta sporadiche luci colorate facevano capolino nella notte, disegnando figure geometriche in flotte ordinate. Mi parve di riconoscere triangoli e qualche volta anche dei quadrati.
«Mi stavi ascoltando?» disse Erv, richiamando la mia attenzione.
«Eh? Sì, la festa a Kensington Gardens.»
«Vedi allora che non mi ascolti? Non è una festa, è una gran noia, e dicono che la festa comincerà presto, ma alla fine mi sa che conviene andarsene altrove. Ho sentito che hanno organizzato un ritrovo qui vicino. L’ho letto su uno dei miei forum, è ad Hyde Park e pare ci siano anche esponenti importanti, addotti e cose del genere. Tipo che allora potrebbero realmente mettersi in contatto con gli alieni, no? Qui pensa che non hanno neppure le antenne, o comunque le apparecchiature adatte. E pensare che ho pagato cinque pounds per questa merda e un paio di quadretti di pizza pessima. Potevano prenderla a Da Spago, che è qui dietro, già che c’erano. Ci siamo stati insieme, no? Quella pizzeria molto cozy…»
«Erv, mi stai facendo sanguinare le orecchie, giuro.»
«Sei sempre il solito. Comunque ti avevo chiamato per chiederti se ti andava di fare un giro insieme, domani. Potremmo andare nella zona del centro. Ah, hai saputo quella roba sugli Stati Uniti?»
«Sì, ho letto su internet. Che gran macello.»
«Ah, e Avery è finito in carcere: dicono abbia picchiato a sangue la madre.»
«Avery chi?»
«Avery Abbott, quello dell’erboristeria sotto casa tua.»
«Come fai a conoscere…lascia perdere, ho capito. Comunque non dovresti stare in giro tutta la notte a inseguire gli alieni. Ai tuoi cosa hai detto?»
«Che sono da te, ovvio.»
Già.
«Come ho fatto a non pensarci?» dissi alla cornetta, facendo ruotare gli occhi «Che stupido. Comunque io te l’ho detto, poi non dirmi che non avevo ragione.»
«Come sei pesante, Theo. Prima non eri così.» sentii Erv sbuffare.
«Comunque domani quando…?» dissi
«Cosa?»
«Il giro.»
«Di mattina, no…?»
Quando dovevo uscire con Cassie.
Mi concessi qualche attimo di silenzio, durante il quale mi resi conto del fatto che, chissà da quanto, non si sentivano più gli elicotteri volare nel cielo.
«Quindi?» incalzò mettendomi fretta.
«Ok, ok, vada per domani mattina.»
«Ok. Vado, che qui sta cominciando la festa. C’è…Oh mio Dio, che figata!»
«Cosa?»
«Sìììììì!»
Fine chiamata.
Osservai lo schermo retroilluminato del telefono con un’aria piuttosto confusa e sconsolata. Così dicevo addio anche ad Ervin, dopo una vita trascorsa insieme. Se solo non avessimo gettato via i nostri migliori anni dietro ai videogiochi.
La luce si spense. Fissai lo schermo nero nel nero della notte.
Se solo avessimo condiviso più esperienze assieme.
Se solo avessi accettato di andare insieme in campeggio l’anno prima, in Galles.
Se solo non fosse stato Così stupido da mettere fine Così presto alla chiamata, forse lo avrei potuto salutare meglio.
Sapevo benissimo di aver già accettato l’invito di Cassie, ma perché dare buca al proprio amico quando si è sicuri di morire il giorno dopo? Gli avevo risparmiato una delusione, almeno per quella volta. Aveva ragione: senza volerlo nell’ultimo periodo ero irrimediabilmente cambiato nei suoi confronti.
Erv, se solo avessi capito.
Oh, Ervin, così ingenuo e così buono.
Cassie, così bella, così indispensabile.
Martin, così odioso e così mio.
Mamma, così dura e così motivata ad esserlo.
Papà, così in ombra e così impegnato.
Londra, così magnifica e così totalizzante.
Cosa sarebbe rimasto di me a tutti loro? Cosa sarebbe rimasto di me nel futuro della Terra?
Sarei solo svanito nella polvere per rinascere altrove.
No. No di certo. Non ero un eroe. Allora ero solo un ragazzino smarrito alla ricerca della mia strada.
Oh, Vita, così veloce e così imprevedibile.
 
Questo fu il mio addio.
Così morivo e così rinascevo.
 
Sms - Numero Sconosciuto - h. 22.57
Torna in casa e non destare sospetti. Stai esagerando. Non tirare la corda. Vai a dormire. Domani mattina qualcuno verrà a prenderti. Lascia tutto così com’è. Verrai rifornito di tutto il materiale necessario. Non portare con te nulla. Chiaro? Da questo momento non esisti più. Buona fortuna.

   
 
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