Nine little niggers...
Nove piccoli negretti
fino a notte alta
vegliar,
uno cadde
addormentato
solo otto ne restar.
La missione era iniziata decisamente male e la scelta di
dividersi per indagare singolarmente le era sembrata davvero pessima.
Insomma,
erano dieci...potevano almeno formare delle coppie.
Cosa che non era stata fatta.
Ma la giovane Rebecca non aveva protestato. Non voleva
sembrare una bambina agli occhi dei colleghi. Era già
difficile
confrontarsi ogni giorno con loro, più grandi e con
più esperienza.
Dopotutto, cosa pretendere da lei?
Era solo una ragazzina con l’unico compito di curare le
persone...non di andare in battaglia.
La ragazza si fermò un momento per guardarsi attorno. Stava
attraversando un lungo corridoio calpestando una soffice moquette rosso
fuoco.
Il colore delle pareti, un verde antico molto intenso, era reso
visibile grazie
alle svariate lampade che si alternavano tra una porta e
l’altra, poggiate
sopra eleganti mobiletti d’epoca in perfetto stato. Talmente
perfetto che la
ragazza si chiese se quella casa fosse davvero disabitata.
La risposta non tardò ad arrivare...anche se sotto forma di
lamenti sommessi.
Si voltò indietro ma non vide nulla. Udì solo
degli strani
passi strascicati.
“Chi c’è?”
Nessuna risposta.
Solo qualcuno che svoltava l’angolo che poco prima aveva
passato anche lei.
Rebecca aguzzò la vista, abbagliata dalla luce di una
lampada posta accanto a lei mentre un sagoma scura si stagliava in
fondo al
corridoio.
“Ma chi è..? Joseph, sei tu? Guarda che non
è affatto
divertente!”
Sfortunatamente, non si trattava di Frost.
La sagoma riprese la sua lenta avanzata e non appena
raggiunse il primo alone luminoso diffuso da una delle lampade la
ragazza
sussultò violentemente.
La sua giovane e brillante mente la classificò
immediatamente come “morto vivente” o,
più semplicemente, “zombie”.
Ne aveva visti tanti di film con protagonisti quegli esseri
non morti ma nemmeno vivi. Non era difficile riconoscerli: il colorito
terribilmente pallido o tendente al verdognolo, la pelle marcescente e
cascante, lo sguardo vacuo e le braccia tese in avanti o tenute
penzoloni lungo i fianchi.
Un campanello d’allarme iniziò a trillare nella
sua testa ma
Rebecca non si mosse, intenta a cercare una spiegazione logica a quanto
aveva
di fronte.
Non poteva esistere sul serio.
Solo quando lo zombie arrivò a qualche metro di distanza da
lei, investendola col suo tanfo di cadavere, si decise a voltarsi e a
iniziare
a correre.
Se c’era una cosa che aveva imparato da quegli stupidi film
era che quelle creature non si muovevano velocemente, dato la figura
piuttosto
decadente.
Non si fermò finché anche l’ultima eco
di quella macabra
sinfonia di morte non si dissolse nell’aria. Allora
rallentò il passo e l’unica
cosa che sentì furono i furiosi battiti del suo cuore che
cercava di pompare la
quantità maggiore possibile di ossigeno fino ai polmoni per
permetterle di
riprendersi. Anche le gambe però reclamavano un
po’ di tregua dopo quelle ore
di ininterrotta camminata. Così, imboccato
l’ennesimo corridoio, si fermò di
fronte ad una porta. Soffermò a lungo lo sguardo sulle
curiose decorazioni
incise con maestria sul legno scuro, poi ruotò la maniglia e
l’apri con
cautela.
All’interno, solo il buio.
Tese le orecchie per capire se doveva attendersi qualche
altra sorpresa. Poi, escluso ciò, fece qualche passo avanti.
Fece passare
una mano rasente alla parete in cerca di un interruttore e
andò invece a sbattere
contro un tavolino facendo rovesciare qualcosa al di sopra di esso.
Almeno aveva trovato una lampada.
Provò ad accenderla e, dopo qualche lampo incerto, quella
gettò una calda luce tutt’intorno permettendo
così alla ragazza di
capire dove si trovava.
Per prima cosa Rebecca chiuse la porta lanciando
un’imprecazione al cielo per la mancanza di un chiavistello
per bloccarla. Sospirò
cercando di mantenere la calma e seguitò a guardarsi intorno.
Si trovava in una camera da letto costituita da mobili di
legno scuro sormontati alcuni da bianche statuine di porcellana, altri
da una
gran varietà di centrini di morbida lana, pizzi e merletti.
Le pareti erano
rivestite da una tappezzeria beige, macchiate qua e là da
qualche quadro
raffigurante paesaggi e nature morte. Al centro della stanza spiccava
però il
vero pezzo forte: su di una pedana che fungeva da scala stava un enorme
letto a
baldacchino che avrebbe fatto tranquillamente concorrenza a quelli di
tutte le
principesse che Rebecca aveva sentito nominare nelle favole quando era
bambina.
Si avvicinò di più al mobile attratta dalla sua
grandiosità e dalle minuziose
decorazioni incisevi sopra, in linea con quelle della porta.
Ammirò il pesante
copriletto dai ricami dorati estremamente elaborati su uno sfondo
bordeaux.
Sembrava molto comodo...e lei era tanto stanca.
Se voleva continuare ad esplorare quella villa doveva pur
riposarsi un attimo.
Si arrampicò sul materasso senza curarsi di sfilare gli
anfibi. Non ci sarebbe stata molto, giusto il tempo di rilassare un
po’ i
muscoli. Vi gattonò sopra fino a raggiungere i due
guanciali. Erano così
morbidi! Per un attimo affondò il viso in uno dei due,
beandosi di quel
contatto delicato e fresco. Poi alzò la testa, sbuffando.
“Rebecca, che ti salta in mente? Ti sembra il momento di
abbassare la guardia?” disse rimproverandosi.
Si appoggiò allora contro la testiera del letto sistemandosi
meglio i cuscini dietro la schiena. Non le sarebbe successo niente se
fosse
rimasta vigile.
Forse.
Nonostante i buoni propositi la ragazza faticò non poco a
mantenere le palpebre sollevate.
“Dai, posso farcela...devo stare sveglia. Mi riposo qualche
minuto,
solo qualche minuto...Poi esco di qui, trovo gli altri e poi...e
poi..”
E poi, cadde addormentata.
Posso immaginare ora le
vostre esclamazioni concitate...Ma
che volete farci? Ve l’ho già detto che non era
fatta per le missioni pesanti.
Ma a volte la stanchezza
può giocare brutti scherzi.
Rebecca si svegliò di soprassalto, disturbata da un ronzio
proveniente dalla lampada all’ingresso che aveva ricominciato
ad avere
problemi. Ma ciò che la turbò di più
fu il constatare che la porta era
socchiusa, quando invece lei l’aveva chiusa. Poteva essere
stata una corrente
d’aria, anche se tutte le finestre che aveva incontrato erano
chiuse e la
camera stessa ne fosse priva.
In realtà, la piccola Rebecca era scivolata in un sonno
così
profondo da non farle percepire lo scatto della maniglia che ruotava e
il
cigolio della porta che si apriva lentamente. E, soprattutto, non
aveva sentito i
passi pesanti e irregolari che avevano costeggiato il letto dove lei,
ignara di
tutto, dormiva beata.
Rebecca si sedette sul ciglio del letto e si accorse di
alcune macchie scure che andavano dall’ingresso ad un armadio
a muro, che fino
ad allora non aveva notato, con un’anta dischiusa. Anche
stavolta la coscienza
le urlò di lasciare subito quella stanza ma la
curiosità ebbe la meglio e
Rebecca avanzò fino all’armadio.
Allungò una mano e lo aprì con uno scatto. Un
corpo, semisepolto dai vestiti scivolati dalle grucce, giaceva in un
angolo.
Allora Rebecca si decise ad ascoltare la sua coscienza...ma ormai era
tardi.
Mentre il tizio nell’armadio si rianimava con qualche
brontolio,
altri tre zombie fecero capolino dalla porta, bloccando così
l’unica via di
fuga.
Rebecca li guardò un
momento, disgustata, poi fece uno scatto verso di loro nel
tentativo di
confondere i loro sensi bacati e poterli aggirare.
Ma chi si trova tra le
braccia della morte cosa altro può temere?
I quattro avanzarono inesorabili verso la ragazza che, non
sapendo cosa fare, salì nuovamente in piedi sul letto in
preda al panico.
Era in trappola, definitivamente.
Se, alla fine di tutto, qualcuno avesse mai avuto
l’intenzione di tornare nella villa in cerca del
più giovane medico del
Dipartimento, avrebbe trovato solo un corpicino esile disteso
scompostamente su
un elegante e grandioso letto, degno proprio di una principessa.
Ma stavolta
nessun principe azzurro, ammesso che avesse
avuto il coraggio di baciarla, sarebbe riuscito a svegliarla.