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Autore: LawrenceTwosomeTime    14/08/2012    0 recensioni
Gente, questa è pura follia.
Ma è una follia lucida e calcolata.
È speranza.
È disperazione.
È tutto quel che vi può venire in mente.
Genere: Demenziale, Generale, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Cos’è questa follia?”

Avevo trascorso due giorni a negoziare con l’umidità dell’aria, l’erosivisi ventale, la procacità di femori liposoluti tampinati d’appendici umane.
Alloggiavo in un bell’alberghetto provvisto di tutto e mi ero già fatto qualche amico – più che altro, si trattava di conoscenze ricorrenti.
C’era un tizio dal volto talmente anonimo che pareva privo di lineamenti. Il suo nome era Wishaw Hatred, ed era davvero un personaggio strambo: indossava un berretto di lana grigia che aveva l’aria di tenere troppo caldo, e quando camminava, lo faceva sempre rivolto all’indietro. Mi stava simpatico perché non chiedeva mai “Come va?”, bensì “Come sto?”; al che io rispondevo: “Come uno che sta per avviare la lavatrice e scopre di essere una lavatrice”. Al che lui sorrideva e non lo vedevo più per il resto della giornata.
La proprietaria, una Vergine di nome Andromeda che dimostrava il doppio dei suoi anni e passava le giornate a titillare le vergogne di un gatto con una macchia bianca sull’occhio sinistro, sosteneva che fosse nato in qualche remota isola dei Caraibi o giù di lì. Il fatto che parlasse italiano non stupiva nessuno: era come svegliarsi in un corpo di uomo sentendosi donna – principio base di tanta parte dell’omosessualità, ma ovviamente non di tutta.
Poi c’era un figuro di cui non riuscivo a ricordare il nome, cosa piuttosto snervante dato che ero sicuro si trattasse di un infimo appellativo. Non sembrava molto in sé. A quanto ne sapevo era – o era stato, chissà – un giudice che aveva infilato le mani nell’impasto sbagliato, e nessun sapone, per quanto aggressivo, l’avrebbe mai ripulito da quell’onta.
Barba incolta e capelli lunghi, continuava a bofonchiare che l’albergo era nella sua testa, che era la sua testa, e che l’uscita si trovava da qualche parte nei sotterranei.
Non ho mai appurato se avesse ragione. Cioè, magari era davvero così, ma chi sono io per arrogarmi il diritto di smentire ciò che ritengo giusto?

Ospiti a parte, il posto era a posto, se ho reso l’idea.
Quel dì del dato mese stavo sognando di camminare ignudo sul lungomare. Ma non era un sogno: stavo davvero camminando ignudo sul lungomare.
La presa di coscienza mi disorientò un momento, subito rimpiazzata da una presa di corrente sullo stato corrente: anche la gente era nuda dalla testa ai piedi.
“Forse sono finito nel sogno di qualcun’altro”, pensai. Non era una spiaggia di nudisti, o meglio lo era, ma di solito nessuno stava nudo. La colpa si attribuiva a una sorta di figura pagana denominata “Il Ricamatore”.
Il Ricamatore colpiva solo chi giaceva supino sulla sabbia, occhi chiusi e mascella rilassata. Nessuno che avesse gli occhi aperti l’aveva mai visto di persona.
Gli sventurati si limitavano a udire una voce dallo spiccato accento arabo, qualcosa tipo: “Amico, vuoi io insegna cos’è vero dolore?”
Quelli di solito rispondevano “No” per una sorta di riflesso condizionato, e subito dopo si ritrovavano: se bambini, un polipoide nel culo; se ragazzi, un piercing sul frenulo; se ragazze, una moneta rovente sul grilletto; se uomini, circoncisi (se già circoncisi, deprivati dei capezzoli); se donne, incinte al nono mese (se già incinte, affette da precoce depressione post partum).
Di conseguenza, i fruitori della spiaggia erano tutti piuttosto guardinghi, se non irritabili. Poi notai altre cose strane: nella fascia mediana del litorale era stato acceso un immenso falò, che con quaranta gradi all’ombra non si poteva proprio dire che fosse necessario. E i nudisti gli ballavano attorno. Gli ombrelloni, le passatoie, i muretti e i palazzi che fiancheggiavano la costa risplendevano di una moltitudine di lucine colorate, piccoli neon, spoiler intermittenti e diavolerie elettriche di ogni sorta. Con il sole a picco sul mare. A un angolo della spiaggia, una bancarella impregnata di vapore serviva tazze di punch. Il quadrante digitale all’entrata della zona balneabile segnava la mezzanotte.
“Cos’è questa follia?”
“Questo è il Giorno della Notte”
A parlare era stata una deliziosa pulzella nel fiore degli anni, come si usava dire una volta, cioè un gran tocco di figa, se posso permettermi, che come tutti i tocchi di figa, stava bene con indosso nient’altro che la propria pelle (alla faccia dei sofisticati fondatori del movimento “Vedo-non-vedo”, probabilmente cugini degli altrettanto cagoni sostenitori della nouvelle cuisine).
Aveva i seni sodi e piccoli, le spalle dritte, i fianchi generosi e le gambe lunghe. Vado in fregola solo a scriverlo.
“E cosa sarebbe?”, dissi, badando a contenere la vistosa reazione di trazione esercitata dal mio estensibile.
“Qui amiamo la notte”, rispose lei con un sorriso indulgente (invero, più simile al risolino impietosito di chi contempla una larva che si contorce in agonia, piuttosto che la smorfia a trentadue denti tipica delle persone che si rifugiano nell’ombra proiettata da un grattacielo di cento piani – naturalmente, questo non rispecchia con dovere di cronaca le reali dimensioni del qui presente… oh, finiamola qui).
“Amate la notte? Ma se volevate la notte, non potevate piantare un tendone? O infilarvi in una discoteca? Magari, aspettare che arrivasse un’eclissi?”
Lei continuava a scuotere il capo in segno di diniego.
“Abbiamo deciso così. Per un giorno all’anno, ci appropriamo di una notte in più. Privando la luce della sua egemonia, disturbando l’equilibrio… attenuiamo la cacofonia del sole, affermiamo il nostro libero arbitrio di esseri umani”
“È questo che scrivete nei vostri opuscoli?”
“No, niente opuscoli. Basta convincersi che è vero, e niente – nemmeno i famigerati cinque sensi – potrà opporsi alla tua verità. Io vedo la notte. Il cielo è nero e trapunto di stelle, l’aria frizzante mi accarezza i capelli”
“E tutto questo senza LSD”
“Sei un tipo divertente. Io mi chiamo Ilaria”
Le dissi il mio nome. Quella ragazza mi faceva paura come un CD dei This Mortal Coil, ma c’era qualcosa in lei che prometteva di liberarmi dalle catalogazioni, dalle etichette, da tutto. E questo, con la facilità con cui ci eravamo tolti i vestiti. Due minuti con lei, e non sapevo più cos’ero: votavo Destra o Sinistra? Credevo in Dio? Preferivo il prosciutto o le acciughe sulla pizza?
Era bello esserne all’oscuro. Era bello vivere la notte dentro di noi.
La notte che era di là da venire sarebbe sembrata ancora più nera.
  
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