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Autore: LawrenceTwosomeTime    21/08/2012    1 recensioni
Gente, questa è pura follia.
Ma è una follia lucida e calcolata.
È speranza.
È disperazione.
È tutto quel che vi può venire in mente.
Genere: Demenziale, Generale, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La luce dell’alba perforava con insistenza lo spiraglio di finestra non coperto dalla tenda.
Ignorai ostinatamente quel dettaglio, e rimasi sveglio fino all’ora di colazione.
Seppure irritato dal protratto periodo di veglia, l’accorto sguardo di cui mi glorio individuò seduta stante una gradita aggiunta al buffet della sala da pranzo. Parevano prugne nane. Un cartellino recitava: “Susine a Ripetizione”
Feci per appropriarmi di una manciata di frutti, quando una donna dall’aria stanca e il volto adornato di una veletta nero pece mi toccò delicatamente la spalla.
“Non abusarne”, disse in tono di ammonimento.
“Usale quando ne avrai davvero bisogno”
In che senso usarle, avrei voluto chiedere, ma si era già dileguata.
Decisi di infilarmi le susine in tasca e finire di fare colazione.
Uscendo incrociai la proprietaria, che con una notevole dose di nonchalance commentò il mio aspetto disordinato servendosi di una smorfia del tipo: “È finito sotto un treno o non ha mai visto un ferro da stiro?”
Giunto in spiaggia, capii che la giornata era iniziata con il piede sbagliato. Un energumeno villoso dagli zigomi prominenti e l’acconciatura minacciosamente turca occupava la MIA sdraio, che era stata appositamente riservata dal MIO albergo, il quale sorgeva – giusto per pontificare – nel MIO litorale.
“Mi scusi, quel posto sarebbe riservat…”
Una mistura male assortita di carica papaya, ananas comosus e cocos nucifera impattò contro la mia faccia.
L’invasore non si era nemmeno accorto che lo sollecitavo a tirare le tende; rivolgeva piuttosto la sua attenzione ad un giovanotto vestito da pinguino che sculettava a qualche sdraio di distanza.
“Cameriere, questo cocktail fa schifo!”
Ferito nell’amor proprio e deciso a trascorrere una mattinata piacevole, mi diressi verso il mare.
Nuotavo serenamente badando ai fatti miei, quando vidi una cosina che si sbracciava tra le onde. In una sequela di pinnate la raggiunsi, misi a fuoco la sagoma in controluce e realizzai che si trattava di una bambina non più alta di un soldo di cacio. Nei paraggi galleggiava una coppia di braccioli.
Sforzandomi più di quanto avessi immaginato, la trascinai a riva. Lo scricciolo non piangeva più, nemmeno si muoveva, pareva praticamente aver cessato le sue funzioni vitali. Riflettei quel tanto che basta per accantonare un’istintiva riluttanza e le praticai la respirazione bocca a bocca.
Dopo un po’ vidi che la bambina tossicchiava e sputazzava e cominciava a riprendere colore, e che una folla riconoscente si stava assiepando intorno al luogo del salvataggio. Solo che sentivo degli strilli disgustati, e gente che gridava “Dagli al pedofilo!” e “Porco schifoso!” e dove diamine si erano procurati le torce e i forconi, e soprattutto la parrilla – che per chi non lo sapesse è quella macchina costruita allo scopo di spararti 15000 volt dritti nei coglioni.
Riuscii a scampare sfruttando un tunnel a cui lavoravano da secoli i bimbi della catechesi parrocchiale.
Mi rifugiai nel mio ristorante preferito e ordinai una generosa porzione di paella, recapitatami con lodevole celerità dal maitre. L’infausta sorte volle che un detestabile ex-compagno di scuola mi individuasse mentre portavo alla bocca il primo boccone, coinvolgendomi in una conversazione sull’allevamento dei petauri al termine della quale il riso era freddo e il chorizo frigido.
Dedicai il pomeriggio alla ritrattistica clandestina, immortalando i turisti che avevano rinnegato l’egemonia oggettivistica delle macchine fotografiche. L’atto di disegnare possedeva l’innata capacità di ingentilirmi l’animo e appesantire di qualche grammo il mio portafoglio.
Gli insperati benefici della mia attività cessarono quando un piedipiatti dai probabili trascorsi reazionari appoggiò con studiata freddezza il suo sfollagente sul ripiano di compensato e mi ordinò di mostrargli una licenza. Licenza per cosa, gli chiesi, e lui mi smanganellò il naso e temperò le mie matite fino a ridurle a monconi di grafite.

Rientrai all’hotel con la luna storta. Era stata una giornata di merda.
Nel momento in cui sprofondai tra le confortevoli lenzuola del mio giaciglio, la leggera pressione esercitata dai corpi sferici che mi trabalzavano in tasca riportò alla mente il ricordo delle Susine.
Ne cavai fuori una e l’addentai. Non sapeva di niente.

La luce dell’alba perforava con insistenza lo spiraglio di finestra non coperto dalla tenda.
Mi persuasi a ruzzolare giù dal letto e soffocare l’ostinato bagliore. Non riuscii comunque a dormire, perché tirando la tenda avevo risvegliato una zanzara tigre a dir poco bellicosa. All’ora di colazione ero stracotto e disseminato di bubboni.
Quando scorsi gli esotici frutti denominati “Susine a Ripetizione”, il riverbero della consapevolezza mi pulsò in fondo al cranio come un colpo di gong. Ne agguantai una manciata e, passando accanto alla donna con il volto coperto dalla veletta nera, dissi: “Lo so. Stia tranquilla”
Uscendo incrociai la proprietaria, che con una notevole dose di nonchalance commentò il mio aspetto disordinato, oltre che prosciugato di una notevole quantità di sangue, servendosi di una smorfia del tipo: “Ha visitato la rocca del conte Dracula o non ha mai visto una bomboletta di Autan?”
Giunto in spiaggia, mi diressi a passo di marcia alla mia sdraio. L’energumeno era lì, schiena curva e occhi strabuzzati, visibilmente disgustato dal beverone che stava sorbendo.
Una mistura male assortita di carica papaya, ananas comosus e cocos nucifera impattò contro la sabbia, a circa dieci centimetri da dove sostavo io.
L’invasore si voltò per dirne quattro al cameriere che l’aveva servito, ma il sottoscritto ebbe la brillante idea di prevenirlo piazzandogli una mano sulla spalla e declamare nel suo pluripremiato piglio da smargiasso: “Signore, vada fuori dai coglioni. Questo posto è mio”
Cinque minuti dopo, nuotavo con entrambi gli occhi pesti, seminando una scia di sangue talmente densa che temevo di attirare gli squali; e vidi una cosina che si sbracciava tra le onde.
Prima ancora di capire cosa fosse, feci dietrofront e ripercorsi la secca fino a riva. Una folla inferocita mi attendeva come un sol uomo.
“Quell’individuo spregevole ha lasciato annegare mia figlia!”, sentivo gridare, “Se non ci fosse stato il bagnino sarebbe morta!”, e poi l’immancabile: “Dagli al negligente!”
Riuscii a scampare al Toro di Falaride sfruttando un tunnel a cui lavoravano da secoli i bimbi della catechesi parrocchiale.
Mi rifugiai nel mio ristorante preferito e ordinai una generosa porzione di paella, recapitatami con lodevole celerità dal maitre. Mi ero premurato di posizionarmi dietro un separé, cosicché nessuno potesse disturbarmi, ma purtroppo incappai in una coppia di finocchi che come me desideravano intimità, e venni coinvolto in una conversazione sull’efficacia dei lubrificanti anali al termine della quale il riso era freddo e il chorizo... bé, l’appetito mi era comunque passato.
Dedicai il pomeriggio alla ritrattistica clandestina, immortalando i turisti che avevano rinnegato l’egemonia oggettivistica delle macchine fotografiche. L’atto di disegnare possedeva l’innata capacità di ingentilirmi l’animo e appesantire di qualche grammo il mio portafoglio.
Gli insperati benefici della mia attività minacciarono di cessare quando un piedipiatti dai probabili trascorsi reazionari appoggiò con studiata freddezza il suo sfollagente sul ripiano di compensato e mi ordinò di mostrargli una licenza. Cercai di corromperlo con la promessa di ritrarre sua moglie quella sera stessa. La proposta gli riportò alla mente che la moglie l’aveva lasciato portandosi via il loro bambino di tre anni, e per scaricare la frustrazione mi spaccò sulla testa la tavola di legno, mi tolse i vestiti e mi ammanettò a un albero.

Rientrai all’hotel con la luna storta e i polsi segnati dai ripetuti tentativi di liberarmi. Era stata una giornata più che merdosa.
Addentai una Susina animato da un desiderio di rivalsa.

La luce dell’alba perforava con insistenza lo spiraglio di finestra non coperto dalla tenda.
Uccisi la zanzara parcheggiata nei pressi e soffocai l’ostinato bagliore. Mi svegliai fresco e riposato.
Agguantai una susina dal suo alveo e poi mossi verso la donna con la veletta.
“È necessaria un po’ di pratica, ho forse ragione?”
Lei ammiccò da sotto la retinatura.
“La convinzione di commettere uno sbaglio è sempre suscettibile ai punti di vista. Di solito, quando abbiamo la possibilità di rimediare ai nostri errori, è necessaria una fase di apprendimento che comporta un dolore ulteriore, a cui talvolta segue una nuova consapevolezza – ma questo non significa aggiustare le cose. È solo un modo per mettersi il cuore in pace”
“Dunque i paraculi che difendono la tesi secondo cui è impossibile modificare un fato prestabilito… sparano solo fandonie?”
“Si, abbastanza”
Uscendo incrociai la proprietaria, che non mi disse un accidenti di niente.
Giunto in spiaggia, evitai la sdraio che usavo di solito e distesi l’asciugamano in riva al mare.
Nuotavo serenamente badando ai fatti miei, quando vidi una cosina che si sbracciava tra le onde. In una sequela di pinnate la raggiunsi, misi a fuoco la sagoma in controluce e realizzai che si trattava di una bambina non più alta di un soldo di cacio. Nei paraggi galleggiava una coppia di braccioli.
Sforzandomi più di quanto avessi immaginato, la trascinai a riva. Lo scricciolo non piangeva più, nemmeno si muoveva, pareva praticamente aver cessato le sue funzioni vitali.
Chiamai a gran voce il bagnino e quello risolse la situazione con un massaggio cardiaco eseguito con competenza di causa. I genitori della piccola mi ringraziarono per aver contribuito al salvataggio. La folla radunatasi mi lanciò qualche fiore.
Mi diressi al mio ristorante preferito e ordinai una generosa porzione di paella, recapitatami con lodevole celerità dal maitre. Un mio ex-compagno di scuola che si trovava da quelle parti rischiò di rovinarmi il pranzo, ma lo blandii informandolo che a cinque chilometri di distanza si teneva un’esposizione di petauri.
Dedicai il pomeriggio alla ritrattistica clandestina, immortalando i turisti che avevano rinnegato l’egemonia oggettivistica delle macchine fotografiche. L’atto di disegnare possedeva l’innata capacità di ingentilirmi l’animo e appesantire di qualche grammo il mio portafoglio.
Gli insperati benefici della mia attività minacciarono di cessare quando un piedipiatti dai probabili trascorsi reazionari appoggiò con studiata freddezza il suo sfollagente sul ripiano di compensato e mi ordinò di mostrargli una licenza. Gli dissi che avevo un messaggio da parte di sua moglie: se faceva voto di non picchiarla più, lei e il bambino sarebbero ritornati a casa. Mi ringraziò in lacrime e si fece fare il ritratto.

Rientrai all’hotel pensando che in fondo non c’è gusto nel trascorrere una bella giornata se prima non si è sofferto un po’.
  
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