Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Padmini    23/08/2012    2 recensioni
Non solo di notte i nostri incubi vengono a farci visita. Possono manifestarsi in molte forme e in qualsiasi momento. Il punto è se siamo pronti ad affrontarli. Come possiamo difenderci dai nostri demoni? Dalle paure primordiali che attanagliano il nostro cuore? Quei quesiti senza risposta, quei timori irrazionali che, nonostante i nostri tentativi, galoppano verso di noi, come la cavalla Mare, per disturbare il sonno della nostra coscienza?
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




Tanti incubi per Sherlock! Ormai siamo al terzo per lui! Cosa volete farci! Lo vedo come una persona molto tormentata, che nasconde la sua insicurezza e il suo dolore dietro una facciata di apparente freddezza e cinismo.





 

 

 

Sherlock Holmes (III)

 

 





 

“Il tuo alito profuma di menta!”

 

 

 

Era una tranquilla mattina di primavera. Gli uccellini cinguettavano tranquilli e felici tra gli alberi, i londinesi stressati intasavano le strade e tutto sembrava andare a meraviglia.

Sembrava.

Era appunto una tranquilla mattina di primavera.

Era.

John si stava sciacquando il viso in bagno, quando sentì un rumore sospetto provenire dalla cucina. Sembrava il tipico rumore di ceramica infranta. Il dottore contò fino a dieci mentre si asciugava il viso e poi, dopo un lungo sospiro, si decise ad andare a verificare di persona cosa diavolo fosse successo nell'altra stanza.

Apparentemente sembrava tutto tranquillo. Sherlock sedeva al tavolo, esaminando con una grossa lente d'ingrandimento dei frammenti di ceramica. Frammenti di ceramica che sembravano appartenere a …

“La mia tazza!” urlò John entrando di corsa “Quella era la mia tazza nuova, Sherlock! Me l'aveva appena regalata Sarah! Perché l'hai rotta?”

Il detective non sollevò nemmeno lo sguardo dal pezzo di ceramica bianca a righe blu.

“Esperimento” disse semplicemente, come se a John dovesse bastare come spiegazione.

“Un esperimento, certo!” sbottò “Un tuo dannatissimo esperimento! Cosa vuoi scoprire adesso, di grazia?” chiese, cercando di trattenere la rabbia che però saliva a livelli preoccupanti.

Sherlock sbuffò. Evidentemente riteneva superfluo spiegare al suo coinquilino perché gli aveva rotto la tazza nuova.

“L'omicidio di Clapton, John” disse come se il seguito fosse ovvio.

John lo guardò con un sopracciglio sollevato e le braccia strette al petto. Sherlock si rassegnò a continuare la spiegazione.

“La sorella della vittima ha affermato di aver lasciato cadere la sua tazza da te alla vista del fratello morto. Sto verificando che tipo di schegge si formano quando ...”

“Ciò non toglie che hai rotto la mia tazza nuova!” urlò John interrompendolo “Potevi prenderne una delle tue o compratene una apposta!”

“La tua era l'unica che corrispondesse alle mie esigenze” spiegò calmo Sherlock.

“Potevi andare a comprartene una uguale!” protestò John.

“Noioso” ribatté il detective, abbandonando la schiena sulla sedia.

John lo guardò con sguardo furente.

“Bene” disse infine “Molto bene. Sherlock” disse con un tono di voce che non ammetteva repliche “Ho sopportato di tutto da quando vivo qui con te: parti umane nel frigorifero, il suono del tuo violino in piena notte, i tuoi esercizi di tiro al bersaglio sul muro, inseguimenti assurdi in piena notte, assassini e sicari. Tutto, Sherlock. Ho sopportato tutto questo per te. Ora, però, mi sono stancato. Non posso più sopportare il modo in cui invadi la mia privacy. Siamo coinquilini, va bene, ma non puoi permetterti di trattare le mie cose – il computer, i miei vestiti, i miei oggetti – come se fossero tuoi. Basta. Me ne vado!”

Detto questo, girò sui tacchi e si diresse a passo spedito verso le scale, per andare in camera sua, lasciando Sherlock letteralmente a bocca aperta per lo stupore.

Neanche un quarto d'ora dopo, scese nuovamente in salotto con la sacca militare in spalla, gonfia di vestiti accumulati dentro in tutta fretta.

“Addio!” disse con rabbia, poi afferrò la maniglia e sparì giù per le scale.

Sherlock lo osservò qualche istante finché non sparì e quando sentì la porta al piano terra chiudersi con un gran tonfo, si alzò di scatto per andare alla finestra. John camminava velocemente lungo il marciapiede, alla ricerca di un taxi.

'È uno scherzo' pensò mentre lo osservava 'Ora torna indietro. Ora sospirerà, capirà che con me deve portare pazienza e tornerà indietro'

Allungò il collo, agitato per quello che sarebbe successo. John riuscì ad attirare l'attenzione di un taxi, caricò la sacca sul bagagliaio e salì. Si richiuse la portiera alle spalle con un colpo secco. Sherlock non poteva sentire il rumore della portiera che si chiudeva, ma lo immaginò e quel rumore risuonò nel suo petto, lo fece vibrare e gli fece provare un dolore intenso lì dove pensava di non avere nulla.

Salì velocemente le scale per verificare che fosse vero. L'armadio era ancora aperto ed era completamente vuoto, così come i cassetti. Anche il suo portatile era sparito.

John se n'era andato.

John se n'era andato davvero.

John se n'era andato e non sarebbe tornato.

Mai più.

Chissà, magari lo avrebbe visto per caso al Bart's. No, lo avrebbe evitato come la peste pur di non vedere lui. Conosceva il 'suo dottore' abbastanza bene da capire che non sarebbe tornato sui suoi passi. Basta. Era finita. La loro amicizia era sfumata per sempre. Per colpa sua.

Colpa sua. Era solo colpa sua se John se n'era andato. Se ne rendeva conto. In effetti la rabbia del dottore era più che giustificata. Provò a mettersi nei suoi panni. Cosa avrebbe fatto, al suo posto? Forse si sarebbe comportato addirittura peggio. John era stato fin troppo paziente con lui.

Conosceva fin troppo bene quella sensazione. Quel senso di vuoto totale che gli pervase il petto lo risucchiò a sé come un buco nero.

 

Ormai doveva esserci abituato, o no? La Solitudine era una sua vecchia amica, fin da quando era bambino.

Osservava da lontano gli altri giocare al parco giochi dove sua madre lo portava ogni pomeriggio, senza sapere che per lui quell'ora d'aria era una tortura. Violet Holmes sedeva placida in una panchina e cominciava le sue attività preferite, uncinetto o lettura che fosse, non prima di aver incitato il figlio ad andare a giocare. A nulla valevano le sue proteste. Doveva andare. Lei poi non lo guardava, tanto era presa dall'ultimo romanzo rosa o dal complicato disegno di cotone, così lui doveva rassegnarsi.

Solitamente sceglieva un posto comodo e tranquillo, lontano da tutti, ma spesso non bastava nemmeno quell'accorgimento per tenerlo lontano dalle cattiverie.

Lo chiamavano “Strambo” o “Fenomeno da baraccone” e ridevano di lui. Tutto perché era il più intelligente della classe, amava leggere e non gli piaceva seguire le mode. Inoltre era il più piccolo di tutti, talmente mingherlino da sembrare essere fatto di sole ossa. Le sue gambe, secche come rami d'albero, erano perennemente ricoperte di cicatrici per le numerose cadute provocate dagli sgambetti dei suoi compagni di classe. I suoi 'amici'. Così avrebbe voluto chiamarli, ma era chiaro che non avrebbero mai potuto esserlo.

Con il passare degli anni la situazione non era migliorata. Lui, che da sempre era stato onesto e odiava gli imbrogli, non permetteva a nessuno di copiare. Non per cattiveria, ma per puro amore verso la giustizia. Falsificare un compito in classe equivaleva per lui a un crimine. A nulla valevano le sue giustificazioni. Non capivano che lui lo faceva anche per il loro bene.

“Se copiate da me non imparerete mai niente!” diceva ogni volta.

Tutto inutile. Sputi e insulti si sprecavano e lui tornava a casa con il voto più alto ma con il morale a terra.

Avrebbe voluto avere degli amici, avrebbe voluto poter giocare con qualcuno, ma nessuno sembrava disposto a stargli vicino. Chi lo conosceva lo denigrava e chi non sapeva niente di lui se ne stava ugualmente alla larga perché le voci sulla sua stranezza correvano veloci per la scuola.

 

Poi, finalmente, quando aveva cominciato l'università, aveva incontrato Victor, ma era riuscito, in modo piuttosto maldestro, a rovinare tutto ugualmente.

Aveva tirato troppo la corda, in quel periodo. Inoltre ci andava giù pesante con la cocaina e i suoi sbalzi d'umore avevano messo a dura prova il carattere mite del suo coinquilino.

Non poteva farci nulla, purtroppo. La facoltà di medicina proprio non faceva per lui. Certo la ricerca e le analisi chimiche lo affascinavano tantissimo, ma la carriera da medico proprio non gli andava a genio. Si sentiva come un Dr. Jeckyll prematuramente annoiato dalla sua professione, perciò aveva deciso di risvegliare in lui Mr. Hyde. Nessuna pozione strana di sua invenzione, ma una semplice dose al sette per cento di cocaina, acquistata dal miglior spacciatore di Londra e iniettata direttamente in vena, almeno una volta al giorno, nei periodi neri.

Era riuscito a nascondere la cosa quasi a tutti. Superava brillantemente gli esami e non si metteva nei guai, ma chi gli stava vicino vedeva la differenza. Victor, come Mycroft del resto, l'aveva notata.

Quando la droga cominciava a fare effetto si sentiva subito meglio. La noia spariva, tutto aveva un'aria più interessante e lui si sentiva in grado di fare qualunque cosa.

Poi, una volta che la sostanza aveva terminato il suo effetto, ritornava lo spleen e ogni volta era sempre peggio. Era come andare sulle montagne russe. Man mano che quel liquido trasparente fluiva nelle sue vene, l'eccitazione saliva, saliva, saliva … raggiungeva il culmine e poi … precipitava violentemente. Sherlock percepiva chiaramente il senso di vuoto che lo prendeva allo stomaco quando l'effetto della cocaina cominciava a scemare. Era come precipitare in un baratro nero dal quale, con estrema fatica, riusciva ogni volta a riemergere. Non sempre, però, ci riusciva da solo. Allora imprecava, se la prendeva per una penna rimessa al posto sbagliato, per un'osservazione su un errore di grammatica sui suoi appunti, su un ritardo per un appuntamento.

Victor aveva sopportato, poi lo aveva costretto con la forza, anche grazie all'aiuto di Mycroft, ad andare in una clinica.

C'era andato. Teneva all'amicizia con Victor, l'unico di tutto il loro corso che lo sopportasse, non poteva farlo andare via così. La terapia aveva funzionato, almeno in apparenza. Poi c'era ricascato.

Aveva ricominciato a iniettarsela e ben presto Victor lo aveva scoperto.

“Mi fai schifo!” gli aveva detto “Con tutto quello che ho fatto per te! Ho sprecato il mio tempo, evidentemente!”

“Aspetta ...” aveva provato a giustificarsi lui “Posso spiegare ...”

“Non mi interessa” aveva risposto lui, senza lasciargli il tempo di ribattere “Non ho più voglia di buttare il mio tempo con te. Sei un caso senza speranza”

Così dicendo aveva cominciato a preparare la valigia e in meno di mezz'ora era pronto per andarsene. Non disse dove sarebbe andato a dormire. Aprì la porta, uscì e se la richiuse alle spalle.

Sherlock, ormai rimasto solo, aveva constatato l'ovvio. Era solo. Ancora una volta solo.

 

Fu in quell'occasione che ci provò per la prima volta.

Non aveva mai avuto paura del sangue. Tutte le volte che cadendo si era sbucciato le ginocchia osservava con curiosità il liquido vitale fluirgli via dai tagli. Lo guardava con attenzione e si concentrava sul dolore, come se potesse essere una medicina per quello che provava al cuore.

Col tempo si era abituato al dolore, sia fisico che emozionale, e quasi si dimenticò di avere un cuore. Concentrò tutto il dolore sul fisico e sembrò che le cose andassero meglio.

Quando aveva cominciato a studiare chimica le bruciature dovute agli acidi avevano sostituito le sbucciature da caduta, perciò tutto andava bene.

A quel punto, però, quando anche Victor, l'unico amico che avesse mai conosciuto, l'aveva abbandonato, il dolore da solo non sarebbe più bastato.

Aveva provato ad andare avanti, giorno per giorno, ma la Solitudine lo braccava come un lupo feroce. Aveva bisogno di altro per farla tacere per sempre.

Il bisturi se lo era procurato durante una lezione di anatomia, facendolo scivolare con discrezione nella tasca dei pantaloni dopo averlo accuratamente imbottito, per evitare di tagliarsi accidentalmente.

Quella sera se ne stava seduto in poltrona con il bisturi in una mano e la manica della camicia dell'altro braccio arrotolata fino al gomito. Guardò la pelle, arrossata dalle cicatrici delle iniezioni e resa più chiara qua e là dall'azione degli acidi. Esitò qualche istante e poi lo fece.

Incise la carne, partendo dal polso, per almeno venti centimetri lungo il braccio magro, poi si abbandonò al dolore e alla sensazione del sangue caldo che gli scorreva non più dentro le vene ma fuori, scivolando via.

L'aveva trovato, per puro caso, un suo compagno di corso. Era tornato tardi da una festa in un pub e subito aveva sentito l'odore acre del sangue provenire dalla sua stanza. Sapeva che quell'Holmes era strano, ma aveva comunque bussato. Chissà in quali esperimenti si era cacciato quello strambo. Sicuramente aveva rubato qualche altra parte di cadavere dalla sala di anatomia per i suoi esperimenti assurdi.

Il ragazzo si fregò le mani e con un calcio sfondò la porta, sicuro di trovare qualche 'crimine' che avrebbe assicurato l'espulsione di quello svitato.

Invece lo trovò a terra, agonizzante in una pozza di sangue.

L'urlo che cacciò attirò immediatamente l'attenzione degli altri studenti, che ormai dormivano nelle loro stanze. Fu portato immediatamente in ospedale e, dopo una lunga serie di trasfusioni, fu dimesso dalla terapia intensiva per essere trasferito in una stanza singola.

Nessuno andò a trovarlo. Nemmeno Mycroft.

Quando cominciò a migliorare, iniziò a pensare ad un altro sistema che non potesse avere interferenze esterne. Il giorno prima di essere dimesso, mentre faceva la sua passeggiata giornaliera, rubò un intero flacone di sonnifero dalla farmacia del reparto.

Aspettò qualche settimana prima di attuare il suo piano. Tutti ormai lo evitavano ancora di più e ciò non fece che accentuare i suoi propositi distruttivi.

Anche la seconda volta decise di agire di sera. Prese dal nascondiglio il flacone di sonnifero e ingoiò in un solo colpo tutte le pillole. In pochi minuti cadde svenuto sul pavimento.

Il rumore sordo che fece cadendo svegliò il suo vicino di stanza, che accorse subito a controllare.

Lo trasportarono d'urgenza al pronto soccorso, dove riuscirono a salvarlo anche quella volta.

Tentò altre volte il suicidio, ma ormai tutti avevano capito e lo tenevano d'occhio, intervenendo per salvarlo.

Pochi mesi dopo aveva definitivamente lasciato l'università e si era dedicato alla ricerca e alla risoluzione dei crimini. La sua vita era rimasta sempre la stessa.

Solitudine.

Finché non aveva trovato John.

Ora anche lui, però, se n'era andato.

Era di nuovo solo.

 

 

I giorni passarono senza che nulla cambiasse. Sapeva bene che John non avrebbe chiamato e non aveva il coraggio di farlo lui per primo. Stavolta era veramente finita.

Era solo. Completamente e inesorabilmente solo.

Erano passate ormai tre settimane da quando John se n'era andato. Aveva provato a dirsi che non gli importava, che ormai anche stare solo andava bene, che era sufficiente, ma alla fine aveva capitolato. Ormai John era essenziale, fondamentale per lui.

I suoi pasti, già magri, si erano ulteriormente ridotti. Ormai non mangiava più e dimagriva a vista d'occhio. Neanche i commenti degli agenti di Scotland Yard, ai quali solitamente rispondeva con arguzia, riuscirono a distrarlo dalla depressione.

Stavolta poteva riuscirci. Non c'era nessuno per impedirglielo. Nessuno che potesse portarlo in uno stupido pronto soccorso, neanche la signora Hudson, momentaneamente in visita alla sorella.

Poteva farcela.

 

Si alzò e, lentamente, andò verso il bagno dove, dall'armadietto in fianco allo specchio, estrasse un flacone carico di pillole di sonnifero. Le aveva lì da molto tempo, ormai, così tanto da essersene quasi dimenticato. Le teneva per precauzione, in attesa di un momento come quello, quasi sapesse che sarebbe arrivato, prima o poi.

Vivendo con John se n'era dimenticato, ma la sensazione che aveva provato vedendo la portiera del taxi chiudersi dietro la schiena del suo amico gliel'aveva riportato alla mente.

Aprì con gesti lenti il barattolo e lo portò in cucina. Prese un bicchiere e lo riempì d'acqua mentre accumulava una quantità spropositata di pillole bianche nella mano sinistra. Le catapultò direttamente in bocca e ingoiò lunghe sorsate d'acqua.

Niente ripensamenti, stavolta. Niente soccorso in extremis. L'avrebbe fatta finita una volta per tutte. Posò il bicchiere ormai vuoto sul tavolo e andò verso il salotto.

Un'improvvisa sonnolenza si impadronì di lui. Fece appena in tempo a raggiungere la poltrona, quando venne avvolto dal buio.

 

 

 

Il buio nel quale era caduto si era trasformato magicamente in bianco. Aprì gli occhi, incredulo. Dov'era? Si guardò il braccio, legato ad una flebo. Era in un letto d'ospedale.

Chi lo aveva portato lì? Chi aveva distrutto i suoi piani anche stavolta?

La risposta non tardò ad arrivare.

“Ben svegliato, coglione!” gli disse una voce famigliare con un ben noto tono severo “Mi hai fatto prendere un colpo!”

Si girò e vide John, appoggiato alla finestra della stanza.

“John?!” domandò, stupito “Cosa ci fai qui?”
“Non posso stare via tre settimane che già mi muori di fame!”

“Cosa ..:”

Non capiva. Decisamente, non capiva. Non doveva essere morto? Tutto quel sonnifero … Perché era lì?

“Sei semplicemente svenuto, Sherlock” gli spiegò John, intuendo il suo disorientamento “Un banale calo di zuccheri”

“Sei tornato ...” disse con voce roca “Sei tornato ...”

“Perché non avrei dovuto tornare?” chiese il dottore, sorpreso.

“Eri così arrabbiato ...” cominciò Sherlock, sempre più confuso.

“Hai ragione” confermò John “Ero arrabbiato, ma non potevo rinunciare a quel corso d'aggiornamento! Lo sapevi che sarei stato via per tanto tempo, no?”

“Corso d'aggiornamento?” domandò Sherlock, esterrefatto.

“Corso d'aggiornamento. Cosa pensavi, che ti avessi abbandonato così? Non potrei mai! Per la rabbia ho anticipato un po' la partenza, ma sapevi che sarei partito di lì a pochi giorni!”

“Ma … ma … avevi portato via tutto!” disse Sherlock “Tutti i tuoi vestiti, il computer … tutto!”

“Non ho poi così tanti vestiti e per un soggiorno di tre settimane mi sembrava ovvio portarli tutti, no? Il computer mi serviva ma … sai una cosa?” domandò poi, con uno sguardo malizioso.

“Cosa?”

“Stavolta sono io a doverti dire 'tu guardi ma non osservi'”

“Come sarebbe a dire?” domandò Sherlock, leggermente offeso.

“Non hai visto che ho lasciato a casa l'oggetto più prezioso per me?” domandò il dottore “Come avrei potuto andarmene senza quello?”

“A cosa ti riferisci?” domandò, sempre più disorientato.

“La mia tazza” rispose John “La mia tazza preferita” visto che Sherlock sembrava non capire, continuò “La tazza che mi ha regalato il mio migliore amico”

A quel punto Sherlock aprì la bocca per rispondere, ma John proseguì.

“La tazza che mi hai regalato tu”

Chiuse la bocca e sorrise. Uno dei rari sorrisi che lo rendevano ancora più bello. Non un sorriso di soddisfazione per un nuovo omicidio su cui indagare, ma un sorriso carico di gratitudine.

Rimasero in silenzio qualche minuto. Un silenzio più importante di mille parole.

Fu John a romperlo.

“A proposito” chiese “Il tuo alito profuma di menta! Ti sei mangiato un'intera scatola di mentine?”

Sherlock lo guardò perplesso, si annusò l'alito con la mano a coppa davanti alla bocca, poi ricordò.

Il giorno in cui John lo aveva salvato dal tassista assassino, lui aveva buttato nel water tutte le pillole di sonnifero e le aveva sostituite con delle mentine. Un promemoria, uno modo per ricordarsi che mai, in nessun caso, John lo avrebbe abbandonato e che quella non sarebbe mai stata la via giusta da percorrere.

“Mi sento molto meglio” disse “Mi fai dimettere, così possiamo andare a mangiare da Angelo?”

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Padmini