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Autore: Dernier Orage    30/08/2012    1 recensioni
Seguito di No Human Can Drown.
Michelle richiedeva le coccole del padre quanto Louise tendeva ad esasperarlo. Forse era genetico oppure una questione di abitudini; Annik Alunir, la nonna delle bambine, trovava come spiegazione la massima “non si sa quale forma possa prendere un desiderio, può manifestarsi in un figlio concepito pensando involontariamente ad un’altra persona” – Stéphane era certo che la madre se la fosse inventata. Quando andava a prendere a scuola la figlia minore tendeva ad accontentare ogni sua richiesta di soste lungo i giardini, tazze di cioccolata calda alla ricerca di un café che le accompagnasse con un piattino di caldi churros.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Your Smile and the Other Lies





Sette di mattina, un parziale silenzio rivestiva i mobili. Liquido, morbido e inconsistente. Fili di fumo sfocati uscivano dai comignoli, si infrangevano contro la pioggia finissima. Parigi era grigia, calda. Avvolgeva come una coperta quando le ossa bruciano per la febbre. Così bianco il cielo, come una malattia.
La cucina in laminato aveva i pomelli scompagnati, di vari colori. Il telaio in acciaio del tavolino era fresco contro le ginocchia di Stéphane; lasciava vagare lo sguardo alle nuvole metalliche, di mercurio, ad una decappottabile rossa parcheggiata in strada, ai muri che avrebbero avuto bisogno di essere tinteggiati.
Il caffè scottava e Ismaël scribacchiava su un quadernetto. Lentamente ricopiava il primo paragrafo del manuale di un corso intensivo di italiano, un angolo della bocca si sollevava se ricordava qualcosa, corrucciava la fronte se invece le nozioni gli parevano nuove. Come delle parole crociate o una partita a scacchi, entusiasmanti nel silenzio. Per Stéphane erano appassionanti nella contemplazione.
Ismaël indossava una maglia bianca, leggera, con le maniche lunghe e i bottoncini di ottone ossidato. Lo scrittore non l’aveva mai vista prima ma doveva ammettere che gli fasciava perfettamente gli avambracci. Evidenziava la muscolatura sottile e nervosa, i polsi. Lasciava il collo scoperto, privo di cravatta, colletto, compostezza.
- Cosa succede?- Stéphane si accorse dopo qualche secondo della domanda e dello sguardo incuriosito degli occhi meravigliosamente sgranati. Bizzarro come ogni giorno gli apparisse più desiderabile.
- Niente.- Stéphane si alzò per sfiorargli il profilo antico, le tempie. Lasciargli baci tra i capelli, estremamente arricciati per l’umidità. Chissà quali formule matematiche delineassero quelle spirali, legittimassero lo sciogliere una ciocca, aprirla come un ventaglio, scoprire la fronte, un accenno di increspatura tra le sopracciglia, un solco che compariva allo socchiudere le palpebre per focalizzare le immagini e le profondità.
Ancora qualche minuto, un abbraccio. Poi Ismaël si sarebbe alzato, sarebbe andato a lavarsi i denti, avrebbe preso il blazer dall’attaccapanni, l’ombrello dal vaso cinese e sarebbe andato a tirare su le serrande della libreria. Ancora qualche minuto, un bacio.
Per Stéphane, la routine ormai era aspettare il trillare del telefono, raggruppare taccuini, giornali, documenti, appunti, matite e penne e scendere al primo piano, fino all’appartamento della signora Santagata. Lì la temperatura era quasi accettabile, la signora era anziana e la compagnia le faceva bene.
Stéphane faceva una seconda colazione e cominciava a lavorare, la padrona di casa cucinava o leggeva un libro. A volte lei chiedeva delle spiegazioni riguardo dei vocaboli, lui consigli riguardo a delle scene. Le tremavano le mani, faceva cadere gli oggetti, parlava in sussurri e teneva alto il volume del televisore, come quelli degli alberghi, sovente sintonizzati sulle reti nazionali italiane. Chiedeva sempre di Louise e Michelle scordandone i nomi, spesso diventavano nella sua lingua Marisa e Isabella.
Quando le conversazioni deviavano sulla politica si rabbuiavano, manifestavano inconsciamente la totale disillusione e sfiducia per il domani. La vincita totale degli estremismi di destra, il profondo disgusto per certi individui della politica e per il loro elettorato. Stéphane, alle presidenziali dell’anno precedente, aveva votato al primo turno il primo ministro uscente, al secondo era stato costretto a scegliere il male minore.
Era stata la signora Santagata ad insinuare, nell’immaginazione e nella sensibilità di Stéphane, l’idea pretenziosa di descrivere il sublime ed inquietante mondo di un alveare con una trasposizione umana, tra api regine ed api regine vergini, raggomitolamenti, sciamature, voli nuziali, regine emerse che trafiggono le altre attraverso le celle reali. Rimaneva ancora una visione distorta, muta, dai toni soffusi e le ambientazioni egizie. Giochi di trasparenze, ombre cinesi, rifrazioni, qualcosa di intraducibile su un foglio bianco. Un’idea accarezzata per mesi, lasciata crescere alla ricerca delle forze e delle capacità necessarie.

- Attenzione.- Accennò Charlez intrufolandosi tra Ismaël e il bancone per raggiungere la cassa. Era una mattina frenetica, tra la fine della scuola e la previsione delle vacanze di Agosto, parecchi clienti girovagavano tra gli scaffali, chiedevano informazioni, volevano prenotare o vendere libri.- Ti ho fatto male? Cos’hai?-
- Flessioni, ottanta flessioni. Ho perso una scommessa.- Borbottò Ismaël massaggiandosi con una mano una spalla e coprendo l’addome con l’altro gomito.- Non sono più abituato.-
- Se mai lo fossi stato.- Soffiò Charlez sorridendo ad una signora dai capelli rossi. Incassò una gomitata ed aggiunse:- Schiavismo, questo è schiavismo.-
- Cerchiamo di mantenere una parvenza rispettabile e seria.- Ironizzò il proprietario della libreria. La conversione dal franco all’euro stampata sulla copertina nera del libro era sbagliata, le case editrici avevano già iniziato a lucrarci sopra con la scusa dei numeri tondi.- Dobrodošao, monsieur Dejanović.-
- Buongiorno, Ismaël.- L’anziano era entrato togliendosi il panama. Se non ci fosse stata tutta quella confusione, Ismaël gli avrebbe offerto una tazza di the in cambio di qualche aneddoto, un po’ di passato. Lo turbava leggermente il fatto che quel signore avesse conosciuto i suoi nonni, in modo più intimo di quanto avesse fatto lui stesso.
Ismaël andò nel retrobottega per recuperare i volumi ordinati dal signor Dejanović, un pacco di carta ruvida e corda celava tre prime edizioni pregiatissime, recuperate dopo ore di telefonate, di contrattazioni, di legatoria. Vide gli occhi dell’anziano letterato illuminarsi, incapace di trattenere un sorriso mentre strappava un assegno, e poi richiudersi la porta dietro, portando la mattinata alla sua conclusione.
Aveva ripreso a piovere noia e umidità. Pioggia leggera ed interminabile che rendeva la città assordante, un fragore continuo, Ismaël aveva parcheggiato la bicicletta nell’androne del palazzo e si era chinato per togliere gli elastici dai pantaloni.
In casa appese il blazer all’attaccapanni, i capelli umidi si allungavano sugli occhi, infastidendolo. La luce proveniva debole dalle fessure sotto le porte della cucina e del bagno e chiara, vivida, dall’estremità del corridoio.
- Sì, mamma. L’importante è che si divertano, okay. Louise? Un’ora al giorno di compiti basterebbe.- Stéphane lo aveva sentito, aveva voltato il capo. Ismaël poté vedere le sue pupille dilatarsi, nello sfilarsi la maglia si sentì come emergere dal buio. Lo scrittore stringeva la cornetta contro la bocca, con lo sguardo lo percorreva. Accelerava e si impigliava tra le parole, vedeva gli elastici delle bretelle scendere, lo scivolare di due bottoni fuori dalle asole, i pantaloni scuri, leggeri, senza nemmeno i passanti per la cintura, cadere senza rumore sul pavimento.- Stasera non saremo in casa. Sì, ceneremo fuori, forse. Comunque, buona giornata. Bacia le bambine da parte mia. Buon pomeriggio.-
Rimasero a guardarsi lungamente in attesa di un segno, di un gesto di avvicinamento dell’altro. Qualcosa che giustificasse i baci e le carezze che avrebbero voluto darsi, il perdere l’equilibrio, non calcolare bene le distanze e capitombolare dal letto, il ridere come ossessi, non riuscire a rimanere seri. Il muoversi come immersi nell’acqua, oscillare, movimenti ampi, stringersi nuovamente al centro del letto per non cadere.
Due ore dopo erano rimasti pigramente a letto. Stéphane cercava di tradurre dal tedesco il libro di un autore italiano, non era semplice, leggeva sottovoce un paragrafo, provava a spiegarlo in francese per Ismaël, perdeva il filo e ricominciava la pagina dall’inizio.

Il club aveva gli interni di un cafè fin de siècle, il bancone del bar addossato alla parete laterale, di fronte allo sbocco del primo corridoio e del guardaroba, carta da parati nera con arabeschi dati dal gioco di lucentezza e opacità, lampadari e specchi dalle cornici di ottone anticato, divani di consunto velluto verde, rigido e ruvido.
Stéphane sentiva ancora gli effetti dello shot di vodka preso dalla bottiglia sopra la specchiera, prima di uscire, chiacchierava, si guardava intorno. Aveva visto Marc indicarli e parlare con il barista, il cenno affermativo dell’uomo, gli avventori, una folla eterogenea che entrava a flusso continuo dal corridoio, una parte si accalcava al bancone, alcuni tenevano i posti sui divanetti, si appoggiavano ai separé, caricavano la pipa o rollavano una sigaretta, altri si dileguavano in un vano buio in fondo al locale.
Ismaël, appoggiato con il capo al suo ventre, lo osservava dal basso, seguiva la conversazione e studiava la gestualità di Stéphane da un’altra prospettiva, il modo di allargare le mani, tenderle, perpendicolari al petto, per sottolineare un concetto.
Un cameriere svestito aveva portato loro, su un vassoio, un calice di torbido pastis per Marc, del liquore di génépi per Ismaël, vodka per Stéphane dato che non voleva mischiare. Ismaël aveva acceso una sigaretta ed un ragazzo dalle pupille dilatate si era accovacciato davanti al divano, cercando di lambire la sua bocca. Stéphane aveva cercato di allontanarlo gentilmente, irritandosi non poco quando Marc gli aveva avvicinato uno sgabello e lo aveva invitato ad aggregarsi.
- Io sono Romain.- Aveva sorriso il ragazzo giocando con la cannuccia nera del cocktail.
Dopo aver sciorinato le presentazioni Marc gli chiese:- Di cosa ti occupi, Romain?-
- Di import-export.- Avrà avuto una trentina d’anni, abbronzato, coi capelli corti sulle tempie e una polo bianca.
- Più import o export?- Domandò Marc finendo in un sorso il pastis, lasciando pochi, oscillanti, cerchi gialli sul fondo.
- Non vuoi scoprirlo da solo?- Fu l’ultima cosa che Stéphane udì perché poi decise di ignorarli, sapendo già come sarebbe andata a finire. Non si stupì, minuti dopo, di vederli alzare e dirigersi verso il fondo della sala. Ismaël gli aveva spiegato che al piano inferiore c’erano i bagni e poi la dark room, le cabine, due croci di sant’Andrea, un labirinto, una sling. Avevano giocato a riconoscere i colori del code-foulards o handkerchief-code, l’estraneità a quei costumi, quel modo di vivere, complicava la competizione.
- Non qui.- Aveva sussurrato imperioso Stéphane bloccando i polsi di Ismaël sopra la sua nuca, per impedirgli di provocarlo.
- La maggior parte viene proprio per questo.- Asserì Ismaël strusciando impietoso il volto contro il suo sesso, sulla stoffa dei pantaloni.
- Io no.- Gemette Stéphane, sbuffò, provò ad accostarsi con le labbra alla sua bocca per dissuaderlo. Avrebbe voluto continuare, dire qualsiasi cosa; rimase a vigilare mentre Ismaël si girava dall’altra parte e scorreva lo sguardo lungo la sala, il sorrisetto divertito.
- Sei dolce, Stéphane Alunir.- Sussurrato con un tono così basso da essere quasi stato immaginato, da indurre a sparpagliargli i capelli, scompigliarglieli fino alla fine.- E trovo terribilmente dolce il nostro rimanere su un divano a tormentarci a vicenda, in un locale di questo tipo.-
Verso le quattro di notte il Marais era lucido di pioggia, le strade umide e profumate, i chiarori dei lampioni riflessi in ogni dove.
Prima che venisse accesa la luce Ismaël si mise gli occhiali da sole; l’appartamento di Marc aveva quel gusto borghese per il legno e l’antiquariato. La nota contemporanea era data da una libreria bassa che proseguiva continua, scaffale dopo scaffale, quasi per tutta la casa, per il corridoio, per la sala, per la camera da letto patronale. Volumi di medicina, testi universitari, vinili, romanzi, le letture più disparate, un campionario delle opere di Dennis Cooper, di Yves Navarre, dossier di Masques, volantini ed opuscoli della Act Up-Paris, una miscellanea di saggi dal collettivismo a Charles Fourier, dalle api al dissenso nell’epoca vittoriana.
- Collezioni Têtu?- Esclamò Stéphane trovando ordinati svariati numeri della rivista, tra dei libri di poesie e delle biografie. Andando avanti, scorrendo con l’indice le copertine, si sorprese davanti ad una ventina di edizioni del Gai Pied Hebdo.
Distese le gambe sul pavimento di marmo, la schiena appoggiata allo stipite della porta, iniziò a sfogliare un numero del millenovecentonovanta. L’atmosfera era soffusa, quasi accomodante, avevano spento la luce del lampadario per accendere qualche lampada dai paralumi scuri.
Quattro e mezza di mattina; Marc ed Ismaël giocavano in cucina, cuocevano a vapore delle morchelle, pe-tsaï, zucchine e tofu a listarelle, dopo averli cosparsi e lasciati assorbire il porto. Gli schiamazzi da ubriachi riempivano la casa.
Per Stéphane fu un finale alternativo, una realtà surreale, raccogliersi nel pieno della notte attorno ad un tavolino basso, giocare a domino, mangiare con le bacchette da delle ciotole raku e sorseggiare un vino liquoroso. Addormentarsi accosciato tra le gambe dell’uomo che amava, tra i dialoghi delle cinque di mattina.














   
 
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