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Autore: Evil Daughter    01/09/2012    13 recensioni
Oltre ad essere rozza sei priva di delicatezza.
Pensò Vegeta. Dedicandole l’accusa.
Piegò le labbra in giù, fece maggiore pressione e l’ago schizzò fuori portandosi dietro una scia di sangue annacquato.
Ripensò al ricovero in ospedale, rimembrava ogni particolare; almeno da quando aveva riaperto gli occhi. Alcuni dettagli li avrebbe cancellati volentieri. Altri no, sedimentavano. Lo mettevano davanti a diversi interrogativi. Lei lo aveva salvato.
E sai come sprecare il tuo tempo.
Un pensiero ancora rivolto a lei.
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Vegeta? Un folle omicida. Ma Bulma lo sa bene: mai fermarsi a giudicare unicamente la coda del mostro.
La belva deve essere sempre osservata nella sua interezza.
Periodo trattato: triennio antecedente ai cyborg.
INIZIO RELAZIONE TRA BULMA E VEGETA. STORIA ILLUSTRATA.
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Nuovo capitolo, 18: PROGENIE SEGRETA SOTTO LAMPI DI GUERRA.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Dr. Gelo, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta, Bulma/Yamcha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'ARANCE MARCE: Bulma e Vegeta, sbagliati e quindi veri.'
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Capitolo VII – Giaculatoria per un orgoglio senza cuore. L'infedeltà si maschera sinceramente.

 

 

Sottili fili d’erba le accarezzavano le guance e un lieve tepore la riscaldava in un abbraccio affettuoso. Era un’accoglienza gradevole che non le diede il tempo di chiedersi come ci era finita a stare supina su un soffice letto d’erba, a godersi la luce e il calore di un sole che, stranamente, non scorgeva. Allora, Bulma balzò in piedi e confusa fece un girotondo su se stessa. Attorno a lei non v’erano altro che rose gialle dal gambo lungo. Puntavano ritte verso l’alto. Le rose erano tanto luminose che parevano ardere alla luce del sole. Ma non solo queste apparivano così sfavillanti, anche il cielo era di un azzurro intenso ed accecante. L’erba pure brillava. Le pareva di calpestare un’opera d’arte viva e perfetta standosene lì, in piedi, tra quei colori freschi che sembravano essere stati appena stesi dal tocco leggero di un bravo artista.
Tuttavia, la beltà paradisiaca non riuscì a deviarla dall’accorgersi che nelle rose, nascosta nel cuore dei petali, v’era una macchia scura ed informe. Emetteva un insolito lucore. Ma si vedeva appena da non poterne capire la natura.
Bulma non riuscì a stare ferma: curiosa, infilò le dita tra i soffici petali, li dischiuse delicatamente e toccò prima di capire. Un occhio untuoso la stava guardando o, forse, era solo la sua impressione: gli occhi nei fiori non potevano vedere e, indiscutibilmente, i fiori non avevano occhi. Inorridita, ritrasse immediatamente la mano. Troppo tardi: tutte le rose s’apersero a mostrare nugoli d’occhi senza palpebre e ciglia, nudi, con la sclera infiammata e le iridi nere confuse in un monocromo con la pupilla.
La paura le ordinò di scappare da quella mostruosità e, al suo primo passo indietro, i bei petali lucenti si seccarono in brevi secondi, fino a cadere, come se la morte avesse improvvisamente soffiato su di loro.
Anche l’erba morbida che l’aveva accolta mutò in rovi striscianti e al cielo, sino a quel momento azzurrissimo, si sostituì un intonaco vecchio e sbiadito che andava crepandosi in diramazioni profonde.
Bulma iniziò a correre. Era smarrita, sopra la sua testa il cielo si sgretolava e con lui il calore e la luce scomparivano, affievolendosi e lasciando penetrare una bruma scura e fredda, che dal basso saliva ad abbuiare il grazioso eden in cui s’era destata.
Seguita dalla mortifera nebbia e circondata da sguardi arcigni, la scienziata continuò a correre in uno spazio senza uscita. 
Inciampò, cadde e non riuscì a rialzarsi. Nel panico, tentò di gridare. Ma un dolore acuto alla gola non le permise di farlo. Avvertì gli occhi farsi vicini. Ormai l’avevano raggiunta: li sentì rampicarsi sul suo corpo lisci e bagnati, in un contatto viscido che le fece accapponare la pelle. Poi, al gelo e alla sensazione nauseabonda, s’aggiunse l’assenza totale di luce ed un vuoto le crebbe dentro.
Si sentì sprofondare in una caduta spaventosa, finché non toccò il fondo dell’abisso.

 

Con ancora la sensazione di non poter inghiottire ed emettere suoni, la scienziata spalancò le palpebre. Una luce bigia e tagliente la investì, disegnando attorno a lei forme familiari. In principio, vide le sue ginocchia eburnee e magre sbucare dal lenzuolo stropicciato che le intrappolava. Poco dopo, buttando lo sguardo oltre, riconobbe la geometria della sua camera.

Un incubo. Solo un incubo.

Sospirò, in uno sfogo di sollievo che soffocò contro il cuscino quando s’accorse di essere completamente nuda. Rabbrividì, per il freddo e per l’ondata di memoria che, abbattendosi sulla costa dei suoi spiacevoli ricordi, le stava facendo rivivere ogni particolare della notte passata: Yamcha si era infilato fra le sue lenzuola… e lei c’era stata come se le fosse stato gradito, priva di precauzioni.
Si girò, per vedere se le dormisse ancora accanto, come s’aspettava era andato via.

Pensa, se fosse stato ancora qui non avresti avuto il coraggio di incontrare il suo sguardo senza avvertire il peso dei sensi di colpa. E, molto peggio, non ti saresti sottratta alle sue carezze.

Si sedette sul bordo del letto e affondò il viso fra le mani. Le dispiaceva essersi svegliata, avrebbe volentieri continuato a brancolare nel suo incubo, a morirci dentro; lo trovava migliore e più sopportabile della verità che rifiutava.

Non c’è nessun carceriere, non c’è mai stato.
Sono io che improvvisamente ho deciso di vederlo così, lui non ha nessuna colpa.
Mi ama e vuole che io sia sua moglie.


Il rimprovero era una riflessione già iniziata nel corso nella notte malamente trascorsa, che l’aveva portata a considerare, priva di clemenza, il suo comportamento uno sbaglio incompatibile coi sentimenti che provava.

Ho rischiato la vita su Namecc, ho cercato le sfere magiche per farlo tornare in vita, da me.
Non posso rinnegare il mio amore per lui, io devo amarlo.
Lo devo.


Altrimenti? Non ti saresti concessa al suo abbraccio? Sai perché l’hai fatto. Dovevi insabbiare l’incertezza che aveva nei tuoi confronti  prima che arrivasse a capire, per salvare le apparenze, per evitare di essere giudicata, odiata ed essere definita una traditrice. 
Soprattutto per mettere a tacere te stessa.

Non volevo rovinare tutto.

Certo, ora indovina quale sarà l’effetto della tua prodezza: te lo troverai tra le gambe, ancora. E probabilmente una parte di lui crescerà dentro di te.


La coscienza assennata le sentenziò una verità a cui Bulma non osò ribellarsi.

Come ho potuto?

Una cloaca, ecco dove sentiva di essere: nella cloaca in cui scorrevano i liquami del suo comportamento inveterato, insincero, scriteriato ed irresponsabile.
Paradossalmente, rincorrendo Vegeta aveva ottenuto una proposta di matrimonio da Yamcha, e non l’aveva rifiutata.
Il perché di questa contraddizione le rimaneva inesplicabile.
In principio, non voleva fare del male al suo fidanzato, non voleva tradirlo – non l’aveva mai tradito – ma, anche se gli voleva bene, in lei aveva preso consistenza un amore difforme, mai conosciuto, probabilmente unilaterale e tanto feroce da divorare quello secco e stantio che provava per lo spilungone. Se avesse potuto, avrebbe incenerito volentieri tutti i momenti passati accanto al fidanzato fino a sentirsi libera e stare finalmente col saiyan.
Le mancava il coraggio. Sapeva che se lo avesse fatto gli avrebbe causato tanto male e di conseguenza si sarebbe pentita della sua scelta.
Accogliendo l’amore di Yamcha, al contrario, avrebbe chiuso per sempre la minuscola cruna che aveva aperto, e nella quale sarebbe potuta passare, per intrecciare la sua vita a quella del saiyan.
Però, quest’ultima restava una possibilità vaga ed instabile: nulla le assicurava che Vegeta lo spietato, il vanaglorioso Principe dei Saiyan, avrebbe anche solo corrisposto l’ombra dei suoi sentimenti.
Il futuro sicuro era da un lato, Yamcha lo tendeva per lei. Dal capo opposto c’era solo un precipizio da cui lanciarsi, pregando che un miracolo sarebbe intervenuto in salvezza, o che la caduta non le avrebbe arrecato troppo dolore e la morte sarebbe sopraggiunta sul colpo.

Non trovando il coraggio di scegliere secondo la sua volontà, che sentiva perduta, Bulma rimaneva bloccata in un’antinomia irrisolvibile che la esulcerava.

Con molta lentezza, abbandonò il letto per raggiungere il bagno ed infilarsi sotto la doccia. Il tentativo era di rilassare la mente indolenzita da tanto turbamento e di rimuovere la sporcizia che avvertiva insudiciare la sua pelle. Per come si sentiva, non le sarebbe stata sufficiente nemmeno un’abluzione purificatoria a toglierle la costrizione dall’anima.

«Yamcha t’ho ingannato e ho ingannato me stessa più di te.»

Si disse illanguidita, mentre lasciava che un getto d’acqua ghiacciata le scrosciasse violento sul corpo.

Chi vuoi prendere in giro? Sei una donna egoista, Bulma. Una donnaccia. Saresti in grado di sposare Yamcha per farlo contento, partorire suo figlio per farlo ancora più contento, e ficcarti di nascosto nel letto del saiyan per rendere felice te stessa allo stesso tempo.

No! Non potrei mai!


Oh sì, è così che finirai: a cadere nell’adulterio, se non la smetti di pensare a Vegeta. Ti sei innamorata di un’idealizzazione della quale tu sola ne sei l’artefice. Sai benissimo che lui è unicamente sofferenza, sia che ricambi la tua attenzione e sia che la rifiuti. Ormai hai fatto qualunque cosa per mostrare a Yamcha che niente tra voi è mutato. Non l’hai cacciato quando avresti dovuto.
Se non vuoi soffrire devi abbandonare Vegeta.

Che nell’arco di mesi si sarebbe trovata a dover sopprimere i singhiozzi del suo cuore divenuto capriccioso per il saiyan, non se lo sarebbe neanche sognato. Tempo prima considerava Vegeta un pericoloso assassino che aveva portato morte sulla Terra. Un disgraziato da evitare, nulla più. Ma vivendo con lui, nella stessa casa, si era accorta d’avere di fronte un avvenente testardo – se era ancora un assassino andava verificato – che portava dentro di sé una celata mestizia associata ad un’allarmante tendenza al supplizio; e che la faceva sentire bene quando le stava vicino. Un'altra persona. Viva e forte.

«Vegeta – disse, inspirando profondamente aria – sarà come non averti mai incontrato… e sarà doloroso guardarti rimanere solo. Io l’ho vista, ho notato la tua solitudine, la tristezza che nascondi nel tuo sguardo. Stai soffrendo molto… ma non posso e non potrò aiutarti, Yamcha mi sta aspettando. Lui... mi ama.»

Concluse con una perorazione che rasentava addirittura il giuramento; e giurò, guardando l’acqua saponosa sotto i suoi piedi raccogliersi, roteare, gorgogliare e sparire nello scarico della doccia. Come a suggello del patto a cui era arrivata, comparò quel vortice d’acqua torbida,  alla medesima fine che aveva fatto fare all’immagine di Vegeta: 
risucchiato in un buco nero.

Ora te ne sei andato dalla mia testa, per sempre.

 

~ ~ ~




A dimostrazione della forza adamantina con la quale aveva fatto voto di non interessarsi più al saiyan, Bulma decise di recarsi nei laboratori per cercare l’anello che Yamcha le aveva affettuosamente regalato e che le era vilmente sparito sotto gli occhi nel momento meno conveniente. Ma prima di scendere nei luoghi sotterranei che la Capsule Corporation nascondeva sotto la sua struttura sferica, ed iniziare l’attenta ricerca,  si concesse una frugale colazione, o spuntino giacché la sveglia della sua camera segnava le quindici passate di un pomeriggio insignificante.

La casa era deserta, questo la rinfrancò: non aveva voglia di incontrare i suoi genitori e nemmeno le andava di cercarli. Avvertì solo i frastuoni di macchine in movimento provenire dal giardino, però, non se ne interessò.
Giunta in cucina, rifletté che l'ultima volta in cui aveva visto il grazioso gioiello abbarbicato al suo sottile anulare era stata lì, e lì poteva averlo perduto. Mosse gli occhi in ogni punto, sperando di ritrovarlo subito. Purtroppo, non vide nulla di luccicante.
Delusa, decise di farsi un toast. Lo divorò velocemente e andò dove s’era prefissata di scovare l’anello. Nel laboratorio.

I sotterranei pullulavano di persone: quasi tutti i laboratori erano occupati dai dipendenti della Capsule Corporation che si interessavano di portare avanti nuovi prototipi, di testarli e di spedire il progetto base ai stabilimenti industriali dell’azienda una volta appurato che funzionassero come dovevano. Solitamente, quando i diligenti operai s’accorgevano del passaggio di Bulma, quelli che tra loro ci riuscivano, correvano rispettosamente a salutarla. I più giovani non si lasciavano sfuggire l’occasione di mirarla tanto da fantasticare su quanto poteva essere liscia la sua pelle al tatto e sulla morbidezza delle sue forme; ma ogni caldo pensiero rimaneva nascosto sotto l'ombra che il berretto della divisa da lavoro proiettava sui loro occhi affascinati.
Sentirsi così osservata dagli uomini era piacere per Bulma. Equivaleva ad avere tanti specchi incantati che le confermavano quanta concupiscenza donava la sua bellezza, rimpinguando la consapevolezza della sua vanità. 
Poco gradita era invece l’aria lavorativa che per cinque giorni a settimana, dalle otto della mattina fino alle sei del pomeriggio, riempiva quei luoghi da lei considerati come una sorta di intimo e sotterraneo eremo in cui riflettere: avere tra i piedi estranei alacri e celeri come formiche le suscitava un’insopportabile invadenza.

In quell’istante però, nulla toccò la sfera dei suoi interessi – né gli occhioni sognanti né il disturbo delle formiche a lavoro – nulla che non fosse fatto d’oro, di diamanti e non avesse uno zaffiro dello stesso colore delle sue iridi quando v’era poca luce ad irrorarle di colore.
Ripercorrendo il lungo corridoio, la scienziata stette attenta a non farsi sfuggire nemmeno un centimetro quadro del pavimento su cui camminava; ma considerò fosse fatica sprecata: se a qualcuno di quei diligenti operai fosse capitato di vedere un simile tesoro, sarebbe stato onesto con la fortuna e non avrebbe disprezzato di tenerselo.

Bulma entrò nell’ultimo reparto, quello d’ingegneria robotica, e trovò le luci accese, i computer attivi e il laboratorio completamente vuoto di persone – in quel luogo nessuno poteva entrare senza il suo permesso o quello del padre – questo le fece provare un pizzico di sollievo.
Nel laboratorio, ogni cosa era rimasta come l’aveva lasciata: da alcuni armadietti semiaperti, ai fogli a terra, sino alle impronte fangose delle sue scarpe che a seguirle con gli occhi le veniva mal di testa.
Lei le osservò. Pensò immediatamente di pulirle, temendo che se non si fosse sbrigata a farlo i morsi del rimpianto sarebbero riusciti ad acciuffare la sua debole carne per sbranarla fino a divorare in un sol boccone anche l’esiguo e fragile voto di fedeltà che aveva volto a Yamcha.
Ma prima di azionare il robot, indagò che il prezioso anello non fosse adagiato sul pavimento. Rammaricata dal non scovarne nemmeno l’ombra, mise in funzione la macchina per cancellare le impronte della sua clandestina passeggiatina serale. Ed assorta sul da farsi che avrebbe dovuto occupare quello che le rimaneva della giornata, s’incantò fissando il robot lavorare.
La macchina procedeva con movimenti programmati, meccanici e silenziosi, svolgendo mansioni per le quali era stata creata senza intoppi.

Innocuo elettrodomestico… E pensare che in questo momento c’è chi sta costruendo macchine fatte apposta per ucciderci.
Oh, Goku, come hai potuto rifiutare la mia idea di fermare il pazzo che vuole la nostra fine?! Avremmo potuto metterci in salvo senza correre alcun rischio e invece tu e quel gruppo di sconsiderati non avete alzato un dito!
Potremmo rischiare tutti di morire…


L’incertezza sulle future sorti della Terra rimaneva tra le sue preoccupazioni, ma forse lei la stava facendo venire  più in superficie di altre  solo per avere la mente meglio occupata. Ciononostante, aveva il sentore di un disastro imminente pronto ad abbattersi su di loro; e nemmeno Goku, che in lei aveva sempre infuso sicurezza, la rasserenava convincendola che avrebbe potuto rimediare alla minaccia. L’intuito le suggeriva un fato ambiguo, che nascondeva intenti funesti dietro una placidità snervante. 

Non sono al sicuro, non lo sono nemmeno al fianco di Yamcha.
Non voglio addossargli alcuna colpa. Non è a causa sua se ho paura e mi sento così fragile e… sola.


L’ultimo pensiero prese le sembianze di un’illuminazione. Alla solitudine non aveva mai fatto caso, non aveva neanche motivo di averne con una famiglia serena, gli amici e il suo ritrovato Yamcha. Eppure, non trovava altro termine per descrivere l’attuale stato d’animo che l’avvinghiava, facendole male.

Sono capricciosa e viziata. Tra poco mi sposerò, non ho motivo di sentirmi così, sarebbe contraddittorio.

Oppure è il divieto che ti sei imposta a logorarti? Non poterlo avere tra i tuoi pensieri, evitarlo, eludere il suo sguardo, non avere più la possibilità di sfiorare la sua pelle… Sono passate due ore da quando l’hai deciso e già ti pesa.


Sei sicura di essere riuscita a rinunciare a Vegeta?



Devo cercare l’anello, se non lo trovassi, Yamcha non me lo perderebbe mai. Non voglio spezzargli il cuore.

Chiuse la comunicazione con se stessa e si rimise scrupolosa alla ricerca del prezioso oggetto, quasi che trovarlo significasse la sua salvezza morale.
La scrivania divenne l’ennesimo campo di caccia: Bulma la ordinò come mai era accaduto, facendo sparire tutto quello che ne occupava spazio da tempo indeterminato. Mise in diverse cartelle i progetti abbozzati o lasciati incompleti, e quelli finiti li archiviò in fascicoli che pose ordinatamente in un armadio.
Dell’anello neanche l’odore, in caso ne avesse avuto.
Imboccare le scale d’emergenza e proseguire fino all’uscita di sicurezza, era l’ultimo posto di quell’area in cui controllare. Ma anche là, oltre il pavimento sporco, non vide altro.

In giardino, tra i fili d’erba, potrei aver perduto l’anello mentre correvo per raggiungere… 

Potresti controllare nell’astronave, lì sicuramente troverai qualcosa. Lui, ad esempio, da cui non devi andare. Mai più.


S’impressionò di avere una coscienza maleficamente ironica, di possedere un masochismo spietato. Per timore che potesse vacillare di fronte ad una possibile tentazione, ridiscese le scale velocemente, rientrando in laboratorio agitata e ansimante.
Trasalì, quando il telefono attaccato alla parete prese a squillare; in fondo non s’era ancora liberata dell’angoscia che l’incubo le aveva lasciato e qualsiasi evento inaspettato, anche il più banale, riusciva a turbarla.
Con malavoglia, avvicinò l’apparecchio all’orecchio. Dall’altra parte del ricevitore c’era la mamma. Le comunicò di raggiungere immediatamente suo padre.
La signora Brief, naturalmente, non si risparmiò di farcire la breve conversazione con esclamazioni cinguettate. Bulma le zittì premendo il tasto rosso del portatile.

Forza maggiore. Papà è in giardino, mi terrò a distanza dalla navicella.

Uscì direttamente dalla porta d’emergenza, aprendola con la solita difficoltà a causa della spropositata pesantezza che aveva. 

Fuori non pioveva più, però la limpidezza del cielo era ancora sfigurata da alcune nubi che, raggruppate in grappoli, celavano in parte il sole freddo di gennaio. L’aria invernale, che non se ne sarebbe andata ancora per tre mesi buoni, non permettendo alla primavera di accasarsi, le  colpì il viso costringendola a strizzare gli occhi. E la obbligò a portarsi una mano al collo per impedire al vento gelido di trapassare il dolcevita che indossava. Il dolcevita premeditato, col collo alto: utile a nascondere i residui dell’incontro incauto con Vegeta.

Sfiorandosi la gola, Bulma non fu capace di non pensarci.

I suoi doni. Non potrò conservarli, una settimana e anche questi spariranno. E io sarò completamente ripulita.

Sorpassò l’astronave attenta a non alzare lo sguardo su di essa. Nonostante non possedesse la capacità di avvertire le aure, Bulma sentiva la presenza di Vegeta. Lo percepiva lungo tutto il corpo, con un brivido seguito dal cuore che batteva come un tamburo; e con la frenesia incontrollabile di muoversi verso di lui.

Se ieri non mi avessi lasciata sola… Se tu mi avessi… No, non sarebbe cambiato niente. Basta pensarci. Bulma, hai fatto una promessa, ricordatene!

Con passi ampi, si allontanò sempre più dalla navicella. Quasi stesse scappando da essa, e non sapendo in quale punto avrebbe trovato suo padre, seguì gli strepiti e le grida che giungevano dal lato opposto dell’ampio cortile.

Lo spettacolo che le si presentò dall’altra parte della casa fu sorprendente e inaspettato: s’era impegnata tanto ad occludere l’attenzione per Vegeta che, sbadata, aveva serrato anche l’attenzione verso il resto del mondo. Uscendo dai laboratori, non aveva notato nulla di cambiato nel giardino. Ma n
el lussuoso cortile, in realtà, non un albero di palma era rimasto interamente attaccato al suolo, alcuni giacevano sradicati e spezzati, somigliando a giganti morti che mostravano le loro radici come vergogne; e altri palmeti mancavano all’appello: il vento li aveva trascinati via e al loro posto rimanevano solo profonde buche nel terreno.
Dei lampioni che di notte illuminavano l’intero perimetro del cortile, solo due avevano retto alle raffiche di vento e all’acqua. Il gazebo, le sdraio, i tavolini e qualunque cosa avesse occupato la terrazza prima del brutto tempo, si trovava tutto silurato nel suolo del giardino, affondato nella terra, come se all’improvviso la Capsule Corporation si fosse data una sgrullatina per togliersi di dosso piccoli parassiti irritanti.

Al disastro stava rimediando una squadra di uomini, la quale s’adoperava per togliere i cadaveri dei palmeti dal giardino, raccogliere i resti del meraviglioso arredo che una volta occupava la terrazza che la mamma della scienziata adorava, ed anche a raccattare intrusi come cartelloni pubblicitari e pezzi di cose che prima erano e ora non più. Ad esempio, parte di quella che poteva essere stata la struttura di una cabina telefonica.
Nel centro di questo show post tempo bastardo c’era il signor Brief, impiantato dentro stivali di gomma incrostanti di terra e presumibilmente gialli dal poco che se ne intravedeva. Aveva il camicie bianco aperto sotto il giubbotto pesante e fumava parlando vivamente, accompagnato dal gesticolare delle mani, con un uomo più alto di lui, magro e dai capelli brizzolati.
Fin lì, Bulma aveva camminato facilmente sul sentiero asfaltato, ma per raggiungere suo padre non si fece intimorire dall’erba inabissatasi in uno stagno d’acqua e fango. Aveva messo gli anfibi quella mattina, degradando volentieri le scarpe scomode che abitualmente le incastravano i piedi, sentendosi così libera di camminare ovunque e senza difficoltà.

Il padre, vedendola arrivare, non mancò di inserirla subito nel discorso.

«Ah, finalmente! Bulma, diglielo anche tu che ieri sera c’è stato un terremoto. Il collega qui presente è a capo del sistema informativo geologico della nostra zona, dice di non aver rilevato nulla dal sismografo. Eppure qui c’è stato un evento sismico della durata impressionante di quasi un minuto! È impossibile che non possa essere stato rilevato!»

«Brief, ti ripeto che dai dati che sono stati raccolti, e che io ho personalmente controllato dopo la tua telefonata, posso assicurarti che dal sismogramma il suolo non risulta essersi mosso nemmeno di un millimetro!»

Intervenne prontamente l’uomo senza lasciare a Bulma il tempo di suffragare o meno quello che aveva dichiarato suo padre.
«E io ti dico che c’è stato e le vostre apparecchiature semplicemente non l’hanno registrato!»
Insistette il signor Brief.
«Senti, qualunque cosa sia accaduta non è avvenuta sotto la superficie terrestre. E pur ammettendo che sia successa realmente, perché nessuno oltre a voi ha avvertito nulla? A parte il nubifragio ovviamente, questo sì che ha fatto danni: metà della città è allagata e hai visto il vento cosa è riuscito a sollevare!»
Di fronte all’acceso dibattito, Bulma osservava prima il disappunto nello sguardo di suo padre e poi lo sconcerto in quello del geologo. Quando parlavano il loro fiato caldo si condensava in nuvolette bianche che svanivano nell’aria fredda in brevi secondi.
Non vorrei rimanere qui a lungo...
Avrebbe volentieri schivato la situazione, ma afferrato l’argomento di cui si discuteva, la scienziata collegò lo strano tremolio che aveva avvertito attorno a sé, quando si trovava in laboratorio e tentava di recuperare il minimo della decenza, a quello che stava dicendo suo padre.
Era stato davvero un fenomeno particolare, simile ad un terremoto, ma secondo lei non qualificabile come tale.
«Bulma, tu che ne pensi?», le si rivolse il padre speranzoso.
Purtroppo, la scienziata non aveva da supplire più di quanto sosteneva il suo vecchio.
«Potrebbe essere stato un sisma, perché diversamente non sappiamo chiamarlo, però non abbiamo nulla che ce lo confermi. Quando è accaduto mi trovavo nei laboratori e l’ho avvertito lievemente, quasi per niente, perché mi trovavo nei sotterranei. Però, posso assicurarvi di aver assistito ad una vibrazione insolita insieme ad un’alterazione della corrente elettrica.»
Terminò, convinta di potersene andare, aveva dato il suo contributo.
«Come ti dicevo, anche lei conferma quello che t’ho detto fino adesso – ribadì soddisfatto il signor Brief, prima di proseguire – dovremmo controllare i dati dei magnetometri e vedere se almeno lì è stato rilevato qualcosa, come una variazione del campo geomagnetico. Il cambiamento dell’intensità di corrente può essere dovuto dal mutare del campo magnetico della Terra, e il terremoto può esserne la causa principale. Inoltre, prima che accadesse il fenomeno, la Capsule Corporation è rimasta isolata da qualsiasi tipo di segnale.»
Ascoltando la dichiarazione di suo padre, Bulma ricordò la difficoltà che aveva incontrato nel prendere collegamento con la navicella. Ma non s’affrettò a testimoniarlo, anzi, se lo tenne per sé. Intanto, Vegeta si stava rivelando un pensiero immortale.
«Sai bene che non c’è nulla di certo che possa concatenare la variazione del campo magnetico terrestre ad un sisma. E questo, ponendo che ci sia stato, era troppo debole per causarlo. Non ha neanche riportato danni alla vostra Capsule Corporation! Accredita il mancato funzionamento dei tuoi dispositivi al cattivo tempo e non andare a trovare fattori inverosimili!»
Continuò l’esperto geologo, che dava l’impressione di non volerne sapere di ogni ipotesi formulata dal padre delle scienziata.
«E perché no?! Se riuscissimo a trovare un evento scatenante con il quale poter prevenire movimenti tellurici, sarebbe una scoperta grandiosa! Sei d’accordo con me Bulma?!»
La ragazza se ne stava assorta e con la testa china a specchiarsi in una pozzanghera, dietro di lei le nuvole si spostavano rapidamente spinte dal vento. Il tempo le apparve scorrere rapido, inutile.

L’anello, devo trovare l’anello. Qui sto solo perdendo tempo.

Inconsapevolmente aveva ragione: a parte il nubifragio, tutto era stato causato dal saiyan, di cui nessuno sospettava. Il povero signor Brief era destinato a non dormirci per giorni.
«Sì, papà, ma se non c’è altro me ne torno in laboratorio. Ho molto da fare. Signore, è stato un piacere conoscerla.»
Disse, rivolgendosi al geologo, pensando poco dopo di non avergli neanche stretto la mano appena l’aveva visto e pertanto non trovò la necessità di farlo in quel momento.
S’allontanò cogitabonda, strusciando i passi e tenendo la testa bassa per scovare il gioiello, forse perduto nell'erba.
«Ah, Bulma! – la richiamò il padre - prima che tu te ne vada, devi farmi un favore: ti ho fatta chiamare proprio per questo. Ecco, ieri sera, quando eri tornata insieme Yamcha, dovevo dirti una cosa importante che però ho dimenticato mentre stavo per riferirtela, ricordi?! Dunque, devi dire a Vegeta di uscire dall’astronave. La navicella ha bisogno di una piccola manutenzione, c’è una perdita d’ossigeno che non mi convince, me ne sono accorto da giorni ma mi è passato di mente. E dovresti iniziare a sistemarla tu, io ti raggiungerò appena avrò finito col nostro caro collega, ok?!»
Ascoltando le parole di suo padre, Bulma sentì di trovarsi intrappolata in una cospirazione o nel gioco perfido di chi si divertiva a metterla alla prova; come se l’avessero infilata in un vagone e le stessero facendo percorrere una rete di binari diversi ma tutti con un’unica destinazione che portava il nome Vegeta.
Andare da lui, vederlo, parlargli, respirare la sua stessa aria… Neanche morta, o forse sì: qualcuno ce l’avrebbe portata fuori dalla sua volontà e non sarebbe stato peccato.
«Me ne sono accorta anch’io – confermò, ricordando lo strano odore che aveva sentito quando era entrata nella navicella per soccorre il saiyan – e stavo giusto per dirtelo, ma che tempismo ricordarlo ora, papà!»
«Davvero?! Allora saprai già come provvedere al guasto!»
«Certamente, no! Dovrai sbrigartela tu, te l’ho detto che ho da fare. Nel caso te ne fossi scordato nei nostri laboratori abbiamo una trentina di operai da controllare assolutamente!»
Disse nervosa, tenendo gli occhi serrati mentre glissava l’inconveniente offertole dal padre. Quando li riaprì, però, s'accorse che il suo vecchio le dava le spalle: il signor Brief si stava vantando col geologo di aver creato un mostro di astronave, in grado di raggiungere distanze inimmaginabili in pochissimo tempo, e quello lo stava ascoltando ricoprendolo di finti panegirici.
Sentendosi del tutto ignorata, Bulma si defilò con la pazienza a secco; rientrò in casa convinta che solo lì avrebbe trovato quello che cercava. O probabilmente pure questa era un’altra scusa per sfuggire ad una forza attrattiva che s’ostinava ad inibire.
Ma a pochi passi dall’ingresso principale della Capsule Corporation, vide sua madre camminare verso di lei con in mano un vassoio su cui poggiavano quattro tazzine colme di caffè, poste ognuna su piattini di ceramica decorati con fantasie floreali.
«Bulma, è da ieri sera che non ti vedo! Stamattina ti volevo parlare ma non ho voluto disturbarti. Anche se passato mezzogiorno ho iniziato a preoccuparmi. Starai bene spero?»
Sei stata tu la prima a dire che ero malata. E non immagini quanto stia soffrendo ora.
Fu una risposta pensata e naturalmente non detta.
«Sto bene, avevo solo bisogno di dormire. Ho dormito.»
Non era vero. Ovviamente, era rimasta sveglia tutta la notte in una veglia pesante e meditabonda. Gli occhi li aveva chiusi quando aveva sentito Yamcha cominciare a svegliarsi, poi era iniziato l’incubo.
«Meno male. Sai, ieri mi sono presa uno spavento terribile con il terremoto. L’hai sentito?»
«Ovvio che l'ho sentito! Piuttosto, volevi dirmi qualcos’altro di importante?»
«Sì…Guarda che disastro ha combinato il tempo, bisognerà ripiantare ogni albero, per non parlare della terrazza e… Va bene, non ci girerò intorno: cara, la tua mamma è felice! Avresti dovuto dirmelo subito che tu e Yamcha avete deciso di sposarvi! Sai quanto ci tengo. E pensare che per un attimo ho creduto  ti fossi innamorata di Vegeta! Evidentemente avevi ragione tu a dirmi che mi sbagliavo. Se ti vedevo pensierosa era per questo, vero? Non sapevi come dare la bella notizia ai tuoi genitori. Sono contenta, sono contenta! Stamattina Yamcha se ne è andato via prestissimo, non ricordo esattamente l’ora, ma mi ha raccomandata di dirti di non stare in pensiero per lui. Ha detto che ti chiamerà appena arriverà nella Città del Nord, e devi sapere che addirittura non voleva partire per aiutarci a sistemare questo disastro! Un tesoro, quel ragazzo è un tesoro! L’ho sempre pensato!»

Sì, è tutto vero, mi sono innamorata di Vegeta, sono preoccupata per lui, penso solo a lui…

Rapita dalla commiserazione per se stessa, la scienziata non valutò nemmeno l’azione dello spilungone: Yamcha aveva parlato del loro matrimonio senza farlo insieme a lei; un'azione grave a cui Bulma però non stava badando, credeva che il suo onesto fidanzato avesse annunciato le loro nozze quella mattina e non prima e privo del suo consenso.
Rimase silenziosa e composta ad ascoltare le fantasticherie della madre persuasa dal matrimonio e più convinta di lei.
«Hai già pensato all’abito che indosserai? Perché ho in mente di portarti in una raffinata boutique che confeziona abiti da sposa su misura. Già ti vedo con addosso uno stupendo vestito bianco! Oh, mia figlia si sposa, come sono emozionata!»
«Mamma calmati, non abbiamo ancora deciso la data, mi sembra presto per pensare al vestito!»
«E cosa vuol dire? L’abito è importante, lo indosserai nel giorno più significativo della tua vita, va scelto con cura, ti ci devi sentire a tuo agio. Non è da sottovalutare. E poi non fremi dalla voglia di guardarti in uno specchio vestita come un principessa? Non era uno dei tuoi sogni?»
Sua madre era una raffica, lanciava dardi alla cieca e tutti colpivano il bersaglio. Ogni punto dolente della scienziata veniva torturato dalle spensierate premure materne.
«Sì, lo era.»
«Allora andiamoci subito!»
«Impossibile – disse Bulma, sentendosi messa alle strette da quell’insistenza esagerata – Non hai sentito che la città è sott'acqua? Non credo potremmo andare senza incontrare disagi. Mi ci accompagnerai un’altra volta.» 
«Hai ragione – constatò dispiaciuta sua madre – l’avevo dimenticato. Vorrà dire che andremo quando le cose si saranno sistemate.»

Ed io spero che mai accada e che l’intera città venga sommersa e sparisca per sempre!

Che... che razza di pensiero ho avuto?! Cosa mi sta accadendo?

«Adesso vado, il caffè si è quasi freddato… l’ho fatto anche per te Bulma, lo vuoi?»
«Sai che non lo bevo più.»
«Oh, che sbadata! Avevo dimenticato anche questo. A proposito, prima che mi passi di mente, mi ha detto tuo padre che devi andare da Vegeta per avvisarlo di uscire dalla navicella, perché deve fare dei controlli. Ci stai andando?»
Questo non te lo scordi!
«Ho già detto a papà che dovrà sbrigarsela da solo, non ripetermi le stesse noiosissime cose!»
Rispose la scienziata che, incavolata nera, si diresse spedita verso l’entrata di casa, lasciando sua madre molto perplessa.
«Continuo a non capire perché ogni volta che le nomino Vegeta se la prende così tanto.»


Bulma entrò in casa bisognosa di proteggersi dal mondo esterno, alla pari di un chirottero sorpreso improvvisamente dalla luce del giorno, stordito e in cerca di un riparo abbastanza buio.
La vita intorno a lei si muoveva con un ritmo fastidioso, non serviva nemmeno a distrarla. Addirittura, l’aveva posta indirettamente di fronte alla possibilità di ricadere nell’errore. Era esausta di una giornata cominciata tardi, da ogni punto di vista pessima e tediosa, che aveva avuto il solo compito di orientarla necessariamente verso la razionalità. 
Bulma raggiunse il salotto e scivolò sul divano, sprofondandoci arresa. Si sfilò gli anfibi che calciò più in là, e s’abbandonò all’infruttuosa osservanza di quello che nel corso di due giorni le era accaduto.
Il terremoto c’era stato davvero, almeno per lei: aveva odiato Yamcha scoprendo di amare Vegeta. Una scoperta che l’aveva portata a fare cose sordide. Non riusciva a smettere di pensarci.
«Sei triste? Lo devi solo a te, Bulma. Se amassi Yamcha, come l’hai sempre amato, saresti felice. Su, fallo, è semplice!»
Parlò sottovoce, non aveva timore o imbarazzo che qualcuno la sentisse impegnata in soliloqui – nonostante nessuno avrebbe potuto udirla, poiché oltre lei la casa era vuota – ma era l’argomento che esternava a non dover essere assolutamente ascoltato.
Poi, sentendosi fissata, la ragazza lasciò momentaneamente le sue riflessioni: a guardarla era la scimmia che Yamcha aveva vinto per lei. Il peluche era rimasto come lo aveva abbandonato il giorno prima: appoggiato al bracciolo opposto del divano dove lei stava sdraiata, con la testa reclinata da un lato e due occhi neri di plastica che la intercettavano obliquamente.
Quel peluche le aveva fatto provare tenerezza e una forte voglia di fare una capriola all'indietro, nel passato; ma in quel momento lo sguardo immoto e vuoto della scimmia le appariva sinistro.
Avvertiva, fissandolo a sua volta, la medesima sensazione che aveva provato nell’incubo che l’aveva svegliata di colpo, con quegli occhi cattivi che le erano strisciati sul corpo.

È inutile che tenti di fare la parte della pentita addolorata, so cosa provi… Per quanto tu ti stia sforzando non riesci ad abbandonarlo”.

Il messaggio era giunto dal peluche, o così le piaceva credere.
«Sì che posso, e poi tu sei una scimmia che vuoi saperne… »
Rispose proterva, sentendo la necessità di difendersi da quell’accusa, naturalmente prodotta dalla sua fantasia, che purtroppo sapeva le calzasse su misura.

Mettiti alla prova, dimostra che non provi nulla per lui. Oppure vuoi rimanere a piangerti addosso, magari per il resto della tua vita?”

La sfida, o scoraggiante previsione futura formulata dalla scimmia, la frastornò con lo stesso effetto di una sostanza oppiacea. Non sapeva che fare, aveva bisogno di suggerimenti ma la sua coscienza faceva silenzio di tomba. Non sentendola decise di istinto: con volontà brusca, s’alzò dal divano su cui era figurativamente deceduta, andò verso la finestra che dava sull’entrata della Capsule Corporation e studiò la situazione: suo padre era ancora in compagnia del geologo di poca fede, e la mamma li stava intrattenendo entrambi con una delle sue tipiche ciance.
Nessuno era andato a fare da guastafeste al saiyan. Appuratolo, Bulma rimase in piedi sullo stesso punto per alcuni minuti. I secondi le passarono con la stessa rilevanza del count-down che precedeva il lancio di uno shuttle verso lo spazio. Trascorsi, partì grintosa per raggiungere una meta precisa.


 

~ ~ ~
 


La Capsule Corporation disponeva all’incirca di una quindicina di stanze per gli ospiti, ma solo alcune erano arredate a camere da letto. In fondo al corridoio del terzo di quattro piani, c’era la porta di una di queste camere. Era lì che avevano sistemato il saiyan. La camera di Bulma invece si trovava al secondo piano e dal lato opposto a quella di Vegeta.
Cosa la scienziata andasse a fare lì non era noto nemmeno a lei, nel cammino aveva accumulato svariate scuse per zittire la sua coscienza – tornata tempestivamente per infastidirla – e lasciare ampio spazio alla sua determinazione.
Dirigersi là era forse una via traversa per arrivare in uno stesso punto: un faccia a faccia col saiyan si presentava mostruosamente impegnativo, una prova da affrontare con la consapevolezza di uscirne vinta; aggirarlo decidendo di esaminarsi in un luogo collegato a lui, ma senza di lui, era un surrogato più conveniente e le dava maggiori possibilità di scampo.
Tra i moventi che la comandavano c’era l’anello: era convinta di poterlo trovare nella camera di Vegeta.
Se credi una simile assurdità dai per scontato che lui te l’abbia rubato per chissà quale motivo e, ancora più assurdo, credi che invece di farlo sparire lui l’abbia nascosto nella sua camera sempre per lo stesso inspiegabile motivo.
Strambo o paranormale che fosse stato, lei non si fermò.
Stai commettendo un grosso sbaglio. Non aprire quella porta, non aprirla, gira i tacchi e vattene! Se ti scoprisse cosa faresti?!
Mutata in bastian contrario di se stessa, girò il pomello della porta e lo fece scattare. Timorosa, infilò il suo cespuglio azzurro oltre la soglia, e i suoi occhi grandi si mossero guardinghi da destra a sinistra e ancora una volta da sinistra a destra. La camera era libera come immaginava: il torvo stava ad allenarsi e data l’ora ne avrebbe avuto ancora per molto. Anche se c’era la possibilità che qualcuno avrebbe potuto costringerlo a lasciare in anticipo la sua ginnastica indefessa, Bulma obliterò prontamente la probabile ipotesi. Credeva di poter risolvere la faccenda in poco tempo, senza venire scoperta.
Entrata definitivamente, la ragazza richiuse la porta alle sue spalle, facendo il minor rumore possibile.

Quella stanza era interamente per lei. Ricordò di esserci entrata in tutto due volte: una, prima che fosse deciso che lui sarebbe stato ospitato lì, un’altra per invitarcelo. Dopo si era tenuta opportunamente lontana, per rispettare la privacy del saiyan e perché sì, inizialmente, non conoscendo i comportamenti di Vegeta, provava per lui una saggia diffidenza.
La camera poteva appartenere a chiunque e non era così disordinata: le coperte del letto erano rimboccate quel tanto per farlo apparire sistemato, la scrivania era completamente vuota di oggetti, a parte una sveglia, e alcuni indumenti erano piegati e appoggiati ai braccioli dell'unica poltrona presente nella stanza. Be', almeno la si poteva considerare vissuta. Eppure, lì non ci dormiva un terrestre, ma un alieno con niente che ne facesse apparire la differenza. L’assenza di riconducibilità a Vegeta si mostrava crudele sotto ogni aspetto: nulla gli apparteneva, a parte i vestiti – che tuttavia non erano stati scelti dal saiyan ma da Bulma e da sua madre – e lui stesso non apparteneva a niente.

Potrebbe anche sparire e nessuno se ne accorgerebbe.

Il lugubre pensiero la smarrì, provocandole una preoccupazione e un diniego angoscianti, i quali iniziarono a rosicchiarle l’inconscio.
Soffermandosi a guardare gli abiti sulla poltrona – un maglione e un paio di pantaloni –  Bulma ricordò l’amena camicia rosa che dietro portava stampigliata la scritta “badman”. Lei gliel’aveva acquistata personalmente per stuzzicarlo; e quando gliel’aveva messa sotto gli occhi, lui s’era limitato a fissarla con sdegno, passando successivamente a rifilarle la stessa occhiataccia, per poi infilarsi la camicia quasi avesse voluto strapparla nel farlo. Dopo tale incidente, Vegeta le aveva espressamente chiesto indumenti che non fossero più chiari del rosso, nulla che fosse suo derivato e assolutamente niente rosa. Il pensiero simpatico le provocò un mezzo sorriso, che s’allungò di più al ricordo della faccia indispettita del saiyan.
Sposata credo non potrò neppure procuragli dei vestiti.
Anziché preoccuparsi della convivenza, poiché, una volta maritatasi, la presenza di Vegeta a condividere lo stesso tetto con Yamcha sarebbe stata sconveniente – anche se la Capsule Corporation era talmente grande che si rischiava di non incontrarsi mai –  Bulma faceva caso e dava importanza a piccole cose, banali, le quali però erano entrate nelle sue abitudini colmando una routine che si stava rivelando indispensabile. L’idea di mettere il saiyan fuori dalla porta non la sfiorò nemmeno. La casa rimaneva sua, decideva lei cosa farne dei suoi ospiti, Yamcha avrebbe trovato un limite alla sua giurisdizione di marito.

Bulma tentò di iniziare l’indagine al fine di ritrovare il suo gioiello. Non riuscì a staccare le spalle dalla porta su cui si era appoggiata dopo essere entrata. Nella stanza c’era un odore che la costringeva a restare ancorata dov’era. Era l’odore di lui, o così era convinta di sentire. Unica traccia del saiyan, una traccia invisibile.
L’odore l'aveva aggredita appena aveva messo piede in camera e allo stesso modo di quando lei e Vegeta si erano respirati addosso. Le sembrava che fosse realmente lì, vicino a lei, a sovrastarla col suo corpo possente e caloroso.

Se volessimo… potremmo”

La voce di Vegeta era una malia che non avrebbe dovuto ricordare.
Basterebbe aprire la finestra e mandarlo via.
Pensò la scienziata, ma desiderò il contrario: se quell’odore avesse avuto consistenza, lei lo avrebbe colto per conservalo allo stesso modo di una sacra reliquia da tirare fuori e venerare nei momenti di duro sconforto.
S’era promessa di rompere con lui; ora si sentiva una fedifraga, una pietosa fedifraga in cerca di risposte che credeva avrebbe trovato varcando la porta di una stanza. Ma averlo fatto si stava rivelando nocivo, ogni pensiero la proiettava verso una felicità che si esacerbava e moriva lasciando il posto ad un asettico nulla.
Tuttavia, era questa la strada della redenzione: provare che non le interessasse, che non le costasse nulla abbandonarlo e amare Yamcha, veramente.

Io… cosa sto facendo qui?

L’anello… non è questo che cerco, non è questo che lui mi ha rubato. È il mio cuore ad essersi smarrito.

Tu, Vegeta, me l’hai rubato!


Ogni sua intenzione si annichilì, lei si piegò sulle ginocchia sotto la spinta schiacciante di un amore voglioso di nascere e di essere corrisposto.

Ho bisogno del mio cuore per amare. Ne ho bisogno per amare Yamcha.

La tristezza le inondò gli occhi e discese calda bagnandole le guance; presto, un impasto cremoso di lacrime e trucco le appannò la vista, il naso diventò umido ed insopportabile. Si trovò costretta a raggiungere il bagno interno alla stanza per rimediare allo spampanamento.

Sciacquatasi il viso, Bulma si appoggiò al muro, strusciò la fronte sulle mattonelle fresche che ricoprivano la parete del bagno, in cerca di tenue sollievo. Quella situazione di sconforto e annientamento destinata a non mutare, se non in peggio, perché si stava rendendo conto d’aver varcato il punto di non ritorno senza potervi rimediare, cambiò quando la sua attenzione venne attratta da un cumulo di asciugamani sporchi lasciati a terra, vicino al box doccia. Avvicinatasi, Bulma ne sollevò uno con mano tremante, lo analizzò sincerandosi di quello che credeva lo imbrattasse e rimase più inorridita scorgendo sotto di esso un rotolo di bende finito e fasciature fatte a brandelli, zuppe di sangue; ne erano tanto intrise che il sangue quasi luccicava di freschezza.

Che significano queste? Deve essersi medicato da solo. Oh, ha perso molto sangue! Si è aggravato e non ha chiesto aiuto!

Potrebbe anche sparire, nessuno se ne accorgerebbe”

Il pensiero le si propagò nuovamente nella testa, con lo stesso rintocco di una campana funebre. Un terrore latente la scosse come fosse stato elettricità passata in lei ad alto voltaggio. La prospettiva che Vegeta stesse rischiando la vita a causa dei dissennati allenamenti, associata alla constatazione che nessuno ci avrebbe fatto caso e che, tantomeno, a nessuno sarebbe importato se lui fosse morto; la fecero precipitare nel terrore, scolorendole il viso fino a farlo divenire più pallido di quanto già era per natura.

È solo. Ha bisogno di me.

Di corsa, tornò in camera ed alzò le coperte del letto: le lenzuola erano macchiate di sangue come pensava. Si chiese se non fosse un segno del destino trovarsi lì, a vedere prima che Vegeta o i robot domestici rimuovessero quella bruttura prova degli sforzi a cui il saiyan si sottoponeva.
Non posso abbandonarlo. Sarei una egoista.
Tornarono a farle visita i civili ed onesti obblighi umanitari che precedentemente aveva scelto di mettere in castigo, e si convinse che lei, solo lei, era in dovere di fermarlo. A smuoverla c’era anche l’amore per lui… Soprattutto l’amore clandestino che non poteva esistere, pernicioso, che più lo pressava contro quello ufficiale sano e ricambiato, maggiormente ne usciva ingigantito e forte da arrivare ad un’imparità incolmabile.
Defezionando il giuramento fatto ore prima per rispettare la fiducia che Yamcha aveva in lei, promettendosi di non avere, in futuro, alcun contatto con il saiyan; Bulma decise di rimanere lì, ad aspettare il ritorno di Vegeta. Doveva parlargli assolutamente, e cercare di convincerlo a curarsi.


 

~ ~ ~

 

Gli rodeva, era scocciato oltremisura; essere interrotto durante gli allenamenti lo mandava in bestia;  non s’era potuto ribellare in nessuno modo. Era stato lo scienziato in persona a dirgli di uscire dalla navicella spaziale, avvisandolo di doverla necessariamente revisionare. Vegeta si fidava ciecamente delle parole del dottor Brief ed aveva acconsentito avvertendolo però che non avrebbe sopportato una lunga attesa. Ad ogni modo, il saiyan era sicuro che l’improvvisa interruzione fosse un subdolo piano architettato dalla ficco-il-naso-in-ogni-dove, per intralciarlo e costringerlo a riposo. La conferma l’aveva avuta dal padre della stessa, che l’aveva informato della conoscenza del guasto anche da parte di Bulma.
Sì, secondo lui era un piano; gli veniva da sospettare che nel momento in cui l’aveva lasciata sola nell’astronave, lei l’avesse manomessa di proposito.
Ucciderli uno per uno, era un'idea che Vegeta aveva ancora vivida nella mente. Ora, l’affronto aveva raggiunto l’incommensurabilità. Lei lo stava istigando, spingendolo a comportarsi da saiyan invasore e non da saiyan caritatevole che non uccide solo perché impegnato in cose più eccitanti. Secondo i suoi canoni, sarebbe dovuto andare dalla terrestre e fargliela pagare, minacciando di ucciderle il padre se lei avesse continuato a frapporsi tra lui e l’allenamento per raggiungere e sopraelevarsi a Kakaroth. Ma, contrariamente a quanto era spinto a fare, Vegeta decise di ritirarsi nella sua stanza e approfittarne per darsi una rinfrescata e riposarsi.

Giunto davanti alla porta di quello che sarebbe dovuto essere un rifugio lontano da qualsiasi genere di seccatura, il saiyan si bloccò sospettoso e non entrò.

Qui c’è qualcuno, lo sento bene, non mi sto sbagliando.

Sorpreso d'aver avvertito una presenza nella sua camera, Vegeta volle assicurarsi di essere al terzo piano e di non aver sbagliato stanza. Così, ripercorse il corridoio per controllare meglio. Accertatosi di stare nel posto giusto, aprì la porta, curioso di scoprire chi si era intrufolato nel suo rifugio. Comunque non gli era difficile immaginare chi vi avrebbe trovato.
Non se ne stupì, infatti, ma ora aveva una bella seccatura da risolvere: lei era lì, adagiata sul suo letto, gli dava le spalle.
Vegeta la osservò, forse più del necessario. 

Fatta per essere uccisa.

Non aveva altra definizione. E più la guardava, rasentando la contemplazione mista all’intenzione dell’agguato, più la collera ascendeva pervadendolo violentemente; o così credeva dovesse definire quello che la terrestre gli stava ispirando. Si convinse davvero che trovarla sul suo letto fosse l’ennesima parte del piano, il quale cominciava a farsi estremamente subdolo.
Di chiederle in cagnesco cosa ci facesse nella sua camera, e sopra la sua alcova, era d’obbligo, però, non disse nulla per un motivo inesplicabile anche a se stesso.
Si avvicinò a lei, girando attorno al letto, per sincerarsi di un viso che credeva di sorprendere addormentato. Gli sobbalzò l’animo, e solo quello, per il resto rimase immobile, nello scoprire due occhi iridescenti mirare intensamente il sole fattosi occiduo. Ma l’evento sorprendente fu quello di trovarsi nel campo visivo della ragazzina senza però ricevere da lei nemmeno uno sguardo. Stava rivelandosi parecchio arduo comprenderla; non sapendo come avrebbe dovuto interpretarla, non aveva le forze per farlo, il saiyan tagliò corto:

«Tu. Perché sei qui?»

Bulma era affondata in un’apparente indifferenza, utile a mascherare la trepidazione che di lì a poco l’avrebbe bruciata viva. Non sapeva se cominciare dal convincerlo a disertare gli allenamenti o dal chiedergli di restituirle il cuore.
Indecisa, la scienziata rimase immobile, continuando ad osservare il sole sfiorare i grattaceli di West City nel suo silenzioso e naturale decesso. Solo dopo alcuni minuti, nel corso dei quali Vegeta non le tolse gli occhi di dosso e lei, di rimando, li evitò, le venne il coraggio di pronunciarsi.

«Non lo so.» 

«Bene. Vattene.», disse caustico il saiyan, in replica alla stranezza da lei mostrata.

«Ti do così fastidio?»,  domandò lei.

«Sì, mi dai fastidio.», confermò Vegeta, che di fastidio ne provava molto, da avvertire la temperatura del suo corpo farsi più calda.

«Ieri non sembravo dispiacerti.»

Controbatté Bulma, in un sussurro carico di amarezza, alludendo alla confidenza che era nata tra loro ma che, da quel che percepiva, s’era dispersa nel corso di pochissimo tempo.

«Non so cosa intendi e voglio che tu te ne vada. Subito.»
Vegeta invece aveva capito bene a cosa lei stava riferendosi, semplicemente non desiderava esserne coinvolto. Ne aveva di pensieri per la testa, tra cui lei, che ne aveva preso un’ampia fetta e che, appositamente per questo, non doveva andare oltre.
Pensare che irretirla e spaventarla, come aveva fatto nell’astronave, non era stato abbastanza sufficiente per intendere i confini che la scienziata non avrebbe più dovuto oltrepassare, si era mostrata una tesi esatta. Il saiyan aveva bisogno di cambiare tattica, pensò ci volesse distanza.

«La tua ferita perde ancora sangue, forse è il caso di chiamare un medico.»
Riprese Bulma, arrivando finalmente al problema che la turbava di più e senza curarsi dell’invito a sgomberare il campo.
Se Vegeta credeva di averla scoraggiata si sbagliava. Bulma s'alzò, sicura di sé, e incontrò gli occhi del saiyan, rimanendo di fronte a lui che la osservava astioso ma anche rapito.
«Ieri ti avevo avvisato, dovevi essere nuovamente medicato ma, a quanto sembra, oltre ad essere scappato sei anche peggiorato!»

«Questo non ti riguarda. Sono stato abbastanza chiaro a proposito delle mie condizioni di salute. Non ripeterò ciò che ho già detto. E comunque sto bene. Adesso, vattene.»

«Ho visto le bende in bagno e queste – gli apostrofò lei, tirando via la coperta e scoprendo così le lenzuola insanguinate – Lo vuoi capire sì o no che hai bisogno delle cure di un dottore?! Io non posso ricucirti, non sono in grado, e tu non puoi continuare a perdere sangue!»
Di primo acchito, Vegeta si sorprese per l’improvvisa irruenza della terrestre. Un istante dopo, valutò che quel tono con lui non poteva essere usato.

«Devi farti i fatti tuoi, ragazzina! Se tra pochi secondi non sarai fuori di qui, ti costringerò io con la forza! Stavolta, non riuscirò a trattenermi. Ti ho avvisata!»
La minacciò, dando aria di non scherzare. Era stanco di lei, lo esauriva; in verità era già esaurito, consumato dagli allenamenti, dai desideri di rivalsa che gli divoravano l’animo, dall’impazienza di sanare l’orgoglio ferito e oltraggiato nell’attesa di diventare diverso e migliore di quello che era. Di colmare la sua insufficienza e rimuovere l'onta con cui Kakaroth lo aveva sfregiato. Discutere con lei era l’ultima delle situazioni a cui voleva assistere e soprattutto partecipare, sia perché avvertiva che stavolta l’avrebbe uccisa in uno scatto d’ira incontrollato; ma chiudendo gli occhi per farlo, poiché guardarla ammansiva ogni sua intenzione in modo inaccettabile; sia perché sentiva un torpore iniziare ad espandersi in tutto il suo corpo. Vegeta stava per svenire, lo sapeva. Era sul punto di perdere i sensi e curiosamente succedeva sempre quando lei era presente o nei paraggi. Dentro di sé imprecò affinché non accadesse e sperò vanamente che lei capisse e se ne andasse evitando storie.
Bulma, al contrario, gli berciò contro arrabbiata ed invelenita da un dispetto che lui non comprendeva.

«Ah, bravo, insisti a non darmi retta, vuoi fare l’eroe, vuoi continuare a sottoporti alle tue torture nonostante sai benissimo di non essere nelle condizioni per farlo! Di’ un po’, credi di essere migliore degli altri comportandoti in modo così cocciuto, eh?! Dove pensi di poter arrivare conciato come sei? Guardati, a malapena ti reggi in piedi!»

Non la tollerava più.

«Io devo… devo assolutamente sconfiggere Kakaroth, tu non... non-»
Ed intanto, un ronzio simile ad uno sciame di api, che non lasciava presagire nulla di diverso da quello che s’aspettava, cominciò a propagarsi offuscandogli l’udito. Successivamente, la vista si distorse e l’immagine della femmina straccia pazienza che gli era davanti si moltiplicò in modo fantasmagorico: tre bocche, sei mani, tre teste e altrettante paia di gambe. Triplicata nella sua intera forma. Il saiyan chiuse gli occhi, se li stropicciò con una mano, ma riaprendoli la visione rimase intatta. Dopo, sentì la terrestre impicciona gridare il suo nome, chiedergli cosa gli stesse prendendo ed infine solo ronzio, e pace.
Pochi secondi lo portarono dallo stare lontano da lei ad esserci a contatto.

«La tua ostinazione... a cosa ti sta riducendo. Io te lo avevo detto. Devo portarti immediatamente da un medico, hai perso troppo sangue!»

«No, non è necessario… Non immischiarti... »
Il saiyan era tornato immediatamente cosciente, anche se con un filo di voce; sentiva distintamente il respiro di lei carezzargli l’orecchio, si era reso conto di avere le braccia sottili di Bulma aggrappate alla sua schiena, e di tenere la fronte appoggiata sulla piccola spalla della terrestre. Un simile contatto non gli era mai capitato, quella gentile e pura effusione di calore umano con cui lei lo stava avvolgendo era per lui tanto misteriosa quanto pericolosa, da destabilizzarlo a tal punto che la equiparava ad un avversario difficile da affrontare. La sua tempra non resistette: lui abbassò la guardia sotto la spinta di lasciarsi andare.
Bulma dal suo canto non sapeva se essere felice di averlo fra le sue braccia o di essere in pena per come era malconcio.
Lo sto solo aiutando. Sì, questo non è un abbraccio, lo sorreggo altrimenti potrebbe cadere e non rialzarsi più, non voglio che accada.
Lui ha bisogno di me
.
Ma il saiyan riusciva ancora a stare in piedi, altrimenti sarebbero caduti entrambi, solo che Bulma continuava lo stesso a tenerselo vicino, come a volerlo difendere dai mali che lo torturavano dalle le piaghe della pelle sino a quelle dell’anima.
Se avessi trovato il coraggio di respingere Yamcha…
Se lo teneva stretto sempre di più, dispiacendosi mortalmente, consapevole che non sarebbe mai stato suo.
Devo rinunciare a te. Devo rinunciare a te. Devo rinunciare a te. Devo, devo…
Nel deliquio che le stava sciogliendo le viscere, le sue labbra cercarono impulsive quelle di Vegeta.
Lui, che si stava rendendo conto di quanto lei potesse essere inaspettatamente forte di un potere sconosciuto, scostò di scatto il volto prima che ella riuscisse ad arrivare alla sua bocca; ritrovando così il suo orgoglio di guerriero scemato come niente in brevi attimi di languore e carne fattasi improvvisamente sensibile.

«Non toccarmi! Sta’ lontano! Sono il Principe dei Saiyan e tu sei una terrestre, un essere inferiore di una razza che avrebbe dovuto estinguersi. Non ho bisogno di te, non voglio niente da te, specialmente la tua rivoltante compassione!»
La respinse aggressivo come una belva, con le parole scappategli di bocca strozzate e cavernose. Era l’effetto collaterale per essersi sentito impreparato, disarmato; Bulma ne aveva tutta la colpa.

«Scusami, Vegeta, io volevo solo aiutarti… »

Cercò di ridimensionare l’avventatezza avuta. Ma ormai il danno era irreparabile.
Dovevi solo persuaderlo dall’autodistruggersi, non provare a baciarlo. Guarda come è adirato, ora sarà un miracolo uscirne vivi.
A condannarla arrivò anche la vocina adorata.

«Aiutarmi?! Come te lo devo far capire che non sono debole come voi terrestri?!»

«Non ho detto che sei debole, ma stai male. Non vorrai negarlo anche davanti all’evidenza?»

Gli fece notare lei, esattamente mentre lui, facendo qualche passo indietro per ricreare spazio tra loro, tentò di appoggiarsi alla poltrona per sorreggersi e non cadere. Resosi conto di non poterla controbattere, Vegeta scelse di cambiare campo di battaglia arrivando dritto al nocciolo della questione.

«Dimmi, sciocca terrestre, perché sei così insistente, eh? Quale è il tuo piano, cosa speri di ottenere da me? Non vedi che sono malvagio?! Che nel mio cuore alberga unicamente l’ambizione e la cattiveria! Che… che se volessi potrei ucciderti, adesso!»
Ma le parole del saiyan, anche se gravi e intimidatorie, suonarono alle orecchie di Bulma come inutili giustificazioni per essersi sottratto al piacere di un suo bacio. Quella ritrosia era completamente dovuta all’orgoglio. Quello che Bulma non immaginava era fino a che punto l'orgoglio era importante per Vegeta.

«… Potresti, lo so, me l’hai detto anche ieri. Ma non credo che nel tuo cuore non ci sia nient’altro. Tu sei solamente arrabbiato e fai male ad incolpare te stesso e gli altri. Sono sicura che anche tu hai un lato buono, però a causa del tuo orgoglio non riesci a mostrarlo e credi che a possederlo siano soltanto le persone deboli, come me.»
Gli disse tutto d’un fiato, non dando importanza alla reazione che ne sarebbe potuta scaturire.
Il saiyan la fissò con l’espressione di chi non riusciva a capacitarsi di come un segreto tanto nascosto fosse stato scoperto con estrema facilità. Nessuno mai l’aveva scandagliato così in profondità, nessuno gli aveva mai letto l’anima, perché era sempre stato bravo a nascondere i suoi sentimenti; li aveva inumati nelle profondità del suo spirito tanto che era convinto di non averne più, perché un saiyan puro non poteva averne.
Invece lei li stava resuscitando dalle tenebre in cui erano rimasti a giacere, mettendogli in luce quanto stesse soffrendo la sua anima e addirittura accusandogli l’orgoglio. Cagione che lui non avrebbe mai ammesso tanto che, incredulo, scuoteva la testa in disapprovazione, considerando quanto detto dalla terrestre un perfetto sofisma.

«Non voglio più sentire le tue assurdità, è troppo. Tu non mi conosci, non sai niente di me e ti sei messa in testa un mucchio di sciocchezze. Adesso esci!»
La intimò ancora, camminando nella stanza per tentare di sfuggire ai grandi occhi di lei che non smettevano di seguirlo. Quanto detestava essere fissato.

«È perché dico la verità che mi cacci via?»
No, tu non dici la verità. Tu lo fomenti a farti del male, e questo non ci pensa due volte a farti secca!
L’avvertì la santa vocina; sfortunatamente Bulma non capiva il rischio che stava correndo e, sicura di aver finalmente fatto breccia in lui, insisteva.

«No, lo faccio perché non ti voglio, fuorché fuori di qui.», rispose il saiyan, con fermezza di piombo ma al limite dell’autocontrollo.

E se ti dicessi che ti amo, mi cacceresti via lo stesso, Vegeta?
Lascia perdere! Peggioreresti la situazione, pensa a Yamcha, pensa alla promessa che hai fatto, pensa che hai buone probabilità per aspettare un figlio da lui!

«Non mi vuoi o non ti è concesso volermi? - continuò Bulma, per nulla intenzionata a frenare la lingua e pienamente convinta che dichiarandosi si sarebbe sbarazzata dell’enorme macigno che la schiacciava – Vegeta, tu credi che le mie attenzioni per te siano merito della compassione. Ma in realtà… io mi sono-»

«Illusa!»

Il saiyan la troncò prontamente, come se le avesse letto il pensiero, aveva intuito in quale direzione lei stava precipitando, il fine ultimo del subdolo piano, la spiegazione delle tante premure da lei mostrate; e non voleva assolutamente sostenerla.
Proseguì, non permettendole di riprendere parola.
«Cercherò nuovamente di spiegarti un concetto a cui sembri non arrivare – ora, le stava parlando dandole le spalle – Io sono una macchina da guerra fatta apposta per distruggere. Non nutro sentimenti verso nessuno, non ho pietà, faccio del male e godo nel farlo. Tu, debole illusa terrestre, ti sei improvvisamente infatuata di una fantasia lontana dalla realtà e che non ha nulla a che fare con me... Non mi interessi né come donna né in nessun altro ruolo. Ora che sei a conoscenza della situazione, non hai più nulla da fare qui. Sparisci.»
Finì. Era stato crudele e perentorio, aveva giocato la sua ultima carta per liberarsi di lei evitando di scatenarsi. 
Sembrò funzionare: con la coda dell’occhio, la vide retrocedere.

Bulma si sentì dissolvere. Intorno a lei avvertiva solo spazio vuoto: il pavimento, le pareti, Vegeta stesso, tutto s’era disfatto. Come era accaduto nell’incubo stava sprofondando senza appigli né luce, minuscola ed impotente.

Quindi, aveva capito... se ne era accorto.

Era prevedibile, adesso ne hai la conferma. Lui è dolore. Non ti vuole. Vattene.

Era vero, la caduta faceva male e nessuno era intervenuto per salvarla; si era buttata dal precipizio e ne era uscita in forma di carne macellata.
Di fronte alle sferraglianti e crudeli parole appena udite, non c’era nessun amore da confessare, solo la resa.

«D’accordo, ti lascio la solitudine se è questa che vuoi. E se ti accadrà qualcosa farò finta di nulla, non verrò a soccorrerti. Spero davvero che tu non ne abbia mai bisogno. Ma te lo devo dire: sei tu l’illuso se credi che il tuo orgoglio, l’odio e l’essere il Principe di un popolo scomparso potranno garantirti di arrivare a questo Super Saiyan. Non riuscirai mai a superare Goku se non dai al tuo cuore la possibilità di migliorare!»

Silenzio.

Era quasi senza fiato, aveva urlato, lo aveva aggredito ma non era sua intenzione ferirlo, solo quando fu troppo tardi Bulma s’accorse di avere esagerato. Vide Vegeta voltarsi di scatto e puntarla con uno sguardo indicibile. Lei tentò ugualmente di mantenersi cheta, per avviarsi in direzione della porta che le sembrò essere lontanissima.

Le parole della terrestre furono per il saiyan un colpo d’accetta talmente forte da spezzare violentemente la corteccia dura del suo orgoglio e farlo sanguinare.
La scienziata già gli dava le spalle quando lui, fuori controllo, le si accanì contro con la carica di un leone, avventandosi con le mani nervose alla sua gola. Vegeta ardeva nell’urgenza di difendersi dall’insinuazione di Bulma. Il guaio maggiore era sospettare che fosse la verità: anche lui ci aveva pensato a quello che lei gli aveva appena detto, poteva essere una delle cause del suo ritardo.
Ma quella donna non poteva avere ragione. Un conto era sospettarlo in solitudine, un altro sentirlo pronunciare dalle labbra tumide e rosse di lei.

Nella brevità di un secondo, Bulma si ritrovò attaccata al muro e coi piedi sollevati da terra. Non ebbe neanche il tempo di gridare che già le usciva difficile respirare. Lui era forte, bestialmente forte, a contatto riusciva a percepire la potenza terribile che possedeva e aveva intenzione di ucciderla, non c’erano dubbi: gli occhi gli erano mutati in uno sguardo più aspro e atro di quanto finora lei avesse visto. V’era affiorato il male puro.

«Come osi parlarmi in questo modo, come ti permetti di dire che sono inferiore a Kakaroth solo perché lui a mia differenza è tanto buono e misericordioso. Pensi sia merito di questo che lui è un Super Saiyan e io no?»

«Vegeta, n-non intendevo dire-»

«Fa’ silenzio! Sta’ zitta! È per colpa tua se mi sono ridotto così, tua e di Kakaroth se mi ritrovo a sputare sangue su questo pianeta di inetti per tentare di recuperare la dignità che quel servo insulso si è divertito a calpestare! E tu, tu… sei come lui, ti prendi gioco di me, mi deridi alle spalle compiacendoti del mio fallimento. Ma credimi, finirà, per tutti e due, per mano mia!»
Scosso, colpito nell’orgoglio, Vegeta stava tramutando parte dei suoi pensieri paranoici – che se fosse stato lucido mai li avrebbe presi in considerazione – in odio ruggito.
Se poco prima aveva preso Bulma come un singolare ed irritante caso di stoltezza terrestre, per di più invaghitasi di lui, adesso la collera gliel’aveva sfocata nell’immagine del nemico, mescolandola con il rancore nutrito contro Goku. La povera Bulma non riusciva a capire la logica delle accuse che le venivano urlate in faccia e, scioccata, non trovava parole per quel turbine di ira che voleva strangolarla. L’avrebbe uccisa. Sì, questo era l’assassino, freddo, indifferente, perduto. Disperato.

Le mani del saiyan non trasmettevano più il calore piacevole che l’aveva fatta sognare ad occhi aperti, tutto era stato offuscato dalla sua ferocia incontenibile.
Stavolta è finita Bulma. Che credevi, a giocare col fuoco prima o poi si va in fiamme.
Quello che credeva di aver scorto nella navicella spaziale – l’uomo minaccioso ma affascinante, e allo stesso tempo tanto triste da instillarle la voluttà di amarlo – era scomparso… o forse non era mai esistito. Al suo posto era emerso un mostro inaspettato, sconosciuto, inavvicinabile, intrattabile, sordo, accecato dalla vendetta e dal rancore.

«Credi davvero che non lo abbia capito? – riprese ad aggredirla Vegeta – So bene perché sei sempre così curiosa di vedermi, è per correre da lui e riferirgli quanto stia cadendo in basso il suo Principe. Sai che faccio adesso? Ti accontento subito.»
Tenendola ferma con una mano a stritolarle la gola, con l’altra il saiyan si strappò gli abiti che indossava e le bende che lo fasciavano; le mostrò il suo corpo martoriato e deturpato. 
Lei conosceva la sua pelle nuda, l’aveva osservata attentamente quando l’aveva medicato ed aveva già notato la moltitudine di cicatrici che la sfiguravano, ma era sconvolgente e doloroso vedere come in poco tempo non ci fosse più parte sana. Il torace del saiyan era pieno di graffi, lividi, gonfiori, ustioni, ferite che perdevano sangue e che sicuramente andavano cucite con urgenza. Vederlo in quelle condizioni era talmente straziante che Bulma non riuscì a sostenere la vista e volse gli occhi altrove.

«Devi guardarmi!», le ruggì Vegeta.

«Che ne pensi, è abbastanza soddisfacente? Questa sera andrai da lui e lo farai sorridere di più, eh?»
Le domandò con voce sardonica e sinistra.

Perché fai così, cosa c’è che non va in te?
È l’ossessione per Goku la causa di tanto odio o c’è dell’altro che tieni nascosto?
Quanto hai sofferto per diventare quello che sei?
Oh, Vegeta, se potessi guarirti o almeno alleviare le tue pene darei anche la mia vita per te, ma tu sembri non volerlo capire.

La scienziata non si capacitava di come il suo amore potesse essere stato degenerato in qualcosa di tanto cattivo e vituperante. Non le pareva possibile che l’astio lo avesse abbagliato a tal punto da renderlo orbo e senza speranza.

«Non dici niente? Non era quello che t’aspettavi? Desideri vedermi morto, vero?», le sibilò raggelante.

«Tu sei pazzo! Va bene, come vuoi... È vero, penso tutto quello che hai detto e sì, parlo di te con Goku e sono come lui, non ti sbagli. Vuoi ammazzarmi? Se questo può darti conforto, fallo! Incomincia da me, mostrami quanto sei malvagio… io non ho paura!»
La voce di Bulma era stata un traballio di parole. Per rispondergli aveva fatto uno sforzo sovrumano, perché lui continuava a tenere strette le dita sul suo collo e le toglieva l’aria.

«Non hai paura…»

Rimarcò Vegeta, da lei non si aspettava una reazione tanto decisa e coraggiosa. Se era una finta, doveva ammettere che la terrestre sapeva mentirgli abilmente.
La loro era una gara di sguardi: lei sentiva di non aver più nulla da perdere, lui credeva che ammazzarla non l’avrebbe scalfito in alcun modo.

«Tu non mi fai paura.»

Rispose Bulma, irremovibile e caparbia, con gli occhi rossi per la mancanza di ossigeno e perché quella situazione la stava portando di nuovo alle lacrime. Ma non una sola goccia sarebbe dovuta cadere davanti al saiyan.

«Cosa aspetti a uccidermi?»

Gli domandò sfruttando la poca aria che le attraversava la gola e tenendo sempre gli occhi cerulei fissi in quelli picei e corruschi d’ira del saiyan.

«Ho capito, sei tu ad avere paura… Sei tu il codardo.»

Lo sfidò ancora. 

Folle presuntuosa terrestre... tu non sai quello che stai dicendo.

Vegeta doveva togliersela da sotto gli occhi immediatamente, ancora una parola di troppo da parte della scienziata e l'avrebbe strozzata senza neanche accorgersene. Se ne liberò scaraventandola indietro, facendola rovinare sul letto, forse per non farle troppo male. Ma il materasso aveva contribuito a darle un’altra spinta, che finì per schiantarla a terra.
Nella camera s’udì il tonfo forte delle ginocchia di Bulma schiacciarsi sul pavimento senza moquette. Peccato che quello destro era andato ad urtare anche l’angolo appuntito della scrivania posta dall’altra parte del letto. Ora, la scienziata se ne stava con i palmi aperti a toccare il pavimento freddo e con uno zigomo per nulla contento della nuova dolorosa esperienza, aveva picchiato anche il viso.

Calma, respira, niente panico, non hai paura. Ed anche se ti fa male tutto non ce l’hai il tempo per pensarci. Devi andare via, subito!

Si comandava, quasi strisciando nel tentativo di non mettere il peso sulle ginocchia, erano quelle che più le dolevano. Operazione complicata che la obbligava ad avere una posa da sirena morente. 
La scienziata cercò di raggiungere la porta per fuggire da lì, come se bastasse a fermare il saiyan e metterla al sicuro.
Alla porta ci arrivò, al pomello per aprirla no.
S’allungò, lo sfiorò, tentò di girarlo. Poteva provare a mettersi in piedi però aveva paura di peggiorare la situazione e le mancava il fiato. Anche se non c’erano più le mani del saiyan a toglierle aria, il panico non le permetteva di alternare momenti di espirazione a quelli di inspirazione in modo regolare. Tentò ancora una volta, ma nulla. Poi, dopo vari tentativi, un piede del saiyan le si piazzò a pochi centimetri dal volto.

Oh, no, mi prende a calci e mi disintegra la faccia, oppure mi schiaccia la testa. E se mi rompesse solo il naso?… Mi rovinerà comunque, avrò bisogno di un chirurgo.

Bulma si chiuse come un riccio, pronta a patire i dolori più atroci, finché non udì lo scatto del pomello girare e i cardini della porta cigolare mentre questa veniva spalancata: Vegeta le aveva aperto la porta.
Ne rimase sorpresa, ma non alzò lo sguardo su di lui. Continuò ad avanzare con addosso una paura convinta di non avere ma che l’aveva fatta sudare tremendamente.
Varcata la soglia della camera, la scienziata udì gli stessi rumori a nastro riavvolto: gemito della porta prima, scatto del pomello dopo… più due mandate di chiave.
Scoppiò a piangere, era inevitabile, e si tappò la bocca per soffocare i singhiozzi, non voleva farsi sentire da lui.

Se sua madre fosse passata e l’avesse vista in quelle condizioni le sarebbe preso un infarto.
Pensò di doversi togliere immediatamente da lì raggiungendo in fretta la sua camera. Ci impiegò alcuni minuti, dovette prima aspettare che le passasse lo shock. Fatto questo, s’alzò in piedi e claudicante arrivò nella sua stanza. Lì valutò le sue condizioni.

Lo zigomo che aveva picchiato contro il pavimento si stava deformando gonfiandosi come un palloncino, aveva bisogno di metterci subito del ghiaccio; per quanto riguardava il collo, nemmeno controllò, ormai a quello ci era abituata. Sapeva già cosa ci avrebbe trovato, l’impronta dettagliata delle mani di Vegeta.
Poteva andare peggio, molto peggio.
Le ovviò la coscienza, la ragazza non le diede torto. Poi, s’accorse del ginocchio destro, quello che aveva incontrato il mobile puntuto:

Perdo sangue...

Constatò, aveva riportato un taglio profondo che s’apriva simile ad una bocca felice di dissanguarsi ad ogni passo che compiva.
Cercò di premere contro la ferita prima a mani nude poi con una maglietta presa in fretta dall’armadio, ma il sangue non si fermava. 
Spaventata all’idea che qualcuno avrebbe potuto trovarla in quelle condizioni, Bulma scelse di andare in ospedale. Così, stando attenta a non farsi vedere dai suoi genitori, arrivò faticosamente all’esterno della Capsule Corporation, schiacciò il pulsante dell’Hoipoi che aveva preso dal suo astuccio, la lanciò a pochi metri da lei ed attese che da un gas rosa e grigio si materializzasse il suo elicottero 87.
Salita a bordo, mandò i motori al massimo con destinazione Ospedale Generale della Città dell’Ovest.

Malgrado Bulma avesse fatto molta attenzione a non farsi scoprire, qualcuno s’era però accorto di lei: era il saiyan, affacciato alla finestra della sua camera, imbalsamato nel simulacro dell’afflizione e con gli occhi tetri, quelli del mostro che aveva compreso di aver fatto del male alla sua vittima solo dopo averla ferita.
Vegeta rimase a guardarla, finché lei non divenne un punto nell’orizzonte.

Stammi lontano, è meglio per te, Bulma.
 


~ ~ ~


 

Arrivare in ospedale non fu difficile: la scienziata sfilò traffico e strade allagate grazie al suo elicottero. Sotto di lei scorreva il disordine lasciato dalla natura, che aveva allagato interi quartieri e dissestato le strade. Vedendo ciò, Bulma desiderò malsanamente di trovarsi al posto delle persone che lì sotto chiedevano aiuto; con la voglia di avere un altro nome, un’altra faccia e un’altra esistenza.
Al Pronto Soccorso il caos trovava sempre posto: v’era un andirivieni di ambulanze, di gente in attesa di essere visitata e ricoverata, di bambini che piangevano e di chi tossiva continuamente; più una fila di persone infreddolite che chiedevano coperte. C’era abbastanza scompiglio da poter distrarre chiunque, ma non Bulma e non dopo quello che aveva passato.
Col codice che le assegnarono dopo essersi fatta registrare, andò nella sala d’attesa prima di essere medicata. Passati tre quarti d’ora – trascorsi nell’assenza totale di cognizione del tempo e con la testa dolorosamente vuota come un utero sottoposto a raschiamento – si occuparono di lei. L’infermiere di turno le ricucì il ginocchio con quattro punti, del suo operato di sarto professionista in tessuti umani, Bulma non percepì nulla. Lo squarcio profondo l’aveva nell’anima, le faceva male e per esso non c’era sutura che rimediasse.
Quando i medici le chiesero come avesse fatto a ferirsi e ad avere uno zigomo tumefatto come se le avessero dato un pugno, lei rispose distrattamente di essere caduta dalle scale, fregandosene delle facce diffidenti dei dottori, e quasi scoppiando a ridere nervosamente nel momento in cui un’infermiera le prese una mano per consigliarle di sfogarsi e di denunciare chi l’aveva ridotta così. Se le avessero visto anche i segni sul fianco, l'avrebbero indubbiamente spedita in un centro di assistenza sociale.
Finito di farsi ricucire, e convinti i dottori che le cose erano andate davvero come dichiarava che fossero accadute, Bulma non volle rientrare a casa. Sentiva di dover metabolizzare quanto era successo standosene sola, e per perdere tempo, con un po’ di monete che aveva in tasca, si avvicinò al distributore automatico di bevande e snack posto in fondo ad uno dei corridoi del Pronto Soccorso. Prese una camomilla, sperando che questa potesse calmarla, ma dai distributori automatici non c’era d’aspettarsi mai nulla di buono: quella che assaggiò era insipida acqua bollente.
Diede uno sguardo al suo orologio da polso, notò che le nove di sera erano passate da un pezzo e stranamente nessuno l’aveva ancora cercata.
Doveva venirci lui qui, era lui quello ferito non io.
Pensò, stringendo le dita attorno al bicchiere caldo; se non altro, la finta camomilla riusciva a trasmetterle un po’ di calore.
Che ti serva da lezione, almeno ti convincerai definitivamente a stare lontana da lui.
Ma la mente della scienziata era gremita da dubbi più grossi delle constatazioni scontate della sua coscienza.

Voleva davvero uccidermi?

Pazza, certo che voleva! Cos’altro deve accadere per far sì che tu ti convinca a lasciarlo stare?!
No, la colpa è stata mia, non avrei dovuto dirgli quelle parole.

Sicuramente si è trattenuto… O forse sono stata fortunata che in quel momento non avesse molta forza?

Ipotizzò, anche se a lei era parso sufficientemente letale.
Mentre le domande non finivano di aggredirla, si avvicinarono a lei un ragazzo e una ragazza poco più che ventenni. La ragazza aveva un piede fasciato e una benda che le circondava la testa, il suo compagno aveva il viso incerottato. Potevano essere il risultato di una spericolatezza in moto, ma quello che colpì la scienziata fu il modo in cui i due camminavano verso il distributore: lei si sorreggeva al suo compagno passandogli un braccio dietro al collo e lui stava attento che lei faticasse il meno possibile. Erano l’una affidata alle braccia dell’altro, malconci, ma uniti. Bulma assistette al loro avanzare difficoltoso, che terminò quando il ragazzo prese in braccio la sua compagna senza farselo chiedere e la adagiò sulle sedie vicino al distributore, aspettando che questo, dopo averlo azionato, gli lasciasse due bicchieri ricolmi di cioccolata calda. Con la cioccolata fra le mani, il ragazzo si chinò di fronte alla sua compagna per porgerle il bicchiere e rimanere lì, chinato di fronte a lei, come se le stesse facendo una dichiarazione d’amore.
Poi, i due si scambiarono un timido bacio prima di sorridere sinceri e con le labbra lucide di cioccolato.
La scena lasciò Bulma incantata. Non provava invidia nei loro confronti, avvertì solo una fitta nel cuore morto che Vegeta le aveva restituito.
Se avessi battuto la testa e fossi svenuta, mi avresti soccorsa?
Ti saresti preso cura di me?
Lo avresti fatto, Vegeta?
Stai sognando! Ti ha dato la prova micidiale di essere un errore, un fuori percorso, un abbaglio piacevole finché rimaneva confinato fra le tue fantasie!


Bulma finì la sua acqua ormai tiepida e buttò il bicchiere di plastica nel cestino a fianco al distributore. Con l’amore in lutto, uscì in fretta dall’ospedale, per quanto le era possibile: i punti al ginocchio si facevano sentire tirando la pelle ed ogni parte del suo corpo era ancora indolenzita. Fuggì soprattuto dal bagliore accecante che quei ragazzi emanavano, il bagliore di un amore che lei non avrebbe mai potuto ottenere.

Essere felici è una scelta, come non esserlo.

Pensò, e prese il cellulare dalla tasca del suo cappotto. Era pronta a dare una piega definitiva alla sua vita.
Aprì la rubrica, cercò un numero e nell’istante in cui stava per avviare la chiamata il cellulare le squillò fra le mani.
Rispose.
«Bulma, sono Yamcha!»
Una coincidenza…
«Yamcha... ti stavo per telefonare.»
«Davvero? Che bello! Be', scusami amore, sono arrivato qui nel pomeriggio e non ho potuto chiamarti subito, ho avuto da fare con la squadra. Comunque va tutto bene, abbiamo già cominciato gli allenamenti e… Bulma sei ancora lì? Mi senti?»
«Sì, ti ascolto.»
«Ma che hai? Sei arrabbiata perché non ti ho telefonato appena sono arrivato come t’avevo promesso?»
«No, non sono arrabbiata per questo.»
«Lo sei perché stamattina non ti ho salutato? Be’, ho preferito lasciarti dormire. Sarebbe stato un peccato svegliarti.»
Come sei dolce, Yamcha, lo sei perché tu mi ami. E non mi faresti mai del male.
«Yamcha, non sono arrabbiata nemmeno per questo, anzi, non sono arrabbiata per nulla.»
Iniziò a tremarle la voce.
«Bulma, ti sento strana, non stai bene? Ma sei a casa?»
«Non proprio... »
«Che vuol dire non proprio? Sei a casa o no?»
«Lascia stare dove mi trovo, devo parlarti, ascolta»
«Bulma, mi fai preoccupare, che è successo?!»
«Ascoltami»
«Lo sto facendo! Ma almeno fammi capire cosa sta accadendo! Mi stai facendo preoccupare!»
Passarono alcuni minuti prima che la scienziata decidesse di continuare.

Dai Bulma, è finita, anzi non è mai iniziata… Tu ci hai provato, ma Vegeta non se ne fa niente delle tue cure… e dei tuoi sentimenti, lui non ti vuole.

Mutilando una parte di sé che elemosinava un amore inesistente, non corrisposto da Vegeta, Bulma confessò.
«Voglio essere felice…»
Sì, è questa la cosa giusta da fare, è così che deve andare. Senza rimpianti.
«…E voglio esserlo insieme a te, Yamcha.»
Le sue ultime parole spinsero lo spilungone ad assumere un’espressione di giubilo, mista a cocente soddisfazione che purtroppo, o per fortuna, Bulma non poté vedere.
Sapevo che sarebbe tornata da me. Ti ho sconfitto, brutto scimmione.
«E lo saremo presto, te lo prometto. Ti amo, Bulma.»
«Anch’io... »


Voglio essere felice.

 

Continua…

Note:
1.Partiamo dai doveri: un grazie enorme va a tutti coloro che hanno avuto costanza e hanno deciso di non mollarmi. Non si lasciano le storie a raccogliere polvere per mesi, è una scorrettezza, me ne rendo conto. Vi chiedo perdono.E già che ci sono, do un caloroso benvenuto ai nuovi arrivati!
2.Tralasciando la mia assenza, questo capitolo è stato vittima di molti miei ripensamenti. L’ho incentrato completamente su Bulma ed è venuto su carico di monotonia, una roba deprimente e poco sopportabile; ma io volevo farvi vivere la sua soffocante condizione di stallo e indecisione portata all’estremo.
3.Se per caso aveste scordato l’episodio in cui il padre di Bulma dimentica cosa aveva da dirle, o aveste voglia di verificarlo, tornate al Capitolo IV- Dementia: è un’emorragia.
4.La camicia rosa è quella che Vegeta porta durante l’atterraggio di Freezer, ce la ricordiamo tutti. E sappiamo che c’è scritto BADMAN.  Ho preferito attenermi al cartone animato che ce la presenta in un rosa spaventoso (io credo sia semplicemente bianca, anche se una volta mi capitò di vedere un’illustrazione in cui era proprio rosa, purtroppo non ricordo se sia stata realizzata dalle manine brave di Akira o da un bravissimo imitatore). Ma i pantaloni che ci indossava sotto non sono di quel giallo canarino che ci fanno subire nell'anime! Nel fumetto sono passati a china, per cui si può solo immaginare che così facendo Toriyama abbia voluto rappresentare un colore scuro!
5.Vegeta pensa che la difficoltà che incontra nel trasformarsi in Super Saiyan sia dovuta all’assenza di bene, affetti e tante belle cose che in lui sono carenti se non assenti. È vero, lo si apprende dall’ultima parte del manga che l’autore riserva per la crescita di questo molteplice personaggio, quando Goku è tutto preso ad affrontare Bu e il nostro Principe ammette che esiste un numero uno e che non è lui ma il servo (... Vegeta, perché l'hai fatto? Noi ti volevamo dannato a vita!!!).Quello che credo, è che a questo abbia sempre pensato (che l’amore verso qualcuno genera una forza sorprendente) ma essendo pregno d’orgoglio non l’ha mai ammesso prima del fatidico momento che vi ho evidenziato.
6.No, non mi sono dimenticata dell’anello, anche se l’ho lasciato in sospeso.
7.Alcuni dialoghi li ho costruiti sgraffignando da quelli presenti nel cartone animato.
8.Nel prossimo capitolo assisterete ad uno stacco e alla comparsa di altri personaggi, ci tenevo ad anticiparvelo.
9.In ultimo il disegno: vi piace?

   
 
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