「私は彼を知ってい たしかし彼に会ったことがなかった」- パートII
Watashi wa kare o shitteita, shikashi kare ni atta koto ga nakatta - paato II
«
Ragazzi, avrete sicuramente notato che il libro di
quest’anno è diverso da quello che abbiamo usato
l’anno scorso. »
Era riuscito a prendere uno dei posti migliori: la fila centrale,
vicino alla
finestra. Stare troppo indietro non era nel suo stile, e poi quelle
erano le
file che gli insegnanti sorvegliavano di più. Per la prima
fila, poi, era
ancora peggio. Non si poteva fare nulla, perché non
c’era niente che separasse
dall’occhio vigile dei professori. Inoltre,
tutti sapevano che i posti
migliori erano ai lati. E nessuna delle cose
migliori era estranea a Riku. Dal posto a sedere, in classe, al
cellulare più
costoso da usare di nascosto quando si aveva voglia di evadere un
po’.
« Questo è molto migliore di quello che abbiamo
già usato! Vi ricordate, che mi
lamentavo del suo essere prolisso e praticamente privo di illustrazioni
utili?
»
Di fianco a lui sedeva una ragazza che non gli sembrava di avere mai
visto. Per
questo era stato colpito da lei: conosceva, almeno di vista, tutti
quelli che
frequentavano il suo anno. Era bionda, e portava i capelli, lunghetti,
tutti
raccolti da una parte. Aveva il vizio di giocare con la punta della
chioma,
arricciandola attorno al dito indice. I suoi occhi, di un
bell’azzurro, sembravano
velati da pensieri troppo grandi per una ragazzina della sua
età. A Riku
ricordava un po’ Kairi. Forse era per la stessa linea del
naso, o per lo stesso
fisico esile. Ma questa sembrava un’altra
versione, una a cui importava
qualcosa di più del ruolo di Odette o del
Cigno Nero. Una che non si faceva problemi riguardo al comprare in
questo o
quel negozio del centro commerciale. Una che sapeva e capiva cose
diverse. Su
un’altra quota.
« Beh, questo, invece, è pieno di cose nuove! E
poi ci sono un sacco di linee
del tempo, cartine ed esercizi riepilogativi da fare alla fine di ogni
capitolo… e non fate i furbi! Li dovete fare anche se non ve
lo dico io!
Quest’anno niente scuse o niente cani che sbranano le
fotocopie… capito, Tidus?
»
Molti degli studenti risero, capendo l’allusione,
però Riku stava ascoltando
solo con un orecchio. Ma lui non fu il solo a non prendere parte alla
risata di
gruppo. Naminè – così si chiamava
quella ragazza, l’aveva scoperto poco prima,
durante l’appello – nemmeno sembrava
fare fisicamente parte di
quella classe. Sembrava una specie di
ologramma, e che la sua mente, la vera essenza, fosse altrove.
Più strofinava e
attorcigliava la punta dei capelli lisci, più la sua mente
volava via, più la
sua anima si consumava, direttamente sotto gli occhi di Riku.
Sì, sì confermò,
quella ragazza era ad un altro livello rispetto a Kairi.
« Ma prof! Questa è discriminazione! »
Un altro scroscio di risate,
accompagnato da qualche battuta di qualche compagno. A quanto pareva,
Tidus non
lasciava che il suo cane sbranasse solo gli esercizi di storia.
Naminè si voltò verso di lui, e quasi Riku
sobbalzò. Non se lo aspettava. Lei
gli rivolse un sorriso veloce, per poi riabbassare la testa. Ma
stavolta non
riprese a giocherellare coi capelli. Aprì il blocco bianco
per gli appunti che
aveva tenuto chiuso per tutto il tempo davanti a sé.
Strappò un pezzetto di
carta da un angolo di una delle pagine in mezzo. Riku notò
che le altre erano
piene di disegni, figure umane stilizzate, ma non riuscì a
vedere che cosa o
chi rappresentassero. Naminè lo appoggiò, per
essere più comoda. Aprì un
astuccio, che, invece di penne, conteneva solo matite colorate. Ne
scelse una
azzurra, quasi per caso, ed iniziò a scribacchiare sul
foglietto.
Si sarebbe addormentato sull’autobus, se non fosse stato
così sobbalzante e pieno di ragazzine ridacchianti. Si
sentivano anche nelle
pause tra una traccia e l’altra che venivano riprodotte dal
lettore musicale
che teneva tra le dita. Con l’enorme scarpa –
faceva parte di un paio spettacolare,
che aveva comprato
sacrificando più di metà dei suoi averi monetari
– batteva il ritmo sul fondo
dell’autobus.
Fermata. Alzò la testa di scatto. La sua? Ah, no, mancavano
altri cinque minuti
di marcia. La prossima e sarebbe finito a casa a fare merenda.
Biscotti. Panini
al burro d’arachidi. Patatine. Mmm.
Riabbassò gli occhi di quel suo blu intenso sulle sue
scarpe. Spettacolari.
Gli si riempiva il cuore
solo a vederle. Davanti alle sue meravigliose opere d’arte,
però, fecero la
loro improvvisa comparsa un paio di ciabattine marroni, di quel modello
specifico per le nonnine. Alzò di nuovo la testa. Gli si
presentò davanti una
vecchina tremolante, che sembrava fatta di uno scheletro di
stuzzicadenti e
carne di budino. Prima che l’autobus partisse, e che la
signora si sfasciasse
sotto i suoi occhi – dava l’impressione che al
minimo imprevisto di sarebbe scomposta
– Sora scattò in piedi e
lasciò il posto alla vecchina. Quell’esemplare di
Budiniana era stata sottratta
al suo truce destino. L’anziana, riconoscente, gli disse
qualcosa, sedendosi
sul sedile. Lui non capì assolutamente niente, ma, come
faceva sempre in quei
casi, sorrise e annuì.
Ormai in piedi, guardò fuori dal finestrino.
Il negozio di videogiochi. Non appena avesse recuperato qualche soldo,
sarebbe
andato a prenotare il nuovo gioco dei Pokémon. E, ora che ci
pensava, si era
ridotto a giocare al DS con gli stuzzicadenti. Era urgente comprare
degli stecchini
– avevano un nome, quei cosi?
– nuovi. Un ragazzo biondo vestito con un impermeabile nero,
che correva. Un
bar. Ah, ci era andato due o tre volte, quell’estate.
Facevano delle brioche al
cioccolato fantastiche, ma il ripieno di quelle alla crema sembrava
cacca di
piccione. Un vecchietto mezzo pelato che portava a passeggio un
barboncino. Un
negozio di animali. In effetti, doveva comprare un osso per il cane.
Ora gli
sbranava i calzini, ma non si è mai troppo prudenti: e se
fosse passato alle
scarpe nuove?
Scese alla sua fermata, salutando distrattamente l’autista.
Cambiò canzone un
paio di volte, trovò quella giusta e ributtò il
lettore nella taschina davanti
dello zaino blu elettrico, tutto scritto, firmato e vissuto,
che teneva su una spalla sola. Non lo avrebbe cambiato
nemmeno se lo avessero minacciato. Camminò per un
po’ sul marciapiede della
strada principale, ma poi entrò in una traversa. Lui abitava
in un appartamento
di un bel palazzone antico nella zona storica del centro
città. Era una bella
zona, se non fosse che era abitata per lo più da vecchietti
e uomini d’affari.
Pochi ragazzi giovani come lui. Non succedeva mai niente.
Un ombra nera gli tagliò la strada. Piccola e tremante,
rimase di fronte a lui,
ma gli voltava le spalle.
Sora si fermò di scatto.
Di fronte a lui e alla piccola ombra nera, spuntando da una via che
convergeva
in quella che stava percorrendo Sora, comparve un ragazzo. Portava un
lungo
cappotto nero. Allargò leggermente le braccia, come se
avesse in mano delle
armi con cui avrebbe potuto farsi male.
Aiutami, Sora!
Aiutami!, strepitò
una vocina acuta. Come era possibile che riuscisse a sentire qualcuno
parlare
sopra il volume delle cuffie?! Si sfilò un auricolare, un
po’ confuso. Sbatté
gli occhioni blu. Che caspita-
« Vattene, Sora. », gli disse il ragazzo di fronte
a lui.
« Chi sei? Come sai il mio nome? –
gli chiese
invece Sora, concitato. – Ti ho già visto, ma come
ti chiami? »
« Non ti interessa, - rispose lo sconosciuto, in maniera
spicciola. – Vattene.
Potrebbe succedere un casino. »
Portava un cappuccio, ma, probabilmente, durante
l’inseguimento della creaturina,
era leggermente caduto indietro. Aveva i capelli biondi, corti, che
sembravano
puntare tutti in una direzione, e gli occhi di un azzurro chiaro
piuttosto
tempestoso.
Vuole farmi del
male, ma non so perché.
Non gli ho fatto niente. È malvagio!,
di nuovo quella voce sottile? Ma
allora non era un’allucinazione! Sora si guardò
attorno. Non c’era nessuno, se
non i due ragazzi e quella piccola ombra tremante.
« Sta’ zitto, bastardo! » urlò
il ragazzo biondo. Le sue mani presero a
brillare. Poi lo scintillio si allungò, come a creare una
specie di forma. La
luce sembrò rompersi in mille schegge, e lo sconosciuto
strinse una enorme arma
a forma di elaboratissima chiave
per ogni mano. O, almeno, così gli sembrava. Sora
deglutì. In che cosa caspita
si era imbattuto? Cos’erano quelle robe?
« Chi sei? Cos’è quella roba?
», chiese Sora. Si accorse che la sua voce era
leggermente tremante, e la cosa lo stupì. Ma lo stupore non
durò molto.
Il ragazzo non lo degnò della minima attenzione. Piuttosto,
lo attaccò. Fu un
unico scatto, fluido, rapido e preciso. Teneva il corpo chinato in
avanti, con
le due eccentriche spade dietro di sé, per lasciare una scia
di scintille
sull’asfalto. Sora fece in tempo a fare solo un passo
indietro. Se l’avesse
colpito, sarebbe stato spacciato. Fece appena in tempo a chiedersi perché,
e l’arma che lo sconosciuto
teneva nella mano destra, quella nera, calò su-
Sull’ombra
tremolante?!