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Autore: Jane_30    11/09/2012    2 recensioni
" Non posso più vivere in questo modo. Non potrò mai trovare un rimedio a questo dolore, neanche se lo cercassi in tutto l’universo; perché il mio tutto era lui e ora che lui non c’è più, tutto è niente. Sono vuota adesso: la mia anima è sempre stata legata alla sua e per sopravvivere anche la sua doveva farlo. Ora, però, Sam è morto e così sono morta io. Io non vivo, io non esisto senza di lui. "
Questa storia si è classificata seconda all'Hurt Contest indetto da yuma92.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutto è niente

 

Era più teso del solito quella sera. Era sempre stato un tipo poco espansivo e sulle sue, ma quella sera non aveva aperto bocca da quando era venuto a prendermi in macchina per andare a cena insieme. Ora era seduto a quel piccolo tavolo rotondo di fronte a me. Lo vedevo rigido sulla sua sedia e notavo anche delle piccole gocce di sudore che gli imperlavano la fronte. Non mi stava accarezzando la mano come faceva di solito quando cenavamo al ristorante insieme, ma invece teneva le mani intrecciate tra loro con agitazione. Mi evitava, evitava di guardarmi nonostante le continue occhiate che gli lanciavo; tentavo di incrociare il suo sguardo, ma lui lo teneva basso, fisso sulle sue mani.
<< Ehi! >>, dissi leggermente preoccupata.
Finalmente alzò lo sguardo e mi guardò come se si fosse accorto solo in quel momento della mia presenza.
<< Che succede? >>, chiesi sempre più nervosa. Avevamo dei problemi? Non mi sembrava, anche se la sera prima avevamo litigato per cosa vedere in TV.  Non si poteva, però, neanche definire lite quella; era solo un piccolo diverbio.
Notò l’agitazione nel mio viso e così mi rivolse uno sguardo dolce e un sorriso gentile.
<< Va tutto bene, non ti preoccupare >>. Allungò finalmente la mano sul tavolo e iniziò ad accarezzare la mia.
Aspettai che continuasse, ma vedendo che rimaneva in silenzio ad accarezzarmi la mano, gli chiesi:
<< Perché sei così silenzioso oggi? >>
<< Io sono sempre silenzioso. >>
<< È vero, però questa sera lo sei più del solito. >>
Rifletté per un po’ su come rispondere e infine serio disse: << Ti devo dire una cosa. >>
<< Ti ascolto. >> Cercai di mascherare la mia agitazione con un sorriso, ma lui aveva dovuto notare la mia ansia, perché mi strinse la mano e mi rivolse di nuovo quel suo sorriso gentile che io amavo tanto.
<< C’è la luna piena questa sera. >> Indicò il paesaggio oltre la grande vetrata che ci si presentava a fianco. La vista era stupenda. Si vedeva il mare che sfiorava la spiaggia con delle leggere onde; sembrava quasi accarezzarla proprio come la mano di Sam stava facendo con la mia. Sopra quella distesa d’acqua si apriva un cielo nero, illuminato da miriadi di stelle e da una rotonda e pallida luna. Quel paesaggio mi ricordava qualcosa.
<< Ti ricorda qualcosa? >> Sam sembrava avermi letto nel pensiero e quando stavo per rispondere continuò: << Ti ho detto di amarti per la prima volta proprio in una sera come questa. >> Volse il suo sguardo verso la vetrata e preso dal passato, cominciò a ricordare ad alta voce: << Una sera, qualche mese fa, stavamo passeggiando in riva al mare, a piedi nudi. Volevo prenderti per mano, ma non ne avevo il coraggio, così tu – come sempre – hai preso l’iniziativa e mi hai stretto la mano.>> Sorrise, così  io lo  ricambiai con un sorriso malinconico.
<< Poi hai sorriso. >> riprese, volgendo il suo sguardo al panorama << Oh, quanto amo quel sorriso! Quello stesso sorriso che adesso ti illumina il viso. >> Mi guardò negli occhi con decisione e allo stesso tempo dolcezza. Io mi tuffai in quegli occhi azzurri, gli occhi in cui trovavo sempre rifugio e in cui mi sentivo a casa.
<< Dopo aver camminato per un po’ di tempo mano nella mano tu mi dicesti che volevi sederti e così facemmo. Rimanemmo per un po’ a guardare la luna piena, ma questo è quello che pensavi tu. In realtà io ammiravo te, la tua semplice bellezza al chiarore della luna.>>
<< Veramente mi ero accorta che mi fissavi >>, lo interruppi.
<< Davvero? >> Quando io annuii, continuò: << Eri così bella che mi lasciai sfuggire quelle due paroline… >>.
I suoi occhi di nuovo fissi nei miei. << Ti amo >>, scandì con sincerità.
Stavo per rispondergli allo stesso modo e con la medesima intensità, ma lui mi sfiorò le labbra con un dito prima che potessi aprire bocca.
<< Tu però non mi hai risposto quella sera >>, disse, per nulla offeso, ma come aggiungendo un piccolo e non tanto importante dettaglio al suo racconto.
<< In quel caso sono stata io quella poco coraggiosa. Sapevo di amarti, ma per qualche strana ragione non riuscivo a dirlo.>>
Si sporse di più verso di me, poggiò il gomito sinistro sul tavolo e con la mano destra mi sfiorò la guancia.
<< Oh Clare,quanto ti amo! Amo il tuo sguardo sincero, il tuo sorriso spontaneo. Amo sentire pronunciare il mio nome con la tua voce dolce e melodiosa. Amo il tuo aspetto al mattino, appena sveglia, con i capelli arruffati e con lo sguardo assonnato. Amo la tua infinita gentilezza, il tuo altruismo e la tua spontaneità. Amo perfino la tua testardaggine. Amo i tuoi lunghi capelli biondi che ondeggiano quando cammini. Amo quando sei felice e amo anche l’espressione che fai quando sbuffi spazientita. Amo come ti muovi, amo addirittura il modo in cui respiri. Amo tutto di te e non cambierei nulla in te, perché ogni dettaglio, anche quello più piccolo, ti rende quello che sei: la ragazza migliore che io possa mai desiderare.>>
La dolcezza e la sincerità che sentivo in quelle parole mi fecero venire le lacrime agli occhi, ma tentai di trattenermi dal piangere. Una piccola goccia salata però riuscì a sfuggire al mio controllo e si fece strada sulla mia guancia arrossata. Sam la mandò via col dito e mi sorrise nuovamente, dandomi con un piccolo gesto tutto ciò di cui avevo bisogno per vivere: il suo amore e la sua felicità.     
A quel puntò si alzò dalla sedia, s’inginocchiò davanti a me e dalla tasca interna della sua giacca tirò fuori una scatolina di velluto blu. Smisi di respirare, consapevole di cosa stesse per accadere, finché lui non iniziò a parlare.
 << Clare Nicole Peterson >>, disse solenne, << vuoi rendermi l’uomo più felice del mondo?>> Fece una breve pausa, poi aggiunse: << Vuoi sposarmi? >>
Aprì la piccola scatola blu che teneva in mano per lasciarmi ammirare la bellezza del sottile anello d’oro bianco, sormontato da un luminoso brillante, racchiuso al suo interno.
Rimasi senza parole e per la seconda volta quella sera anche senza fiato. La mia felicità non poteva essere descritta, tanto era grande. Nessuna parola sarebbe stata più adatta per rispondere a quella bellissima domanda se non il << Si >> che sussurrai al settimo cielo.
La bocca di Sam si spalancò in un sorriso a trentadue denti, mentre tremante mi metteva l’anello al dito.
Gli buttai le braccia al collo, lui si alzò, mi strinse a sé sollevandomi da terra. Ridevamo come bambini e assaporavamo avidi il gusto della vera felicità.
Mi sfiorò le labbra dapprima delicatamente per poi trasformare il tenero bacio in un vortice di passione. Io ricambiai il bacio con la stessa intensità, avida di quell’amore, di quella felicità che mi permetteva di vivere.
Quando le nostre labbra si separarono riluttanti, sussurrai: << Ti ho amato fin dal primo istante, ti amo e ti amerò fino alla fine dei nostri giorni. >>
 
Ripensavo a tutto questo stamattina, mentre sorseggiavo il mio caffé macchiato seduta al tavolino del mio bar preferito. Ero solita fare colazione in quel bar tutte le mattine, con un caffé macchiato e con una brioche, ascoltando musica col mio ipod. Questa piccola scatolina contenente una lunga lista di canzoni è sempre stato come un oracolo per me. Perennemente impostato in modalità casuale, riusciva sempre ad indovinare la canzone adatta al momento in cui l’ascoltavo. Quella mattina evidentemente non era in forma, perché non appena lo accesi partirono le note malinconiche e strazianti di “My heart is broken”. La canzone degli Evanescence non si addiceva per niente all’umore alle stelle che avevo quel mattino.
Il brillante incastonato nell’anello che portavo al dito brillò ai raggi del sole. Vedere quel gioiello, simbolo dell’amore eterno che mi avrebbe legata a Sam, riportò la mia felicità al massimo, dopo che la triste melodia che ascoltavo l’aveva leggermente diminuita.
Pensavo a Sam, a quanto l’amavo e fantasticavo su ciò che ci avrebbe riservato il nostro futuro insieme, quando lo squillo del cellulare, che mi avvisava di una chiamata in corso, mi riportò al presente. Uscii quell’aggeggio, che aveva interrotto il mio fantasticare, dalla borsa e risposi.
 
Dopo qualche minuto ero in macchina. Correvo a tutta velocità, passavo col semaforo rosso e non rispettavo i segnali stradali, ma non m’importava. Mi avrebbero potuto fare quante multe volevano, io non avrei in ogni caso rallentato. Quella chiamata aveva cambiato il corso della giornata e forse anche della mia vita.
Al telefono fu la voce roca di un’infermiera che mi avvisò di quello che era successo a Sam. Diceva che aveva avuto un incidente e che aveva riportato dei gravi danni a causa dell’impatto con un’altra auto. Mi disse anche qualcosa di più specifico, ma io non la stavo più ascoltando. Il mio cervello si era annebbiato alle parole “gravi danni”. Cosa voleva dire? Erano davvero così gravi? Rischiava di… No, non volevo pensarci. Sam ce l’avrebbe fatta, ne ero certa. Ma allora perché il mio cuore batteva così forte, in preda all’agitazione? Perché mi girava la testa e mi tremavano le mani?
Arrivai finalmente all’ospedale, posteggiai l’auto alla bell’e meglio nel grande parcheggio dietro la struttura e mi fiondai dentro. Corsi fino al bancone dietro cui era seduta un’infermiera.
<< Dov’è Samuel Cooper? >>, dissi tutto d’un fiato. Potevo sembrare pazza per correre e comportarmi in quel modo, ma in quel momento non m’importava niente, m’importava solo vedere Sam il prima possibile.
<< In questo momento è in sala operatoria. >>
<< Cosa? >> urlai, fuori di me.
<< Non può vederlo adesso, le consiglio di aspettare qui >>, mi disse con voce indifferente, indicandomi una sorta di sala d’attesa.
<< Ma io devo vederlo! >>, dissi con un tono di voce ancora più alto.
<< Aspetti qui >>, ribadì l’infermiera.
Quella donna mi portava all’esasperazione. Come poteva essere così indifferente e fredda davanti ad una simile situazione? Lei non poteva capire come mi sentivo! Nessuno poteva capirlo!
Non avevo alcuna intenzione di seguire il “consiglio” di quell’infermiera, così presi a camminare nervosamente avanti e indietro per il corridoio. Perché era in sala operatoria? Questo voleva forse dire che si trovava in una situazione molto grave. Stava lottando tra la vita e la morte ed io ero lì, impotente. Lo stavo lasciando andar via da me e dal mondo, da solo. Il poco ottimismo che avevo svanì in un secondo, la mia vista si annebbiò, le mie gambe si fecero molli e la testa prese a girarmi vorticosamente. Sentii un “Ehi!”, poi tutto si fece buio e mi lasciai cadere a terra.
Dopo chissà quanto tempo mi svegliai in un lettino, in una stanza così fredda e vuota da far sentire ancora peggio i pazienti che lì, teoricamente, dovevano essere curati. Vidi il viso di un uomo sulla quarantina, con una folta barba scura e gli occhiali. Indossava il camice e doveva quindi essere un dottore.
<< Quante dita sono queste? >>, chiese, mostrandomi l’indice e il medio alzati.
<< Due >>.
<< Bene, la vista è apposto >>, disse, << Si sente meglio adesso? >>
A quella domanda mi venne subito in mente Sam. Non m’interessava della mia salute, m’importava solo di quella dell’uomo che amavo, di colui che sarebbe dovuto diventare mio marito.
<< Dov’è Samuel? >>, chiesi, ignorando la sua domanda.
<< Chi? >>
<< Samuel Cooper. L’infermiera all’ingresso mi aveva detto che era in sala operatoria. Ora come sta? >> Il mio viso doveva mostrare tutta la preoccupazione e l’angoscia che provavo, perché il medico mi sfiorò dolcemente la spalla e mi rivolse un sorriso che avrebbe dovuto essere confortante. << Non so di chi lei stia parlando, ma m’informerò per sapere quale dottore si stia occupando di lui >>, disse e se ne andò.
Rimasi su quel lettino spaesata, agitata e con un grande senso di vuoto. Sentii la nausea salirmi alla gola, così corsi nel piccolo bagno all’interno della camera e rigettai quel poco di cibo che avevo assunto a colazione.
Quando tornai nella spoglia stanza, vi trovai il dottore barbuto di poco prima.
<< Si sente bene? >>, mi chiese per la seconda volta.
<< Si, se anche Samuel sta bene >>, dissi con voce tremante.
Il viso del medico si rabbuiò. Dopo un lungo silenzio angosciante, rispose:  << Non ce l’ha fatta, mi dispiace. >>
Sentii il mondo crollarmi addosso. La pressione mi si riabbassò nuovamente di colpo e così mi sedetti a terra poggiando la schiena al muro. Scoppiai in un pianto isterico e distrutto. Ero fuori di me: cominciai a urlare e a sbattere la testa contro il muro.
Il dottore cercò di avvicinarsi a me per calmarmi, ma io lo spinsi voi con tutte le mie forze. Non volevo l’aiuto di nessuno; non lo meritavo. Avevo lasciato da solo Sam nel momento del bisogno.
Questa mattina avrei dovuto insistere per farlo rimanere a casa, avrei dovuto convincerlo a non andare a lavoro. Il suo altruismo l’aveva spinto a svegliarsi presto e ad andare in carcere alle cinque del mattino, per risolvere una questione urgente di un suo assistito. Era un avvocato e aveva sempre combattuto per difendere i suoi assistiti, anche quando veniva pagato solo pochi spicci. Credeva pienamente nell’importanza del suo lavoro e della giustizia. Combatteva sempre per cause in cui credeva e metteva l’anima in ciò che faceva.
Almeno quella mattina però avrebbe potuto mettere prima se stesso, invece che qualcun altro! Perché non l’aveva fatto? Perché pensava sempre agli altri e mai a se stesso? A causa del suo altruismo aveva perso la vita. Era stato investito da un pazzo ubriaco che guidava per le strade ancora deserte della città, verso le cinque del mattino. Ricordai quello che mi aveva detto l’infermiera al telefono qualche ora prima. Non so come era venuta a conoscenza dell’incidente; forse gliene aveva parlato un testimone. In realtà non m’interessava sapere com’era morto, l’unica cosa che contava era che non c’era più.
“Non c’è l’ha fatta, mi dispiace”, le parole del medico mi rimbombavano nella testa. Sam se n’era andato! Non l’avrei più rivisto, non avrei più rivisto quei suoi occhi azzurri, quel sorriso dolce e gentile, non avrei più potuto accarezzare i suoi capelli scuri perennemente arruffati, non avrei più potuto abbracciarlo, baciarlo e essere sua tra le lenzuola del nostro letto. Come avrei potuto vivere senza di lui, senza sentire il suono della sua voce e il dolce abbraccio che mi cullava la sera? Come avrei potuto vivere senza di lui, quando lui era il mio tutto?
 
Adesso, su una piccola barca in mezzo al mare, mentre scrivo tutto ciò che mi è accaduto in questa dolorosissima giornata, mi ritornano alla mente i versi della canzone che ho ascoltato questa mattina a colazione:  
 
 I can’t go on living this way,
But I can’t go back the way I came
Chained to this fear
That I will never find a way to heal my soul.*
 
Non posso più vivere in questo modo. Non potrò mai trovare un rimedio a questo dolore, neanche se lo cercassi in tutto l’universo; perché il mio tutto era lui e ora che lui non c’è più, tutto è niente. Sono vuota adesso: la mia anima è sempre stata legata alla sua e per sopravvivere anche la sua doveva farlo. Ora, però, Sam è morto e così sono morta io. Io non vivo, io non esisto senza di lui.
Per quale motivo allora il mio corpo dovrebbe continuare a vivere, se la mia anima è morta? Ovviamente questa è una domanda retorica, perché ha un’unica risposta: “Non c’è alcun motivo”.
Ho deciso quindi di abbandonarmi alla morte, sperando di rincontrare Sam e di riunirmi a lui per sempre. Sto per tuffarmi in questo gelido mare e non ho alcun ripensamento su ciò che sto per fare. Guardo per l’ultima volta la luna piena e sussurro quel “Ti amo” che non era uscito dalle mie labbra, quella sera, qualche mese fa. Non mi resta che salutare il mondo, ormai vuoto e insignificante per me: Addio!
 
 
*Questa frase è tratta dalla canzone “My heart is broken” degli Evanescence.
 
 
 
Note: Questa storia si è classificata seconda all' "Hurt Contest" indetto da yuma92 
  
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