Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: TuttaColpaDelCielo    14/09/2012    2 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 25 – E fa male





Nelchael le affondò le nocche nel fianco, con violenza. Lingue di fiamma candide divorarono la carne già segnata, infittendo la trama di rivoli bianchi che colavano a terra, quasi l’insegnante volesse prosciugare la sua essenza insieme al sangue.
Amitiel urlò, e Nelchael affondò ancora.
E ancora.
E ancora.
E poi furono le dita a ferirla, arcuate, con le unghie divenute artigli perlacei che scavavano solchi profondi nella carne molle del ventre.
E ancora.
E ancora.
Gli afferrò il polso per fermarlo – l’essenza immatura che non riusciva a concretizzarsi in fiamme, le unghie solo morbide curve che non potevano nulla. Nelchael le diede un istante di tregua, come a premiarla, prima di strattonarla in avanti e premerla contro di sé con l’altro braccio; liberò il polso dalla sua stretta ridicola e le strinse l’attaccatura delle ali, implacabile, senza che la sua presa feroce le permettesse di reagire.
Faceva male. Male, male, male.
Gli squarci – alle gambe, al fianco, al ventre, alla schiena, al collo, ovunque – rigettavano sangue, e insieme al sangue se ne andava la lucidità, l’energia, il controllo del corpo. Si sentiva, ma non riusciva a muoversi.
E faceva male, male, male.
Sachiel osservava immobile, lontano da loro, con l’espressione indecifrabile di chi è abituato a non mostrare nulla – non di chi non vuole, ma di chi non può. Amitiel riusciva a scorgerla a fatica, oltre la spalla dell’insegnante, con gli occhi annebbiati dal dolore e dalle lacrime; dopo un istante non la vide più, la schiena inarcata e un urlo breve e acuto sulle labbra, soffocato dal sangue che le invadeva la gola, e la mano di Nelchael che stringeva le piume strappate con violenza.
E faceva male, male, male.
E le ali vomitavano il sangue più puro e prezioso. Più vitale.
L’avrebbe uccisa. Se avesse continuato a infierirvi, l’avrebbe uccisa – lei, cherubino fragile e immaturo, ancora infante, ancora effimero. Sarebbe bastato così poco: strapparle le ali. Squarciarle la gola. Anche il ventre, forse?
No, sarebbe bastato ferirla ancora alla schiena, al collo; proprio come Nelchael aveva spiegato una volta, con lei seduta a metà della gradinata, a nascondersi in mezzo agli altri perché non si notasse lo sguardo distratto.
E faceva male, male, male.
E l’essenza si affannava a tramutarsi in sangue, diventando sempre più rada, sempre più sottile. Avrebbe continuato fino a scomparire, a divenire solo sangue, solo sangue perso versato sprecato, e avrebbe lasciato un corpo inerme pronto a incenerirsi.
Nelchael la lasciò lentamente, quasi ad accompagnare la sua caduta verso il suolo.
Lo guardò torreggiare su di lei, sporco del suo sangue, con gli abiti squarciati in più punti ma nessuna ferita, nessun alone – era un adulto, lui. La sua pelle non impallidiva sotto i colpi, le sue guance non ardevano per l’imbarazzo, il sangue non mutava il suo flusso. Aveva la fascia blu degli Esecutori, lui.
Anche se era un angelo; anche se avrebbe dovuto essere un semplice Custode, nemmeno degno di divenire un Vegliante, aveva la fascia blu degli Esecutori. Degli Arcangeli – dei mediocri, sì, ma sempre Arcangeli.
Non sarebbero stati i colpi di un cherubino della quinta classe a ferirlo.
Amitiel avrebbe voluto spostarsi: alzarsi, o rannicchiarsi su un fianco per non gravare sulle ali dilaniate, o proteggersi il ventre con le braccia. Sarebbe bastato anche voltare il capo, per non dover guardare quell’espressione gelida e le mani sporche di sangue non loro; o chiudere gli occhi, ecco, solo chiudere gli occhi.
Ma non riusciva... non riusciva più a muoversi.
E Nelchael torreggiava su di lei, gelido.
E Sachiel osservava, immobile.
E faceva male, male, male.

* * *

Non rimandava bagliori, la pietra, come un mare blu che inghiottiva la luce fino a sembrare nero: occhio scuro e opaco che osservava tutto, rialzato di tre gradini sopra una radura in cui non spirava mai vento – morta anche l’aria, morti anche gli alberi immobili. Morta la luce, nella dominatrice di quei luoghi oscuri in un Paradiso candido.
Vi era entrata anche lei, una volta, certa di non rimanerne turbata – era al ciclo superiore, aveva già visto le ombre. Aveva calcato i tre gradini appena un passo dietro Leliel, fiera, pronta a dimostrarle la propria maturità; e ne era uscita correndo e piangendo, perché un buio simile non l’aveva conosciuto mai, neppure nelle notti senza luna, neppure nell’incontrare i Caduti – e quello, oh, quello era stato terribile, un nero agghiacciante che inghiottiva tutto e faceva tremare di una cosa sconosciuta chiamata gelo, ma il potere di Leliel era peggio.
Dove la luce è più intensa, l’ombra è più profonda.
Ogni volta il serafino attendeva un istante, prima di varcare il velo nero e immobile che celava al Paradiso quell’orrore. Vi si fermava di fronte, ritta, quasi a invitarla ad affiancarla; ma lei non poteva, cherubino troppo fragile e terrorizzato, e Leliel entrava sola.
E faceva male, sapere di non essere adeguata. Di non essere abbastanza.
Male, male, male.
Distolse gli occhi dall’ingresso, senza riuscire a guardarlo più a lungo – troppo minaccioso e troppo vicino, per lei che era appena discosta dal primo gradino. Percepiva l’essenza di Leliel estendersi, filtrare attraverso quel velo nero – unico, sottile punto in cui la costrizione del tempio fosse meno salda – e cercare la sua, sfiorarla come a chiamarla a sé, con una fermezza delicata che non lasciava scelta.
Ma no. No, no, non poteva essere. Era giunta fin lì a quel richiamo e Leliel avrebbe varcato il velo per incontrarla, come accadeva sempre: non poteva chiederle di entrare, sapeva come aveva reagito quando aveva tentato, sapeva del terrore e delle lacrime e di quanto la facesse star male.
No. Ti prego, no.
Il Richiamo si rafforzò, diventando imperioso.
No. No no no no ti prego no.
Lo sguardo si posò di nuovo sul velo nero, immobile in quell’aria morta. L’unica, sottile barriera tra il Paradiso così candido e rassicurante e le fauci di un’oscurità pronta a divorarla.
No. No no no no NO!
Sì.
Raccolse la tunica con le mani, perché non strisciasse sulla pietra, e posò il piede nudo sul primo gradino.

* * *

Eisheth s’intrecciava i capelli come un ragno avrebbe tessuto la seta tra le zampe sottili: aveva dita lente, metodiche, che si muovevano con la precisione che avrebbero dedicato a un impegno vitale. Il viso, non più incorniciato da una scarmigliata cascata nera, aveva un candore alabastrino; gli occhi erano due laghi di tenebra, pronti a inghiottire nelle proprie profondità chi li avesse guardati troppo a lungo.
Sapeva essere oscura, Eisheth, anche sotto il sole violento della stagione calda.
«Anane scoprirà tutto, non appena terminerà di mutare.» sogghignò, senza interrompere il movimento calmo delle dita, con il viso rivolto verso l’alto per guardare il figlio.
Michael non mutò espressione.
«Soffrirà molto, caro.» rise «Saprà che l’hai ingannata.»
«Sei allegra, per parlare del dolore di tua figlia.»
Il demone si alzò dal terreno. La stoffa lacera che l’avvolgeva mormorò un fruscio seducente e le mani corsero a lisciarla sui fianchi, abbandonando sul petto la treccia incompleta. Zampe di ragno che poi risalirono a sfiorargli il viso, bollenti, le unghie aguzze incrostate di sangue e sudiciume.
Michael la guardò un istante di troppo. I laghi di tenebra lo inghiottirono in un vortice fangoso di follia e divertimento, e di una dolcezza strana, marcia, che prometteva solo altra sofferenza. Un brivido gli attraversò le ali.
Non poteva sapere, allora, che per lungo tempo – secoli, millenni, ere intere – sarebbe stato inghiottito uno sguardo altrettanto corrotto, altrettanto putrido. L’inquietudine feroce che gli sarebbe strisciata addosso, sotto occhi vacui, con un respiro caldo a lambirgli l’orecchio in un bisbiglio di morte. Ti guarderò contorcerti nell’agonia, amore. La dolcezza con cui quello sguardo corrotto avrebbe ripagato un debito di vita e di odio, la voce appena un soffio divenuto gelido, e il brivido che gli sarebbe corso lungo la schiena sarebbe stato per l’una e per l’altra. Oh, Savsa, vorrei ucciderti con queste mie mani. Ancora non poteva saperlo, e perciò non colse alcuna eco del futuro, in quel brivido.
Se anche un semplice sentore lo avesse raggiunto, avrebbe di certo prestato più attenzione alla lungimiranza di una madre tanto antica.
«E se già ne fosse a conoscenza?» gli mormorò Eisheth a un soffio dalle labbra «Dell’inganno. Del tradimento. Di tutto.»
Michael si scostò da lei, brusco, e il demone rise ancora.
«Potrebbe aver ripagato un inganno con un inganno.»
Non rispose, ma le voltò le spalle con una furia più eloquente delle parole.
Sei allegra, madre, per parlare del dolore di tuo figlio.

* * *

Il velo scivolò alle sue spalle senza alcun suono, divorando qualsiasi scintilla di luce.
Non vedeva. Non udiva – perché non c’era nulla che potesse udire, non un respiro, non un fruscio. L’essenza dell’insegnante si perdeva nell’oscurità troppo fitta. La pietra non aveva temperatura, sotto i suoi piedi nudi, e quasi faticava a percepirne la consistenza liscia e compatta.
Si guardò intorno, ma ancora non riuscì a scorgere nulla, in quel mare nero e angosciante che prometteva solo morte.
Era come essere immersa nel nulla.
Aveva il velo a un passo dietro di sé, Leliel vicina, tutto il Paradiso distante lo spessore di una parete; eppure le sembrava, eppure era certa che avrebbe potuto vagare in quelle tenebre per l’eternità, senza riuscire a fuggire. L’avrebbero intrappolata in una morsa nera e implacabile, l’avrebbero incatenata alle colonne scure, l’avrebbero condannata al nulla e... e chissà cosa avrebbe potuto nascondersi in quegli anfratti oscuri, cosa avrebbe potuto strisciare fino a lei, mostri orrendi e serpi e tentazioni luride, per sporcarla morderla ucciderla e fare a pezzi il suo corpo e imprigionare la sua essenza lì per sempre, sempre, persa in un buio che non lasciava scampo, a gettarsi contro le pareti senza poterne uscire, e... erano lì, lì lì lì! Li sentiva strisciare attorno a lei, camminarle addosso, la stavano già toccando, l’avrebbero presa e... e...
«Mi è sufficiente, Autorità.»
Il buio si diradò all’improvviso: non era più una coltre nera che ottundeva i sensi, ma un velo che rendeva ogni cosa grigia, piatta, poco dissimile da una notte umana.
Leliel era appena un paio di passi più avanti, impassibile, le grandi ali distese e gli occhi assottigliato in lame chiarissime e calcolatrici. Accanto a lei, l’uomo che aveva parlato: le ali da serafino altrettanto distese, il viso conosciuto del responsabile degli Strateghi.
«Molto ligia.» concesse questi, senza sorridere «Degna tua allieva, Autorità.»
Sachiel capì tutto, all’improvviso, e fece male. Male e paura.
Perché aveva dato prova di essere degna.
Perché aveva attirato l’attenzione degli Strateghi.
Capì e non riuscì a capire.
Perché mi fai questo, maestra. Perché m’imponi un futuro che non voglio. Perché mi sacrifichi sull’altare della tua gloria, come se non mi fosse stata promessa una scelta, come se fossi nulla più che un mezzo. Perché. Perché. Perché.
Le lame chiarissime dello sguardo di Leliel, però, non diedero risposte.
Nessun angelo, in fondo, avrebbe mai dovuto chiedersi perché.

* * *

Si tastò la gola, lentamente, cercando tracce dello squarcio che l’aveva attraversata. Vi avvertiva un lieve formicolio, dove la pelle era appena più tesa e sottile; niente, in confronto al dolore che l’aveva attraversata in precedenza.
«Ferma.» la ammonì il Guaritore, premendo con più forza sul ventre nudo, nel ventre nudo. Ramiel, accanto all’angelo, osservava con espressione concentrata e, con le mani avvolte da un velo di fiamme candide, imitava nell’aria i suoi movimenti – già non aveva più necessità di scrivere, per ricordare qualcosa, e poteva dedicarsi all’esercizio.
Era rimasta accanto a lei per molto, a osservare gli effetti del Fuoco sul suo corpo ferito, ma non avevano parlato: quelle fiamme annebbiavano i sensi e la mente, per donare sollievo e riposo – e, si vociferava, per impedire che qualche arcangelo troppo zelante tornasse a combattere senza essersi adeguatamente rigenerato. Solo alla fine era giunto un Guaritore, a controllare che l’essenza fluisse in modo corretto. Non era doloroso, ma nemmeno piacevole: si trattava pur sempre di un’essenza estranea che invadeva il corpo – rapida, perché non si poteva perdere troppo tempo su un inutile cherubino – e lo forzava a riprendere sensibilità.
Era un lieve bruciore, poco più di un formicolio, che si estendeva intorno al tocco del Guaritore; avrebbe voluto scacciare la sua mano, ma poteva solo muoversi un po’, per alleviare quel desiderio.
...non poteva fare neppure quello, in realtà.
Il palmo dell’angelo scivolò dal ventre verso una coscia, accarezzando la pelle nuda con quel tocco bruciante.
«Ferma.» ripeté, nel vedere che ancora agitava le mani, prima di tornare a fissare lo squarcio rimarginato.
Resistette per qualche istante, prima di tornare a tastarsi la gola nel tentativo di distrarsi.
«Ramiel.» sibilò il Guaritore, premendo con più decisione.
Lei si sporse a trattenerle le braccia lungo i fianchi, con fermezza.
Doveva essere particolarmente dotata, se un adulto ricordava – si dava la pena di ricordare, ricercandolo nella memoria – il suo nome; e, in effetti, lo era.
«Non ce n’è bisogno.» mormorò Amitiel, assalita da un desiderio ancor più intenso di muoversi.
«Zitta.»
Ricordava di aver incontrato Guaritori più accondiscendenti.
Voltò il capo di lato e socchiuse gli occhi. Nonostante il Fuoco, si sentiva stanca.
Scorse il candore degli abiti che le avevano procurato, ripiegati accanto a lei; e il candore del pavimento su cui era distesa, e il candore delle pareti, e il candore dei Fuochi.
Candido.
Tutto candido.
Ne sei accecata?
Faceva male. Male, male, male.
Nella testa. Nel petto. Nel ventre. Ovunque.
Oh, sì. Ne sei accecata.
Quelle voci. Quelle voci estranee che la visitavano nel sonno, quegli stralci di scene che le apparivano davanti agli occhi, e... e perché. Perché dovevano tormentarla. Perché non poteva più dimenticarli non appena sveglia. Perché non riusciva a capire.
Perché continuava a chiedersi quando fossero accadute, quelle cose che non ricordava. Dove. Con chi.
Frammenti che raccoglieva e non avevano senso, mai, come se le mancasse sempre qualcosa – e cosa, cosa le mancava?
E faceva male, male, male.
Strattonò i polsi, tentando di muoversi, ma Ramiel vinse senza fatica la resistenza del suo corpo immerso nel torpore.
Era riuscita a non pensarci, finché c’era stata Anane; perché c’era sempre stato qualcos’altro su cui concentrarsi, un dubbio, una riflessione, un litigio.
Ma Anane se n’era andata – il Paradiso squarciato per un istante e lei che cadeva, cadeva, cadeva lontano da un Dio troppo distante, da un Paradiso troppo freddo e crudele. Cadeva verso una madre che l’avrebbe abbracciata e ghignato della sua sofferenza. Cadeva dove lei non avrebbe potuto raggiungerla, dopo un ultimo saluto tanto gelido da riempirle gli occhi di lacrime al ricordo.
Le mancava. Tanto.
E faceva male, male, male.
E c’era Sachiel sempre più avvelenata dall’invidia, dalla rabbia, da una brama di elogi mai soddisfatta. C’era Sachiel che non poteva accettare che Leliel la ritenesse seconda a un’altra.
C’era Cassiel che sibilava commenti su quanto fosse prevedibile la Caduta di Anane.
C’era Ramiel che era divenuta più distante, più fredda, troppo concentrata sul suo futuro da Guaritrice – e guardinga, come se temessi sospetti, accuse, domande su un legame troppo profondo.
E faceva male, male, male.
C’erano Custodi Guardiani Cherubini tutti che si guardavano attorno con una diffidenza nera e opprimente, perché avrebbe potuto esservi un altro traditore, tra loro; e perché temevano di essere additati come tali.
C’erano Custodi Guardiani Cherubini tutti che guardavano Ridwan con una diffidenza nera e opprimente, perché era stato il maestro della traditrice, e chissà cosa le aveva insegnato, e chissà come lei lo aveva contaminato.
C’erano Custodi Guardiani Cherubini tutti che la guardavano con una diffidenza nera e opprimente, perché lei era stata il cherubino più vicino ad Anane, l’unica amica, l’unica confidente – o almeno così pensavano, anche se in realtà non lo era stata, una confidente, o avrebbe saputo tutto molto prima. E forse neppure amica, o l’avrebbe salutata – per l’ultima volta? – in un modo diverso dal gelo e dalla rabbia.
E faceva male, male, male.
C’era Nelchael che accoglieva il suo desiderio di combattere – ma no, non era desiderio. Non era nemmeno necessità, o scelta: era un obbligo insopprimibile che ribolliva nel sangue e nell’essenza, spingendola a lottare, a ferire, a sentire il dolore che colava bollente lungo il corpo e inghiottiva ogni cosa. Affogare ogni pensiero e ricordo e voce nel sangue, e andava bene anche il proprio, perché lo strazio distraeva, la frenesia del combattimento svuotava di ogni emozione.
Ma c’erano pensieri e ricordi e voci che tornavano, non appena la lotta terminava, o il Fuoco smetteva di annebbiarle la mente.
E faceva male, male, male.
Agitò ancora le mani, senza riuscire a liberarsi dalla stretta ferrea di Ramiel.
Voleva muoversi. Voleva parlare.
Voleva combattere ancora.
Voleva solo non pensare.
   
 
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