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Autore: ShadeFlash    15/09/2012    1 recensioni
Cosa succede quando mente e corpo non vanno d'accordo?
Cosa succede quando il dolore non fa respirare ma nessuno lo vede?
La differenza fra stare bene e soffrire è estremamente sottile, la vera domanda è: quanto si può resistere prima di scoppiare?
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Sì raggomitolò nel letto, stritolando la coperta inzuppata di lacrime nei pugni chiusi.
Il corpo gli doleva, scosso da tremiti incontrollabili; la nausea lo imprigionava.
Sentì dei passi, si asciugò di fretta il volto e si immobilizzò controllando la respirazione, nonostante il cuore gli battesse a mille.
Sua madre spalancò la porta, urlando: «Sei ancora a letto! Muoviti, non ti permettere di farmi fare tardi!»
Sentì il rumore delle finestre che si spalancavano, mentre la vecchia chiave arrugginita girava nella toppa delle persiane. I passi tornarono ad allontanarsi.
Rilassò il corpo, trattenne a stento i conati di vomito. Poteva vedersi varcare la soglia della scuola, percorrere a testa bassa i corridoi e le scale finendo con l'indugiare davanti alle porte degli spogliatoi.
I sentimenti d'odio profondo per il suo corpo si presentarono puntuali, come ogni volta che aveva le lezioni di educazione fisica. La sola idea di alzarsi e doversi guardare allo specchio gli stimolò nuovamente il vomito.
Nuove lacrime bollenti gli scorsero sul volto, urla di dolore e rabbia furono trattenute ancora nella sua gola.
Si sentiva lacerato dal malessere interiore, tanto che ancora una volta l'idea del suicidio fece silenziosamente capolino nella sua testa. Affondò i denti nelle labbra, senza nemmeno accorgersi di sanguinare; scalciò via le coperte, come se questo gesto potesse aiutarlo ad allontanare quegli orribili pensieri.
Finalmente si costrinse ad alzarsi. Strascicando i piedi prese i suoi vestiti e si diresse in bagno, dove, con gesti automatici, fece passare la stretta canotta di lycra sulla sua testa, stringendo al massimo il velcro sul fianco; indossò una slavata t-shirt di almeno due taglie più grande e uno scolorito jeans largo, poi andò a mangiare.
Mentre consumava meccanicamente la sua colazione, la madre irruppe nella cucina, sventolando un paio di boxer umidi. Il suo corpo si irrigidì improvvisamente, con una dolorosa contrazione dello stomaco. Spalancò gli occhi e tentò di dire qualcosa, ma aprì e richiuse la bocca senza riuscir a spiccicare parola.
«Di chi sono? Che te ne fai? A che ti servono?» Le domande piovvero come una doccia gelida su di lui.
«Che domande, sono miei e li ho messi ad asciugare.» Si stava già maledicendo per essersi scordato di nasconderli dopo averli lavati; d'istinto si lanciò verso la spazzatura, terrorizzato dall'idea che potesse gettarglieli, la madre invece li lasciò cadere sul ripiano di marmo, poiché in quel momento aveva troppa fretta per occuparsene.
Mentre il ragazzo era distratto, la donna afferrò una boccetta di profumo e spruzzò nella sua direzione. Una nuvola di orribile profumo lo investì in pieno, facendolo inorridire: "Mamma ma che fai?! Non mi piace!"
"Andiamo, te lo hanno regalato ed è buonissimo, usalo qualche volta!" Lui la guardò male, andando a prendere le proprie cose senza perdersi in inutili repliche.

La giornata trascorse come tutte le altre: noiosa, lenta e silenziosa. Suonò l'ennesima campana e tutti si diressero caoticamente nel seminterrato dov'era situata la palestra, lui si attardò volutamente, poiché non sopportava la calca, e finse di star riordinando la sua roba. Quando finalmente ebbe raggiunto gli spogliatoi, rimase bloccato davanti alla doppia entrata per una frazione di secondo, e, mentre il suo istinto lo spingeva verso la porta degli uomini, la ragione lo frenava: "Cosa pensi di fare? Sei una femmina, va' di là e sbrigati!"
Quel pensiero lo trafisse.
Non si girò, camminando dritto verso l'altra entrata. Sapeva benissimo che quel pensiero non era sbagliato, che non poteva cambiarsi dove avrebbe voluto, e, anche se il permesso gli fosse stato concesso, sarebbe stata una pazzia entrare lì: i trattamenti che gli avrebbero riservato i suoi compagni di classe erano perfettamente immaginabili, e assai poco desiderabili. Il ragazzo si infilò nell'ultima cabina e si cambiò, e uscì quando la maggior parte delle ragazze era quasi svestita. Alcune di loro urlarono con voce stridula:
«Aiuto! Mi sta guardando!»
«Pervertita, io non sono una lesbica deviata come te!»
Nonostante lui desse loro la schiena e si incamminò senza voltarsi cercando di ignorarle, le compagne di classe continuarono ad insultarlo.
Una ragazza gli bloccò la strada e gli premette la mano sul gran pettorale. Quel contatto bruciava, e prima che il ragazzo potesse dire qualcosa lei lo fissò dall'alto in basso, dicendo a gran voce, con sfacciataggine incredibile: «Dai, vediamo se hai le tette!»
Istintivamente la spinse via da sé, terrorizzato dall'idea che allungasse la mano fino ad aprirgli la canotta.
Il professore, come al solito, ordinò di correre, e lui non si sottrasse al compito, pur sentendo la gabbia toracica bloccata e la pelle raschiata dalle cuciture, anzi, risultava il più veloce, visto che la sua classe non aveva mai preso sul serio le lezioni di ginnastica.
Corse.
Un piede davanti all'altro, non sentiva più nemmeno le battute che facevano. Qualcuno spostò improvvisamente un materasso in mezzo al campo, e lui, non fermandosi neanche a pensare, lo saltò, continuando a correre come se questo potesse portarlo lontano, liberarlo da quelle catene, ricucire quelle ferite aperte, eliminare quella carne di troppo. Improvvisamente il cuore iniziò a martellare, un dolore pulsante crebbe nella sua testa: doveva fermarsi, anche se avrebbe continuato per sempre. In fondo lo infastidiva doversi fermare, dover spendere tutto quel tempo per riossigenarsi...
Avrebbe voluto correre per sempre e non fermarsi mai a guardare indietro.
Tornò allo spogliatoio per bere e sentì dei passi raggiungerlo, provò a scostarsi ma, prima che potesse farlo, fu colpito alla schiena. Scivolò a terra senza fiato; era così concentrato sul cercare di incamerare aria da non prestare più attenzione a cosa stesse accadendo.
Nel momento in cui il cervello riprese a funzionare, il panico ebbe la meglio; rabbrividì immaginandosi gelide mani che strappavano via la maglia, mettendo in mostra la parte del corpo che più odiava di sé, gli occhi della gente che lo fissavano, le risate, le battute volgari. Indietreggiò barcollando, senza nemmeno rendersi conto di essere solo.
Scappò in lacrime, correndo per i corridoi deserti della scuola. Dovette fermarsi dopo pochi metri, perché odiava sentire quel peso spostarsi ad ogni suo passo. Si rintanò all'ultimo piano, nel solaio, in lacrime; e non poteva sottrarsi al masochistico desiderio di fissarsi al vecchio specchio malconcio, che pareva stesse lì abbandonato a deridere chi lo guardava, quasi istigandolo a farsi del male.
Continuava a scrutare quegli occhi tristi e sconsolati e pensieri d'odio incommensurabile andavano formandosi nella sua testa, mentre spostava lo sguardo su quell'orrendo viso così tenero e femminile, la sua mandibola delicata, le guance morbide che tutti solevano pizzicargli credendo fosse una cosa tenera; digrignò i denti mentre stilettate di dolore s'incuneavano in profondità nella sua testa.
Provava odio, allo stato puro.
Odiava tutto, odiava gli altri per come lo trattavano e per come lo facevano sentire, odiava i suoi genitori che non capivano quanto per lui fosse naturale essere così, li odiava perché non lo capivano e non volevano farlo. Affondò i denti nel labbro inferiore strappandone la pelle fino a sanguinare, ma non ci fece caso, era un puro riflesso quando sprofondava nel baratro.
Con la mano tastò nel buio accanto a sé, fino a trovare un vecchio taglierino abbandonato.
Spesso ci pensava, dicendosi che sarebbe stato facile, sarebbe stata una liberazione, solo due taglietti e tutto sarebbe finito.
Ripensava a come sarebbe stato sentire la lama affilata trapassare l'epidermide e poi incontrare i nervi e le vene del polso, una cosa da niente, appena un attimo..
Tanto nessuno sarebbe mai andato al suo funerale. Altre lacrime gli annebbiarono temporaneamente la vista, annaspò alla ricerca di fazzoletti, i tremiti alle mani gli impedirono di aprire il pacchetto finché non lo strappò. Altre domande improvvisamente si riversarono nella breccia spinte dalla frustrazione:
Perché lui? Perché era nato sbagliato? Perché non poteva essere come gli altri?
Ogni domanda gli trapanava il cervello.
Si contorse, trattenendo a stento fremiti di dolore. Picchiò i pugni sulle logore assi si legno finché il dolore non si spostò alle mani; colpì ripetutamente la parete col cranio; solo allora il tumulto interiore venne zittito e poté rannicchiarsi esausto sul pavimento.
Aspettò che il respiro e il battito cardiaco si calmassero, ma nuovamente il terrore lo invase; percepiva distintamente tra le gambe l'orrendo liquido vermiglio, che non voleva e non aveva mai voluto, ma che dopo i mille discorsi di sua mamma era arrivato.
Si contorse terrorizzato, odiandosi sempre di più per essere così sbagliato.
Come poteva sua madre non vedere l'ora che arrivasse quella condanna?
Come poteva essere sempre così dannatamente sorridente?
Come poteva gioirne e dirlo a mezzo mondo? Cosa diavolo c'era di bello?


In preda al panico si rifugiò in un bagno abbandonato dell'ultimo piano, scoprendo che era tutta un'allucinazione, che era tutta opera della paura.
Evitando accuratamente gli specchi, tornò in aula a recuperare le sue cose, scoprendo che gli avevano spostato tutto abbastanza in alto da essere fuori dalla sua portata. Sbuffò, chiedendo a qualcuno di recuperargli gli oggetti, richieste che naturalmente caddero nel vuoto. Amareggiato, sentendosi un fantasma, una persona invisibile, si arrampicò su una sedia. Nemmeno i professori facevano caso a lui.
Non appena mise piede in casa gli si chiuse lo stomaco, la nausea salì rapidamente. Si rifugiò nel bagno in preda ai tremiti e a un'incontrollabile desiderio di vomitare tutto, di distruggersi, di farsi male.
Si sentiva soffocare, il dolore irrompeva nella sua testa urlando; credette che sarebbe esploso, ma non accadde nulla.
Con fatica dominò l'impulso del suo stomaco, finché, stanco e madido di sudore, si accasciò contro la porta, chiudendo gli occhi ancora tremante, e provò a calmare il respiro.
Dalla cucina udì provenire le stridule urla di sua madre che lo chiamava impaziente per il pranzo. Involontariamente serrò i pugni nel sentire il suo orribile nome femminile, mentre nuove lacrime scivolarono bollenti sul volto arrossato.

Si considerava ancora sano di mente, ma quanto ancora avrebbe resistito? Quanti anni ancora avrebbe dovuto sopportare quella tortura psicologica e fisica?
Prima che ulteriori domande potessero affacciarglisi alla mente, prima che si riperdesse in sterili litigi con se stesso, cercò di sistemarsi, si lavò il viso con della refrigerante acqua gelida, e finalmente andò a pranzo.
Indossò una logora maschera sorridente, passiva, tutto andava bene, tutto era perfetto. Finse di ascoltare gli inutili monologhi della madre annuendo di tanto in tanto.
Cercò di alzarsi prima della fine del pasto, tanto non aveva mai appetito, ma lei lo bloccò:
«Senti aspetta, dobbiamo parlare»
Un campanello d'allarme suonò nella sua testa, il panico lo abbracciò nuovamente e ricadde sulla sedia; con voce asciutta le rispose:
«Dimmi, che c'è?»
Svuotò il bicchier d'acqua come se non bevesse da anni e rimase a rigirarsi nervosamente il bicchiere nella mano. «È vero che su internet stai facendo una colletta per operarti e cambiare sesso?»
La domanda lo inchiodò, non sapeva se ridere o piangere, non sapeva se urlare o semplicemente prendere la rincorsa e lanciarsi giù dal balcone.
Fingendo indifferenza, ma non stupore, rispose:
«No mamma, perché me lo chiedi?»
Indicò il portatile posato lì vicino, lui guardò lo schermo e gli mancò il fiato, aveva sempre pensato che a sua madre mancasse qualche rotella, ma non così tante: era un sito nel quale lui cercava di aiutare altri disperati, e la frase incriminata apparteneva al discorso di un altro utente.
Dopoqualche attimo di silenzio, lui le rispose acido:
«Se tu sapessi leggere, vedresti che io sono quello dopo, non il primo che ha fatto la domanda.»
La sua risposta cadde nel vuoto. Sua madre riprese, come se niente fosse:
«Spiegami che vuol dire tutto questo! Cara, vedi, io e tuo padre ci siamo sforzati di renderti felice, ci siamo sacrificati per te, ed è così che ci ringrazi? Vedi di far sparire la tua foto da lì!»
Chiuse le mani a pugno e le nascose in tasca. Le avrebbe volentieri spaccato la faccia.
La verità era che a quella donna non importava nulla di come lui potesse sentirsi, di quello che aveva letto, l'importante era che nessuno vedesse la sua faccia, che nessuno sapesse nulla.
Non disse niente e scappò in camera, per sicurezza bloccò la porta e si gettò sul letto in lacrime.
Come diavolo si poteva essere così insensibili e chiusi?
Si arrovellò su questo pensiero piangendo fino ad addormentarsi, stremato, senza fare incubi, per una volta.


Questa storia partecipa al contest del gruppo  Lo slash è un diritto indetto da Florelle e Il_Genio_del_Male, col prompt: Spogliatoi.
   
 
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