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Autore: Elizabeth_Tempest    19/09/2012    4 recensioni
Nella Danimarca settecentesca, il destino di una testarda contessa e di un misterioso giovane venuto da lontano s'intrecceranno.
"Friederieke guardava fuori dalla finestra, annoiata, rigirandosi pigramente il lavoro tra le mani; il cucito non l’aveva mai entusiasmata, lo aveva sempre trovato noioso dato che non ne trovava una vera utilità pratica –del resto i suoi abiti arrivavano sempre da qualche sartoria della capitale, dove suo padre spendeva un vero e proprio patrimonio per farle avere sempre i modelli più in voga alla corte francese.
Si concentrò sul ricamo, tentando di ricordare cosa fosse di preciso… forse un usignolo? si chiese, lanciando un’occhiata perplessa ai fili azzurri.
Non le sovvenne nulla ed alzò lo sguardo, sperando di poter sbirciare il lavoro della signorina Bernstein che invece pareva tutta presa dalla sua opera e la teneva in modo tale che la fanciulla non potesse vedere cosa stesse ricamando." [dal primo capitolo]
La storia è ambientata prima degli eventi di The Lost Canvas, ed è collegato ad uno dei gaiden.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo Personaggio, Pisces Albafica
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo VI

Rimontò a cavallo poco dopo, dirigendosi alla tenuta, osservando che il “grigiore”, come lo aveva definito Jens Andersen, pareva farsi meno forte nelle vicinanze del maniero, rafforzando l’idea della cancrena: ciò che stava accadendo a Frydenjord pareva in tutto e per tutto una setticemia purulenta che lentamente, ma inesorabilmente, attaccava le altre membra del corpo, divorando il tessuto sano. Ma egli non era un cerusico e desiderava tutto, fuori che dover amputare quell’arto: avrebbe fatto di tutto per curarlo e per salvare quegli innocenti.

Varcando i cancelli della tenuta dei Frydendahl, l’influsso diminuiva, ma si rese conto che stava diventando più vigoroso… non sapeva come lo avesse compreso, ma era certo che stesse diventando più forte, che stesse attecchendo in quei luoghi ancora “sani”.

Percorse il viale alberato, scrutando il parco alla francese oltre ai tronchi coperti di muschio, alla ricerca di qualche dettaglio fuori dall’ordinario, ma a parte una coppia di germani reali che si dilettava in una delle fontane, non c’era nulla.

Lentamente la facciata del maniero si andò dettagliando:  il palazzotto era abbarbicato su una bassa collinetta e doveva essere molto antico, risalente a secoli prima, era di mattoni e pietra rossastra ormai annerita dal tempo e tutto, della sua figura un po’ tozza ma solida, lasciava intendere il suo ruolo di fortezza in un passato lontano e le battaglie che doveva aver visto. Le finestre erano strette e piccole nella maggior parte dei casi, anche se sulla facciata se ne aprivano pure di enormi, evidentemente aggiunte in seguito secondo il gusto dei padroni di quei luoghi.

Anche se ingentilito dai giardini squisiti, tutto, in quel luogo, parlava di sangue, morti, battaglie e di antichi padroni barbari e affermava il prestigio dei Frydendahl come signori e protettori di quella zona da innumerevoli generazioni.

Ad un tratto non riuscì più a stupirsi del carattere della contessa, perfettamente in linea con quello che doveva essere stato il passato non così lontano della sua casata e che ancora scorreva nelle sue vene, nel sangue dei suoi antenati.

Giunto davanti al portone, un omone grande e grosso, vestito da valletto, gli si fece incontro, esibendosi in inchini e frasi di circostanza, chiedendogli il nome e avvertendolo che la signorina contessa lo stava attendendo.

Il giovane olandese gli consegnò le redini della sua cavalcatura, ringraziandolo e si allontanò al seguito di una serva che era corsa ad accoglierlo: la ragazza lo aveva fissato per qualche momento, dimentica della buona creanza, col viso arrossato, prima di farfugliarli di seguirla e avviarsi verso la passeggiata nel boschetto di querce che si estendeva dopo il jardin à potager.

Maledì la propria bellezza, prospettandosi veri e propri sforzi titanici per tenere lontani gli abitanti di quel palazzo.

 

Iedike aveva deciso di attendere il suo ospite passeggiando nel boschetto di querce, che sinceramente aveva sempre aborrito, tanto pareva falso e irreale, curato in ogni minimo dettaglio e così lontano dalle selve in cui i suoi avi aveva cavalcato in sella a bestie possenti, spade e scudi alla mano, le folte barbe da barbaro intrecciate e gli occhi scintillanti per la sete di battaglie e avventure.

Era riuscita ad ottenere dalla signorina Bernstein un cambio d’abito, scegliendo un negligé blu scuro e delle scarpe più comode, supplicandola quasi e ricattandola con possibili cadute che avrebbe di certo rovinato l’abito tanto “raffinato” che indossava.

La rigida donna tedesca era subito corsa ai ripari, concedendole di indossare vestiti più comodi –per proteggere l’investimento del conte Frydendahl in seta e pizzi- e le aveva consigliato quel nuovo abito blu notte, che “s’intona così bene con i vostri occhi e la vostra pelle, contessa!” ma le aveva imposto la pesante presenza di Sophia, ricordandole che lei era l’ospite e avrebbe dovuto essere cortese con la cugina.

La fanciulla aveva represso l’istinto di spingere la parente giù per le scale appena aveva aperto bocca e ora camminava a braccetto con la cugina, che ciarlava di abiti, di balli e di altre amenità.

-E quindi il giovane Oldenburg ha chiesto la mano di Theresia Thorvaldsen: vi lascio immaginare quanto sia stato imbarazzante per quella poverina… insomma, si sa che August Oldenburg ha una rendita infima ed è così noioso, sempre parlando di politica, politica e politica, altrimenti di filosofia. E poi come si veste! Oh, cugina cara, sembra sempre indietro di dieci anni sulla moda parigina! Anche se… be’, non è l’unico. Ma si sa, non tutti hanno classe.- commentò la ragazza bionda, coprendosi la bocca col ventaglio cinese.

Iedike si impose di non ucciderla facendole ingoiare quella sciocca cineseria, non sarebbe stato cristiano riservare un trattamento del genere alla cugina, anche se, effettivamente, l’assenza di qualsiasi organo pensate avrebbe potuto anche classificarla come non umana… in quel caso non sarebbe stato omicidio… o forse sì? si chiese, rivolgendole un sorriso mellifluo.

-Già cugina… non tutti hanno classe, come non tutti hanno intelligenza e capacità di discorrere in modo profondo e piacevole, per tutto ciò è necessaria una mente profonda e studiosa e non è cosa da tutti. Gli abiti sono di certo un passatempo più che delizioso, quando si ha una mente ristretta come la maggior parte delle persone.- disse. Touché, pensò, guardando l’altra arrossire violentemente sotto la cipria.

-Ottimo davvero, credimi. Non so che farmene di certi libroni polverosi, sapete, un uomo in una donna cerca molto altro. Ella deve essere piacevole, bella, saper discorrere, suonare, cantare e ricamare, comporre poesie e danzare… a noi non viene certo chiesto di fare politica o filosofia, quelle sono cose da uomini. Se Dio avesse voluto il contrario, non sarebbe stato così.- ribatté Sophia, seccata.

Proprio non le riusciva di trovare simpatica la cugina e di fingersi sua intima amica, quando avrebbe voluto essere con Theresia o la cara, cara Helene, era arduo. Come poteva quella fanciulla così rozza e ribelle, così poco femminile, essere la rampolla di una famiglia antica come i Frydendahl? Come poteva essere così… così… villana? Era una specie di ribelle popolana a cui aveva infilato dei bei vestiti!

-Sapete, cara cugina, penso di non trovarmi d’accordo con voi… se Dio non ci avesse voluto come voi dite, ci avrebbe fatte nascere tutte quante come delle capre o delle pecore. E ora, se mi permettete, ma quello pare Henning ed è davvero affannato…- disse, con un sorriso di scherno, allontanandosi dalla giovane ospite, che la guardava furente e avviandosi lungo il viale.

Henning, un bambino piuttosto minuto con gli occhi strabici e i tratti grossolani che lavorava nelle stalle, la raggiunse –in un angolo dopo una statua di Eros ricoperta d’edera, piuttosto nascosto alla vista di Sophia., il viso rosso per la corsa.

-Contessa, contessa! È arrivato il vostro ospite! È con Ina, sta venendo qua!- pigolò il bimbetto, gesticolando e strascicando le parole.

-E sei venuto di corsa per dirmelo? Che caro bambino sei.- si complimentò Iedike, che per quell’infelice aveva una certa predilezione. Henning era sempre stato piuttosto esile e malaticcio ed era orfano, la madre e il padre erano morti anni prima, lasciando sei bocche da sfamare che erano state prese dall’ormai defunto padre Peder in quello che era l’orfanotrofio del villaggio, una catapecchia in cui erano alloggiati almeno una decina di bambini e fanciulli, molti dei quali privati dei parenti da un’epidemia di vaiolo che aveva colpito la zona una decina di anni prima. La povera creatura, che era la più piccola della famiglia, era anche nato un po’ sempliciotto.

Il fanciullo fece un sorriso. –Sì, contessa.

-Allora fa una cosa: va nelle cucine e dì alla cuoca, la signora Jacobsen, di darti un po’ di arrosto freddo e qualche dolcetto. Dille che ti mando io e che mi hai reso un gran mestiere.- disse Iedike, cercando di chinarsi alla sua altezza –impresa quantomeno difficile per via del panier e delle stecche di osso di balena del corpetto- e facendogli un buffetto sulla guancia sporca.

Il bambino emise una specie di cinguettio e, con un sorriso imbarazzato, corse via.

 

La cameriera lo aveva accompagnato per un po’ sul sentiero, ma alla fine aveva deciso di proseguire da solo e l’aveva licenziata, facendosi indicare il sentiero che di solito prendeva la contessa.

La intravide poco dopo, su una passeggiata laterale, mentre parlava con un bambino. Il piccolo era magrolino, sporco, con gli occhi scialbi e certamente non doveva essere normale, ma Friederieke gli sorrideva con dolcezza e gli parlava con calma.

-Allora fa una cosa: va nelle cucine e dì alla cuoca, la signora Jacobsen, di darti un po’ di arrosto freddo e qualche dolcetto. Dille che ti mando io e che mi hai reso un gran mestiere.- stava dicendo la fanciulla. Il bambino pareva felice e quando la contessa smise di parlare, emise un urletto e corse via.

Albafica decise di palesare la sua presenza, sapendo che spiare a quella maniera era davvero poco educato e decidendo che non valeva la pena fare figure grame con la contessa, quando proprio su di lei avrebbe potuto dover contare per scoprire di più.

-Siete stata molto gentile con quel bambino.- disse, comparendole davanti. La ragazza si raddrizzò, sorridendo senza però lasciare trapelare i suoi pensieri.

-Henning è un caro ragazzino, non vedo ragioni per cui non dovrei essere gentile con lui.- gli venne risposto.

Freiderieke Frydendahl aveva il dono di stupirlo sempre e il sorriso che gli rivolse, luminoso e sincero, gli fece distogliere lo sguardo.

Rimasero in silenzio qualche istante, poi la fanciulla si decise a parlare. –Dunque avete accettato il mio invito. Ne sono contenta.- la sua voce esprimeva una contentezza genuina,

-Siete stata estremamente garbata, contessa.- rispose Albafica, venendo interrotto dall’arrivo di una fanciulla dai capelli biondi e il viso incipriato come la migliore cortigiana francese.

Indossava un abito ingombrante, dai toni tenui, color primula e faticava a camminare; era graziosa, con grandi occhi azzurri e i capelli biondi raccolti in un’acconciatura ricercata, ma al guerriero parve fin troppo artefatta.

 

Sophia, nonostante fosse infuriata con la cugina, rimase a bocca aperta davanti al giovane e avvenente sconosciuto che stava parlando con Friederieke.

Dire che fosse bello era troppo riduttivo, perché la sua persona era la cosa più squisita che occhio umano potesse mai vedere: i tratti fini e armoniosi, ogni dettaglio che perfettamente s’intonava con gli altri e quell’aria angelica non potevano che appartenere ad un qualche dio pagano.

Gli occhi erano di un blu senza rivali, parevano due zaffiri incastonati in quel bel volto dalla pelle candida e dall’aria morbida e vellutata come il più succulento e peccaminoso frutto –che fosse lo stesso che aveva indotto in tentazione Eva? si chiese Sophia-, dai tratti tanto perfetti che sembravano scolpiti da mano divina, incorniciato da una folta e lunga chioma color pervinca, lucente e liscia come la più bella seta cinese.

Tutto, nel giovane estraneo, esprimeva raffinatezza, superiorità d’animo, nobiltà e la giovane si stupì non poco che una creatura tanto perfetta stesse parlando con la cugina, così poco a modo, una villana qualsiasi che si atteggiava a nobile.

-Cugina! Oh, monsieur, buongiorno… Friederieke cara, non mi presentate?- cinguettò, sventagliandosi.

Il viso di Iedike era immobile, ma lo sguardo lanciava fiamme e Sophia sentì i brividi correrle per la schiena. Quand’erano bambine, quello sguardo significava una rana nel piatto o dei lombrichi nel letto.

-Monsieur Van Dijk, vi presento mia cugina, la baronessa Sophia Ulrika Maria Eckersberg. Sophia cara, egli è Albafica Van Dijk.









Vi aspettavate la morte di Sophia? Naaaa, per ora rimarrà in questo mondo a rompere a Iedike...

   
 
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