Capitolo
VI
Rimontò
a cavallo poco dopo, dirigendosi alla tenuta, osservando che il “grigiore”, come lo
aveva definito Jens
Andersen, pareva farsi meno forte nelle vicinanze del maniero,
rafforzando
l’idea della cancrena: ciò che stava accadendo a
Frydenjord pareva in tutto e
per tutto una setticemia purulenta che lentamente, ma inesorabilmente,
attaccava le altre membra del corpo, divorando il tessuto sano. Ma egli
non era
un cerusico e desiderava tutto, fuori che dover amputare
quell’arto: avrebbe
fatto di tutto per curarlo e per salvare quegli innocenti.
Varcando
i cancelli della tenuta dei Frydendahl, l’influsso diminuiva,
ma si rese conto
che stava diventando più vigoroso… non sapeva
come lo avesse compreso, ma era
certo che stesse diventando più forte, che stesse
attecchendo in quei luoghi
ancora “sani”.
Percorse
il viale alberato, scrutando il parco alla francese oltre ai tronchi
coperti di
muschio, alla ricerca di qualche dettaglio fuori
dall’ordinario, ma a parte una
coppia di germani reali che si dilettava in una delle fontane, non
c’era nulla.
Lentamente
la facciata del maniero si andò dettagliando:
il palazzotto era abbarbicato su una bassa collinetta e
doveva essere
molto antico, risalente a secoli prima, era di mattoni e pietra
rossastra ormai
annerita dal tempo e tutto, della sua figura un po’ tozza ma
solida, lasciava
intendere il suo ruolo di fortezza in un passato lontano e le battaglie
che
doveva aver visto. Le finestre erano strette e piccole nella maggior
parte dei
casi, anche se sulla facciata se ne aprivano pure di enormi,
evidentemente
aggiunte in seguito secondo il gusto dei padroni di quei luoghi.
Anche
se ingentilito dai giardini squisiti, tutto, in quel luogo, parlava di
sangue,
morti, battaglie e di antichi padroni barbari e affermava il prestigio
dei
Frydendahl come signori e protettori di quella zona da innumerevoli
generazioni.
Ad
un
tratto non riuscì più a stupirsi del carattere
della contessa, perfettamente in
linea con quello che doveva essere stato il passato non così
lontano della sua
casata e che ancora scorreva nelle sue vene, nel sangue dei suoi
antenati.
Giunto
davanti al portone, un omone grande e grosso, vestito da valletto, gli
si fece
incontro, esibendosi in inchini e frasi di circostanza, chiedendogli il
nome e
avvertendolo che la signorina contessa lo stava attendendo.
Il
giovane olandese gli consegnò le redini della sua
cavalcatura, ringraziandolo e
si allontanò al seguito di una serva che era corsa ad
accoglierlo: la ragazza
lo aveva fissato per qualche momento, dimentica della buona creanza,
col viso
arrossato, prima di farfugliarli di seguirla e avviarsi verso la
passeggiata
nel boschetto di querce che si estendeva dopo il jardin
à potager.
Maledì
la propria bellezza, prospettandosi veri e propri sforzi titanici per
tenere
lontani gli abitanti di quel palazzo.
Iedike
aveva deciso di attendere il suo ospite passeggiando nel boschetto di
querce,
che sinceramente aveva sempre aborrito, tanto pareva falso e irreale,
curato in
ogni minimo dettaglio e così lontano dalle selve in cui i
suoi avi aveva
cavalcato in sella a bestie possenti, spade e scudi alla mano, le folte
barbe
da barbaro intrecciate e gli occhi scintillanti per la sete di
battaglie e
avventure.
Era
riuscita ad ottenere dalla signorina Bernstein un cambio
d’abito, scegliendo un
negligé blu scuro e delle
scarpe più
comode, supplicandola quasi e ricattandola con possibili cadute che
avrebbe di
certo rovinato l’abito tanto “raffinato”
che indossava.
La
rigida donna tedesca era subito corsa ai ripari, concedendole di
indossare
vestiti più comodi –per proteggere
l’investimento del conte Frydendahl in seta
e pizzi- e le aveva consigliato quel nuovo abito blu notte, che “s’intona così bene
con i vostri occhi e la
vostra pelle, contessa!” ma le aveva imposto la
pesante presenza di Sophia,
ricordandole che lei era l’ospite e avrebbe dovuto essere
cortese con la
cugina.
La
fanciulla aveva represso l’istinto di spingere la parente
giù per le scale
appena aveva aperto bocca e ora camminava a braccetto con la cugina,
che
ciarlava di abiti, di balli e di altre amenità.
-E
quindi il giovane Oldenburg ha chiesto la mano di Theresia Thorvaldsen:
vi
lascio immaginare quanto sia stato imbarazzante per quella
poverina… insomma,
si sa che August Oldenburg ha una rendita infima ed è
così noioso, sempre
parlando di politica, politica e politica, altrimenti di filosofia. E
poi come
si veste! Oh, cugina cara, sembra sempre indietro di dieci anni sulla
moda
parigina! Anche se… be’, non è
l’unico. Ma si sa, non tutti hanno classe.-
commentò la ragazza bionda, coprendosi la bocca col
ventaglio cinese.
Iedike
si impose di non ucciderla facendole ingoiare quella sciocca cineseria,
non
sarebbe stato cristiano riservare un trattamento del genere alla
cugina, anche
se, effettivamente, l’assenza di qualsiasi organo pensate
avrebbe potuto anche
classificarla come non umana…
in quel
caso non sarebbe stato omicidio… o forse sì? si
chiese, rivolgendole un sorriso
mellifluo.
-Già
cugina… non tutti hanno classe, come non tutti hanno
intelligenza e capacità di
discorrere in modo profondo e piacevole, per tutto ciò
è necessaria una mente
profonda e studiosa e non è cosa da tutti. Gli abiti sono di
certo un
passatempo più che delizioso, quando si ha una mente
ristretta come la maggior
parte delle persone.- disse. Touché,
pensò, guardando l’altra arrossire violentemente
sotto la cipria.
-Ottimo
davvero, credimi. Non so che farmene di certi libroni polverosi,
sapete, un
uomo in una donna cerca molto altro. Ella deve essere piacevole, bella,
saper
discorrere, suonare, cantare e ricamare, comporre poesie e
danzare… a noi non
viene certo chiesto di fare politica o filosofia, quelle sono cose da
uomini.
Se Dio avesse voluto il contrario, non sarebbe stato così.-
ribatté Sophia,
seccata.
Proprio
non le riusciva di trovare simpatica la cugina e di fingersi sua intima
amica,
quando avrebbe voluto essere con Theresia o la cara, cara Helene, era
arduo.
Come poteva quella fanciulla così rozza e ribelle,
così poco femminile, essere
la rampolla di una famiglia antica come i Frydendahl? Come poteva
essere così…
così… villana? Era una specie di ribelle popolana
a cui aveva infilato dei bei
vestiti!
-Sapete,
cara cugina, penso di non trovarmi d’accordo con
voi… se Dio non ci avesse
voluto come voi dite, ci avrebbe fatte nascere tutte quante come delle
capre o
delle pecore. E ora, se mi permettete, ma quello pare Henning ed
è davvero
affannato…- disse, con un sorriso di scherno, allontanandosi
dalla giovane
ospite, che la guardava furente e avviandosi lungo il viale.
Henning,
un bambino piuttosto minuto con gli occhi strabici e i tratti
grossolani che
lavorava nelle stalle, la raggiunse –in un angolo dopo una
statua di Eros
ricoperta d’edera, piuttosto nascosto alla vista di Sophia.,
il viso rosso per
la corsa.
-Contessa,
contessa! È arrivato il vostro ospite! È con Ina,
sta venendo qua!- pigolò il
bimbetto, gesticolando e strascicando le parole.
-E
sei venuto di corsa per dirmelo? Che caro bambino sei.- si
complimentò Iedike,
che per quell’infelice aveva una certa predilezione. Henning
era sempre stato
piuttosto esile e malaticcio ed era orfano, la madre e il padre erano
morti
anni prima, lasciando sei bocche da sfamare che erano state prese
dall’ormai
defunto padre Peder in quello che era l’orfanotrofio del
villaggio, una
catapecchia in cui erano alloggiati almeno una decina di bambini e
fanciulli,
molti dei quali privati dei parenti da un’epidemia di vaiolo
che aveva colpito
la zona una decina di anni prima. La povera creatura, che era la
più piccola
della famiglia, era anche nato un po’ sempliciotto.
Il
fanciullo fece un sorriso. –Sì, contessa.
-Allora
fa una cosa: va nelle cucine e dì alla cuoca, la signora
Jacobsen, di darti un
po’ di arrosto freddo e qualche dolcetto. Dille che ti mando
io e che mi hai
reso un gran mestiere.- disse Iedike, cercando di chinarsi alla sua
altezza
–impresa quantomeno difficile per via del panier e delle
stecche di osso di
balena del corpetto- e facendogli un buffetto sulla guancia sporca.
Il
bambino emise una specie di cinguettio e, con un sorriso imbarazzato,
corse
via.
La
cameriera lo aveva accompagnato per un po’ sul sentiero, ma
alla fine aveva
deciso di proseguire da solo e l’aveva licenziata, facendosi
indicare il
sentiero che di solito prendeva la contessa.
La
intravide poco dopo, su una passeggiata laterale, mentre parlava con un
bambino. Il piccolo era magrolino, sporco, con gli occhi scialbi e
certamente
non doveva essere normale, ma Friederieke gli sorrideva con dolcezza e
gli
parlava con calma.
-Allora
fa una cosa: va nelle cucine e dì alla cuoca, la signora
Jacobsen, di darti un
po’ di arrosto freddo e qualche dolcetto. Dille che ti mando
io e che mi hai
reso un gran mestiere.- stava dicendo la fanciulla. Il bambino pareva
felice e
quando la contessa smise di parlare, emise un urletto e corse via.
Albafica
decise di palesare la sua presenza, sapendo che spiare a quella maniera
era
davvero poco educato e decidendo che non valeva la pena fare figure
grame con
la contessa, quando proprio su di lei avrebbe potuto dover contare per
scoprire
di più.
-Siete
stata molto gentile con quel bambino.- disse, comparendole davanti. La
ragazza
si raddrizzò, sorridendo senza però lasciare
trapelare i suoi pensieri.
-Henning
è un caro ragazzino, non vedo ragioni per cui non dovrei
essere gentile con
lui.- gli venne risposto.
Freiderieke
Frydendahl aveva il dono di stupirlo sempre e il sorriso che gli
rivolse,
luminoso e sincero, gli fece distogliere lo sguardo.
Rimasero
in silenzio qualche istante, poi la fanciulla si decise a parlare.
–Dunque
avete accettato il mio invito. Ne sono contenta.- la sua voce esprimeva
una
contentezza genuina,
-Siete
stata estremamente garbata, contessa.- rispose Albafica, venendo
interrotto
dall’arrivo di una fanciulla dai capelli biondi e il viso
incipriato come la
migliore cortigiana francese.
Indossava
un abito ingombrante, dai toni tenui, color primula e faticava a
camminare; era
graziosa, con grandi occhi azzurri e i capelli biondi raccolti in
un’acconciatura ricercata, ma al guerriero parve fin troppo
artefatta.
Sophia,
nonostante fosse infuriata con la cugina, rimase a bocca aperta davanti
al
giovane e avvenente sconosciuto che stava parlando con Friederieke.
Dire
che fosse bello era troppo riduttivo, perché la sua persona
era la cosa più
squisita che occhio umano potesse mai vedere: i tratti fini e
armoniosi, ogni
dettaglio che perfettamente s’intonava con gli altri e
quell’aria angelica non
potevano che appartenere ad un qualche dio pagano.
Gli
occhi
erano di un blu senza rivali, parevano due zaffiri incastonati in quel
bel
volto dalla pelle candida e dall’aria morbida e vellutata
come il più
succulento e peccaminoso frutto –che fosse lo stesso che
aveva indotto in
tentazione Eva? si chiese Sophia-, dai tratti tanto perfetti che
sembravano
scolpiti da mano divina, incorniciato da una folta e lunga chioma color
pervinca, lucente e liscia come la più bella seta cinese.
Tutto,
nel giovane estraneo, esprimeva raffinatezza, superiorità
d’animo, nobiltà e la
giovane si stupì non poco che una creatura tanto perfetta
stesse parlando con
la cugina, così poco a modo, una villana qualsiasi che si
atteggiava a nobile.
-Cugina!
Oh, monsieur, buongiorno… Friederieke cara, non mi
presentate?- cinguettò,
sventagliandosi.
Il
viso di Iedike era immobile, ma lo sguardo lanciava fiamme e Sophia
sentì i
brividi correrle per la schiena. Quand’erano bambine, quello
sguardo
significava una rana nel piatto o dei lombrichi nel letto.
-Monsieur
Van Dijk, vi presento mia cugina, la baronessa Sophia Ulrika Maria
Eckersberg.
Sophia cara, egli è Albafica Van Dijk.
Vi aspettavate la morte di Sophia? Naaaa, per ora rimarrà in questo mondo a rompere a Iedike...