Nicotina
Un movimento impercettibile
delle labbra, le palpebre si chiudono lente sulla sua vista, si concentra
catalogando ogni odore presente in cabina. Ce l’ha come fissazione da tempo
immemore, fa parte di lei quasi quanto quella ciocca nera fra i capelli rossi o
gli occhi di un grigio impossibile. Basta un cambiamento qualsiasi che vada da
un improvviso temporale ad un radicale mutamento delle sue abitudini e ogni
cosa diventa elenco, colori, suoni, odori, occhi, vestiti; non c’è una fine,
non c’è limite , può riguardare tutto e niente, determinato esclusivamente
dalla sensazione del momento.
Il cambiamento in questione
è una partenza, non tanto improvvisa, piuttosto bramata e sognata durante le
notti più calde. La sensazione: un odore; appena varcata la soglia della cabina
stretta dell’aereo. Nicotina. L’uomo di fronte a lei con la maglietta bianca
con una stampa logora sotto il colletto stretto e bermuda larghi a fantasia
militare e i capelli gellati tanto da sembrare bagnati, sembrano neri ma magari
sono castani, il gel li scurisce terribilmente. Si muove goffamente tra i
sedili mantenendosi con una mano il lembo destro della maglietta evitando la
vergognosa risalita lungo le sporgenti maniglie dell’amore sfuggite ai
pantaloni. Lei pazienta, lo segue silenziosa, sussurrando a denti stretti gli
odori nascosti dalla nicotina: vaniglia, quella dell’acqua di colonia che tanti
signorotti del suo quartiere usano cospargersi sul corpo nelle fresche giornate
di primavera; cioccolato, della barretta che sporge aperta dai pantaloni; pino,
del gel che si scioglie sulla nuca a causa delle prime gocce di sudore dovute
allo sforzo di evitare chi ha già occupato il suo posto nei sedili più esterni.
Finalmente trova il suo posto e scivola incredibilmente silenzioso lungo il
sedile morbido, sotto lo sguardo interlocutorio del suo vicino. Lei invece
sorride mentre abbandona l’odore pungente della nicotina sostituendolo con
quello dolce dell’orzo.
Il suo posto è accanto a un
uomo ben vestito, dall’accento inglese che le spiega lo scopo del suo viaggio,
scandendo ogni minuto della sua giornata immediatamente dopo il primo scalo.
Quasi riesce a seguire l’odore del suo caffè all’orzo nella gola, osserva
l’impercettibile movimento del pomo d’Adamo, il petto che si abbassa e si alza
riempiendo i polmoni di aria pulita. Quando con lo sguardo incrocia quello
dell’uomo si rende conto di non aver ascoltato una sola parola, perciò sorride
e, gentilmente, si volta verso il finestrino.
Sul grembo stringe una guida
ormai logora dell’Ungheria, ogni pagina è segnata con un colore diverso,
schizzi di gufi e cavalli compaiono sulla copertina. Lei osserva e poi traduce
in segno ciò che pensa di aver visto, un albero diventa uomo, un occhio diventa
radice, una frase diventa occhio. L’Ungheria diventa un gufetto dagli occhi
piccoli, il becco sporgente e le penne arruffate.
E’ pronta, come non lo è
stata mai.
Un cappio rosso lo tiene
sospeso tra il finestrino e il cruscotto dell’enorme pick-up bianco, è un
rottame più vecchio di lui di almeno una decina di anni, su quello stesso
sedile un uomo che si sarebbe potuto dire identico a lui se non fosse stato per
la cespugliosa barba rossa dalle punte intrecciate e gli occhi, di un nero più
profondo della notte stessa, di quelle senza luna, di quelle da gelo nelle
ossa, stringeva il volante in un pugno srotolando sotto le ruote del pesante
mezzo chilometri di strada come fossero briciole e guardava suo figlio crescere
con il viso fuori dal finestrino, con gli occhi avidi, i più avidi che avesse
mai visto in vita sua, diceva, che mangiavano quelle briciole lasciate dietro
dal padre assorbendo colori, odori, volti.
Il cappio rosso si stringe
in un nodo impossibile attorno all’anello di ferro corroso dai chilometri,
dall’instancabile dondolio del cruscotto dovuto allo sbuffo degli
ammortizzatori, dalle note di rabbia che dalla radio rimbalzano sul vetro e si
propagano al tettuccio consunto.
Tiene lo specchietto
retrovisore tra le dita regolandolo in modo da riuscire a vedersi riflesso in
quei pochi centimetri di superfice. Le sopracciglia disegnate, anche troppo
disegnate per un volto come il suo che lo faceva sembrare uno di quei
personaggi usciti fuori dai fumetti di Pratt, dal volto marcato dal pennello
carico di china nera. Profonde occhiaie scavano intorno agli occhi un burrone
di ore private al sonno e dedicate ad Aaron. Sembrava un sorta di volontariato
il suo, una roba stile servizio civile, rincorreva le sue idee fuori dal comune
per rinchiuderle dentro a quattro pareti bianche ed anemiche, in modo che
potesse misurarsi una volta per tutte con una società fatta di persone normali.
In realtà questo è quello che pensavano le poche migliaia di persone che
vivevano in quel buco sperduto, Aaron era il suo Dean Moriarty, gli piaceva
farsi portare in giro, gli piaceva essere vittima delle sue follie. Sentirsi
diversi per tutta la vita ma nasconderlo agli altri per quella dannata certezza
di non esser capiti, non riusciva a vestire l’idea del “meglio soli e se
stessi”, era frustante.
Aaron lo aveva semplicemente
trovato, come quando si trova sul ciglio della strada uno di quei cuccioli di
cane bagnato fino alla punta delle orecchie, con quegli occhi spauriti, come fa
uno a lasciarlo lì? Allora lo prendi con te e gli offri una casa, una cura, lo
nutri e lo cresci. In quel bar, sul bancone lucido e appiccicoso, sullo
sgabello con le gambe penzoloni e il sedere per metà fuori dalla seduta, la
camicia slacciata e sporca di Jack, Aaron ha riso, si è messo a ridere
guardandolo negli occhi. Gli ha sfilato la camicia e l’ha lanciata al barista,
urlando, gli occhi iniettati di euforia. Non ci ha capito più nulla, si è
ritrovato in una macchina dagli interni completamente logori, su un sedile di
spugna gialla, di quelle che usava col padre per lavare la macchina. Ubriaco,
in un rottame, con un totale squilibrato mentale. Ha riso, pensava che avrebbe
dovuto avere paura ma..ha riso. E ha riso della sua risata, si è detto stupido
ma continuava a sghignazzare da solo sul sedile di spugna mentre guardava quel
folle premere a tavoletta l’acceleratore verso il totale buio; sì perché
davanti a sé vedeva esclusivamente la scia gialla che i fari proiettavano
sull’asfalto, che poi è diventato sterrato e poi breccia e improvvisamente
sabbia.
Dà un’occhiata veloce
all’ingresso dell’aeroporto mettendo a fuoco a fatica la miriade di volti che
entrano, no escono, entrano ed escono dall’edificio. Un oggettino minuscolo
penzola davanti alla sua visuale, lo distrae ma non lo degna di un’occhiata. Il
cappio rosso lo tiene saldo a penzoloni nel vuoto, sembra stanco ma non cede.
L’anellino arrugginito sfrega contro il laccetto, come un carcerato scava la
roccia dura. La miniatura del pick-up dondola nel vuoto ignara della lotta da
cui dipende la sua caduta.
Una sfolgorante chioma rossa esce di corsa dalle porte a vetro dell’aeroporto e si ferma a pochi passi dal pick-up; perfettamente in orario.
***
Non ripopolo queste pagine da una vita, almeno così mi pare. Buogniorno tutti, è appena metà settembre e io vi do il benvenuto mangiando un piatto di pastina col formaggino, il mio stomaco è su di giri e pare sia l'unica cosa che riesce a digerire, ma non ve ne pò fregà de meno perciò..passiamo a cose più interessanti. Il titolo :3 parliamone: se non sapete da dove nasce andate a soddisfare la vostra curiosità sul tubo! C'è tanta pioggia in questa storia, è una mattonata che si scioglie lentamente sotto la pioggia, tipo biscotto nel latte.
Non sono più capace di scrivere note, vorrei spiegarvi perchè l'Ungheria ma il mio cervello non collabora. Perciò ci rinuncio vi dico solo che il paese misterioso di cui non parlerò mai è lui -->yessa proprio lui, il perchè ve lo spiegherò in un momento migliore sia per il mio stomaco che per la mia mente poco collaborativa.
Ci sono due tipe grafomani in questa storia ed entrambe hanno preso la loro ossessione da una tipa che scrive robe assurde, vi giuro proprio assurde, e meravigliose che si chiama Elle. Ciao donna meravigliosa, come sta? Non so nemmeno se leggerà mai queste pagine ma le devo un minimo di ringraziamente per l'ispirazione che la sua persona mi ha dato. Ottio parlo aulico e sto sparando scemenze senza limiti.
Chiedo umilmente perdono per questa vergongosa nota delirante. Voglio salutare ancora una personcina che mi fa da beta e che si sorbisce il mio delirante sclero pre e post scrittura ovvero..la mia Giuls! Tante coccole pioggerellose a tutti voi!
Lis