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Autore: rosie__posie    26/09/2012    7 recensioni
School!AU
Il ragazzo biondo scosse la testa, non senza un briciolo di sconforto, prima di abbandonarsi nella poltrona.
-Non so. A volte... A volte penso seriamente di arruolarmi, dopo la laurea.
-Mhm, capisco. Sei drogato di adrenalina. Vuoi sentirla impossessarsi di tutto il tuo corpo, dando vita a indescrivibili emozioni che ti confermino che sei...
Una pausa, in cui Sherlock cercò di nuovo gli occhi di John, trovandoli, abbracciandoli con i propri.
-Che sono cosa?-, lo incalzò, con il respiro che quasi gli stava morendo in gola per la tensione.
-Vivo-, rispose Sherlock, con un fil di voce.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Dicembre
 
Stavano correndo a perdifiato, Sherlock che apriva la pista e lui dietro, che lo tallonava stretto. Erano inseguiti, ma non sarebbe stato in grado di dire da chi o che cosa. John sapeva solo che indossavano entrambi tute mimetiche e che lui incespicava di frequente per stare dietro alle falcate dell'amico. 
-Di qua, John-, bisbigliò Sherlock.
Non lo vedeva più. Aveva cambiato repentinamente direzione, finendo per rimanere inghiottito dalla fitta vegetazione, e John aveva finito per perdere il contatto visivo. Si fermò di botto, impaurito.
- Sherlock! Sherlock! Dove sei?-, chiamò a gran voce. Solo allora si rese conto di stare abbracciando un fucile. Si sentì strattonare per il polso e tirare con forza dalla parte opposta.
-Sono qui, sta zitto. O ci farai scoprire.
E la corsa riprendeva. Fino a quando John non incespicava in una radice esposta, cadendo rovinosamente a terra.
-Sherlock! Sherlock!
Allungava una mano ma l'amico era di nuovo sparito nella macchia verde. Questa volta per sempre.
E John si svegliò di soprassalto, madido di sudore e con il cuore che galoppava così forte che sembrava volesse strappargli a forza ogni muscolo dal petto. Si tirò a sedere nel letto e si voltò ansimante verso la radiosveglia, sul comodino alla sua sinistra. Erano le sei e venti. Tra meno di un quarto d'ora sarebbe suonata la sveglia, che avrebbe tirato Harriet fuori dal suo personale mondo dei sogni. Era il tre di dicembre. Mancavano venti giorni alla recita scolastica.
 
 
 
-Ehy, Watson!
Greg raggiunse a balzi l'amico nel corridoio, saltandogli in groppa. John protestò un poco, prendendo al volo lo zaino che stava quasi finendo a terra. La dolce e timida Molly si accostò a loro un attimo dopo, tenendo stretti al petto i libri di testo di biologia e letteratura.
-Che cosa ha detto la preside circa la rete civica, John?-, cinguettò la ragazza.
-Scolastica, la rete scolastica.
-Ehm, sí, Greg, come dici tu.
Le gote di Molly si imporporarono leggermente.
-Una pagina. Ha detto che ci concede una sola pagina del sito Web-, rispose John, fermandosi davanti al suo armadietto e aprendo lo sportello dopo aver rimosso il lucchetto.
-Oh, mi spiace…
Molly sembrava delusa, ma John le sorrise rassicurante.
-Tranquilla, va benissimo così. Una pagina è più che sufficiente. E poi viene data agli studenti la possibilità di commentare-, disse John, prendendo il testo di chimica e richiudendo l’armadietto.
-Che articolo includerai?-, chiese Greg, camminando al suo fianco.
-In verità, non sarà un articolo…-, rispose John, arrossendo leggermente sulle punte delle orecchie.
-Non sarà un articolo? Beh, non dirmi che vuoi fare il resoconto delle riunioni del consiglio scolastico!-, protestò l’amico.
-Per quello c’è già la sezione apposita del sito Web della scuola, Greg.
-E allora cosa? Reclami per la mensa?-, rincarò Gregory.
-Uno spazio per pubblicizzare la recita di Natale?-, fece eco Molly.
-No, niente di tutto questo. Pensavo a qualcosa di più… creativo.
John si fermò davanti alla scala, una mano sulla ringhiera e un piede sul primo gradino, mentre ragazzi e ragazze gli sfrecciavano accanto. I suoi amici lo fissavano in attesa, pendendo dalle sue labbra, gli occhi spalancati.
-Scriverò una storia.
La notizia non sortì l’effetto desiderato, apparentemente.
-A puntate.
Ancora nessuna reazione.
-Un racconto giallo. Omicidi, investigatori, roba così insomma.
A quel punto Greg e Molly aprirono la bocca – senza tuttavia parlare – e sgranarono ancora di più gli occhi.
-Andiamo, è una bella idea! Originale! Nessuno ha mai scritto racconti sul giornale della scuola. Né tanto meno sul sito Web.
John prese a salire le scale, con passo stanco, un po’ deluso dalla fredda reazione degli amici. Come accadeva spesso, del resto.
-Beh, se nessuno l’hai mai fatto, ci sarà un motivo-, gli fece notare educatamente Gregory.
-Se fosse stata una storia d’amore, magari…-, buttò lì Molly, guadagnandosi invece un’occhiataccia da parte di entrambi i ragazzi.
-Molly, quella sì che sarebbe una pessima idea, senza possibilità di appello-, sentenziò Greg, seguendo l’amico su per le scale. –E poi, sinceramente, riusciresti a immaginarti Watson che scrive storie d’amore?
-Pensavo che a te piacessero i gialli, Greg-, mormorò un po’ dispiaciuto John, che aveva provato un brivido lungo la schiena alla parola “amore”.
-Oh sì! Un bel thriller hard-boiled all’americana! Ecco, mettici dentro un bell’ispettore di polizia – figo – che risolve tutto!
Gregory aveva fatto un balzo per affiancare John e, per sottolineare il suo concetto, puntellò un paio di volte con un dito il libro di chimica tra le braccia dell’altro.
-Niente hard-boiled, Greg. E niente polizia. Pensavo di più a un tizio normalissimo che ha la passione per gli omicidi e che indaga da solo perché… ehm… i poliziotti a volte agiscono in modo un po’ stupido.
John pregò il suo santo protettore e tutti gli altri santi del Paradiso che Greg non cogliesse l’involontario (davvero?) riferimento a suo padre. L’amico e Molly si bloccarono entrambi sull’ultimo gradino, perplessi.
-No, la tua idea è decisamente stupida-, proferirono all’unisono.
In quel mentre, squillò la campanella che segnava l’inizio delle lezioni.
-Beh, lo vedremo. Magari qualcuno apprezzerà-, mormorò John, ancora più demoralizzato, mentre girava sui tacchi per raggiungere la sua classe. Il suo misterioso amico sicuramente avrebbe apprezzato. Oppure gli avrebbe detto che, sì, era una cosa un po’ idiota, ma almeno avrebbe avanzato qualche critica costruttiva.
-Ehi, John! Ricordati le prove, oggi!-, gli gridò dietro Molly dall’altra parte del corridoio.
Di quelle non si sarebbe mai dimenticato.
 
 
 
-Non capisco perché Sarah ha tolto la scena di Greg rincorso dal dromedario-, si domandò Molly, sedendosi al tavolo del refettorio.
-Meglio! Era una scena orribile e io facevo la figura dello scemo-, borbottò il diretto interessato, aprendo la bustina di maionese e versandone il contenuto sul suo hamburger.
-È stato un mio suggerimento.
John era seduto di fronte a loro ed era intento a sistemare in modo ottimale e funzionale il contenuto del suo vassoio. -Mi è stato suggerito che si trattava di una scena stupida, che non regalava nulla alla trama-, aggiunse, arrossendo appena sulle gote.
-Vero-, commentò Greg, con la bocca piena.
-Strano che Sarah ti abbia dato ascolto-, disse la ragazza, mentre condiva l'insalata.
-Sarah ha una cotta per John, Molly-, le parole di Greg erano appena percettibili sotto tutto quel ruminare, ma sufficienti a far arrossire John ancora di più. -Lo sai, non è vero?-, lo sguardo di Greg cercava di persuadere in tutti i modi l'amico a confessare.
-Ehm, sì, così mi sembra...
-E cos'hai intenzione di fare?
-Magari le chiederò di uscire durante le vacanze di Natale.
-Io toglierei quel "magari" e lo farei possibilmente prima-, propose Greg, scolandosi mezzo bicchiere di Coca. Ma John scosse la testa.
-Sono troppo impegnato, adesso.
-Certo! Impegnato a fare tremila cose nella speranza di scoprire quello che vuoi fare nella vita!-, lo canzonò l'amico, asciugandosi una goccia di bibita con il dorso della mano.
-Guarda che scegliere cosa fare nella vita è importantissimo, Greg. Devi farlo con un bel po' di sale in zucca!-, gli occhi di John divennero poco più di due fessure, mentre pronunciava quelle parole, sporgendosi in avanti per meglio comunicare il messaggio.
-Mpf, se lo dici tu, che sia più importante di trovarsi una ragazza...
Greg sottolineò la sua opinione con una scrollata di spalle, mentre gli occhi di Molly vagavano stancamente dall'uno all'altro. E John si ritrovò a pensare di avere un dannato bisogno di incontrare di nuovo Sherlock, esattamente come ciascun essere umano ha bisogno dell’ossigeno per respirare.
 
 
 
Quindici giorni alla recita scolastica. Quindi lunghissimi e interminabili giorni. Tutti completi di mattinate noiose, pomeriggi senza fine e notti asettiche che, con il loro vuoto, si appiccicavano nella mente e nel cuore, impedendo al corpo e all'anima di riposare come avrebbe dovuto. Quindici giorni e poi l'avrebbe rivisto. Doveva, per forza. Ne andava della sua stessa salute mentale. Pensava a questo, John, sdraiato in pigiama sul suo letto. Le braccia incrociate dietro la testa, lo sguardo fisso sul soffitto, i calzini neri corti ancora infilati ai piedi.
Si stava immaginando Sherlock seduto in platea, nella stessa poltrona dell'altra volta, quasi completamente inghiottito dal buio, che lo guardava recitare – magari un po' goffamente – sul palco, dall'inizio alla fine dello spettacolo. Poi John gli sarebbe corso incontro e lo avrebbe convinto ad andare a bere qualcosa assieme, probabilmente un bel the caldo. Sarebbero rimasti ore, seduti a un tavolo appartato del pub, a parlare, parlare e ancora parlare. Avrebbero discusso di scuola, di libri, di cinema. E magari di viaggi e avventure. Probabilmente, tra i due, sarebbe stato lui quello più loquace, ma poco gli importava.
Gli avrebbe riversato addosso tutti i suoi dubbi, le sue speranze, mettendolo a parte di tutto ciò che gli era accaduto in quelle settimane in cui non si erano visti. E poi avrebbe chiesto a Sherlock di fare altrettanto. Probabilmente avrebbe dovuto pregarlo un po', ma alla fine avrebbe ceduto, rivelandogli ancora qualcosa di sé, rendendo John quasi l'uomo più felice del mondo. Perché finalmente si sarebbe sentito completo, affiancato da qualcuno che lo capiva.
Si chiese, sprofondato nel suo comodo e caldo materasso – le membra stanche, la mente ancora di più – che cosa stesse facendo Sherlock in quel momento. Se il fratello avesse finalmente trovato una scuola di suo gradimento in cui piazzarlo. Se fosse riuscito a contenere il numero settimanale di scazzottate. Se si sentiva annoiato come lui. E, soprattutto, se sentiva un pochino – anche solo un pochino – la sua mancanza.
Non poteva essere stato l’unico, tra i due, ad aver sentito quell’affinità d’anima graffiare sul cuore e penetrare nella mente. Si girò su un fianco e sospirò. Perché era così difficile, al giorno d’oggi, trovare qualcuno con cui non fosse un problema essere davvero se stessi, uomo o donna che fosse? A John non sembrava una richiesta folle, dopotutto. Sopirò di nuovo e si grattò un ginocchio con un piede. Quando avrebbe incontrato ancora la sua persona affine, avrebbe fatto in modo di non lasciarla scappare via così facilmente com’era accaduto la prima volta.
 
 
 
-Ma stanno davvero leggendo e commentando la tua storia!
La voce di Molly era così sinceramente stupita da inchiodare John lì dov’era proprio come se si fosse trattato di un pianoforte caduto dal settimo piano e sfracellatosi sopra la sua testa.
-Grazie, Molly. Fa sempre piacere vedere che gli amici credono in te.
Erano le quattro del pomeriggio. Fuori era buio pesto e, dal cielo gonfio di nuvole grigie, stava iniziando a fioccare la prima neve. Stavano lavorando al giornale scolastico. O, per essere esatti, John lo stava facendo. Molly più che altro gli stava tenendo compagnia.
-E sono quasi tutti commenti positivi.
Molly appariva sempre più incredula, con la punta del naso che quasi sfiorava lo schermo del computer, come se volesse entrarci dentro per constatare con mano che, sì, il racconto giallo a puntate di John piaceva.
John sospirò, mentre faceva clic e trascinava con il mouse cercando di completare il più velocemente possibile l’impaginazione dell’articolo sull’imminente sciopero dei collaboratori scolastici.
-Tranne quelli di questo ACD85… [1]
-Sì, lo so. Li ho letti, Molly-, commentò il ragazzo, stancamente.
-“Trama spesso banale e scontata. Il crimine è una cosa comune. La logica è una cosa rara [2]”-, iniziò a leggere Molly ad alta voce, trattenendo a stento una risata.
-Molly, ti prego…-, iniziò John, arrossendo fino alla radice dei capelli.
-“Dovresti limitarti a registrare unicamente la pura e semplice con… concatenazione… sì, concatenazione… logica fra causa ed effetto...”.
La ragazza sembrava davvero che dovesse essere inghiottita dallo schermo da un momento all’altro.
-Basta, grazie. Lo so a memoria.
-Che accidenti vuole dire?
-Che faccio schifo come scrittore.
-Non credo. Ha aggiunto un altro commento, questo pomeriggio.
-Davvero?-, John appariva incredulo.
-Te lo leggo: “Tuttavia, si nota che hai del talento. Dovresti solo trovare il modo di incanalarlo meglio. Hai provato con una musa? O il sushi?”
John aggrottò la fronte, mentre alzava incuriosito la testa per vedere meglio Molly seduta un paio di banchi più in là.
-Ma che cos’è una musa, John?
Il ragazzo scosse la testa sconsolato, tornando a immergersi nel suo programma di impaginazione di testi.
 
 
 

Stralcio della conversazione che seguì tra John e l’utente ACD85, preso dalla intranet scolastica:


 
Grazie per i consigli. Comunque nessuno ti obbliga a leggere la storia, se non ti piace. Comunque sappi che mi darò all’ippica. Mi avrai sulla coscienza. JW84
 
Mai detto che non mi piace. Ho solo addotto critiche costruttive. Hai margine di miglioramento. Solo gli stupidi non ce l’hanno. ACD85
 
Quasi quasi mi sento onorato. JW84
 
Dovresti. Normalmente non perdo tempo con le intranet scolastiche. È noioso. ACD85
 
Mi auguro che il finale sia di tuo gradimento. Lo pubblicherò a gennaio. JW84
 
Dubito che lo sia. Ma aspetterò. In trepida e verginale attesa [3] ACD85


 
John si guardò bene dal chiedere spiegazioni circa l’ultimo commento.

 
 
 
La sveglia squillò alle sei, quella mattina. Quasi un’ora prima del solito. Fuori era ancora notte, il buio pesante e appiccicaticcio che ancora attendeva al di là delle finestre. Era il giorno della recita e John era convinto che sarebbe stata una giornata indimenticabile.
Si lavò in fretta e furia, scivolando dentro i vestiti ancora più velocemente. Decise che non si sarebbe attardato a fare colazione, mentre infilava lo zaino sulla spalla sinistra. Era immerso nei suoi pensieri quando urtò inavvertitamente con lo zaino l’abat-jour sul suo comodino, che ruzzolò per terra atterrando fortunatamente su una pigna di libri, impedendo al paralume di rompersi. John era già con una mano sulla maniglia quando dovette arrestarsi, con un sommesso Dannazione che gli sgattaiolò fuori dalla bocca.
-Ehi, che diavolo è tutto questo casino?
La testa di Harry, svegliata da quel frastuono, fece capolino da sotto al cuscino. John tornò sui suoi passi, senza più curarsi di non fare rumore, e rimise a posto l’abat-jour.
-Scusami, non volevo svegliarti.
Harry borbottò qualcosa di incomprensibile, prima ripartire per il mondo dei sogni. John sparì fuori nella Londra semibuia che si apprestava a svegliarsi, correndo per arrivare alla più vicina fermata della metropolitana in tempo per prendere il treno prima dell’inizio dell’affollata ora di punta.
Adorava arrivare a scuola con una buona mezz’ora di anticipo sull’inizio delle lezioni. Le aule deserte, le luci ancora soffuse e il silenzio che regnava per i corridoi lo aiutavano a svegliarsi con i propri tempi. Quel giorno ne aveva un bisogno disperato, più di ogni altro. Doveva prepararsi mentalmente all’incontro con Sherlock, neanche si fosse trattato dell’esame di fine anno. Si sentiva agitato in modo indefinibile, un misto tra il primo giorno della scuola superiore e il primo appuntamento con la sua prima fidanzatina importante. Doveva concentrarsi per scegliere i giusti argomenti di conversazione, il tono di voce più appropriato e il linguaggio del corpo più efficace. Si preparò uno schemino mentale non solo delle cose da dire, ma anche di quelle che andavano, cascasse il mondo, assolutamente evitate. Pensava a questo mentre infilava le monetine nel distributore automatico e sceglieva un muffin ai mirtilli confezionato che avrebbe sostituito la sua normale colazione a base di uova e pancetta. Pregò solamente di non avere un calo di zuccheri mentre si sarebbe trovato sul palcoscenico. Svenire davanti all’auditorium gremito di gente – e, possibilmente, anche davanti a Sherlock – era decisamente una cosa da evitare come la peste.
Com’era facilmente prevedibile, le prime due ore della mattinata trascorsero così lentamente che John ebbe l’impressione che il tempo fosse rimasto sospeso da qualche parte, in una bolla d’aria. Poi, la campanella delle ore 10 segnò la fine ufficiosa delle lezioni, accompagnata dal cuore di John che prese a sobbalzare in preda al panico nel centro del suo petto.
-Si va in scena!-, gli gridò Molly dietro di lui, pungolandolo con il suo metro azzurro di plastica.
-A quanto pare…-, convenne John, mentre l’agitazione che si stava facendo strada in lui non voleva saperne di far smettere di tremare il suo corpo.
 
 
 
-Ho visto i tuoi seduti di fianco ai miei-, disse Gregory, mentre indossava l’abito di scena, dietro le quinte.
Li aveva visti anche John, i suoi genitori. La voce irritante – almeno in quella giornata – di sua madre era già arrivata al suo orecchio. Con il pesante sipario di velluto rosso che copriva gran parte del suo viso lasciando scoperto solo un occhio e il naso, lo sguardo di John si muoveva freneticamente per tutto l’auditorium, ancora illuminato dalle luce di sala e ravvivato dalla musica pop di un CD che Sarah aveva infilato nello stereo collegato all’impianto surround, in attesa che il modesto complessino di tre ragazzi – suoi compagni di corso – iniziasse a suonare i brani di musica classica selezionati per la recita.
-Due minuti, John. Sistemati la tunica!-, lo esortò Mike, camminando nervosamente avanti e indietro alle sue spalle.
Gli occhi di John iniziavano a pungere e la vista a venire meno. Aveva ripassato con lo sguardo Ogni Singola Poltrona di Ogni Maledettissima Fila in Sala. Ma non vide Sherlock seduto da nessuna parte. Forse era semplicemente in ritardo e sarebbe arrivato dopo, sedendosi in una delle due o tre poltrone rimaste libere. O magari su uno dei gradini in fondo.


E intanto Celine Dion cantava la sua My heart will go on
 

Every night in my dreams
I see you, I feel you,
That is how I know you go on

 
E le luci iniziavano ad abbassarsi…
 

Love can touch us one time
And last for a lifetime
And never let go till we're one

 
E Sherlock non era lì a guardarlo.
 

Near, far, wherever you are
I believe that the heart does go on
Once more you open the door
And you're here in my heart
And my heart will go on and on

 
 
 
Alla prima scena, John dimenticò la sua battuta a metà. Rimase lì a fissare come un ebete Greg, che era in piedi davanti a lui e cercava di spronarlo in ogni modo lanciandogli occhiate omicida. Durò solo pochi attimi, ma in quel frangente John sentì tutto il peso della vita scorrergli inesorabile lungo le spalle, scendendo giù per la schiena. Come se ogni cosa attorno a lui avesse perso il suo senso sotto il colpo di una bacchetta magica fatta oscillare da una strega cattiva. Tutto era fermo, immobile, e un attimo dopo gli girava vorticosamente intorno. Poteva quasi sentire il respiro pesante e vischioso della gente, che gli rimaneva incollato addosso come il miele. Si sentì percorrere da un brivido di paura lungo tutta la spina dorsale, mentre iniziava ad avere freddo. Si morse il labbro inferiore, serrò i pugni e finalmente riuscì a concludere la sua battuta.
 
 
 
-È stata la migliore! Questa è stata la migliore recita scolastica di sempre, ragazzi!
La preside, accompagnata da un gruppetto di insegnanti, si era subito recata dietro le quinte a complimentarsi con i suoi studenti non appena il sipario era calato.
-Fuori c’è un nutrito buffet che vi attende, assieme ai vostri genitori!
Solo Sarah le prestò una qualche educata attenzione. Tutti gli altri erano troppo intenti a togliersi i costumi di scena e a parlottare o ridere tra loro per riuscire anche solo a sentire le sue parole.
John, invece, era come se non fosse lì, come se il suo corpo avesse perso consistenza, colore, vita. Non era nemmeno uscito sul palco a prendere i suoi applausi, poco prima. Dopo aver pronunciato la sua ultima battuta, aveva sbirciato speranzoso per l’ennesima volta verso la platea, quindi era corso di fretta dietro le quinte, in quella stanza poco più grande di un ripostiglio – e che, soprattutto, ne aveva tutto l’aspetto – che chiamavano pomposamente camerino. Con ancora indosso la tunica da templare, si era spiaccicato con la schiena contro il muro, aderendo alla fredda parete con tutto il suo corpo. E adesso era ancora lì, lo sguardo perso nel vuoto. Una figura in scala di grigi che altro non era che la brutta copia di se stesso.
Nella sua mente c’era solo il ronzare di voci indistinte, che pian piano scemavano fino a spegnersi nelle calde parole di conforto di Molly, apparsa inaspettatamente al suo fianco come un angelo.
-Va tutto bene, John?-, gli chiese, carezzandogli teneramente una spalla. Il suo compagno di corso non rispose e nemmeno spostò lo sguardo di un millimetro. –Aspettavi qualcuno che non è venuto?
John continuava a non rispondere, ma Molly poteva vedere chiaramente il suo labbro inferiore tremare appena.
-Magari ha avuto un impegno…-, mormorò lei, cercando di apparire il più possibile rassicurante. –Ti aspetto di là al buffet. Ci sono i genitori!
E Molly sparì, non senza un’altra incoraggiante pacca sulle spalle. Di nuovo solo, John rimase per un attimo ancora immobile, prima di scivolare piano per terra, le suole di gomma delle sneaker bianche che producevano un rumore stridulo al contatto con il pavimento. Scivolò fino a trovarsi completamente seduto per terra. Appoggiò il mento alla mano sinistra, si morsicò il labbro inferiore e reclinò il capo all’indietro.
-Stupido, stupido, stupido…-, si disse, chiudendo gli occhi, in modo da lasciarsi avvolgere dal buio e fare finta che nulla fosse accaduto, che andava tutto bene almeno per un minuto. Dopo aver vissuto per settimane nel falso oblio della Terra Promessa, era precipitato d’un tratto di nuovo sulla Terra dei comuni mortali. E il suo paracadute si era rifiutato di aprirsi.
Si riteneva stupido, perché si era sentito vivo dentro un’esistenza che appariva tutta nuova ai suoi occhi, pur essendo in realtà la sua vita di sempre.
Stupido, perché aveva creduto che finalmente il Destino si era ricordato di lui, bussando alla sua porta.
Stupido, perché si era illuso che una persona incontrata per caso in un giorno di pioggia e con cui si era intrattenuto per mezz’ora avesse potuto interessarsi a lui e salvarlo da se stesso.
A fatica, si tirò in pieni e si tolse la tunica da templare, rimanendo in jeans e camicia rossa a scacchi. Piegò il costume, lo appoggiò a un braccio e raggiunse gli altri camminando a passo stanco.
 
 
 
La preside aveva organizzato un piccolo buffet per genitori e studenti subito fuori dal corridoio. I signori Watson erano assieme ai coniugi Lestrade, intenti a parlottare e a strafogarsi di bignè. Non appena li vide, John provò un conato di vomito e, ringraziando il cielo per non essere stato visto, girò sui tacchi nella direzione opposta, finendo per andare a sbattere contro Mike.
-Ehi, Watson, dove scappi? Ti perdi tutti i pasticcini!-, gli fece notare il grassoccio compagno di corso.
-Vado a mettere via questa e vi raggiungo-, ribatté John, alzando appena il braccio per mostrargli la tunica. Sarebbe andato a metterla via, sì, ma non sarebbe tornato indietro. Avrebbe infilato il giubbotto e se ne sarebbe tornato a casa. O magari avrebbe fatto semplicemente una passeggiata. Aveva voglia di prendersi una buona dose di freddo: magari lo avrebbe aiutato a riflettere, a rimettere assieme i cocci e a ricominciare.
Due armadietti più in là del suo, c’erano un ragazzo e una ragazza intenti a pomiciare. John si schiarì la gola con un finto colpo di tosse, costringendo i due a levare le tende. Aprì il suo armadietto, prese una gruccia libera e ripose la tunica. Stava per chiudere lo sportello quando i suoi occhi tanto blu quanto spenti si posero sul foglietto ripiegato in due che gli aveva scritto Sherlock quando si erano conosciuti. Lo prese tra le dita, con la mano che tremava leggermente. Se lo avvicinò al naso: aveva ancora il suo odore. O, almeno, gli piaceva pensarlo. Poi, di scatto, lo prese anche con l’altra mano e fece per strapparlo. Si fermò non appena la carta mostrò il primo segno di rottura. Che cosa sto facendo?, si domandò, guardando con attenzione il pezzo di carta tra le sue mani.
-Una cosa infantile-, sentenziò una voce alle sue spalle.
Per lo spavento, John fece un balzo sul posto e si voltò di scatto. Trovò Sherlock che lo stava fissando con uno sguardo indecifrabile e le labbra appena arricciate.
-Penso che strapparlo sia una cosa alquanto infantile. D’altro canto, è una cosa infantile persino conservarlo. Quindi, in ogni caso, ciò che stai facendo è “una cosa infantile”.
Sherlock aveva parlato senza muovere altri muscoli al di fuori di quelli della bocca e tenendo gli occhi chiari incastonati in quelli più scuri di John. Quest’ultimo aveva invece atteggiato la bocca in una perfetta “O” di stupore da manuale, mentre per un attimo il respiro lo aveva abbandonato, lasciando il suo cuore libero di fare le bizze.
-Che cosa ci fai qui?
Aveva mille e una cosa da chiedergli. Optò per la più stupida, tanto per rimanere in tema.
-Ti avevo detto che forse sarei passato. O ti sei già scordato di me?-, lo rimbeccò il moro, allacciandosi le mani dietro la schiena e non credendo realmente a una sola parola di quelle che aveva appena pronunciato.
-Non mi scorderei di te nemmeno tra cent’anni.
La seconda cosa stupida tra le più stupide da dire, ma anche quella che costituiva la realtà più assoluta, secondo John.
-Allora hai pensato che non venissi.
-In effetti no, mi ero già convinto che avessi deciso di non venire.
-Non hai avuto fiducia in me-, constatò Sherlock, corrugando la fronte. Non c’era risentimento o tristezza nel tono della sua voce, solo una mera presa di coscienza.
-E come avrei potuto? Ti conosco appena…-, asserì John, allargando le braccia in un gesto che, se non fosse apparso comico, avrebbe potuto essere di disperazione.
-Già… è così, infatti.
Sherlock abbassò lo sguardo, quasi come se dovesse riflettere.
-Sei arrivato adesso? Non mi sembra di averti visto in sala.
Un’altra domanda che, nella lista delle priorità, era in penultima posizione, ma John non se la sentiva di rivolgergli quella che più gli stava a cuore. Non ancora, almeno.
-Sono stato tutto il tempo nella stanza del vecchio proiettore cinematografico. Non ho perso nemmeno una battuta. Neanche quella che hai dimenticato.
Le gote di John divennero bordeaux tutto di un colpo e così rimasero a lungo.
-La stanza del proiettore?-, farfugliò imbarazzato.
-Oh, Cielo, non dirmi che non sai che avete un proiettore! Da dove credi proiettino i film in sala?
-Non proiettiamo mai film in sala. Quando gli insegnanti vogliono farci vedere qualcosa, portano in aula un carrello con il lettore dvd e un piccolo televisore!
Sherlock borbottò qualcosa, mentre si abbottonava il cappotto scuro, circa all’aver fatto tutto sommato la scelta giusta quando aveva deciso di non frequentare quella scuola.
-Senti, mi chiedevo… Ti andrebbe di fermarti a mangiare qualcosa con me?
Eccola, finalmente, la domanda che gli premeva sopra ogni altra!
-Sono onorato della tua proposta ma purtroppo devo scappare. Ho un quiz di chimica tra… quaranta minuti. Ho già falsificato un permesso per stamattina, non posso farlo di nuovo.
John annuì, non chiedendosi se dovesse sentirsi sconsolato o felice. Non era sicuro più di niente. Vide le lunghe mani di Sherlock sparire dentro un paio di guanti di pelle, mentre il loro proprietario muoveva un paio di passi in direzione dell’uscita, senza tuttavia staccare gli occhi dai suoi.
-OK, non c’è problema. Allora…
-Allora…
-Magari domani?
Il ragazzo moro si inchiodò dov’era.
-Domani è la vigilia di Natale.
-Non puoi? Fai qualcosa di particolare?
-Non faccio mai niente di particolare a Natale. È una festa irritante… sotto certi aspetti.
-Io domani pomeriggio vado al King’s Crystal, qua di fronte, con i miei amici a bere qualcosa e farci gli auguri.
-Se ci sono i tuoi amici, io non ci vengo- Sherlock arricciò naso e labbra, un po’ schifato.
-Beh, tu inizia a venire e, se poi non gradisci la compagnia, facciamo qualcosa io e te da soli.
John iniziava finalmente a sentirsi fiducioso di se stesso, quasi quanto il suo alter ego sul palcoscenico.
-A che ora?
-Tre del pomeriggio. Vedi di esserci!
Sherlock riprese a camminare, all’indietro, con gli occhi sempre posati su John. Gli sorrise e si portò una mano alla fronte, atteggiando un saluto militare.
-A domani, allora.
Rimasto solo, John si appoggiò all’armadietto e iniziò a ridere di gusto, finalmente rilassato, dimenticandosi totalmente dov’era e che cosa dov’esse fare.
 
 
 
Il giorno dopo Londra si svegliò coperta da un’abbondante coltre di neve bianca e spumosissima. Di quelle che John aveva spesso visto in televisione ricoprire le piste da sci in località rinomate ed eleganti del calibro di Aspen o Veil. Con il viso schiacciato contro il vetro della finestra del salotto, il ragazzo osservava i fiocchi che continuavano imperterriti a cadere dal cielo, ricoprendo così bene ogni cosa fuori dalle mura domestiche che risultava difficile distinguere i contorni dei marciapiedi da quelli della strada.
-Non vorrai mica uscire lo stesso, con questo tempo?-, domandò la signora Watson, accostando le labbra alla tazza di the fumante.
-Certo che sì, devo fare gli auguri ai miei amici-, sentenziò John, con la risolutezza di chi sarebbe uscito di casa anche nel bel mezzo di una guerra nucleare. Non si sarebbe perso l’appuntamento con Sherlock per nulla al mondo. Invasione aliena inclusa.
La signora Watson borbottò qualcosa che assomigliava molto a un “Se poi ti becchi un raffreddore o torni a casa a notte fonda per i rallentamenti ai servizi pubblici, non venire a piangere sulla mia spalla”, prima di tornare a occuparsi del proprio the.
 
 
 
Il King’s Crystal era affollato di studenti già dal primissimo pomeriggio. John, Mike, Molly, Sarah e Greg si accomodarono nell’ultimo tavolo d’angolo in fondo alla saletta più piccola del pub. Il loro solito tavolo.
-Ecco qui, ragazzi! Due birre, una cioccolata e un the. Più i soliti pasticcini!
La formosa e rubiconda moglie del proprietario arrivò presto con le loro consumazioni, appoggiandole non senza un po’ di fatica sul piccolo tavolo.
-Tu sei a dieta, Watson?-, domandò Greg, aggrottando le sopraciglia e bevendo un sorso della sua birra.
-Una birra gelata con questo tempo! Volete passare il Natale a letto con una congestione?-, predicò Sarah mentre zuccherava la sua cioccolata.
-John?-, disse Molly, in quanto il ragazzo, con lo sguardo rivolto alla finestra, sembrava non avesse sentito la domanda di Gregory.
-Come?
-Non prendi niente?
-No, adesso non mi va. Magari dopo…
Lanciò uno sguardo distratto solo in apparenza al suo orologio da polso dal cinturino di pelle: erano già le tre e cinque. Sherlock era in ritardo di cinque minuti. Non avrebbe bevuto e mangiato nulla finché non l’avrebbe visto materializzarsi di fronte a sé. Altrimenti avrebbe seriamente rischiato di rigettare ogni…
Splash!
Un’improvvisa palla di neve lanciata contro la finestra pressoché all’altezza del suo viso lo fece balzare sulla sedia. Anche Molly si spaventò, tant’è che rovesciò parte del suo the.
-Sherlock…-, bisbigliò John, notando il ragazzo moro al di là del vetro. Con il suo cappotto nero, i guanti dello stesso colore e la sciarpa di una tonalità più chiara risaltava sulla neve candida con la stessa bellezza di un cigno nero che scivola placido sulle acque calme e cristalline di un piccolo lago.
-Ce l’ha con te, John?-, chiese Mike.
John nemmeno si preoccupò di rispondergli. Si alzò come una scheggia dalla sedia e, dribblando con maestria tra le sedie, si precipitò fuori dal locale.
-Ehi! Ti prenderai una polmonite senza giacca!-, gli gridò dietro Sarah, ma il ragazzo era già sparito.
Uscendo dalla porta del pub, John quasi si scontrò con una coppia di adulti che stava entrando in quel momento. L’uomo borbottò qualcosa in merito alla pessima educazione dei giovani d’oggi, ma John non si curò nemmeno di quelle parole. Girò l’angolo e, finalmente, si trovò davanti Sherlock, intento a modellare tra le mani un’altra palla di neve. Il suo cuore si arrestò nello stesso momento in cui si fermarono i suoi piedi, a un metro e mezzo dal moro.
-Ciao...-, bisbigliò, non riuscendo proprio a trattenere un sorriso.
-Ciao!-, disse l’altro, facendo saltellare la palla di neve da una mano all’altra.
-Sei venuto, allora.
-L’hai dedotto tutto da solo? La tua perspicacia mi colpisce.
John non rispose; nonostante la non tanto velata presa in giro, continuò silenziosamente a sorridere all’amico.
-Sei candidato a una polmonite?
-Cosa?
-Il tuo abbigliamento.
-Ah, già. La giacca. È dentro-, disse John, indicando il pub. –Vieni?
-Ci sono i tuoi amici?-, chiese Sherlock, liberandosi della palla di neve.
-Sì, sono con loro. Te l’avevo detto.
-Allora no.
-Ma…
-E io ti avevo detto che non volevo incontrare i tuoi amici.
John iniziò a saltellare nervosamente da un piede all’altro, passandosi una mano tra i capelli.
-OK, allora vado dentro, prendo la giacca e li saluto.
Riemerse poco dopo dal pub con indosso la giacca a vento.
-Dove andiamo?-, chiese, allacciandosi la zip.
-Baker Street.
 
 
 
La tranquilla tea room di Mrs Hudson odorava di biscotti fatti in casa, bastoncini profumati al melograno, cioccolata alla cannella e crema per le mani all’aloe. In altre parole, sapeva di casa. Si sistemarono a un tavolino davanti a un bow-window, in modo da avere una buona luce nel plumbeo pomeriggio che stava pian piano volgendo al crepuscolo. Oltre a loro, c’erano solo altri due tavoli occupati.
-Caro, sono contenta di rivederti! Erano quasi… quanti? Dieci giorni?-, pigolò Mrs Hudson comparendo al loro tavolo, esibendo un sorriso raggiante e due menu. –Ti porto il solito-, disse poi, senza attendere una risposta. Il moro annuì, posando gli occhi su John, intento a scorrere le pagine dell’invitante e ricco menu.
-E per il tuo amichetto, invece?
-No, no! Non sono…-, farfugliò John, arrossendo fino alla radice dei capelli. –Una cioccolata al peperoncino!-, proferì poi con decisione, chiudendo il menu producendo un rumore sordo e restituendolo alla legittima proprietaria, che sparì in cucina in un batter d’occhio, esattamente com’era comparsa.
John sospirò e posò lo sguardo oltre la finestra, verso i fiocchi di neve che avevano ripreso a cadere copiosamente. Prese a torturarsi l’unghia del pollice sinistro, in una evidente manifestazione del suo nervosismo.
-Hai in programma una sessione di contatto ravvicinato con il gentil sesso, più tardi?-, chiese Sherlock, arricciando le labbra.
-Prego?
-Cioccolata e peperoncino. Due noti afrodisiaci.
Il viso di John tornò a tingersi di bordeaux, questa volta di almeno due tonalità più scure.
-No, no!-, disse ancora. –Ho solo scelto la prima cosa interessante che ho notato sul menu.
-Ci sono parecchie cose interessanti, su quel menu.
-Appunto.
-E non solo dentro quelle pagine.
Il ragazzo biondo si impose di non prestare attenzione a quella punta di malizia che sembrava aver notato nelle parole del nuovo amico, dando la colpa all’atmosfera tanto domestica quanto romantica che aleggiava in quella tea room. I cuscini ricamati a mano, i ciclamini sul davanzale, il caminetto scoppiettante e i bastoncini profumati alla vaniglia o al melograno usati come centrotavola su ogni tavolino facevano sentire John rilassato e in pace col mondo. Niente più fretta di scoprire quale fosse il suo vero io o di incontrare il suo destino. Perché forse ce l’aveva di fronte.
Rimasero in silenzio fino a quando Mrs Hudson non riapparve con un vassoio.
-Ecco qui, ragazzi. Una cioccolata al peperoncino, una alla cannella e un bel piattino di muffin inglesi con burro. Buon appetito!
A John venne subito l’acquolina in bocca non appena i suoi occhi si posarono sopra le tazzone fumanti e sui muffin.
-Wow, ogni cosa ha un aspetto delizioso!
Prese la sua tazza tra le mani e non resistette all’impulso di assaggiarla subito.
-Ouch!-, borbottò, scottandosi la punta della lingua.
-Tua mamma non ti ha insegnato a soffiare?-, lo canzonò Sherlock, versando una seconda bustina di zucchero nella sua cioccolata.
-E la tua non ti ha avvertito dell’esistenza di una malattia chiamata diabete?-, ribatté il biondo, indicando con il mento le due bustine vuote e ottenendo in risposta una scrollata di spalle.
-Saresti un medico perfetto. O una suocera perfetta…-, ribatté l’altro, girando con vigore il cucchiaino in modo da sciogliere tutto quello zucchero.
John prese un muffin inglese tra le mani e, con un morso, ne divorò metà.
-È ancora caldo-, mormorò, con la bocca piena. –E delizioso.
-Mrs Hudson è una cuoca sopraffina.
-Vieni spesso qui?
-Tutti i fine settimana, almeno. Credo si sia affezionata a me.
-Si vede.
John finì il suo muffin e ne prese un altro.
-L’ultimo è per te.
-Finiscili pure, se ti piacciono.
-Devi mangiare, sei magro come un chiodo!
Un’altra alzata di spalle.
-Che cosa fai, domani?
Fu di nuovo John a parlare, soffiando sulla sua cioccolata, ancora calda. Con la coda dell’occhio, vide Mrs Hudson recarsi dietro al bancone e accendere il lettore CD. Musica natalizia iniziò ad avvolgere l’ambiente. Dall’espressione che si dipinse sul suo viso, John intuì che Sherlock sembrava non gradire.
-Parenti-, borbottò in risposta, con la stessa acidità che avrebbe avuto se avesse dovuto recarsi a fare una vaccinazione.
-Anche noi. Dalla nonna. Penso che staremo seduti a tavola per almeno sei ore di fila.
-Noioso. Esattamente come i matrimoni.
-I matrimoni sono divertenti.
-Io non mi sposerò mai!-, proferì Sherlock, allungando una mano verso l’ultimo muffin inglese.
John si lasciò scappare un sorriso, sia per quella affermazione, sia per vedere finalmente il suo nuovo amico cedere al richiamo del cibo.
-Tutto questo… affetto che uno è obbligato a manifestare-, continuò il ragazzo, gesticolando.
-Ti riferisci al matrimonio o al Natale?
-Al Natale.
Una pausa.
-In effetti, con il matrimonio non è poi tanto diverso.
-Guarda che non è una cosa malvagia! Stai un po’ assieme, io do qualcosa a te, tu dai qualcosa a me, metti le gambe sotto il tavolo e ti riempi lo stomaco…
-Tu stai parlando del matrimonio, adesso.
-No, Sherlock! Del Natale!
John scoppiò a ridere e la risata riuscì a contagiare anche Sherlock. Continuarono a ridere così, quasi come due cretini, per un minuto buono.
Rimasero seduti a quel tavolo fino all’imbrunire, ascoltando musica natalizia e parlando di ogni cosa che attraversava le loro giovani menti. Dai templari agli alieni, dalle streghe a Galileo, dalla musica alla chimica, dai soldatini di piombo ai microscopi di precisione. Conversarono senza mai staccare gli occhi l’uno dall’altro, quasi come se i loro sguardi fossero calamitati. E, alla fine, a entrambi sembrava di conoscersi da sempre. Da una vita intera.
-Dovrò scrivere un articolo sulla recita di ieri. Ricordi? Il giornale scolastico...
John avrebbe voluto sapere se a Sherlock la recita era piaciuta, ma non aveva il coraggio di chiederglielo direttamente.
-Se vuoi sapere se l'ho trovata mediocre o un capolavoro, la risposta è nessuna delle due cose-, commentò freddo Sherlock, girandosi sulla sedia per appoggiarsi al davanzale interno del bow-window.
John lo fissò incerto negli occhi, non sapendo bene come interpretare quelle parole.
-D'altra parte, non siete attori professionisti e siete di sicuro migliorati da quando vi ho visti l'altra volta.
-Beh,grazie-, mormorò John. -Anche se non sono molto sicuro se devo prenderlo come un complimento...
Sherlock scrollò le spalle.
-Di sicuro è stato meglio di quelle cose che scrivi sul giornale scolastico!
John sbatté un paio di volte le palpebre, non capendo bene cosa intendesse l'altro.
-Il racconto giallo a puntate-, spiegò, accavallando le lunghe gambe.
-Oh, Cielo! Lo stai leggendo?
Il moro annuì.
-E come diavolo hai fatto ad accedere alla intranet scolastica? È protetta da password!-, disse il biondo, strabuzzando gli occhi.
-Credimi, non lo vuoi sapere veramente...
Le labbra di Sherlock si atteggiarono a un sorriso sghembo.
-E... Ehm, che cosa ne pensi?-, chiese John, torturando il suo tovagliolo di carta nel tentativo di sfogare il nervosismo.
-Ho già espresso la mia opinione nei commenti. Non farmi ripetere, non ti piacerebbe.
Sherlock vide chiaramente un bagliore di consapevolezza passare attraverso le iridi blu dell'altro.
-Oh, sei ACD??-, disse John, abbassando gli occhi, in un misto di delusione e imbarazzo. -Io sto solo cercando di fare del mio meglio...
-Lo so. Fare del proprio meglio è una cosa buona-, disse, iniziando a tamburellare le dita della mano destra sulla tovaglia rossa. -Hai molto margine di miglioramento. Consolati, non per tutti è così.
E, così dicendo, allungò la mano quel tanto che gli fu sufficiente per sfiorare con l'indice il polso dell'amico. Fu solo per un attimo e, quando John alzò sorpreso lo sguardo per posarlo in quello enigmatico dell'altro, Sherlock aveva già ritirato la mano.
-Si sta facendo buio. È meglio che inizi a incamminarmi verso casa, altrimenti i miei faranno intervenire la Cavalleria...
John si lasciò andare a un mugolio di delusione. Si alzarono entrambi e si infilarono giacca e cappotto. Avviandosi verso il bancone, John si fermò un attimo davanti al camino ancora scoppiettante. Allungò entrambe le braccia verso la fiamma, con l'intento di scaldare un po' le mani perennemente fredde. La luce tremula del fuoco disegnava curiosi punti di ombre sul  suo volto e Sherlock si stupì a fermarsi un paio di volte a contemplarli, mentre stava pagando le consumazioni a Mrs. Hudson.
-Grazie, caro. Buon Natale e torna presto-, augurò Mrs. Hudson, consegnando lo scontrino al ragazzo. Poi, sporgendosi un po' in avanti e abbassando la voce, aggiunse un "Possibilmente con il tuo amico". Sherlock sorrise educatamente ma forzatamente, mentre la padrona della tea room spariva in cucina. Il ragazzo mise il resto in tasca e raggiunse John, ancora immobile davanti al caminetto.
-Adoro il camino, sai? A casa ne abbiamo uno anche noi.
Sherlock lo lasciò parlare, osservandolo e studiandolo in silenzio. -È piccolo, ma io ci starei davanti per ore. Leggendo un buon libro, magari.
-Anche a casa mia ce n'è uno. Molto più grande, invece-, ribatté Sherlock, con un sorriso sghembo.
-Vuole essere un invito, questo?
Se glielo avessero chiesto, John non avrebbe saputo dire dove aveva trovato il coraggio per fare quella domanda azzardata. Forse il fatto che, dopo due ore passate a chiacchierare di tutto con naturalezza estrema, gli pareva davvero di conoscere il nuovo amico nel profondo.
-A te piacerebbe?
Sherlock aveva posto la domanda con immensa serietà. Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui aveva invitato qualcuno a casa propria. Quasi tutte erano finite con un rifiuto. Solo una volta aveva ricevuto un "sì" e, nonostante questo, l'amicizia era morta sul nascere. E Sherlock si era inaspettatamente sorpreso a soffrirne. [4]
-Certo che mi piacerebbe. Che domanda!
John sfoderò il migliore dei suoi sorrisi, quasi a voler tranquillizzare l'amico. Sherlock si voltò verso il bancone, guardandosi in po' in giro.
-Aspetta...
Si allungò quel tanto che bastava per prendere una penna da dietro il bancone.
-Non credo che Mrs. Hudson se ne avrà a male.
Poi, sorprendendo John, gli prese una mano tra le sue. Era calda e forte, piena di vita. La guardò un attimo con interesse, prima di alzare il viso per andare a incontrare lo sguardo di John. Rimasero per un attimo così, occhi negli occhi, quasi l’uno a voler ricevere il permesso dall’altro, poi il moro abbassò nuovamente lo sguardo e prese a scrivere sul palmo aperto tra le mani. [5] Il nero acceso dell'inchiostro lasciato dalla penna iniziò a mescolarsi con il rosa pallido della pelle, in una sorta di silenzioso legame nascente. Il cuore di John sobbalzava e tremava all'unisono con le piccole scosse che riceveva ogni volta che Sherlock stringeva un po' di più la sua mano tra le proprie, cercando di dare un nome e un senso a ciò che stava provando, senza tuttavia riuscirci.
-Ecco, il mio numero di telefono. Aspetta di impararlo a memoria o di segnartelo da qualche altra parte, prima di cancellarlo.
John non gli chiese perché non avesse usato un foglietto di carta o preferito semplicemente fargli uno squillo sul cellulare; voleva credere che Sherlock avesse intenzionalmente scelto quella strada per marchiare la sua pelle con una parte di sé.
-Vuoi dire che possiamo rivederci, durante le feste?-, domandò speranzoso.
-Voglio dire che ora sai come contattarmi. Vedi di farne tesoro.
Sherlock rimise la penna al suo posto e si infilò le mani nelle tasche del cappotto. Si avvicinò con passo stanco alla porta del locale, l'aprì e la tenne aperta per far uscire John prima di lui.
-Arrivederci, Mrs. Hudson, e buon Natale!-, gridarono all'unisono i due ragazzi, in direzione della cucina.
Poi uscirono, salutando il profumo di cannella e melograno per immergersi in quello pungente della sera invernale. Camminarono l'uno di fianco all'altro fino alla fermata della metropolitana, dove si separarono, prendendo ciascuno la propria strada, ma consapevoli che si sarebbero presto ritrovati.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  molte di voi mi avevano richiesto un seguito a questa storia. Ed eccola qui. Adoro troppo le teen!AU per rifiutare l’invito ^___^
[1] Le iniziali vogliono ovviamente essere un omaggio ad Arthur Conan Doyle. Non sapevo proprio che nickname attribuire a Sherlock, onestamente…
[2] Citazione da L’avventura dei faggi rosssi.
[3] Citazione dal film Blues Brothers, uno dei miei preferiti.
[4] Riferimento a Victor Trevor, l’unico amico di Holmes, oltre a Watson.
[5] Auto-citazione, a parti invertite, della mia Canary Wharf, in cui John scrive il suo numero di telefono sul palmo di Sherlock, dopo avergli offerto in casa sua protezione dalla pioggia.
   
 
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