Capitolo
VIII
Iedike
si chiuse nella sua stanza, ignorando bellamente la signorina Bernstein
e spalancando
l’armadio: la tentazione di presentarsi a pranzo come la
più convinta delle
meretrici, giusto per il gusto di vedere la faccia scandalizzata di
padre Hans –e,
perché no, magari uno sguardo infiammato dal desiderio da
parte del suo ospite;
di certo non l’avrebbe offesa- era tanto forte che farla
sragionare.
Da
quando
quell’incantatore vestito da prete era arrivato a Frydenjord,
tutto era
cambiato, si era rovinato: la gente era diventata strana, morta dentro,
il
villaggio non risuonava più del suo caos allegro e
piacevole, al suo posto
rimaneva solo un'apatia generale che, sempre più spesso,
stava degenerando in
atti di una violenza inaudita, cose che nemmeno la grappa poteva
spiegare e ora
quell’uomo voleva introdursi anche nella sua casa?
Non
gli
bastava aver rovinato il villaggio? Aver plagiato suo padre?
Il
suo
caro padre, sempre così buono con lei, così
ingenuo, che ora pendeva dalle
labbra del predicatore come mai aveva fatto con padre Peder e che,
sempre più
spesso, pareva volerla spingere ad abbracciate in toto la religione e a
maritarsi. Non prendeva più alcuna decisione, il conte
Frydendahl, senza aver
consultato padre Hans, quell’uomo ora era la sua Bibbia
vivente… anche Ludwig
pareva andarci molto d’accordo… ma
quell’uomo, quel maledetto parassita, perché
altro non poteva essere, ne era certa, l’odiava.
Padre
Hans sapeva bene che Friederieke Frydendahl non poteva essere messa nel
sacco
con qualche moina e la blanda minaccia dell’Inferno e per
questo la odiava…
A
distrarla
dai suoi pensieri fu la sua precettrice, che schioccò la
lingua con
disapprovazione. –Signorina Friederieke, questo modo di fare
è poco consono ad
una signorina nella vostra posizione: una signorina per bene non mostra la
sua
rabbia, ma la cela e porge l’altra guancia.
Iedike
si voltò, gli occhi azzurri che mandavano lampi
d’ira; non sapeva perché quella
rabbia fosse fuoriuscita così repentinamente, ma le parve
inarrestabile, un
incendio che divampava divorando tutto ciò che trovava sulla
sua strada. –Sinceramente,
signorina Bernstein, non è mia aspirazione divenire una
martire e qua, in
camera mia, penso di avere il diritto di cedere alla rabbia. Mettete
via quel
vestito, non ho intenzione di vestirmi come una monaca: ho caldo, penso
che
metterò il vestito rosso che mio fratello ha portato da
Londra.- sibilò la
ragazza ed in quel momento il viso fiero e barbaro rivelò
l’antica e famosa
vena sanguinaria dei Frydendahl.
-Ma…
signorina Iedike!- esclamò la donna, in parte spaventata da
quella reazione,
che, come sapeva bene, portava solo guai, ed in parte scandalizzata.
–Signorina
contessa, ragionate per carità di Dio! Quell’abito
non è certo adatto per
pranzare con un ministro del Signore!- ma non ebbe il coraggio di
continuare
dopo l’ennesimo sguardo di Iedike.
Tacque
e prese l’abito che la contessa desiderava, dando poi ordini
secchi a Ina ed
Edda, che erano appena entrate nelle stanze della giovane aristocratica.
In
poco
tempo la fanciulla venne abbigliata e acconciata e Iedike non
poté dirsi che
soddisfatta: l’abito, che Ludvig aveva fatto cucire con
qualche modifica pensata
appositamente per lei, la sorella scalmanata e selvaggia, esaltava la
figura
snella ma non la costringeva troppo, lasciandole una certa
libertà di
movimento. La profonda scollatura quadrata, bordata da pizzo italiano
leggero e
candido che ne nascondeva la profondità, contrastava col
rosso cupo dell’abito,
decorato da ricami dorati, i quali riprendevano certe cineserie esibite
da non
si sapeva bene quale principessa francese, mentre le maniche si
allargavano
sopra il gomito, en sabot,
rivelando
diversi strati di mussolina leggera e finissima di un bianco quasi
accecante.
I
capelli vennero semplicemente raccolti in una treccia morbida, come
Iedike li
preferiva, ed infine la contessa indossò dei gioielli di
perle.
Con
un sorriso soddisfatto la giovane si rimirò allo specchio,
mentre infilava le
scarpette di raso rosso.
-Siete
così bella, contessa.- si lasciò sfuggire Ina,
ammirata. La signorina Bernstein
le scoccò uno sguardo di rimprovero, ma Iedike, con un
sorrisetto furbo, la
ringraziò, poi, presa sottobraccio l’istitutrice
prussiana, scese nella sala da
pranzo.
Albafica,
dopo aver speso molto tempo a frugare nella biblioteca, era giunto alla
conclusione che quella stanza non nascondesse nulla e si era infine
accomodato,
aspettando che venissero a chiamarlo per il desinare e pensò
a quel poco che
sapeva.
Padre
Hans era giunto alla morte del precedente curato, padre Peder, un uomo
“di
spirito e di nerbo, con un cuore da santo e la battuta
facile”, come aveva
spiegato Jens, il quale era un amico di vecchia data
dell’ormai passato a
miglior vita prete.
Il
nuovo
predicatore era un uomo raffinato, colto e scaltro, da come gli era
stato
descritto, che preferiva occuparsi delle belle parole e delle promesse
di
torture ed Inferno, piuttosto che delle persone che Dio gli aveva
affidato, dalla
parlantina “pericolosa come il veleno di una
vipera”, che aveva incantato
perfino di conte Frydendahl.
“L’unica
ad esserne immune, per ora, è Friederieke. Per ora,
perché, anche se è una gran
testarda, non so quanto potrà resistere al grigiore: prima o
poi diventerà un
morto vivere come tutti gli abitanti del villaggio.” aveva
sussurrato
sconsolato Jens, tracannando una chicchera di grappa.
Già,
Friederieke Frydendahl, la contessa più bizzarra che avesse
mai conosciuto:
bellissima ed orgogliosa, gli occhi di cielo inquisitori ed
intelligenti ed il
sorriso più radioso mai visto, almeno fino al Giapango.
Così
sfuggevole… non aveva un posto preciso, in quel mosaico
confuso, eppure, se
smetteva di ragionare con la mente, il cuore gli diceva, anzi, gli
urlava, che
quella fanciulla non era che un’innocente e che, ben presto,
sarebbe stata una
vittima da vendicare, se non avesse scoperto in fretta cosa stava
succedendo.
Ma,
Albafica lo sapeva bene, col cuore non si poteva andare molto lontani,
lo aveva
imparato a sue spese e quasi invidiava il dono dei cavalieri dei
ghiacci,
quello di essere gelidi e adamantini come l’elemento che
padroneggiavano con
assoluta maestria.
E
poi
c’era il conte Ludvig, il fratello della giovane ed
incantevole contessa,
altrettanto sfuggente, ma, a differenza della giovane donna, non
così
innocente. Lo avvertiva nel profondo, quell’uomo nascondeva
qualcosa, un
segreto pericoloso forse, ma in ogni caso era un qualcosa che lo
inquietava. Un’incognita
che poteva rivelarsi pericolosa.
Possibile
che quel fratello tanto affezionato e complice potesse davvero essere
alleato
della stella malefica o, peggio ancora, esserlo lui stesso? In quel
caso davvero
avrebbe venduto ad Hades quella giovane nata dal suo stesso grembo? Non
sapeva
rispondersi, aveva visto troppi orrori e depravazioni, nella sua vita
di Saint,
per poter affermare con assoluta certezza che mai un fratello avrebbe
venduto
la propria sorella per gloria e potere.
Per
quanto riguardava la baronessa Sophia, non gli era parsa pericolosa ed
era solo
un’ospite, in effetti. Una fanciulla scioccarella e vanesia,
che non aveva
abbastanza influenza su quelle terre per determinare un morbo
dell’animo come
quello che stava colpendo gli abitanti di Frydenjord.
Era
così assorto nei suoi pensieri, che nemmeno si accorse che
una delle serve era
entrata nella biblioteca finchè la giovane, col viso in
fiamme e gli occhi
pieni di ammirazione –Albafica maledì mille volte
il suo aspetto, così inutile
e controproducente- , fece una riverenza e si schiarì la
voce. Il giovane
guerriero alzò lo sguardo su di lei.
-Monsieur
Van Dijk è atteso dal conte Frydendahl e dai suoi figli, la
contessa
Friederieke e il conte Ludvig, per il pranzo. Vi prego di seguirmi.-
balbettò
la giovinetta.
Il
ragazzo
si alzò e quella gli fece da guida fino alla porta, di legno
scuro ed antico,
intagliato con scene di guerra ormai cancellate dall’usura,
davanti al quale
stava aspettando una donna alta e bionda, dal viso severo e con lo
stesso
sguardo impertinente di Friederieke. Il viso, dai tratti danesi alteri,
assomigliava
molto a quello di Sophia ed Albafica non ebbe dubbi sulla sua
identità: di
certo era la baronessa Maria Eckersberg.
La
nobildonna
si accorse del nuovo venuto e, con un sorriso di circostanza, lo
salutò
cortesemente, continuando a sventagliarsi: al giovane parve
preoccupata, ma non
sapeva spiegarsi il perché.
Pochi
istanti dopo il pesante silenzio che era calato tra i due ospiti venne
rotto da
delle risatine divertite che rivelavano l’arrivo di Christina
e Sophia: le due
fanciulle, bardate con abiti stranamente semplici per il loro gusto,
anche se
uno sguardo più attento rivelava quanto la stoffa dovesse
essere costata al
barone Eckersberg –e non si parlava certo di poche corone- e
quanto le cuciture
e i ricami fossero di buona fattura.
Christina,
che delle due sorelle era sempre stata la più modesta e la
più timida, il cui
carattere tranquillo era stato però intaccato dalle cattive
abitudini della
nonna e delle zie, aveva scelto un abito scuro, dalla linea abbastanza
semplice
e molto accollato, ma Sophia aveva optato per un bell’abito
dai colori tenui,
forse il modello più casto tra quelli proposti a Versailles,
ma di certo non adatti
alla vista di un prete di campagna.
La
giovane
baronessa era accompagnata da un bimbetto di non più di otto
anni, la pelle
nera come la notte, vestito come un piccolo pascià, con
abiti preziosi e chiari,
che esaltavano ancora di più
l’esoticità della sua persona. Gli occhi della
creatura, grandi e profondi, erano tristi e, allo stesso tempo, vuoti,
come
quelli di tanti schiavi: chissà quando aveva rinunciato
all’idea di essere
stato libero, si chiese Albafica.
O
forse era nato in schiavitù e la libertà non era
stato altro che un tarlo
doloroso nella sua mente, che l’aveva spinto proprio nella
direzione opposta,
nella passiva accettazione di quella prigione, alla morte dei moti di
spirito
che caratterizzavano l’uomo libero dai ceppi mentali della
schiavitù.
Quel
fanciullo,
dopotutto, non era differente dagli abitanti di Frydenjord e, con un
terrore
quasi inconcepibile, immaginò Friederieke e Jens
–ma soprattutto quella giovane
donna innocente- al posto del bambino nero.
Il
giovane olandese fece un inchino alle due giovani baronesse, che
risposero con
riverenze aggraziate e sorrisi ammaliatori –o sciocchi, come
meglio si voleva
definirli- e subito Sophia prese la parola.
-Oh,
monsieur Van Dijk! Spero non abbiate
atteso troppo! Purtroppo Karim ha rovinato uno dei miei vestiti,
sapete… fatto
arrivare da Versailles, dallo stesso sarto che veste la Regina!
Purtroppo è un
selvaggio, non si può certo pretendere che capisca il valore
delle cose.- disse
la giovane, con un sorriso convinto. –Si sa, i negri un anima
non ce l’hanno e
bisogna che noi, che siamo loro superiori, insegniamo loro a
comportarsi a
dovere… confido che il buon Dio, che mi ha dato questa
missione, guidi il mio
giudizio, perché non posso non soffrire per questo
sfortunato.
-Davvero
buona, baronessa.- commentò Albafica, fingendosi commosso da
quelle parole che
urtavano il suo animo nel profondo.
Al
Santuario,
da secoli, arrivavano persone di ogni dove, pronte a servire Athena per
il bene
dell’umanità e quella sciocca ragazza,
dall’alto del suo finto perbenismo,
parlava con un tale disprezzo della razza nera, da fargli seriamente
venirgli
voglia di urlarle in faccia.
Non
era da lui, ma il pensiero dei piccoli apprendisti cavalieri
–di cui un piccolo
gruppetto di fanciulli tra i cinque e i dieci anni era appena giunto da
un
angolo remoto dell’Africa- che imparavano ad immolarsi per la
salvezza di certa
gente gli divenne insopportabile.
-Oh,
me lo dicono spesso, sapete? Non è da tutti avere tanta
pazienza con questi
selvaggi!- esclamò la giovane.
Christina,
annuendo, cantò le lodi della sorella, ma il suo sguardo
esprimeva tutto fuori
che ammirazione: ne era invidiosa e, allo stesso tempo, era succube di
quella
personalità così forte e dispotica.
Il
guerriero iniziava a sentirsi nauseato da quelle due, mentre la
baronessa Maria
osservava la scena in silenzio, il viso una maschera gelida ed immobile
che
nascondeva fiumi di disprezzo per quelle due creature che aveva messo
al mondo:
dei Frydendahl le sue figlie non avevano assolutamente nulla, erano
solo due
stupide Eckersberg, la sua più grande vergogna.
I
suoi
poveri genitori, se le avessero viste, si sarebbero vergognati e
l’avrebbero
disconosciuta come figlia, ma, grazie al cielo, essi non erano vissuti
abbastanza per vedere quello scempio. Ovunque essi fossero, Maria
sperò che
seguissero con il loro sguardo solo Iedike, che di tutti i loro nipoti
era l’unica
ad avere davvero sangue Frydendahl nelle vene.
Iedike
riusciva a sentire le voci delle cugine fin da infondo al corridoio e,
più si
avvicinava, più intuiva l’argomento della
conversazione: Karim, lo schiavo
negro di Sophia, un bambino sveglio ed intelligente che quella sciocca
ragazza
Eckersberg aveva ridotto da un giocattolo rotto.
Quel
povero
infante, catturato nella Sierra Leone, era giunto tra le grinfie della
sua
parente due anni prima, come dono di compleanno, era stato un bambino
scalmanato e allegro, come tutti i fanciulli della sua età e
più di una volta
aveva tentato la fuga, forse nella vana speranza di rivedere la madre,
che era
stata venduta ad un mercante di schiavi il quale, a quanto ne sapeva la
giovane
contessa, l’aveva rivenduta ad una piantagione di cotone ad
Haiti.
Ogni
volta
il barone Eckersberg lo aveva fatto frustare finchè, di
quell’animo allegro e
selvatico, non erano rimasti che i cocci. Iedike guardava sempre quel
bambino
con pietà e dolore, perché lo comprendeva: se
fosse stato per Sebastian
Eckersberg, che sperava sempre nella morta prematura di suo padre e suo
fratello, ella stessa avrebbe fatto una fine simile a quella di Karim.
Era
una donna, sarebbe per sempre stata una schiava, nel bene e nel male.
Ma non
poteva dirlo ad alta voce.
Sempre
a braccetto della signorina Bernstein, comparve nel piccolo atrio di
fronte
alla sala da pranzo, sorridendo quando gli occhi di zaffiro di Albafica
Van Dijk
su posarono su di lei.
-Ma
come si è vestita?!- bisbigliò Christina,
mettendo a tacere Sophia. Albafica,
non intuendo istantaneamente a cosa si riferisse, si voltò e
si trovò davanti
una bellissima contessa Frydendahl.
L’abito
rosso scuro che indossava era forse un dono della stessa Afrodite,
perché la
sua figura già squisita ora pareva assolutamente celestiale:
non gli sovvenne
donna più bella della giovane danese di fronde a lui,
nemmeno quando si sforzò
di ricordarne una.
Fece un inchino e la fanciulla rispose con una riverenza. –Monsieur Van Dijk, zia, cugine care. Vedo con piacere che non sono in ritardo come pensavo.- disse la fanciulla, ma il suo sguardo azzurro era solo per Albafica.
Ci ho messo un po', mi dispiace ^^ Niente, il mio prof di diritto è pazzo e io sto cercando di studiare senza libro, la motivazione di fondo è questa ^^ Non so voi, ma io arrivo sempre a fine ottobre con almeno un libro che manca.
Bene, Alba è cotto,
Iedike è nera, nel prossimo capitolo vedremo qualche
scintilla.