Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Cla90    13/10/2012    3 recensioni
«Ah, cancella quelle foto. Non sono abbastanza belle.»
Odiava a morte quella parola. Abbastanza.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Non Abbastanza

 
Lentamente avvicinò l’indice allo specchio e ne accarezzò la superficie perfettamente liscia, lasciandovi sopra un’impronta all’altezza della gota, come se avesse appena sfiorato il viso di quella ragazza che le somigliava, ma non troppo.
Quella ragazza, vestita di un corto abito grigio scollato e di sandali argentati, era bella.
Aveva dei bei lineamenti fini, un bel naso, una bella bocca.
Si lisciava quei bei capelli biondi e lunghi, e si metteva in posa come fosse davanti ad un fotografo, le mani sui fianchi, ancheggiava sicura di sé, e rideva, rideva, mostrando la dentatura candida e perfetta.
Si muoveva conscia del proprio fascino e vantandosi addirittura della propria bellezza, lanciando sorrisi lascivi agli uomini che la fissavano con sguardo vacuo e desideroso ed osservando fiera le donne che la invidiavano per la sua prontezza, intelligenza e naturale perfezione. Era tutto quello che le altre donne volevano essere e Viola non faceva eccezione.
Viola era la ragazza al di là dello specchio. Era quella timida e scontrosa di primo acchito, quella che non aveva abbastanza fiducia in se stessa ed ancor meno negli altri.
Scivolò seduta sul leggero copriletto rosso e prese a fissare a lungo quelle scarpe da ginnastica sdrucite sulla punta, ma che si ostinava a portare sempre, sostenendo che non sarebbe mai riuscita a trovarne di altrettanto comode.
Era assurdo come riuscisse a rimanere attaccata ai proprio capi d’abbigliamento, pur quando questi avessero già vissuto degnamente la loro vita e sarebbe stato il caso di cambiarli, come le suggeriva spesso sua madre, alla vista, per esempio, di quelle scarpe.
Quelle Nike, non più così bianche come nel giorno dell’acquisto, le ricordavano le passeggiate con gli amici, le vacanze estive e le cene sulla spiaggia, quando i piedi cominciavano a dolere insopportabilmente a causa dei chilometri percorsi, o quando la sabbia si infilava prepotentemente tra le cuciture ed era costretta a gettare le scarpe direttamente in lavatrice, allo scopo di ripulirle.
Ma nonostante tutti i lavaggi a cui poteva sottoporle, di tanto in tanto qualche granello di sabbia ricompariva, sotto la soletta o tra le stringhe, come a ricordarle i bei momenti che aveva trascorso durante quell’estate, che ormai era solo un mero ricordo.
Era cambiata, in quei mesi, e non per la sua stessa volontà.
Aveva sperato come la più sciocca delle ragazzine. Aveva trascorso giorni, settimane a respirare affannosamente, aspettando qualcosa che non sarebbe mai arrivato.
Se si fermava, nel silenzio di quella camera, poteva ancora sentire gli ingranaggi della sua mente che macchinavano e cigolavano, quando quei pensieri così vicini alla realtà, ma a cui non si decideva a dar credito, le assaltavano la mente, e venivano scacciati seduta stante, scuotendo il capo, come inorridita dal fatto che lei stessa avesse potuto partorire una cosa del genere.
D’altra parte lui non poteva essere così. Non poteva aver fatto quella determinata cosa, non poteva aver detto quella particolare frase che le aveva rovinato la giornata, e quella dopo, e quella dopo ancora.
Eppure così era stato.
Ogni sua certezza era stata spazzata via, in un attimo, come un bambino che strappa un dente di leone dal prato e soffia, soffia più forte che può, finchè non gli resta soltanto quel gambo inerte, stretto nel pugno.
Aveva una festa, quella sera.
Osservò con aria triste i vestiti che aveva lanciato sul letto un’ora prima, una sua amica le era piombata in casa con questa proposta allettante per la serata.
E Viola, come ogni altra donna al mondo nella sua situazione, aveva pronunciato quella frase fatidica, “Non ho niente da mettermi!”, per poi scoppiare a ridere come una scema con la sua amica e rivoltare insieme l’armadio.
Con studiata calma li prese e li ripose uno ad uno nell’armadio, per poi raggiungere il comò ed afferrare il cellulare.
In fretta e furia digitò un sms in cui si scusava, non ce l’avrebbe fatta a venire causa improvvisi crampi allo stomaco che la costringevano a letto, concludendo scherzosamente che la sua unica compagnia per quella sera sarebbe stata la borsa dell’acqua calda.
Così, dopo aver indossato una comoda tuta ed aver preso le chiavi di casa, si chiuse la porta alle spalle.
***
Pedalare l’aveva sempre aiutata a scaricare lo stress accumulato ed a scacciare i brutti pensieri, che non mancavano di assalirla.
Era terapeutico quanto una stecca di cioccolata, ma molto più salutare.
Si diresse immediatamente in direzione della pista ciclabile, sul lungomare, decisamente poco affollata, visto che la stagione turistica era terminata definitivamente, lasciando dietro di sé una cittadina malinconica che si lasciava trasportare verso l’inverno, senza opporre resistenza.
Aumentò il ritmo della pedalata, sentiva l’aria fredda sferzarle il viso, arruffandole i capelli ed screpolandole le labbra, ma continuò imperterrita, incurante del cuore in gola che minacciava di soffocarla.
Era una bella sensazione sentirlo battere così forte per uno sforzo fisico e non per l’attesa di qualcosa di inesistente.
Quel suono che le rimbombava nella testa, la riportava sulla terra, metteva fine alle sue fantasie, ai suoi ricordi.
I ricordi erano la parte peggiore, era convinta che fossero quelli che facevano toccare il fondo ad una persona, che la uccidevano lentamente, notte dopo notte, quando sotto la protezione delle coperte, lasciava libera la mente e ricordava. Aggiungeva e toglieva dettagli, modificava le scene, cambiava i dialoghi, solo i protagonisti rimanevano gli stessi.
Anche quella era una forma di autolesionismo.
Si procurava ferite, che la facevano sanguinare dall’interno, a fiotti.
Ed ogni mattina, quando si svegliava e si guardava allo specchio, le pareva sempre di non ricordarsi cosa aveva sognato la notte appena trascorsa, ma il suo inconscio la metteva di fronte a quell’immagine spenta ed era allora che tutto riaffiorava prepotentemente.
Rallentò, fino a scendere con un piccolo salto, per poi legare, quello che chiamava “il suo bolide” al primo palo della luce nelle vicinanze.
Si guardò intorno, osservò un paio di gatti che si azzuffavano ed un temerario che praticava jogging, per poi decidersi a scendere in spiaggia.
Non passeggiò per molto, se ne stette un poco sulla battigia, ad osservare le onde che si muovevano pigre verso di lei.
Quando si voltò indietro, si sentì avvolta da un’assurda malinconia, anzi, era piuttosto un mal di vivere.
Vide le sue impronte, prima così chiare e definite sulla sabbia, fiere di aver lasciato un segno, erano state invece portate via dall’acqua, si erano come liquefatte, sciogliendosi e scivolando via per sempre.
Non aveva potere di cambiare quella situazione ciclica. L’acqua l’avrebbe sempre arrivata ad intervalli regolari e si sarebbe presa i suoi contorni, la sua forma, e sarebbe scomparsa.
Lei era solo di passaggio.
Non era una di quelle persone destinare a lasciare il segno nella vita degli altri.
Veniva dimenticata facilmente.
Perché diamine non poteva essere lei, per una volta, a dimenticare? Perché non poteva essere l’acqua che avrebbe lavato via le sue ferite?
A spalle curve, si spostò dalla battigia, verso una casa che dava direttamente sulla spiaggia, finendo per sedersi sui gradini che portavano all’ingresso. Si appoggiò alla colonna vicina e chiuse gli occhi.
Non seppe per quanto rimase in quella posizione, soltanto quando la spalla sulla quale si era appoggiata con tutto il suo peso cominciò a farle male, e riaprì gli occhi, notando che era quasi l’imbrunire.
Le sembrava che si sentisse meglio, come rinvigorita da quel riposo leggero.
E invece accadde quello che accadeva sempre.
Poco distante da lei, sulla battigia, una coppia di giovani passeggiava mano nella mano.
Contro il sole calato sull’orizzonte, si era ritrovata ad osservare con occhi sgranati quei due sconosciuti, sentendo un odio che le montava dentro, che subito si trasformò in frustrazione.
Chinò il viso tra le ginocchia e prese a dondolarsi.
Vorrei tu fossi qui.
Stava forse impazzendo? Non poteva stare così, non se lo meritava. Affatto.
Rialzò la testa, lentamente, tirò su col naso, mentre sentiva le lacrime scivolarle lungo le gote irruvidite dal freddo.
Click.
Click. Click.
Aggrottò le sopracciglia a quel rumore, un rumore di scatti. Si voltò e scoprì un ragazzo, alla sua destra.
«Che...che diavolo succede?»
Se ne uscì fuori con una voce gracchiante che non le apparteneva, come se non parlasse da tempo, o piuttosto, non avesse nulla da dire.
Il ragazzo spostò la macchina fotografica dal proprio viso e rivelò un sorriso tenero,  quasi bambinesco.
«Scusami, non avrei dovuto.»
Viola lo osservò sedersi lì vicino, a gambe incrociate, sulla sabbia, mentre si metteva con impegno a rivedere sul display le foto scattate.
Sospirò frustrata, mentre prendeva a sfregarsi le guance per togliere il salato delle lacrime dalla sua pelle.
«Scommetto che non ne vale la pena, o sbaglio?»
La ragazza sentì salirle il sangue alla testa e non si trattenne dal rispondergli male, in realtà non gliene importava nulla.
«Vattene, voglio stare da sola.»
Lo vide annuire gravemente, alzarsi e scuotersi i jeans dalla sabbia.
Stava per andarsene, quando una cosa le balenò nella mente.
«Ah, cancella quelle foto. Non sono abbastanza belle.»
Odiava a morte quella parola. Abbastanza.
Nonostante la sua sgarbatezza, lo scorse tornare verso di lei e fissarla in silenzio a braccia conserte, come se si fosse sentito punto sul vivo dalla sua affermazione.
«Non le hai neanche viste. Non puoi saperlo.»
Sorrise amaramente. C’era proprio rimasto male!
Alzò lo sguardo verso di lui, ed incrociò il suo sguardo, per la prima volta.
Il suo viso era rassicurante, si scoprì a pensare, non particolarmente avvenente, ma nel complesso piacevole alla vista.
«Lo so, invece. Il soggetto non è abbastanza.»
Spostò lo sguardo, mentre i suoi occhi vagavano nel vuoto.
Passarono diversi minuti, non si aspettava neanche più una risposta, a quel punto.
«Abbastanza cosa?»
Ecco, adesso stava diventando irritante.
Perché cavolo non la lasciava stare nella sua solitudine? Sbuffò sonoramente.
«Abbastanza. Punto.»
Lo vide piegare le ginocchia e mettersi alla sua altezza, mentre la macchina fotografica dondolava allegramente, attaccata al suo collo.
«Abbastanza triste? Non credo!»
Un mesto sorriso si fece spazio tra le sue labbra e vide che lui le faceva la linguaccia.
Forse questa giornata non era così da dimenticare, in fondo.
Chinò la testa, fissandosi le punte delle scarpe, si inumidì le labbra e poi riprese.
«Avanti, vediamo queste foto.»
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Cla90