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Autore: jeffer3    18/10/2012    12 recensioni
AU
Brittany, ragazza tranquilla del McKinley, vuole finire il liceo senza problemi. Cosa accadrà quando una Santana Lopez, completamente cambiata dagli anni precedenti, finirà per entrare nella sua vita?
Dal capitolo I:
"Fu allora che per la prima volta si girò, guardandomi fissa negli occhi.
Dio, avevo sbagliato, non erano marroni.
Erano neri. Come la pece. Un colore che in quel momento sembrava essere un tutt’uno con la sua anima.
Sembrava si stesse scatenando un tornado in quegli occhi, un terremoto, capace di scuotere qualunque cosa, qualsiasi persona.
Anche me.
Un fuoco. Erano occhi come il fuoco."
Genere: Angst, Dark, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Brittany Pierce, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana, Quinn/Rachel
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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“Dove mi stai portando?” chiesi, incuriosita, una volta nella sua macchina.
“A casa mia.” Rispose, lanciandomi una breve occhiata e accendendo l’auto.
“Davvero?”
“Davvero.”

 
Mi stava portando a casa sua.
A casa sua, maledizione!
Non l’avevo mai vista in tutto quel tempo che ci eravamo frequentate.
E probabilmente avrei anche scoperto il perché quel pomeriggio.
Ad ogni modo, mi sembrava un po’ agitata.
Lo capivo dal modo in cui stringeva il volante.

Chi doveva presentarmi?
La domestica?
Naah.
Il cane?
No, non aveva animali. Magari, però, aveva un pappagall-
Oh. Merda.
Voleva presentarmi sua madre?!
Oddio, no, ero impresentabil-

 
“Che pensi?” mi riscosse dai miei pensieri, dato il silenzio che aleggiava nell’abitacolo.
“San, chi vuoi presentarmi?” le domandai, di rimando.
“Vedrai” fece, con un sorriso appena accennato, quasi stanco.
“San?”
“Mh-mh?”
“Mi dispiace.”

 
Tenevo a precisarlo.
Non so se effettivamente avesse letto il messaggio che le avevo inviato, ma dovevo dirglielo comunque.


“Lo so. Dispiace anche a m-“
“No, no. Io… insomma è come se ti avessi costretto a dirmi una cosa che probabilmente col tempo mi avresti detto comunque e… anche Quinn mi ha fatto una bella lavata di capo stamattina, sembrava volesse uccidermi”
“Quinn?” fece, confusa “Che ti ha detto?”
“Vuoi il sunto? In pratica mi ha detto – o meglio urlato - che sono stata un’idiota.” Dissi, sollevando le spalle.

 
La vidi corrugare ancora di più le sopracciglia.
Oddio, ora pensava che non ero per niente pentita della cosa.

 
“I-il che è giu-giustissimo, insomm-“
“No, no!” mi interruppe divertita  “E’ che… stamattina è passata da me” disse, con un piccolo sorriso divertito.
“Ah, sì, me l’aveva accennato Rachel.”
“Già, è entrata sbraitando e urlandomi contro che me l’ero cercata… che ero stata un’idiota, che non ti avevo dato scelta… cose così” spiegò, ridacchiando.
“Who…” commentai allucinata “In pratica…”
“In pratica ci ha finemente detto che siamo due imbecilli e lei è…”
“Un genio” conclusi per lei.

 
Non aveva dato ragione a nessuna delle due, di proposito.
Così, aveva fatto in modo che ammettessimo le nostre colpe e risolvessimo.
Dio.
Un fottuto genio del male.

 
“Siamo arrivati.” Disse, prendendo un respiro.

 
La sua ansia ed agitazione erano palpabili.
Sì, ok, la curiosità mi stava dilaniando.
Ma non volevo che facesse qualcosa, se non voleva.

 
“San, se non sei sicura io-“
“Sono sicura.” Disse, con un sorriso un po’ tirato.
“Essì, si vede” commentai ironica, sollevando le sopracciglia, facendola ridere.
“E’ che…” iniziò, guardandomi negli occhi “Che poi non si torna indietro.”
“Che intendi?” chiesi, vagamente confusa.
“Ti dirò tutto, Britt” chiarì, mentre io perdevo un battito “Tutta la verità. E… beh, se non vorrai più avere niente a che fare con me, io lo capir-“
“Io non vado da nessuna parte” chiarii, sicura.
Si limitò a scuotere leggermente la testa.
“Aspetta a dirlo” commentò, amara, scendendo dalla macchina.





 
Non era male come casa.
Era un piccolo appartamentino nella periferia di Lima.
L’atmosfera era abbastanza accogliente, anche se notai all’istante che sembrava arredata solo con il minimo indispensabile.
Nel salotto, solo una piccola televisione, una poltrona e un mobiletto.
Niente di più, niente di meno.
Mi saltarono subito all’occhio le foto appese al muro dell’ingresso.
La maggior parte ritraevano Santana – in alcune ancora piccola, in altre più grande – in compagnia di una donna, che non faticai ad identificare come sua madre.
Erano due gocce d’acqua. Tanto che poteva considerarsi come una Santana adulta.
Sembrava una donna solare. Piena di vita.
Con un sorriso bellissimo, come quello della figlia.

 
“Aspetta un attimo qui, ok?” mi chiese, poi, posando le chiavi su un mobiletto e allontanandosi.

 
Mi limitai ad annuire, mentre la mia attenzione si spostava su una serie di cornici, poste su un tavolino.
Erano tutte capovolte, con la faccia rivolta verso la superficie di legno.
Mi avvicinai, afferrandone una.
Raffigurava ancora una volta l’ispanica con la madre.
Ma questa volta c’era una terza persona.
Un uomo che stringeva affettuosamente le due, sorridendo contento.
Era un bel quadretto.
Immaginai fosse suo padre.
Anzi, ne ero certa.
Gli occhi erano i suoi.
Ma doveva provare parecchio risentimento per lui, data la posizione in cui teneva la foto.
E probabilmente tutte le altre cornici, posizionate uguali, dovevano raffigurare gli stessi soggetti.

 
“Britt?” mi richiamò la latina, che nel frattempo mi si era riavvicinata “Vieni?”
“Certo…” risposi afferrando la mano, che mi aveva allungato.
“Ti voglio presentare mia madre” disse, poi, fermandosi davanti ad una delle porte del corridoio.
“M-ma San sono impresentabile, li vedi i miei capell-“
“Sei bellissima, invece.” Mi  interruppe, subito, lasciandomi un piccola carezza sulla guancia. “Dai, entriamo”.




 
“Mamma?” la richiamò l’ispanica, aprendo la porta.
Mija”


Non appena entrai nella stanza, la vidi.
E non era per niente come me l’aspettavo.
Non era come la donna nelle foto.
Sembrava più stanca. Più sofferente.
Malata.

Era sdraiata su un letto a due piazze.
Sul comodino di fianco, una serie di scatole di medicinali, una bottiglia d’acqua, una mela tagliata e una cornice che la raffigurava con la figlia.
Una flebo sul lato sinistro del letto, che si inseriva nel braccio della donna. Non doveva essere una di poche, dati gli altri segni violacei al livello delle vene del braccio.
A fianco, ancora, una bombola ad ossigeno.
Portava, infatti, una mascherina, che, capii, la aiutava a respirare meglio.

Le braccia magrissime.
Il volto incavato.
L’accenno di un sorriso stanco sul volto.

Era ben lontana dalla donna solare che avevo visto nelle foto.

 
“Mamma, questa è Brittany” mi presentò, portandomi più vicina e intensificando la presa sulla mia mano, mentre io stringevo di rimando.
“Aah…” fece, cercando di sorridere di più “Finalmente…” iniziò, prendendo un altro respiro tremolante “Ti conosco.”
Capii che doveva costarle non poca fatica parlare.
“Buonasera, signora. E’ un piacere conoscerla” dissi, rivolgendole un sorriso sincero.
“il piacere… è mio.” Disse, toccandosi la zona dello sterno.
“Stai bene, mamma?” chiese, preoccupata l’ispanica, osservando il movimento che aveva fatto “Vuoi che chiami Clara?”
“No, mija… Sto bene…” le carezzò, debolmente, la mano “Santana…” iniziò, tornando a guardarmi “mi ha parlato tanto di te.”
“Naaaah” provò a difendersi, imbarazzata, lei.
 
Le rivolsi un sorriso intenerito.
 
“Invece sì… ” provò a ribattere, divertita “San?” chiese, poi.
“Dimmi.”
“Potresti andare… a prendere” altro sospiro “altra acqua?”
“Certo, vado e torno” rispose, subito, sciogliendo il contatto con la mia mano, rivolgendomi un’ultima occhiata.

“Devo ringraziarti” disse la madre, una volta che la figlia fu uscita.
Scossi la testa, confusa.
“P-per cosa signora? Io non ho fatto nient-“
“Hai fatto tanto” ribattè, allungando la mano verso la mia, che afferrai prontamente. “Lei non sorrideva più.” Aggiunse, stringendo debolmente la presa sulla mia mano.
“Santana?” chiesi, conoscendo già la risposta.
Annuì, lentamente.
“Da un anno…” iniziò, prendendo un altro profondo respiro “I suoi sorrisi erano cambiati…” spiegò, guardandomi negli occhi “Non erano… sinceri. Non erano… i suoi. Sai, lei… sorride con gli occhi, lo vedi… lo senti.”


Era vero.
In tutto quel tempo avevo imparato a discernere la vera San da quella della maschera che portava.
Ed era dagli occhi che lo capivo.


La guardai attenta, lasciandole il tempo di riprendere a parlare.
“Ma… un mesetto fa… l’ho visto di nuovo… il suo sorriso” disse, poi, con gli occhi lucidi “E ne ho visti… tanti altri da allora”
“I-io…”
“Mi disse…” continuò, sorridendomi leggermente “Che aveva cenato a casa tua…e mi parlò di te”
“Spero non le abbia detto niente di imbarazzante” dissi, stemperando un po’ l’atmosfera e facendola ridacchiare sommessamente.
“Assolutamente no, Tarzan…” fece, sorridendo divertita, mentre il mio viso diventava un tutt’uno con la lampada rossa del comodino.

 
Ma tu guarda cosa andava a raccontare alla madre!
Oddio.
Quindi sapeva anche delle tende?!

 
“Mamma, ti ho portato la naturale” sentimmo Santana entrare, con una bottiglia d’acqua in mano.
La donna mi rivolse un ultimo sorriso, mimando un ‘grazie’ con le labbra.
“Dopo vado a comprare la frizzante… è finita” aggiunse, grattandosi la nuca.
“Va bene questa, mija” la tranquillizzò “Puoi riempire…”
“Sì, sì” la interruppe capendo al volo “Ti metto il bicchiere pieno sul comodino”
“Grazie…” sorrise, chiudendo leggermente gli occhi.
“Sei stanca?” domandò l’ispanica, osservandola.
“Un po’…” Le lasciò una piccola carezza sulla guancia.
“Ok, ti lasciamo dormire, vuoi?” chiese, premurosa, ottenendo un cenno stanco della testa in risposta. “noi siamo di là, se serve qualcosa” aggiunse, sistemandole le coperte.
“Va bene… e, Brittany?” mi richiamò, mentre stavamo per uscire dalla porta.
“Sì?”
“Sono davvero felice di averti conosciuta.” Disse, sorridendomi leggermente.
“Anche io, signora. Molto.”




 
“Mi piace” commentai, una volta entrate nella sua camera.


Non era molto grande, però era molto… Santana.
Semplice, con mobili in legno.
Una serie di immagini con frasi di film attaccate all’armadio.
Un letto ad una piazza e mezza con lenzuola nere.
Un paio di cuscini a fare da contorno.
Una semplice scrivania, con una bacheca attaccata al muro, con varie foto, tra cui riconobbi anche Quinn.
Infine a sormontare il letto, un poster di ‘V per vendetta’, il suo film preferito.

 
“Naa, non dire bugie” mi rimproverò, scherzosamente.
“Sono seria!” ribattei, subito “Mi piace davvero. Dà subito l’idea di camera tua…” commentai, mentre lei mi guardava poco convinta “Anche se mi sarei aspettata qualche peluche di unicorno o di papera” aggiunsi, con un sorriso divertito.
“Li ho nascosti nell’armadio quelli… non volevo li vedessi”
“Davvero?”
“Certo!”
“Oh, meno male, anche io! Finalmente potrò levarli da lì la prossima volta che verrai a casa” commentai, sollevata, facendola scoppiare a ridere.
 
Ebbi bisogno di 2 minuti per realizzare la cosa.
 
“Stavi scherzando vero?” chiesi, sofferente.
“O-oh, sì! Ma ora so che hai papere ed unicorni in camera” rispose, divertita.
“Fantastico” brontolai contrariata, incrociando le braccia al petto.
 
Mi si avvicinò, con un piccolo sorriso, sciogliendo la mia posizione e mi abbracciò.
 
“Ma a me piacciono le paperelle e gli unicorni” commentò, proprio vicino al mio orecchio.
“Meno male, allora.”

 
Amavo trovarmi fra le sue braccia, con il viso a diretto contatto con il suo collo.
I nostri corpi incastrati l’un l’altro, così come le nostre anime.
Sarei potuta rimanere così per sempre.
Mi tranquillizzava.
Mi calmava.
Mi faceva star bene.
Credo fosse lo stesso per lei.
Probabilmente, in quel momento, cercava la forza di dirmi la verità.
E se ero dannatamente curiosa di sapere davvero di lei, volevo, d’altra parte, rispettare i suoi tempi.
Non doveva essere semplice se aveva aspettato tanto per parlarne.
 
Rimanemmo così per qualche minuto, finché si staccò, prendendo un respiro.
Si levò le scarpe e si sdraiò sul letto, aprendo le braccia nella mia direzione, invitandomi  a raggiungerla.
Posizionai un braccio attorno alla sua vita. Le gambe leggermente intrecciate alle sue.
La testa sul suo petto, così da sentire il battito del suo cuore.
 
Prima, però, che iniziasse a parlare, decisi di fare ciò che in tutto quel tempo avevo desiderato.
Le sfilai, lentamente, entrambi i guanti, sotto il suo sguardo indecifrabile.
Trovai solo, al di sotto, una sottile striscia di garza al livello delle nocche.
 
“E’ per evitare le infezioni a causa dei guanti” commentò, mentre io puntavo gli occhi nei suoi.
Le accarezzai lentamente entrambe le mani, passando le dita su ogni singolo solco del palmo, godendo di quel contatto che tanto avevo desiderato.
“Non ho mai sopportato quei guanti” borbottai, riportando la testa sul suo petto.
Lei ridacchiò leggermente, portando la mano a diretto contatto con la mia guancia. E lasciandola lì.
“Meglio?” chiese, con un piccolo sorriso.
“Perfetto.” Commentai, chiudendo gli occhi e beandomi di quella nuova sensazione.

 
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto.
Poi parlò di nuovo.
“Non mi è piaciuto che tu mi abbia seguito” disse, senza muoversi dalla sua posizione.
“Lo so, mi dispiace. E’ stato stupido.”
“Sì, è stato stupido” concordò, tranquilla “Anche se posso capire perché l’hai fatto.”
“Io-“
“Davvero, lo capisco. E’ per questo che ho deciso di dirti tutto. Non voglio che accada più. Non voglio che ci siano segreti fra di noi, se tu vorrai ancora stare con me.”
“Certo che vorrò stare con te” ribattei, indignata, mentre lei prendeva un sospir- Altolà.
Stare con me?
Aveva detto stare con me?!
Nel senso… essere la sua ragazz-
“Circa un anno fa…” iniziò, incerta.
 
Ok, non era il momento di soffermarsi su certe cose.
 
“Mia madre si ammalò. Eravamo una famiglia piuttosto unita, sai?” chiese, retorica “Consideravo mio padre una sorta di eroe greco. Il mio eroe. Non potevo immaginare una vita migliore… vita sociale al top, genitori fantastici, amicizie importanti… il mio unico pensiero probabilmente era come far colpo sul maggior numero di ragazzi in una volta” continuò, ridendo amaramente.
“Un giorno...” prese un respiro profondo, mentre io intensificavo la presa su di lei “Mia madre si sentì male. Non sapevamo cosa avesse, ma, di colpo, ebbe una sorta di crisi respiratoria… onestamente non ricordo bene quel momento, credo fossi parecchio sotto shock. L’avevo sempre vista come una sorta di wonderwoman, mi sembrava impossibile stesse male, capisci?”
“Sì… Dalle foto dell’ingresso sembra una donna davvero solare e piena di vita”
“Lo era, sì.” Concordò, nonostante la voce incrinata.

 
Sapevo non avrebbe pianto.
Era troppo orgogliosa per farlo.
Per cui non mi stupirono i 2-3 minuti che si prese, per riprendersi momentaneamente.

 
“La portammo in ospedale e, sostanzialmente, capii solo che la stavano portando direttamente in sala operatoria… dissero a mio padre che doveva avere una sorta di malformazione genetica al cuore e che, purtroppo, non essendo stata notata prima, stava, allora, provocando seri danni all’organismo. Le uniche immagini che ricordo di quella estenuante giornata, in cui mia madre fu sotto i ferri per 20 ore, sono due: mio padre con la testa fra le mani, in sala d’attesa, e Quinn, che mi abbracciò stretta per tutto il tempo.”
"Stette in ospedale per un mese, da quando fece quell’operazione e, ogni giorno che passava vedevo mio padre sempre più irrequieto. Allora non capii il perché della cosa, o, meglio, pensavo fosse il risultato dell’ansia a causa di tutto quello che era successo, della paura di perdere l’amore della sua vita, no?” commentò ironicamente, facendomi rimanere lì per lì confusa.
“Dopo tutti quei giorni, dopo tutti gli esami a cui la sottoposero, non riuscirono, però, a capire cosa effettivamente avesse. Con l’operazione erano riusciti a sistemare le cose, all’inizio. Poi iniziarono le crisi respiratorie, sempre più frequenti. La stanchezza costante. I dolori al petto. Prosciugarono tutte le sue forze e, ancora, non sapevano cosa dirci. La rispedirono a casa, proponendoci una serie di cure sperimentali per il suo male, che sembrava non essere catalogato nei libri di medicina.”
“Non hanno ancora capito cos’ha?” chiesi, allibita.
“No, per niente. Odiavo tutti quei dottori che non facevano altro che sparare ipotesi assurde, facendole fare esami su esami, senza ottenere niente, se non una maggiore sofferenza per lei. Ricordo, però, un dottore, Johnson. Stavamo portando via mia madre, sulla sedia a rotelle, il giorno in cui fu dimessa. Lo vidi lanciare una veloce occhiata a mio padre, che non doveva avere una bella cera, e si avvicinò a me. Mi mise una mano sulla spalla e mi parlò all’orecchio… Disse solo quattro parole, ma continuo a ripeterle nella mia testa da un anno ormai.
‘Sii forte. Per lei.’”


Dio.
E il peggio, capii, doveva ancora arrivare.
La vidi chiudere gli occhi, prendendo un profondo respiro.

 
“Quando tornammo a casa, almeno inizialmente, le cose sembravano abbastanza stazionarie. Certo, mamma stava ancora male, ma mio padre cercava di fare anche la sua parte. Insomma, comprava le medicine, cucinava, passava il tempo a farle compagnia, cose così. Poi iniziarono ad arrivare le lettere. Inizialmente non ci feci caso, ma più passava il tempo, più si facevano numerose. E più mio padre diventava intrattabile e ansioso. Capii la cosa troppo tardi, quando aveva già fatto le valigie e fatto firmare il divorzio a mia madre.”
 

Lo disse a denti stretti, tremando leggermente.
La rabbia doveva essere ancora tanta.
Come aveva potuto abbandonarle, con la moglie in quelle condizioni?
Portai una mano sulla sua, che ancora giaceva sulla mia guancia. E parve acquietarsi leggermente.

 
“Quelle lettere erano dell’ospedale.” Spiegò, poi “L’operazione, il mese di degenza, le cure sperimentali… avevamo migliaia di dollari di debiti. Non ne sapevo nulla. Mia madre nemmeno. Solo lui. E decise di abbandonarci, lasciandoci senza niente.”


Ero, ormai, senza parole.
Ecco perché Santana si era ritrovata a fare combattimenti clandestini. Ecco perché accettava tutto quello.
Per sua madre.

 
“Presto non potemmo più pagare l’affitto di casa, ma per fortuna mia nonna ci aveva lasciato questo piccolo appartamentino, ormai in disuso, qui, alla periferia di Lima. Almeno ci saremmo dovute preoccupare di pagare solo le bollette.”
“Presto, però, rimanemmo completamente al verde, le lettere dall’ospedale si moltiplicavano a vista d’occhio e mia madre aveva bisogno di medicine. Un giorno, mentre camminavo per queste stradine, un tipo mi bloccò per il polso, chiedendomi la borsa con i soldi. Avesse saputo che stavo peggio di lui, forse si sarebbe arreso prima” rise amaramente “Ero molto instabile in quel periodo, con solo la rabbia a scorrermi nelle vene e un semplice sacco da boxe in casa per scaricarla. So solo che gli tirai un pugno talmente forte, che rimase a terra a lamentarsi per un mezz’ora. Fu allora che incontrai Phill”

 
Storsi la bocca al solo pensiero di quell’uomo.
Mi aveva fatto venire la pelle d’oca solo a vederlo.

 
“Aveva visto tutta la scena e ne era rimasto, per usare le sue parole, ‘profondamente impressionato’. Non ci volle molto a che mi prendesse come sua combattente per gli incontri clandestini a mani nude, pagandomi 150 dollari ad incontro. Erano tanti soldi ed io ne avevo disperatamente bisogno. Raccontai a mamma che, così, da un giorno all’altro, mio padre aveva iniziato ad inviarci denaro, per fronteggiare le spese. Ricordo ancora il suo sorriso sollevato, il suo ‘lo sapevo’ compiaciuto, per questo riscatto di quello che per lei era l’amore della sua vita.”

 
Si perse qualche secondo nei suoi pensieri, lasciandomi, contemporaneamente, il tempo di metabolizzare il tutto.

 
“Certo, inizialmente ci fu qualche problema… i colpi mi arrivavano anche in faccia e non potevo permettermi di farli vedere. Avrebbero chiamato i servizi sociali e in tutta probabilità mi avrebbero rispedito da mio padre, lasciando al suo destino mia mamma. Non potevo permettermelo. Per cui, un po’ con l’aiuto di Quinn che mi copriva per le assenze a scuola, un po’ con l’allenamento, imparai ad evitarli, anche se, certo, come hai potuto vedere, è il mio addome a subirne le conseguenze. Oltre a questo, col tempo ho imparato a conoscere quel lardoso di Phill. Un uomo spregevole, è a capo dell’organizzazione mafiosa della città. Ha a che fare con tutti i crimini della zona malfamata di Lima e non solo. Rapine, omicidi, corruzione, bordelli. Tutte opere sue. Tutti lo evitano, tutti lo temono. E io, beh, mi ci sono praticamente buttata fra le grinfie. Sono diventata il suo piccolo tesoro. Non perdo un incontro e gli faccio vincere tonnellate di dollari con le scommesse, che fa su di me. Ma guadagnavo e continuo a guadagnare i soldi per le medicine, che in quanto sperimentali sono costosissime, per mia madre, per Clara, l’infermiera che è con lei quasi 24 ore su 24, per le bollette, per l’ospedale, con cui ancora abbiamo debiti. Per permetterci di sopravvivere.
“Il fatto che lui fosse pericolosissimo non mi toccava più di tanto. In più avevo modo di scaricare tutta la rabbia, che avevo in corpo… quindi, era una sorta di ‘due piccioni con una fava’. Inutile dire che Quinn era contrarissima alla cosa. Capiva che avessi bisogno di denaro, ma era inconcepibile per lei che acconsentissi a farmi così male. Così, ha maturato tutta una riflessione psicologica sulla cosa…” commentò scocciata.
“Sarebbe?”
“Per lei io accettavo tutto questo per sentire qualcosa. Qualcosa che non fosse solo la rabbia, che continuava a ribollirmi dentro. I pugni, i lividi, i graffi, lasciavano segni. Segni che… erano all’esterno e non solo e unicamente all’interno, come quelli che mi portavo dentro da mesi.”

 
Una sorta di autolesionismo, insomma.
Mi chiesi quanto Quinn avesse avuto ragione.
Santana doveva aver sofferto immensamente ed era come se tutto quello le permettesse di ‘vedere’ effettivamente i danni provocati.

 
“Odio quando mi fa queste sparate da psicologa, non la sopporto quando fa così” borbottò, contrariata. “Ad ogni modo, la situazione da allora è rimasta pressoché invariata. Mia madre è ancora malata. Abbiamo ancora debiti. Combatto ancora in incontri clandestini. Il lardoso continua ad avere pieno potere su di me, a causa dei suoi scagnozzi.”

Mi passò improvvisamente un pensiero per la testa.
 
“Quindi, quando ieri sera gli hai detto che ero ness-“
“Non voglio che sappia di te.” Mi interruppe, bruscamente  “Mai. Se c’è una cosa che non mi perdonerei al mondo è che lui entri in contatto con te. E’ pericoloso e non deve nemmeno sapere che esisti. Sa che c’è qualcosa di diverso in me, da un po’ di tempo a questa parte. Lo ha avvertito.”
“Cosa c’è di diverso?” chiesi, non capendo.


Prese un piccolo respiro tremolante, mentre avvertivo il battito del suo cuore accelerare.

 
“Te.” Rispose, lasciandomi spiazzata “Un mese” commentò, poi, scuotendo la testa incredula “Bastò, a suo tempo, a rendere la mia vita un inferno in terra. E un mese, uno solo, è bastato a riportarmi il paradiso. Non scorre solo rabbia nelle mie vene ormai e, quando sono con te, sembra sparire del tutto. Non sono più la stessa lottatrice di un mese fa, perché sto male quando mi levo questi dannati guanti e indosso la fasciatura da combattimento. Sto male quando sono costretta a tirar pugni ad un’altra persona. Sto male quando accetto quei soldi sporchi di sangue. Quando metto felpe larghe che non vadano a diretto contatto con la mia pelle, bruciandomi a causa delle ferite. Stavo male quando ero costretta a guardarti negli occhi e dirti che semplicemente ‘dovevo andare’. Ma ancora di più quando vedevo quanto anche tu soffrissi a quelle mie parole. Mi uccideva.”
“San…” esalai, con il groppo alla gola che mi si era formato.
“Tu… mi fai desiderare di essere una persona migliore. Per te. Per mia madre. Per Quinn.” Aggiunse, prendendo una piccola pausa “Ma io sono un casino, Britt. Vivo a contatto con la malavita, piena di debiti, piena di lividi, sono una fonte di pericoli continui. Perciò…” iniziò, mentre sollevavo lo sguardo verso di lei “Io lo capisco, davvero, se tu non vuoi avere a che fare con una calamita per i guai. Chiunque abbia un briciolo di razionalità lo farebbe, quind-“
“Non so cosa sia questa razionalità, onestamente…” iniziai, portandomi su un lato, guardandola fissa negli occhi, a pochi centimetri l’una dall’altra.


Notai i suoi occhi lucidi, così come i miei.
Le passai la mano sulla guancia, facendole chiudere le palpebre, al contatto.
Non l'avrei lasciata andare per nulla al mondo.
Non dopo tutto quello che era successo fra di noi.
Non dopo tutto quello che mi aveva detto.
Non quando, finalmente, si era fidata di me.


“Io non ti lascerò, San.” Dissi, sicura, facendole spalancare lo sguardo nel mio. “Non ti abbandonerò. Mai.”







Ommioddio, un parto.
Mi scuso per eventuali errori (visto che sto crepando di sonno e non ho ricontrollato) e per il ritardo (lo so, avrei dovuto pubblicare ieri, chiedo perdono!)...e già che ci sono anche per il finale che non mi convince (ma, vedere sopra, sto dormendo in piedi praticamente, quindi il mio cervello si rifiuta di cooperare)!!
Aaad ogni modo questo è quanto, per ora!
Premetto fin da subito, comunque, che il prossimo capitolo arriverà fra domenica e lunedì quasi sicuramente visto che non avrò tempo materiale per scrivere!


Prima di lasciarvi e arrotolarmi nelle coperte, due cose!

StepNumberOne: consiglio a tutti di leggere questa oneshot faberry, che ho personalmente amato --->  http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1314971&i=1


StepNumerTwo: GRAZIE! Davvero siete l'ammmmòre e io non so nemmeno come ringraziarvi!

A presto, bella gente! :DD

  
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