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Autore: Lyoker    26/10/2012    0 recensioni
'Foglie di basilico' è una storia nata su EFP durante il mese di maggio-giugno-luglio.
Successivamente lo oscurai e mandai il manoscritto al Gruppo Albatros, che mi inviò un contratto di pubblicazione (che poi ho successivamente rifiutato).
Il protagonista, un ragazzo attaccato alla ripetitività del suo quotidiano, si ritroverà ad affrontare un viaggio, suo malgrado, che gli permetterà di staccarsi da queste sue radici, dolente o nolente. Un viaggio di avventure drammatiche, ricche di riflessioni e di domande rivolte a se stessi, e l'insaziabile ricerca della maturazione verso il mondo adulto, fatta di scelte, logica e volontà d'animo.
ATTENZIONE:
- Non è una storia YAOI, c'è solo un accenno di Shonen'ai, ma non tratta di una storia d'amore omosessuale. Grazie.
- La maggior parte dei personaggi sono minorenni.
- Ogni riferimento a cosa o persone è da considerarsi puramente casuale.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ero diventato sordo. Forse l’ultimo tuono, più assordante degli altri, mi aveva portato via la capacità di udire. Solo quella di udire, perché riuscivo ancora adascoltare. Mentre la pioggia scendeva su di noi, ascoltavo con ritrosa attenzione il terrore di Renata che fuggiva via, il pianto delle cicale che ci circondavano, il dolore del cielo cupo e l’arrogante risata meschina di Howaito che rimbombava nella mia mente, nello stesso tempo in cui il mio sguardo esaminava la pelle bianca del suo viso, abbandonato sul mio braccio.
  “Bugiardo…” gli sussurrai con le gocce di pioggia grondanti dalle mie labbra.
  “… Mi avevi detto che avresti vissuto da cicala… Le cicale cantano le gioie della vita per una settimana prima di lasciare questo mondo, e non è ancora passato il quinto giorno… Tu forse non sei pronto a morire, ma sono io che non sono pronto a perderti!”
Ero confuso e disorientato. I referti che mi aveva allegato via posta elettronica evidenziavano chiaramente il pericolo massimo dell’Angiosarcoma per i successivi due o tre anni. Possibile che Howaito sentisse così vicino l’arrivo della Morte?
Per quale ragione doveva spingersi in un viaggio oltreoceano, per poi morire al mio fianco?
Non conoscevo risposte alle mie domande, né riuscivo a ricordare una singola emozione da poter esprimere in quel momento. La marionetta senza burattinaio, che destino pietoso per un eccellente attore teatrale come me.
Statico, nella mia interpretazione della Pietà, fui via via circondato dalle vesti di remoti ricordi della mia vecchia vita e rimirai me stesso nelle folate di pioggia, prima ancora che cominciassi il mio viaggio senza destinazione: un ragazzo di quindici anni senza padre, attaccato al ripetersi della propria quotidianità e senza alcuna esperienza al di fuori del teatro e dei videogiochi, il tutto ornato da un forte odore di basilico. Nauseante basilico.
Le sagome dei miei ricordi presero forma in quelle di Renata, del detective Morgan, della direttrice Francine, della domestica con il sorriso carino, dell’infermiera, dei funzionari e di tutti i giovani ospiti di Rubra Vulpes, che, circondandomi, si stringevano nel mio dolore, sotto il pianto incessante delle nuvole nere.
Nonostante questo, Howaito mi aveva dato un rilevante indizio. Sentendo la fine farsi avanti, mi aveva dato il suo addio con il sorriso, per poi andare a morire da chi di stesso destino era rimasto vittima. Una magnifica uscita di scena, degna di una prima stella teatrale. Ma non era Howaito il protagonista della mia storia, della mia vita e del mio universo. Con gli abiti ormai fradici, lasciai il corpo di Howaito sulla lastra marmorea, per lasciarmelo poi alle spalle, come ogni evento che mi aveva attraverso in quei giorni. I miei occhi s’incrociarono con quelli del detective Morgan. Per una volta il suo impermeabile gli era servito a qualcosa.
  “Prepari la sua macchina, detective. Partiamo.”
L’investigatore mi parve inizialmente confuso, ma un guizzo improvviso nelle sue pupille mi fece intendere di aver compreso le mie finalità, e prendendo alla mano il cellulare, ordinò a una scorta di seguirci.
Mi voltai verso Renata, e la vidi stretta a Francine: la mia compagna mi guardava con dolore e tormento; la Regina, invece, con aria funesta. Non potevo biasimarla, la tomba del figlio era stata gettata in pasto agli occhi del mondo per la seconda volta. Lasciai anche loro alle mie spalle, dirigendomi verso la strada principale dell’istituto, accompagnato dall’investigatore che mi teneva per la spalla, quando fui interrotto da quello strano maggiordomo vestito di nero che aveva accompagnato Howaito con l’elicottero. Aveva l’aria affannata ed era completamente fradicio. Per di più indossava ancora gli occhiali da sole, pur con la pioggia e il cielo coperto. Mi porse una lettera sigillata in busta chiusa. Evidentemente anche lui era a conoscenza della vicinissima morta che stava divorando il suo padrone.
Una volta consegnatami, la riportai sotto la mia camicia per non farla bagnare di pioggia, intanto che il maggiordomo in nero si allontanava da noi con il cellulare all’orecchio.
In quell’attimo mi fermai e socchiusi gli occhi, lasciandomi cullare dalle gocce di pioggia e portando indietro la testa, facendo scorrere l’acqua salata per le radici dei miei capelli. Uno sbuffo a bocca aperta riuscì a spostare quel grosso peso che portavo sul cuore, assaporando le lacrime di cielo come un dono divino. Ero pronto.
Ripercorsi la strada verso l’istituto, grondante e non curante delle chiazze di fango che lasciavo sull’impeccabile quanto sacro pavimento bianco dell’atrio, fino ad arrivare alla mia stanza. Sebbene avessi l’uniforme zuppa di pioggia, non avevo alcuna intenzione di cambiarmi e indossare qualcosa di asciutto, ma dovevo farlo se volevo evitarmi una polmonite, in particolar modo dopo lo stesso caso che mi era capitato il giorno prima. Radunai a me ogni idea pur di coprire l’immagine del volto esanime di Howaito che appariva incessantemente davanti ai miei occhi.
Un rumore secco mi portò alla realtà: avevo pestato quello che era rimasto del vaso di plastica, che giaceva semi distrutto al centro della mia stanza.
Credevo di aver distrutto completamente quel piccolo cespuglio verde, portatore di amarezze e unico legame di quello che era il vecchio me. Mi flessi sulle ginocchia per osservare meglio e notai, tra il cumulo di terriccio e i pezzi di plastica, che ogni frutice, in principio brillante e fiorente, era diventato secco e scuro, come se avessero inaspettatamente smesso di avere vita. Ogni ramoscello della pianta si era annerito, neanche una singola foglia si era salvata.
Avrei voluto ascoltare ancora una volta le malinconiche note di pianoforte di quella ragazza che abitava sopra il mio appartamento, ma non c’era più musica dentro di me.
 
Una volta cambiati i miei abiti, lasciai la porta della mia stanza ben aperta e il cadavere della mia amica arborea in vista, l’unica cosa su cui potevo ancora disporre il mio potere arbitrario di possessore.
Niente più mi apparteneva a ciò che ancora una volta lasciavo alla mia schiena, persino il suono che le suole delle mie scarpe producevano sulle scale verso l’atrio mi sembrava pian piano sempre più astio e sconosciuto. All’ingresso principale, Morgan mi aspettava con un grande ombrello in mano, permettendo alla fedora di coprirgli gli occhi.  Era davvero un uomo tutto di un pezzo, anche se alle volte dava una strana impressione. Mi scortò verso una grossa macchina nera, mentre intorno a noi appena un paio di automobili dei carabinieri si faceva strada nel lussureggiante giardino di Rubra Vulpes. Mi vietai di guardare in direzione della stradina conducente al monumento. Non avrei potuto reggere ancora la visione di Howaito senza vita, e quel suo sorriso disegnato sul volto pallido, né gli occhi distrutti di Renata e dell’imperiosa Regina che mi ospitava a corte.
Sedili di pelle, odore di muffa. Quando Morgan entrò in macchina, la avviò senza troppi problemi, innestando la retromarcia. Io, invece, coricato nel sedile posteriore, appoggiai di peso la testa sul mio schienale, donando il mio addio ai cancelli che mi avevano accolto per così poco tempo.
Addio Volpe Rossa. Addio Regina. Addio Renata, compagna mia.
 
Addio Howaito.
 
Il mondo esterno accolse la macchina nera con un boato di tuoni e folate di pioggia, spazi infiniti che i miei occhi vuoti osservavano freddamente. La lunga, lenta, estenuante sequenza d’immagini mi si presentava davanti in maniera a dir poco idilliaca, scontando la bufera che infervorava febbricitante sulle terre ormai bagnate. Mi piaceva vedere così da vicino i campi arati, le sterpaglie frastagliate nei vivai lasciati incolti, e qualche casetta rurale abbandonata tra il grano biondo e gli ulivi minervini.
  “Fammi strada, ragazzo”
Morgan aveva davvero un modo deciso nel fare le cose. Sapeva cosa voleva, e conosceva il modo per ottenerla. Ma io non ero da meno.
  “Sessantatreesimo binario dalla stazione di Minervino Murge, percorso ferroviario regionale Barletta–Spinazzola.”
Alla mia frase, l’auto sbandò di colpo e si arrestò. Il detective mi guardò attraverso lo specchietto retrovisore con gli occhi sgranati. Sì, ero a conoscenza di quelle informazioni che nessuno si era preso la briga di celarmi quando fui catapultato in centrale. Sessantatreesimo binario, esattamente dove mio padre fu tranciato dal regionale per Barletta centrale. Il detective, in fondo, seguiva un’ottima pista per ritrovare mia madre, come da me suggerito: entrambi credevamo di ritrovare i frammenti di una follia alla fonte da cui era scaturita, ma la fonte non era affatto la nascita dell’oggetto della follia stessa, bensì la fine di ciò, e la conseguente origine della paranoia.
La macchina riprese il suo cammino, e le altre due gazzelle ci seguirono senza fare storie, fino al punto chiave. Il centro della campagna minervina, tra gli ulivi e spighe di grano troppo giovani per diventare dorate. Mia madre era lì, in ginocchio, a osservare la sessantatreesima rotaia, che partiva dal Primo e unico Binario della stazione.
Prima di uscire dalla macchina, mi accertai di portare con me l’ombrello che Morgan mi aveva offerto e lo aprii. Era davvero molto grande, e bastava quasi per tre persone, ma il colore era lo stesso marroncino chiaro del suo impermeabile e della sua fedora.
I carabinieri uscirono dalle loro auto meccanicamente, ma nessuno si fece avanti. Solo io mi avvicinai alla mia generatrice, e m’inginocchiai al suo cospetto, così come lei si arrendeva al cospetto della rotaia. Mi sporsi, e la mia fronte, si appoggiò alla sua. I suoi occhi, così freddi, vacui, vitrei, si rispecchiavano nei miei, che contenevano altrettanto vuoto. Solo allora capii, perché nell’attimo in cui perdi chi ami, la tua anima si svuota. È vero quando dicono che gli occhi sono lo specchio dell’anima, perché io mi sentivo davvero uno specchio caduto in frantumi.
 
Come ogni tappa del mio sfiancante viaggio, mi rialzai, lasciando il manico dell’ombrello tra le mani di ciò che rimaneva di mia madre, una donna sola, distrutta, in grado solo di respirare e di guardare il vuoto con altrettanta vacuità, mi immersi di nuovo tra le spoglie di un diluvio prossimo alla sua conclusione, verso Morgan che mi attendeva allo  sportello aperto della grande macchina nera.
I suoi occhi erano compassionevoli e amareggiati, ma non ci diedi troppo peso. Mi gettai di nuovo sul sedile posteriore in pelle che puzzava di muffa, mentre la portiera mi veniva chiusa violentemente.
Mia madre attraverso il finestrino bagnato della macchina appariva distorta, come un mostro senza anima e senza pace. Miriam, si chiamava. Miriam, da Maria, madre del Messia. Entrambe portatrici di dolore, per una perdita straziante e senza pentimenti.
Fissai il cielo, fintanto che l’auto prese i primi movimenti. Non mi chiesi dov’ero diretto, non m’importava più. Potevo sentire i miei capelli umidi bagnare la pelle nera dietro la nuca. Sentivo freddo.
Passai la mano sotto la camicia un po’ umidiccia, ripescando la busta sigillata che mi era stata consegnata da quello strano maggiordomo vestito sempre di nero. Una busta bianca con un sigillo in cera laccata rossa, degna solo a baroni e principi di un certo tempo. La aprii con delicatezza, per non rovinare la lacca, e ne estrassi un foglio. Non era una lettera, perché non aveva né mittente, né destinatario. Non aveva data, o oggetto. Riportava solo una lunga frase scritta a mano giusto al centro, e che ancora oggi conservo gelosamente tra i miei archivi.
 

“Ti amato per tanto tempo. Avrei voluto che lo sapessi. Avrei voluto avere il coraggio di potertelo dire, prima che mi venissi portato via.”

 
Lo avevo immaginato, e non potei fare a meno di sorridere. Prima che io fossi portato via da lui.

Avrei potuto dire lo stesso.

Mi chiamo Aristide Spadaccini, e oggi compio novantasei anni.
Ho avuto un’adolescenza diversa dalle altre. Ho amato, ho odiato, ho perdonato.
Ho capito cosa volevo fare, cambiare la mia visione della vita, così ossessivamente attaccata alla ripetitività del proprio quotidiano. Ho voluto esaltare le mie capacità, e con mio grande rammarico senza riuscire a prendere posizioni. Una serie di eventi mi ha condotto a fare esperienza del mio talento teatrale, e sono stato in grado di decidere come muovermi tra le scelte del destino.
Ma sono andato avanti, diretto su quella grande macchina nera verso un futuro che mi si doveva ancora presentare, e guidato da quella persona che in futuro avrei chiamato Padre.
Mi sono sposato, ho avuto dei figli, e i miei figli hanno avuto dei figli a loro volta, e questi hanno fatto lo stesso. Ho visto mia moglie lasciare questo mondo con il sorriso sulle labbra. Aveva lo stesso sorriso di chi avevo imparato ad amare per la prima volta. Una cicala che non era capace di cantare tutte le gioie della vita, perché ne aveva conosciute troppo poche.

Una cicala che non smetterò mai di amare.
 
 
Andria, 30 luglio 2089
Spadaccini Aristide

  
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