Capitolo
II -
Depressione.
La
dottoressa Roth si avvicino a Cliff con il suo solito sorriso,
accorgendosi delle lacrime trattenute a difficoltà.
«Stia
tranquillo» gli diede una dolce pacca sulla spalla e poi gli
mostrò il barattolo: era il suo turno.
«Ma
può non capitare il mio»
obiettò lamentandosi triste.
«E’
proprio questo il nostro
scopo» sospirò, cercando di essere il
più chiara possibile «Il rapinatore vi ha
costretto ad intrecciare volenti o nolenti le vostre vite: noi le legheremo
definitivamente. Non tutto il male viene per nuocere e, magari, ne
uscirà
qualcosa di buono da quest’esperienza».
«Ne
dubito» pronostico l’uomo che, al ricordo di quelle
ore, gli
veniva ancora la pelle d’oca.
E non solo.
«Legga
a voce alta» rammentò la dottoressa quando ebbe
pescato il
bigliettino.
«Visitare Parigi».
La
dolcissima psicoterapeuta gli aveva assicurato che tutte le
spese sarebbero state coperte dalla banca, ma lui non trovò
–neanche al
pensiero di vacanze gratis- una qualche sorta di stimolo per affrontare
con entusiasmo
quell’avventura.
Anzi, in
quel periodo davvero pochi sorrisi si affacciavano dal
suo viso.
Sbuffò
mentre faceva un giro di ricognizione per appuntare i,
fortunatamente non molti, clienti che avrebbe dovuto avvertire della
posticipazione delle riparazioni. Era una persona ordinata, dunque non
aveva
avuto bisogno di perdere troppo tempo nel ripulire l’officina
e, nel giro di un
paio d’ore, avendo finito, si apprestava già ad
abbassare la saracinesca.
In quel
momento si ritrovò a pensare che mai
aveva chiuso per così
tanto tempo.
Beh,
forse quella volta in cui non si era ben curato la polmonite
e l’avevano dovuto ricoverare d’urgenza
all’ospedale. Tre giorni e poi aveva
praticamente costretto i dottori a
dargli il permesso di dimissioni.
Neanche
quando era morto suo padre aveva chiuso: tenere aperta ed
efficiente quell’officina, per la quale lui aveva sacrificato
vita e risparmi, gli
era sembrata la migliore dimostrazione d’affetto e rispetto
che avrebbe potuto
fare. Da quel giorno, decise che non avrebbe mai
potuto chiudere.
Così
aveva abbandonato quella sua infantile idea
dell’università
di lingue per dedicarsi ad oli e motori. Sua madre avrebbe preferito
che
decidesse anche di tornare a vivere con lei, ma il suo diniego era
stato
perentorio. Si disse che magari avrebbe dovuto avvisarla della sua
partenza,
tanto per non allarmarla nel caso fosse passata dall’officina
e l’avesse
trovata chiusa.
Era
così immerso nei suoi pensieri che non si accorse
dell’uomo
che gli si era avvicinato –e spaventato-
dandogli un’ amichevole pacca sulla spalla.
«Ehi,
amico!» il sorriso a trentadue denti era l’arma che
Charles
usava più di frequente per accalappiare tutte le sue prede.
«Ehi…».
«Ragazzo,
ancora questa voce moscia?»
punzecchiò, stanco di vedere l’amico che, da
più di un mese a quella parte, si
mostrava in giro come un sacco di patate svuotato della sua essenza.
«Lascia
perdere» finì di bloccare il catenaccio e fece per
salutarlo.
«Che
ne dici di andarcene al Super
Taste? Non c’è niente che quel locale
non riesca a sollevare!» i due, più
di dodici anni prima, si erano incontrati lì, dove Charles
lavorava dopo la
scuola e Cliff comprava i suoi adoratissimi noodles.
«Sinceramente?
Non ho molta fame» disse dispiaciuto, ma era vero:
il suo stomaco era completamente
chiuso.
«Stai
facendo una qualche dieta del tipo solo
pompelmi?» Lo squadrò critico
«Ti vedo molto
sciupato…»
«Charles
sto bene»
calcò,
stanco di dover partecipare continuamente a conversazioni di questo
genere.
«Ti
dispiace lasciarmi in pace? Forse è proprio il tuo istinto
da
mamma chioccia a farmi soffocare» accusò, invaso
da un repentino moto di
rabbia.
Ma come
venne se ne andò ed il suo animo fu devastato da senso di
colpa e tristezza.
Da
settimane il suo umore oscillava: come un pendolo impazzito gli
faceva attraversare stati di depressione, inappetenza, agitazione,
tristezza e
crisi di pianto.
Come
l’altro giorno in cui, per nascondersi alla vista dei suoi
dipendenti, era rimasto più di mezz’ora sotto la
macchina che stava
revisionando a singhiozzare silenziosamente.
Era stremato.
E il
lampo di delusione negli occhi Charles lo ferì –se
fosse
stato possibile- ancor di più.
Sapeva
anche che sarebbe stato inutile scusarsi in quel momento
perché il corpo dell’amico, sfregandosi
nervosamente le mani, era già proteso
ad andarsene.
Si
ripromise che più tardi l’avrebbe chiamato.
«Beh,
ci sentiamo Cliff» sospirò con un’alzata
di spalle «Ti sta
bene questo nuovo look barbone trasandato,
inclusa la barba» scherzò sorridendo mesto,
mentre si allontanava.
Il barbone trasandato
non rispose, ma si toccò perplesso la barba.
Montmartre,
il Museo D'Orsay, il Louvre, la Tour Eiffel, Notre Dame e La Sainte
Chapelle.
Erano
richieste ragionevoli, se ne rendeva conto.
L’arzilla
signora Morgan gli aveva consegnato, prima della fine
della seduta di gruppo, un bigliettino dove aveva velocemente appuntato
ciò che
avrebbe dovuto assolutamente vedere.
Il suo
sguardo speranzoso l’aveva destabilizzato, tanto che le sue
lacrime –al massimo dell’attività in
quel periodo- avevano minacciato una parata
in grande stile.
Così
l’aveva preso, ma era certo che non avrebbe visitato niente
di niente.
Era
troppo tempo che suoi nervi erano tesi e attorcigliati: non
una lacrima per il padre, per i film horror che era costretto a vedere
da
bambino, per la frattura al braccio, per il rogo della sua intera superspeciale collezione di figurine. Ma
oramai bastava un viso gentile, una parola o il miagolio di un gatto
per
sentire un tremolio alle labbra e un punzecchio agli occhi.
Era
diventato una donnetta.
E poi la
notte. Dio.
Prima che Morfeo gli permettesse di scivolare nel sonno, era condannato
a dover
rivivere tutta l’agonia.
Aprire la
porta della banca.
Sulla
soglia aveva pensato ciò che tutti pensarono dando un primo
sguardo intorno: non uscirò mai
più da qui.
No, non c’era stato alcun sentore della tragedia ma
solo dell’enorme mole
di tempo che avrebbero perso dal momento che, su dodici, solo cinque
sportelli erano
attivi.
Lui si
sedette –erano rimasti tre posti liberi su ottanta-
infastidito, mentre la guardia vicino all’ ingresso
continuava ad osservarlo
con un misto di sospetto –per la sua tuta sporca da
meccanico- e tracotanza.
Esultare
per l’arrivo del turno.
Era
stanco e non vedeva l’ora di andarsene da lì per
raggiungere
Charlie al Super Taste.
L’impiegato
era lento e annoiato e ciò non faceva altro che aumentare la
frustrazione che
quell’unico intrattenimento mensile alla banca gli procurava.
Sentire le
urla.
Le prime
erano state femminili ma, focalizzando, anche gli uomini
non si contennero più di tanto. Ne ricordava particolarmente
una, uno stridio
lungo e terrorizzato.
Poi il buio.
Ovvero,
la sua mente obliò tutte le immagini e i ricordi che
percorrevano gli eventi dallo sportello al caveau dove era stato legato
come un
salame.
Dalle
sedute e dai racconti dei suoi sfortunati compagni si era
evinto che tutti e cinque erano allo sportello al momento del primo
sparo e
delle prime grida,
e che tutti e cinque
erano stati trascinati fino al deposito.
Volontari.
Questa
era la prima cosa che non gli tornava: aveva contato,
compreso il signor Lowener, dieci rapinatori.
Nove
aiutanti che, durante la negoziazione, si scoprirono essere volontari. Nel senso che altre persone
–delle quali due erano anche degli sconosciuti- si erano
immolati per la causa.
Una causa che avrebbe potuto spedirli in galera per un bel
po’ di anni. Ma il
caro signor Lowener -Carl Lowener, per amor di precisione- aveva
negoziato, rilasciando
buona parte degli impiegati e degli ostaggi, per assicurarsi la loro
immunità.
I vari
reportage sul caso, che avevano dominato a tutte le ore la
tv, fecero varie supposizioni su come la banda
criminale si fosse messa insieme: gruppi su facebook,
inserzioni criptate, società massoniche.
La
verità, per quanto relativa fosse potuta essere, era che
c’erano degli esseri umani che, anche se in modo stravagante
e pericoloso,
avevano ancora nei cromosomi il concetto di solidarietà.
Semplicemente
avevano voluto aiutare quel poveraccio.
Cliff era
un appassionato di film thriller e possedeva nel suo
monolocale una videoteca
pressoché
infinita –per quanto l’estensione
dell’abitazione permettesse l’uso
dell’aggettivo infinito-
che
spolverava lui stesso. Aveva visto innumerevoli volte John
Q. e non aveva avuto problemi, mentre il nastro adesivo gli
segava e irritava la pelle, a fare un parallelismo cinematografico.
John era un
uomo che viveva una vita modestissima, anzi povera, con moglie e
figlio. Quando
si scoprì che il bambino era affetto da una pericolosa
malattia cardiaca, che
presto gli sarebbe costata la vita se non si fosse intervenuti con un
trapianto, John Q iniziò a provarle tutte, subendo
delusioni, inganni e
arbitrii nei vari ospedali. Così, rendendosi conto che il
figlio sarebbe morto
senza che lui potesse farci niente, decise di agire con violenza
prendendo in
ostaggio alcune persone di un ospedale, compreso il chirurgo.
Denzel
Washington/John Q non era altro che Carl Lowener.
Carl ne
aveva quattro di figli ed una moglie. Entrambi disoccupati
–lui licenziato da vari mesi- avevano provato a farsi
assumere da qualche
parte, qualsiasi parte, e in ultimo
chiedere aiuto alla banca. Ma era stato inutile: il pignoramento della
casa,
per il mutuo non estinto, era inevitabile.
Ciò
che Cliff ricordava più lucidamente di quelle ore era la
camminata nervosa e rettilinea –avanti e indietro- per il
caveau, con la
pistola che ondeggiava nella sua mano destra, e
i deliri sconnessi dell’uomo: dove
andremo a vivere, a dormire, se non abbiamo neanche una macchina?
Con quattro figli poi! August, Andrew, Adrian e la
mia piccola principessina Aretha. August
non ha neanche sette anni. August perché lo concepimmo una
notte di agosto dal
cielo stellato… Oh! Come possono essere vividi i ricordi: ci
sdraiammo sul
giardino del retro della casa di suo padre e avevamo così
tanta energia, così
tanta voglia… di correre a piedi nudi lungo la strada, di
cambiare il mondo, di
amare il mondo. Avevamo raccolto
coperte e cuscini, anche se il nostro solo calore sarebbe bastato, e
giacevamo
là fuori sotto la pioggerellina estiva che bagnava la nostra
pelle nuda. Quando
iniziò il temporale ritornammo nel letto della sua camera ed
io rubai questo
piccolo scatto per renderci infiniti. Così
stropicciava teneramente
quell’istantanea che si macchiò del suo stesso
sangue quando si accorse
dell’incursione degli agenti di polizia.
Bam.
Era stato
improvviso,
così come tutto ciò che era avvenuto quel giorno.
Improvvisamente lui
sbarrò gli occhi, come colto da una verità
straziante, e utilizzò la pistola
contro di sé.
Dopo
quell’ultima scena Morfeo, avendo forse pietà di
lui e del
suo povero animo, gli concedeva una breve e scomoda dormita.
Non
usciva dalla sua camera d’albergo da quattro giorni: la
maggior parte del tempo l’aveva impiegato sdraiato sul letto,
con le lenzuola
fin sopra la testa o intrecciate al corpo, muovendosi poco, quasi
niente.
Beh,
certo, tranne che per andare in bagno e spiluccare quale
minuzzaglia dal grosso zaino che si era portato. Dunque merendine,
barrette e
succhi di frutta.
Toc-toc.
«Servizio
in camera!» annunciò una voce femminile.
No, non di
nuovo! Pensò
Cliff esasperato per poi schiarirsi la voce ed esibirsi nelle
sue tradizionali (ed anche appartenenti ai bei tempi andati) esposizioni baritonali.
«Vada via!» ruggì.
Per ben
quattro volte era andato a segno e la cameriera aveva
girato i tacchi. Ma, a quanto pareva, per quel giorno era destinato a
non avere
fortuna.
«Apra
o butto giù la porta!» minacciò la
donna.
Dopo
tanto tempo, un sorriso fece capolino tra le sue labbra. Non
gli sarebbe dispiaciuto restare sdraiato ed aspettare la sua prossima
mossa, ad
esempio il come avrebbe avuto
intenzione di buttare giù la porta, ma
l’insofferenza ebbe la meglio e decise
di aprirla rendendole la vita più facile.
«Era
ora» esordì, squadrandolo brevemente –ma
in modo sprezzante-
dalla testa ai piedi «E’ una delle nostre migliori
suite, non dovrebbe
alloggiarci come un barbone» commentò, avanzando
con il carrello delle vivande.
Lui
pensò che forse Charles si era sbagliato: non gli stava
propriamente bene il look barbone
trasandato. Sorrise, di nuovo, assicurando a se stesso che
non gliene
fregava un cazzo.
Ah! Si
fece
sfuggire anche un sospiro pago: aveva detto una parolaccia. Quanti mesi
era che
non accadeva? Certo, l’aveva fatto nella sua mente e cazzo non era decisamente una delle
più sboccate, ma si ritenne
ampiamente soddisfatto.
«Rida
pure signor…».
«Cliff» aveva sempre odiato
gli inutili formalismi: quella ragazza avrebbe potuto benissimo avere
la sua
età, se non essere addirittura più giovane,
perciò non aveva alcun senso farsi
dare del lei. Lo faceva sentire più vecchio di quanto
già si sentisse in quel
periodo.
«Bene,
rida pure signor Cliff, lieta di esserle stata
d’intrattenimento»
evidentemente lei non era della stessa idea e voleva continuare a
mantenere le
distanze «Arrivederci, si goda il soggiorno»
augurò con tono sarcastico,
dimostrando di essere abbastanza sveglia da capire che
quell’uomo non l’avrebbe
mai fatto. Scosse la testa, come delusa, e indietreggiò
guidando il carrello
verso l’uscita.
«Aspetta!»
esclamò d’impulso l’altro, pentendosene
subito dopo:
avrebbe dovuto, alla svelta, inventarsi un motivo per quella sua scena
da film
romantico. Era diventato una ragazzina,
certe realtà non si potevano ignorare «Ehm, si sta
riportando il cibo?».
E bravo lo
stupido. Come certe
realtà non si potevano ignorare, alcune non sarebbero
mai cambiate: le figure di merda facevano parte del suo corredo
genetico. Ah! Altro sospiro
soddisfatto: non magre figure, ma
di merda. Allora stava davvero
migliorando.
«Io…»
fece per scusarsi, abbassando difatti la testa, ma poi, di
scatto, la rialzò come se si fosse convita, durante quei
pochi attimi, di non
aver nulla di cui scusarsi «Il carrello è vuoto,
era un pretesto per
conoscerla, dato che da giorni le mie college non riuscivano ad
entrare» la
confessione sarebbe potuta pur essere una pompata per il suo floscio
ego ma lei
continuava a guardarlo delusa e, ci avrebbe scommesso due noodles caldi, infastidita. Infastidita!
Come se disponesse del diritto per esserlo! Lui lo era, lui solo. Ma
intanto,
non era in grado di mostrare il suo ormai consueto lato beffardo ed, al
contempo, afflitto.
«Che
ti aspettavi?» chiese curioso mentre, incurante del suo
pigiama grigio incollato alla pelle da giorni, si ridistendeva sul
letto
incrociando le braccia dietro la nuca. Lei guardò seccata
l’orologio poi, evidentemente,
pensò di avere tempo per una veloce delucidazione.
«Mi
aspettavo un’artista» confessò
appassionata «Non eri un
violinista, perché nessuno aveva sentito le tue prove, ma
saresti potuto essere
un pittore, uno scrittore, persino un attore»
azzardò «Ti
ha tradito il servizio in camera:
insomma, anche i migliori artisti hanno bisogno di almeno uno spuntino,
soprattutto quelli che non escono dalla propria suite da
giorni». Era passata al tu! Questo
lo rinfrancò.
«Chi
ti dice che non lo sia?» tentò con voce misteriosa
ma lei, in
risposta, lo guardò con i suoi grandi e scintillanti occhi
color cioccolato, così
belli che il suo entusiasmo si smorzò e si decise a non
insistere nella pantomima
e a lasciarla concludere.
«Sei
un idiota al quale qualcuno avrà pagato il
viaggio» sbottò
velenosa infischiandosene dei limiti «Perché
nessuno, e ripeto nessuno, neanche
uno tra i più impegnati manager,
alloggia a Parigi e non mette fuori il naso nemmeno per respirare la
sua aria incantata»
accusò arrabbiata «Sei un
idiota perché incantata
è un
aggettivo che si usa solo per le fiabe e questa città lo
è, è una fiaba: ti
possiede in modo dolce e fa sì che tu rimanga affascinato
dai suoi colori,
dalle sue musiche, dai suoi profumi» in quel momento si
accorse di essersi così
lasciata andare da fermarsi di botto. Si sistemò i capelli,
raccolti in un
severo chignon, e riprese –per finirlo definitivamente- il
filo del discorso,
questa volta in una maniera parecchio più pacata che ebbe,
se possibile, molto
più effetto.
«E’
un idiota, e non può convincermi diversamente»
tornò rigorosa
al lei «perché è proprio da idioti
snobbare una città del genere, una città che
si vuol visitare anche con la febbre a quaranta» fece un
respiro e trascinò il
carrello fuori prima di una qualsivoglia reazione, prima addirittura
che lui
riuscisse a pensare ad una
qualsivoglia reazione.
Rimasto
con le braccia incrociate dietro la nuca, i gomiti iniziavano
a dolergli ma se ne infischiò: era scioccato e senza parole,
tanto da non
essere capace di pensare a ciò che gli era stato detto.
Pensava più al come:
nessuno gli aveva parlato così da
quando… insomma… da quando…
«Da quando mi sono ucciso»
rispose una voce per lui.
Cliff
girò la testa di scatto per ritrovarsi, disteso accanto, il
corpo di Carl Lowener con tanto di pistola e pallottole che
squarciavano dei
suoi brandelli di carne. Fu in quella situazione che si rese davvero
conto di
cosa significasse rimanere senza parole: prima era solo confuso e forse
stava
manifestando un segno di qualche suo ritardo mentale, adesso aveva la
gola dolorosamente
serrata e le lacrime agli occhi.
«Ho capito, parlo io»
s’impegnò il fantasma o qualunque cosa fosse
«Intanto non sono un fantasma ma
un’allucinazione causata sia dalla tua
scarsa alimentazione che dalla tua forma di depressione che ti
dà la sensazione
che il defunto, ovvero io, sia in qualche modo ancora presente»
sospirò sereno
«Ho intenzione di dirti che sei un
idiota, non di spiegarti alcun perché»
chiarì inflessibile, riferendosi al proprio
suicidio «D’altronde sono frutto della tua
immaginazione e tu, il
perché, non lo sai. Piuttosto: smettila di continuare a
fissare le mie ferite,
non distrarti. Sì, sono vestito proprio come quel
giorno… con il vecchio
completo di sartoria sgualcito. Ora basta! Concentrati! Sei
un’idiota perché
avresti dovuto fermarla, anche con un “aspetta” da
ragazzina. Che ne
pensi di offrirle una cena? Sì, questa
sera. Dai, lo so che ami mangiare e che, anche se possiedi
un’imbastitura rozza
–chi avrebbe potuto, se non tu, scrivere nel bigliettino
“mangiare, sotto le
coperte, ciambelle per una settimana intera”?- ci sono buone
possibilità che il
cibo parigino ti conquisti» spronò
«Che
aspetti?».
Si
svegliò di soprassalto e annaspò.
Annaspò come se fosse stato
per un’infinità di minuti sott’acqua e
ora, finalmente fuori, prendesse il
primo vero respiro. Era solo un incubo,
si disse, ma non poteva fare a meno di pensare a quei fori di
proiettile.
Ora basta!
Concentrati!
Il
ricordo lo fece sussultare. Era normale che rammentasse tutto
in modo così vivido? Le immagini degli incubi dopo pochi
minuti non si sarebbero
dovute annebbiare? Fece mente locale su ciò che era accaduto
prima che si assopisse
in modo così inaspettato.
Beh, era
appoggiato sui bicipiti, che gli facevano un male cane, e
stava ripensando all’ultima volta che aveva avuto una
conversazione così
sincera. E si era addormentato, bam,
senza Morfeo che facesse i capricci, senza il consueto tour degli
orrori, senza
difficoltà.
Sospirò
e decise di stiracchiarsi. Uhm, ora
sì che andava meglio.
Prese
dalla valigia il beauty case che, per uno strano e fortuito
caso, aveva gettato tra la roba da portare e ci rovistò
dento. Ottimo! Schiuma da barba e
lametta
rispondevano all’appello. Non aveva intenzione di radersi del
tutto, in fondo
gli piaceva davvero quel suo nuovo look, ma voleva comunque darsi una
sistemata. Diede un’altra occhiata all’interno del
bagaglio e, sempre per
fatalità, ci trovò con sommo stupore uno smoking.
Oh, anche il papillon. No, non era
fatalità: si chiamava culo.
Non fu
cosciente per cosa o per chi si
stesse agghindando fino a quando non si ritrovò
nell’atrio
dell’albergo. Atrio che, al suo arrivo, aveva praticamente
attraversato bendato
e ignaro della sua magnificenza: aveva un soffitto trasparente a volta
e
un’abbondanza di poltrone all’apparenza comode e
costose che avrebbe fatto invidia
ad una stazione. Tutto in tinta, oro e bordò, gli si
palesava accuditissimo.
Anche il tipico campanello da reception, grazie al quale aveva attirato
l’attenzione dell’ impiegata, era in pendant.
«Prego:
come posso esserle utile?» una biondina, con lo stesso
chignon e, più o meno, età della cameriera gli
fece un largo sorriso.
«Ehm»
s’imbarazzò, com’era solito fare in
quelle assurde
situazioni, ma poi sorrise anch’egli, esibendosi nei suoi
venti secondi
vitalizi di coraggio «Oggi è entrata nella stanza
una signorina, mora, occhi
grandi e castani, parlantina sferzante e ironia da vendere.
C’è qualcuno, tra i
dipendenti, che corrisponde a questa descrizione della quale mi
potrebbe dare
il numero?».
Respiro.
Okay,
iperventilazione scongiurata.
Il
secondo sorriso che la receptionist gli rivolse lo fece ben
sperare e si rilassò.
«Non
proprio, ma c’è una ragazza che, uhm come dire,
stacca ora»
guardò l’orario «La può
attendere dietro quella porta» gliela indicò con
il
dito con l’unghia fresca di manicure.
Lui, come
sempre, rimase così intontito da dimenticare di
ringraziarla anche se era stato frainteso alla grande: non era uno di
quegli
stupidi che faceva descrizioni di ragazze da portarsi a letto
rivolgendosi ad
un magnaccia. Era un altro tipo di stupido, del tipo che rimaneva
impalato,
come un bambino di fronte all’entrata dello stadio il giorno
del derby, nel
ritrovarsi faccia a faccia con quegli occhi grandi. E belli.
«Che
ci fa lei qui?» inarcò un sopracciglio sospettosa.
Poi lo
squadrò, proprio come aveva fatto qualche ora prima, solo
con un risultato
diverso… quasi ammirato.
Altri
venti secondi bonus di coraggio.
«Sa…
sai» si corresse. Oh, per favore! Non fare la figura
dell’idiota
imbranato «Quando sei salita e mi hai… redarguito»
ecco a cosa serviva leggere qualche quotidiano «in quel
modo… beh, ho
riflettuto molto ed hai ragione. No, non hai solo ragione. Devo
confessarti di
aver vissuto una brutta… esperienza… e che tu mi
hai aperto gli occhi. Voglio
dire: si deve tornare a vivere, no? E sarebbe un peccato non iniziare a
farlo
proprio qui a Parigi. Con te».
Dio mio!
Aveva il
respiro affannato e le ascelle completamente fradicie, tanto che ebbe
l’impulso
di idolatrare la marca di deodorante che gli stava permettendo di non
allontanarsi per il fetore. Neanche le avesse dichiarato il suo amore o
proposto
di matrimonio. No, aveva fatto di più.
«Qualcuno
ti ha detto qualcosa?» chiese diffidente e per nulla
turbata dalla confessione.
«Eh?
Chi? No!» Un idiota, un
idiota.
Un idiota
che si sentì l’uomo più potente quando
lei gli mostrò,
per la prima volta, il suo sorriso. Era bello, proprio come i suoi
occhi, e
così lo erano i suoi denti bianchi e dell’esatta
misura per essere scoperti
dalle sue labbra, e le graziose fossette sotto gli zigomi
temporaneamente
visibili.
«Anch’io
ti devo confessare una cosa…» oh,
ma allora non era immune all’ imbarazzo! «Sono la proprietaria dell’albergo»
disse velocissima.
«Come
scusa?».
Lei
sbuffò frustrata «Sono la proprietaria
dell’albergo» ripeté
scandendo le parole con rassegnazione.
«Ah» commentò da
ebete,
evidentemente affezionato alla sua famigerata idiozia.
«Ah?»
«Ok?
Dico, va bene, no?» era confuso. Cosa avrebbe voluto dicesse?
«Sei
sorpreso?».
«Un
po’» ammise «Perché ti sei
vestita da cameriera?».
«E’
una lunga storia…» divagò «Mi
dispiace per come ti ho trattato»
si scusò sincera, premurandosi di accompagnare tutto con uno
dei suoi sorrisi.
Più timido, il secondo.
«Hai
avuto una bella faccia tosta!» commentò scoppiando
a ridere
Cliff, ricordando la scena.
«Perché
ho utilizzato i miei venti secondi vitalizzi di coraggio»
spiegò con un alzata di spalle «Comunque
sono Liz» gli porse la mano e sfoggiò il suo terzo
sorriso.
Sessanta
secondi di coraggio avrebbero fruttato trecento euro al
proprietario del bistrot all’angolo, il nomignolo
“cupido” a Gin, la
receptionist di turno quel giorno, altri quattro, no cinque.. beh,
altri innumerevoli sorrisi a Liz ed
il primo
di tanti sonni ristoratori a Cliff.
Per
scoprire il valore di un minuto non c’era bisogno di perdere
il treno, il bus o l’aereo: bastava utilizzare i suoi
sessanta secondi con
coraggio.
»Ecco
la fine di un altro capitolo.
Intanto
mi scuso tantissimo per il ritardo e colgo anche qui
l’occasione di ringraziare particolarmente Sem per il suo
supporto! ♥ Poi, come avete potuto intuire ogni
capitolo parlerà di un
personaggio in terapia e andiamo in ordine decrescente: accettazione,
depressione, patteggiamento, rabbia e negazione. Dunque a rigor di
logica
mancano tre capitoli e altri tre personaggi da conoscere.
Un bacio,
Eliana.
P.S. siete tutti dolcissimi :’)