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Autore: Elizabeth_Tempest    04/11/2012    4 recensioni
Nella Danimarca settecentesca, il destino di una testarda contessa e di un misterioso giovane venuto da lontano s'intrecceranno.
"Friederieke guardava fuori dalla finestra, annoiata, rigirandosi pigramente il lavoro tra le mani; il cucito non l’aveva mai entusiasmata, lo aveva sempre trovato noioso dato che non ne trovava una vera utilità pratica –del resto i suoi abiti arrivavano sempre da qualche sartoria della capitale, dove suo padre spendeva un vero e proprio patrimonio per farle avere sempre i modelli più in voga alla corte francese.
Si concentrò sul ricamo, tentando di ricordare cosa fosse di preciso… forse un usignolo? si chiese, lanciando un’occhiata perplessa ai fili azzurri.
Non le sovvenne nulla ed alzò lo sguardo, sperando di poter sbirciare il lavoro della signorina Bernstein che invece pareva tutta presa dalla sua opera e la teneva in modo tale che la fanciulla non potesse vedere cosa stesse ricamando." [dal primo capitolo]
La storia è ambientata prima degli eventi di The Lost Canvas, ed è collegato ad uno dei gaiden.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo Personaggio, Pisces Albafica
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo IX

 

Il silenzio tra Iedike e il giovane straniero venne interrotto dal rumore di passi, tre suoni distinti e caratteristici: uno era il rumore prodotto da stivali da uomo, l’altro passi leggeri e frettolosi di una donna ed il terzo… il terzo suono era qualcosa a metà tra il passo di una donna ed un fruscio leggero.

Tutti i presenti si voltarono verso il corridoio che, dall’entrata del palazzo, conduceva fino alla sala da pranzo, passando per una galleria in cui facevano bella mostra di sé i ritratti degli avi del conte Frydendahl; in capo a pochi istanti, la figura del giovane Ludvig e quella di Edda comparvero, seguiti da un uomo alto e magro.

-Scusate il ritardo, amici miei, ma purtroppo ha iniziato a piovere e c’era un tale fango per strada…- si scusò l’uomo, ridendo e scrollando il capo, come a voler dire che ne aveva viste delle belle. –Il povero Ulrik non riusciva più a liberare la ruota! Ah, padre Hans, non è forse vero che pareva ci fosse un fossato nel mezzo della strada?- chiese, interpellando il suo compagno di disavventura.

Padre Hans, che superava in altezza Ludvig di mezza spanna, ma di contro era esile come un giunco, dal viso lungo e serio, con occhi di un verde scuro, pensosi e attenti e con capelli biondi e sottili, liscissimo ma parecchio folti, annuì.

Le labbra sottili e pallide si contrassero in un sorriso di circostanza –chi mai, dopotutto, poteva trovare la ruota della carrozza impantanata nel fango divertente? si chiese Albafica- e, con una voce straordinariamente suadente, rispose al conte.

-Certamente, conte Frydendahl, un vero fossato. Ah, contessa! Vedervi è sempre un balsamo per gli occhi!- esclamò l’uomo, con un mezzo inchino rivolto alla giovane nobildonna, che invece gli riservò uno sguardo gelido ed un sorriso falso.

-Padre Hans. Aspettavo con ansia la domenica, per udire uno dei vostri così eccezionali sermoni, ma a quanto vedo Dio ha deciso di accontentarmi quanto prima.- disse Iedike.

Ludvig le rivolse di nascosto uno sguardo freddo, di rimprovero, ma Albafica riuscì ad intercettarlo: non capiva l’odio mal celato della sua ospite per il pastore, dall’aspetto innocuo e dai modi gentili.

Rimase in silenzio, rimuginando.

 

Maria Eckersberg, intuito che l’atmosfera a breve sarebbe diventata simile a quella del mare in tempesta, intervenne e, con un sorriso cortese, rese i suoi saluti al pastore.

Padre Hans, doveva ammetterlo, non le andava a genio: in una delle sue precedenti visite l’aveva trovato viscido e, per qualche ragione che mai seppe spiegarsi, inquietante.

Forse erano quegli occhi estremamente profondi ed intelligenti, che parevano nascondere una scaltrezza insolita, o forse era lo sguardo che gli aveva visto rivolgere a sua nipote quando questa non guardava: uno sguardo pieno di ombre.

Qualcosa, nella sua testa, le aveva detto che l’odio di Iedike era motivato, ma nessuno pareva accorgersi di quanto quell’uomo paresse lontano da Dio: tutti erano così incantati dal pastore, lo osannavano quasi… ma non era forse vero che bisognava guardarsi dai falsi idoli? Il Signore non aveva forse dettato a Mosé “Non avrai nessun altro Dio al di fuori di me”? Parevano esserselo dimenticati tutti quanti, in quella casa.

Padre Hans rispose con cortesia ai suoi saluti, dedicandosi poi a Christina e Sophia, che, con mille moine, gli porsero i loro più affettuosi saluti, affermando che di certo era il migliore pastore di tutta Danimarca, anzi, ma che dicevano, di tutto il mondo intero! e che era di certo un gran peccato non poterlo avere a Copenaghen.

-Caro, caro padre Hans, credetemi, se certe signorine della capitale vi avessero come guida, sarebbe di certo un bene per tutti!- squittì Sophia, ridendo. –Non potete nemmeno immaginare quanto certe nostre conoscenze possano vivere nel peccato… un’indecenza! Oh, ma che maleducati che siamo stati! Ludvig, mio caro cugino, non abbiamo presentato il nostro ospite!- esclamò poi la ragazza, portando una delle manine curate a coprirsi la bocca. –Che terribile mancanza! Non vi sarete offeso, vero signor Van Dijk?

-No, non angustiatevi, baronessa Eckersberg.- rispose il giovane olandese, tentando di essere il più possibile cortese.

-Be’, caro padre Hans, vi presento l’ospite dei miei cugini, monsieur Albafica Van Dijk. Monsieur Van Dijk, egli è padre Hans, il pastore di Frydenjord.- cinguettò la giovane donna.

-Amici miei, direi che non è il caso di rimanere qua alla porta, mentre nell’altra stanza ci attende un lauto pasto.- intervenne Ludvig, un po’ abbacchiato dalla sua mancanza. –Mia cara zia, permettete?- chiese, porgendo alla donna il braccio.

Maria, con un mezzo sorriso, accettò il braccetto. –Oh, ma che giovane galante! Davvero, se dieci anni fa mi avessero detto che saresti diventato così, nipote mio… eri un piccolo selvaggio!

La coppia si mise in capo agli altri, entrando nella sala; chiudevano la fila Albafica e Iedike che camminavano una accanto all’altro.

-Vostro padre non pranza con noi, contessa?- chiese il ragazzo.

Iedike fece un mezzo sorriso. –Mio padre è un uomo molto semplice, di poche pretese su qualunque cosa, sapete, ma se c’è qualcosa che ama sopra ogni altra, sono le entrate ad effetto. Entrerà di certo dopo di noi, ama avere il suo istante di visibilità… be’, dopotutto, ognuno di noi ha una stranezza alla quale mai rinuncerebbe, no?- chiese la giovane, guardandolo negli occhi, per distoglierli subito dopo, posandoli sulla sala da pranzo.

Era stata apparecchiata una tavola più piccola di quelle usate normalmente –che i servitori avevano provveduto a portar via-, il conte Frydendahl odiava, infatti, che i propri ospiti, soprattutto quando in numero tanto esiguo, sedessero lontani: come si poteva avere, in quel caso, una conversazione eccitante che, secondo l’anziano aristocratico, aumentava l’appetito e rendeva il desinare più piacevole?

Sulla ricca tovaglia di tela di Fiandre erano stati disposti i coperti di delicata porcellana di Limoges, di argento inglese e di cristallo di Boemia e fiori delicati e dai colori tenui decoravano la tavola. La sala, di notevole diametro, aveva muri di pietra scura coperti da arazzi antichi e il grande camino era stato collocato sul lato opposto a quello della pesante porta, tra due finestre di squisito gusto gotico.

Sopra al camino, con sdegno della signorina Bernstein, che ogni volta non poteva trattenere uno sguardo truce, era appesa la testa impagliata di un cervo –ad onor del vero, nessuno sapeva perfettamente quanti secoli prima fosse stata lì collocata-, che fissava severo i commensali.

Sul pavimento erano stati messi molti tappeti e agli angoli vi erano delle antiche cassapanche di legno scuro; il lampadario, piuttosto moderno, di cristallo, che stonava con l’alone di sobria e selvaggia antichità del luogo, pendeva dal soffitto di pietra e le candele erano già state tutte accese nonostante l’ora, ma, del resto, Frydenjord era assediata dal grigiore e la poca luce che filtrava tra le nubi minacciose non sarebbe bastata per rischiarare tutta la stanza.

Il valletto le scostò la sedia, permettendole di accomodarsi, proprio accanto a Sophia, con sommo scorno di entrambe le fanciulle, e davanti al suo giovane ospite. Il piccolo Karim, invece, seguì Edda, verso le cucine, dove avrebbe mangiato.

Appena tutti si furono accomodati, da una porticina sulla parete sinistra, fece la sua comparsa un valletto –un ometto basso e secco- vestito di tutto punto e, subito dietro di lui, il conte Frydendahl.

 

Ludvig August Markus Frydendahl era noto in tutta la regione –in tutta la Danimarca, effettivamente- come un uomo di grande cultura, un topo di biblioteca un po’ pedante e dalla vocina petulante e, per questo motivo, molti se lo figuravano grassoccio e non cadevano certo in errore.

Il conte Frydendahl, uomo che della vita apprezzava soprattutto tre cose: i libri, il buon cibo ed il vino del Reno, non era mai stato amante del movimento; all’età di quarantacinque anni, aveva un ventre tondo come una mela, un collo tozzo e grassoccio e un viso rubicondo, dai tratti piuttosto brutti: le labbra erano sottili sottili, gli occhi infossati, di un bel color cielo, simili a quelli della figlia minore, offuscati e miopi, le guance cadenti e la pelle solcata da rughe profonde che erano comparse il giorno in cui la sua povera moglie Helene aveva partorito il terzo figlio e non se ne erano più andate. Un’espressione bonaria e divertita era dipinta sul suo viso, mentre faceva correre lo sguardo sulla tavolata.

A causa di una brutta caduta da cavallo da ragazzo, s’era fratturato entrambe le gambe e le ossa, rinsaldandosi male, avevano smesso di crescere, rendendolo basso e piuttosto sgraziato e doveva camminare con un bastone; era però fasciato da abiti di buona fattura, di certo non nuovissimi, ma di gusto semplice e dai toni sul verde scuro.

Il conte Frydendahl prese posto a tavola, facendo un cenno di capo alla figlia, che sorrise di rimando.

-Ah, buongiorno, mie cari ospiti. Maria, cara sorella, scusa se non ho potuto riceverti prima, ma i miei affari… puoi ben capire che in un periodo come questo, mi prendano molto. E caro padre Hans, avervi alla mia tavola è sempre un piacere enorme. Ho alcune questioni di cui parlare con voi, ma non credo che questa sia la sede adatta, non vorrei annoiare le mie care nipoti e mia figlia.

-Padre, non mi annoio mai a sentirvi parlare.- intervenne la contessa, sorridendo e sporgendo un po’ il viso, su cui si era dipinta la stessa espressione affettuosa che Albafica le aveva visto con Henning.

-Troppo buona, Friederieke, troppo buona con questo povero vecchio, davvero. Ma, miei cari amici, nessuno ha pensato di presentarmi il nostro ospite: sia mai che si dica che il conte Frydendahl non è un bravo ospite. Iedike, bambina cara…- disse l’ometto, accompagnando la richiesta con un gesto della mano.

-Padre, vi presento Albafica Van Dijk, un caro e vecchio amico del vecchio Jens.- disse la fanciulla e subito il guerriero si affrettò a rendere i suoi omaggi al padrone di casa.

-Oh, il vecchio Jens… mai visto uno stalliere migliore, ne sapeva una più del diavolo, quell’uomo. E ditemi, come sta? È molto che non lo vedo… purtroppo lascio la mia casa molto raramente.- sospirò il conte Frydendahl.

-Sta molto bene, signor Conte.- rispose il giovane, proprio mentre le serve iniziavano a servire il pranzo: nulla di eccessivamente raffinato, le portate erano semplici e poco elaborate, prevalentemente pesce ed ortaggi, ma fu servita anche un ottimo stufato di carne.

Albafica non si perse un attimo delle conversazioni dei suoi commensali, curioso di completare il mosaico: le persone chiave di quella storia erano tutte lì, accanto a lui e doveva approfittarne.

Sophia prese la parola per prima, mettendo subito tutti al corrente dei nuovi pettegolezzi che giravano per i salotti della capitale e ogni sua parola era accompagnata dalla conferma di Christina e dai commenti emozionati della signorina Bernstein che, per tutto il tempo precedente al pranzo, non aveva detto una parola e ora pareva essersi risvegliata dal suo torpore, gli occhi pieni di estasi per quei succulenti bocconi di vita mondana.

Contemporaneamente Ludvig prese a parlare di una qualche battuta di caccia, in cui una volpe particolarmente scaltra aveva messo nel sacco i segugi di un suo amico, mentre sua zia e, di tanto in tanto, Christina, ascoltavano. La giovane baronessa sembrava rapita dalle parole del cugino e ben presto smise di prestare ascolto alla sorella minore, dedicandosi completamente al racconto del giovane conte, con sommo scontento di Sophia che, privata di parte del suo pubblico, per poco non mise il broncio.

Padre Hans e l’anziano conte Frydendahl parlavano di questioni filosofiche e scientifiche: il conte stava osannando uno dei lavori di Voltaire, mentre il predicatore, con frasi gentili, cercava di convincerlo che Newton e Voltaire fossero in combutta col Diavolo.

Solo Iedike e Albafica tacevano: il giovane ascoltava le conversazioni altrui, la fanciulla studiava discretamente lo strano ragazzo.

 

Albafica Van Dijk era di certo un bel ragazzo, Iedike non poteva certo ribattere un fatto tanto ovvio e spiazzante: il viso aveva tratti armoniosi, da angelo –poteva mai esistere un uomo tanto simile alle statue delle divinità pagane?-, perfettamente cesellati, gli occhi erano profondi, contornati da ciglia lunghe, da donna, di un colore così poco comune e pieni di ombre irrequiete e la sua chioma, altrettanto insolita, pareva fatta da fili di seta; non aveva il fisico pigro dei nobili, anzi, sotto gli abiti si indovinava un corpo robusto e possente, seppur snello, come abituato alla fatica e allo sforzo, eppure le mani erano curate e apparentemente lisce e la pelle era candida, segno che non aveva mai lavorato in vita sua.

No, decisamente era molto più che bello e tutte quelle contraddizioni la intrigavano e stuzzicavano la sua innata curiosità, che spesso le era valsa una quantità notevole di problemi.

Anche il modo in cui l’ospite olandese si esprimeva lasciava intendere una buona educazione: certo, forse non aveva avuto il migliore dei precettori, ma era istruito e doveva aver viaggiato molto, in vita sua. Ed era dotato di grande pazienza, poco ma sicuro: qualsiasi altra persona intelligente sarebbe fuggito da Sophia o l’avrebbe strangolata, ma il poveretto, vittima delle mire della sua così mal sofferta cugina, era riuscito a mantenersi calmo ed impeccabilmente cortese.

Come avesse fatto era un mistero.

Be’, si era detta Iedike, concentrandosi sullo stufato di lepre, magari viaggiando molto era abituato ad oche come e peggio di sua cugina.

Ma ciò che più la incuriosiva e la rendeva simile ad un bambino davanti ad un dolce particolarmente succulento era il suo sguardo: pareva quasi che lo straniero avesse qualcosa da nascondere e, al contempo, stesse cercando qualcosa.

Ma cosa? Perché quegli occhi pervinca scrutavano tanto attentamente il mondo? Soprattutto, perché la osservavano con insistenza? Possibile che cercasse qualcosa da lei?

No, si disse la giovane, probabilmente era lei a lasciar cavalcare l’immaginazione a briglia sciolta, perché, carattere a parte, la sua persona non nascondeva nulla di così curioso o misterioso. O forse, le suggeriva una voce fastidiosa e piena di inspiegabile eccitazione, quell’uomo tanto bello e misterioso voleva davvero qualcosa da lei.

Scacciò quel pensiero con una smorfia infastidita, irritata da quelle fantasticherie da fanciulla svenevole.

 

Albafica notò che la contessa Frydendahl era immersa nei suoi pensieri e che, ad un certo punto, aveva assunto un’espressione estremamente scocciata, come se i suoi ragionamenti fossero giunti ad un punto morto o ad una soluzione che non le piaceva per niente.

Chissà a cosa stava pensando… che avesse capito qualcosa di troppo su di lui? si chiese il giovane. Un rischio da non correre e di certo non così impossibile: ormai si era accorto che la giovane nobildonna era di mente acuta e piuttosto curiosa e che pareva essersi particolarmente presa a cuore smascherare le sue intenzioni. Non doveva assolutamente succedere: se Friederieke Frydendahl fosse stata sua nemica, avrebbe rischiato di certo il fallimento della missione, la sua vita e la vita degli abitanti di Frydenjord e del castello, se invece era una creatura innocente, la povera ragazza avrebbe rischiato la vita.

Quando il suo sguardo incontrò quello azzurro della giovane, lo distolse, osservando il resto dei commensali.

Sophia e Christina erano due ragazze scioccarelle e vuote, nulla poteva collegarle alla stella o al grigiore che regnava su quelle terre, erano solo ospiti e nessuno avrebbe mai potuto fingersi tanto sciocco.

Sophia, però, aveva dalla sua una certa arguzia, che la portava a moti di intelligenti piuttosto sorprendenti, anche se sempre subordinati ai suoi desideri e capricci. Christina pareva essere più tranquilla della sorella e forse anche più intelligente, ma debole di spirito: il suo carattere piuttosto malleabile si era sottomesso a quello dispotico della sorella minore, che imitava ed invidiava.

Un comportamento illogico, forse; ma, ragionò il ragazzo, se Sophia aveva davvero tanto successo nell’alta società –o almeno, era ciò che traspariva dalle sue parole, probabilmente esagerate dalla sua superbia, l’arte della dialettica di certo non le difettava-, questo aveva probabilmente oppresso e, in qualche modo, angustiato la sorella, che non poteva contare su un aspetto fisico particolare e imitarla, agli occhi della giovane baronessa, doveva essere stata l’unica soluzione.

Sulla signorina Bernstein non poteva dir molto… gli era parsa una donna vanesia, amante della mondanità e molto severa con la sua protetta, ma tranquilla e docile, il contrario della baronessa Maria, simile nel carattere alla nipote, ma, a dispetto della giovane contessa, meno impetuosa, resa dura come l’acciaio dal mondo in cui era nata e astuta dall’ambiente in cui era vissuta dopo il matrimonio, fatto di sotterfugi e tranelli.

Una specie di Friederieke adulta, con molta più esperienza e decisamente più scaltra: per quanto intelligente potesse essere la contessa, una donna più adulta ed esperta del mondo avrebbe di certo saputo celare meglio i propri pensieri e, soprattutto, la propria curiosità, cosa che la contessa Frydendahl non era totalmente in grado di fare. Forse avrebbe potuto sfruttare quel piccolo difetto a suo vantaggio, per incriminarla o scagionarla del tutto.

Ludvig, invece, pareva un semplice nobilotto di campagna, donnaiolo incallito e amante della caccia, un uomo fatto per i piaceri più che per le preoccupazioni –non si sarebbe affatto sorpreso se, ad occuparsi della tenuta assieme al conte, fosse stata la signorina contessa e non il giovane- eppure il suo sguardo, sfuggente e torbido, lasciava intendere una personalità più profonda e mille segreti nascosti nell’animo.

Avrebbe continuato con quelle riflessioni, ma la voce dell’anziano conte Frydendahl lo riportò alla realtà.




Questo capitolo è stato un parto. 48 ore di travaglio. Tre gemelli. Podalici.
Ringrazio (e ringraziate) Petitecherie, senza di lei avrei pubblicato un capitolo pietoso.
Alla prossima.

   
 
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