Capitolo
IX
Il
silenzio tra Iedike e il giovane straniero venne interrotto dal rumore
di
passi, tre suoni distinti e caratteristici: uno era il rumore prodotto
da
stivali da uomo, l’altro passi leggeri e frettolosi di una
donna ed il terzo…
il terzo suono era qualcosa a metà tra il passo di una donna
ed un fruscio
leggero.
Tutti
i presenti si voltarono verso il corridoio che, dall’entrata
del palazzo,
conduceva fino alla sala da pranzo, passando per una galleria in cui
facevano
bella mostra di sé i ritratti degli avi del conte
Frydendahl; in capo a pochi
istanti, la figura del giovane Ludvig e quella di Edda comparvero,
seguiti da
un uomo alto e magro.
-Scusate
il ritardo, amici miei, ma purtroppo ha iniziato a piovere e
c’era un tale
fango per strada…- si scusò l’uomo,
ridendo e scrollando il capo, come a voler
dire che ne aveva viste delle belle. –Il povero Ulrik non
riusciva più a
liberare la ruota! Ah, padre Hans, non è forse vero che
pareva ci fosse un
fossato nel mezzo della strada?- chiese, interpellando il suo compagno
di
disavventura.
Padre
Hans, che superava in altezza Ludvig di mezza spanna, ma di contro era
esile
come un giunco, dal viso lungo e serio, con occhi di un verde scuro,
pensosi e
attenti e con capelli biondi e sottili, liscissimo ma parecchio folti,
annuì.
Le
labbra sottili e pallide si contrassero in un sorriso di circostanza
–chi mai,
dopotutto, poteva trovare la ruota della carrozza impantanata nel fango
divertente? si chiese Albafica- e, con una voce straordinariamente
suadente,
rispose al conte.
-Certamente,
conte Frydendahl, un vero fossato. Ah, contessa! Vedervi è
sempre un balsamo
per gli occhi!- esclamò l’uomo, con un mezzo
inchino rivolto alla giovane
nobildonna, che invece gli riservò uno sguardo gelido ed un
sorriso falso.
-Padre
Hans. Aspettavo con ansia la domenica, per udire uno dei vostri
così
eccezionali sermoni, ma a quanto vedo Dio ha deciso di accontentarmi
quanto
prima.- disse Iedike.
Ludvig
le rivolse di nascosto uno sguardo freddo, di rimprovero, ma Albafica
riuscì ad
intercettarlo: non capiva l’odio mal celato della sua ospite
per il pastore,
dall’aspetto innocuo e dai modi gentili.
Rimase
in silenzio, rimuginando.
Maria
Eckersberg, intuito che l’atmosfera a breve sarebbe diventata
simile a quella del
mare in tempesta, intervenne e, con un sorriso cortese, rese i suoi
saluti al
pastore.
Padre
Hans, doveva ammetterlo, non le andava a genio: in una delle sue
precedenti
visite l’aveva trovato viscido e, per qualche ragione che mai
seppe spiegarsi,
inquietante.
Forse
erano quegli occhi estremamente profondi ed intelligenti, che parevano
nascondere una scaltrezza insolita, o forse era lo sguardo che gli
aveva visto
rivolgere a sua nipote quando questa non guardava: uno sguardo pieno di
ombre.
Qualcosa,
nella sua testa, le aveva detto che l’odio di Iedike era
motivato, ma nessuno
pareva accorgersi di quanto quell’uomo paresse lontano da
Dio: tutti erano così
incantati dal pastore, lo osannavano quasi… ma non era forse
vero che bisognava
guardarsi dai falsi idoli? Il Signore non aveva forse dettato a
Mosé “Non avrai
nessun altro Dio al di fuori di me”? Parevano esserselo
dimenticati tutti
quanti, in quella casa.
Padre
Hans rispose con cortesia ai suoi saluti, dedicandosi poi a Christina e
Sophia,
che, con mille moine, gli porsero i loro più affettuosi
saluti, affermando che
di certo era il migliore pastore di tutta Danimarca, anzi, ma che
dicevano, di
tutto il mondo intero! e che era di certo un gran peccato non poterlo
avere a
Copenaghen.
-Caro,
caro padre Hans, credetemi, se certe signorine della capitale vi
avessero come
guida, sarebbe di certo un bene per tutti!- squittì Sophia,
ridendo. –Non
potete nemmeno immaginare quanto certe nostre conoscenze possano vivere
nel
peccato… un’indecenza! Oh, ma che maleducati che
siamo stati! Ludvig, mio caro
cugino, non abbiamo presentato il nostro ospite!- esclamò
poi la ragazza,
portando una delle manine curate a coprirsi la bocca. –Che
terribile mancanza!
Non vi sarete offeso, vero signor Van Dijk?
-No,
non angustiatevi, baronessa Eckersberg.- rispose il giovane olandese,
tentando
di essere il più possibile cortese.
-Be’,
caro padre Hans, vi presento l’ospite dei miei cugini,
monsieur Albafica Van
Dijk. Monsieur Van Dijk, egli è padre Hans, il pastore di
Frydenjord.-
cinguettò la giovane donna.
-Amici
miei, direi che non è il caso di rimanere qua alla porta,
mentre nell’altra
stanza ci attende un lauto pasto.- intervenne Ludvig, un po’
abbacchiato dalla
sua mancanza. –Mia cara zia, permettete?- chiese, porgendo
alla donna il
braccio.
Maria,
con un mezzo sorriso, accettò il braccetto. –Oh,
ma che giovane galante!
Davvero, se dieci anni fa mi avessero detto che saresti diventato
così, nipote
mio… eri un piccolo selvaggio!
La
coppia si mise in capo agli altri, entrando nella sala; chiudevano la
fila
Albafica e Iedike che camminavano una accanto all’altro.
-Vostro
padre non pranza con noi, contessa?- chiese il ragazzo.
Iedike
fece un mezzo sorriso. –Mio padre è un uomo molto
semplice, di poche pretese su
qualunque cosa, sapete, ma se c’è qualcosa che ama
sopra ogni altra, sono le
entrate ad effetto. Entrerà di certo dopo di noi, ama avere
il suo istante di
visibilità… be’, dopotutto, ognuno di
noi ha una stranezza alla quale mai
rinuncerebbe, no?- chiese la giovane, guardandolo negli occhi, per
distoglierli
subito dopo, posandoli sulla sala da pranzo.
Era
stata apparecchiata una tavola più piccola di quelle usate
normalmente –che i
servitori avevano provveduto a portar via-, il conte Frydendahl odiava,
infatti, che i propri ospiti, soprattutto quando in numero tanto
esiguo,
sedessero lontani: come si poteva avere, in quel caso, una
conversazione
eccitante che, secondo l’anziano aristocratico, aumentava
l’appetito e rendeva
il desinare più piacevole?
Sulla
ricca tovaglia di tela di Fiandre erano stati disposti i coperti di
delicata
porcellana di Limoges, di argento inglese e di cristallo di Boemia e
fiori
delicati e dai colori tenui decoravano la tavola. La sala, di notevole
diametro, aveva muri di pietra scura coperti da arazzi antichi e il
grande
camino era stato collocato sul lato opposto a quello della pesante
porta, tra
due finestre di squisito gusto gotico.
Sopra
al camino, con sdegno della signorina Bernstein, che ogni volta non
poteva
trattenere uno sguardo truce, era appesa la testa impagliata di un
cervo –ad
onor del vero, nessuno sapeva perfettamente quanti secoli prima fosse
stata lì
collocata-, che fissava severo i commensali.
Sul
pavimento erano stati messi molti tappeti e agli angoli vi erano delle
antiche
cassapanche di legno scuro; il lampadario, piuttosto moderno, di
cristallo, che
stonava con l’alone di sobria e selvaggia
antichità del luogo, pendeva dal
soffitto di pietra e le candele erano già state tutte accese
nonostante l’ora,
ma, del resto, Frydenjord era assediata dal grigiore e la poca luce che
filtrava tra le nubi minacciose non sarebbe bastata per rischiarare
tutta la
stanza.
Il
valletto le scostò la sedia, permettendole di accomodarsi,
proprio accanto a
Sophia, con sommo scorno di entrambe le fanciulle, e davanti al suo
giovane
ospite. Il piccolo Karim, invece, seguì Edda, verso le
cucine, dove avrebbe
mangiato.
Appena
tutti si furono accomodati, da una porticina sulla parete sinistra,
fece la sua
comparsa un valletto –un ometto basso e secco- vestito di
tutto punto e, subito
dietro di lui, il conte Frydendahl.
Ludvig
August Markus Frydendahl era noto in tutta la regione –in
tutta la Danimarca,
effettivamente- come un uomo di grande cultura, un topo di biblioteca
un po’
pedante e dalla vocina petulante e, per questo motivo, molti se lo
figuravano grassoccio
e non cadevano certo in errore.
Il
conte Frydendahl, uomo che della vita apprezzava soprattutto tre cose:
i libri,
il buon cibo ed il vino del Reno, non era mai stato amante del
movimento;
all’età di quarantacinque anni, aveva un ventre
tondo come una mela, un collo
tozzo e grassoccio e un viso rubicondo, dai tratti piuttosto brutti: le
labbra
erano sottili sottili, gli occhi infossati, di un bel color cielo,
simili a
quelli della figlia minore, offuscati e miopi, le guance cadenti e la
pelle
solcata da rughe profonde che erano comparse il giorno in cui la sua
povera
moglie Helene aveva partorito il terzo figlio e non se ne erano
più andate. Un’espressione
bonaria e divertita era dipinta sul suo viso, mentre faceva correre lo
sguardo
sulla tavolata.
A
causa di una brutta caduta da cavallo da ragazzo, s’era
fratturato entrambe le
gambe e le ossa, rinsaldandosi male, avevano smesso di crescere,
rendendolo
basso e piuttosto sgraziato e doveva camminare con un bastone; era
però
fasciato da abiti di buona fattura, di certo non nuovissimi, ma di
gusto
semplice e dai toni sul verde scuro.
Il
conte Frydendahl prese posto a tavola, facendo un cenno di capo alla
figlia,
che sorrise di rimando.
-Ah,
buongiorno, mie cari ospiti. Maria, cara sorella, scusa se non ho
potuto
riceverti prima, ma i miei affari… puoi ben capire che in un
periodo come
questo, mi prendano molto. E caro padre Hans, avervi alla mia tavola
è sempre
un piacere enorme. Ho alcune questioni di cui parlare con voi, ma non
credo che
questa sia la sede adatta, non vorrei annoiare le mie care nipoti e mia
figlia.
-Padre,
non mi annoio mai a sentirvi parlare.- intervenne la contessa,
sorridendo e
sporgendo un po’ il viso, su cui si era dipinta la stessa
espressione
affettuosa che Albafica le aveva visto con Henning.
-Troppo
buona, Friederieke, troppo buona con questo povero vecchio, davvero.
Ma, miei
cari amici, nessuno ha pensato di presentarmi il nostro ospite: sia mai
che si
dica che il conte Frydendahl non è un bravo ospite. Iedike,
bambina cara…-
disse l’ometto, accompagnando la richiesta con un gesto della
mano.
-Padre,
vi presento Albafica Van Dijk, un caro e vecchio amico del vecchio
Jens.- disse
la fanciulla e subito il guerriero si affrettò a rendere i
suoi omaggi al
padrone di casa.
-Oh,
il vecchio Jens… mai visto uno stalliere migliore, ne sapeva
una più del
diavolo, quell’uomo. E ditemi, come sta? È molto
che non lo vedo… purtroppo
lascio la mia casa molto raramente.- sospirò il conte
Frydendahl.
-Sta
molto bene, signor Conte.- rispose il giovane, proprio mentre le serve
iniziavano a servire il pranzo: nulla di eccessivamente raffinato, le
portate
erano semplici e poco elaborate, prevalentemente pesce ed ortaggi, ma
fu
servita anche un ottimo stufato di carne.
Albafica
non si perse un attimo delle conversazioni dei suoi commensali, curioso
di
completare il mosaico: le persone chiave di quella storia erano tutte
lì,
accanto a lui e doveva approfittarne.
Sophia
prese la parola per prima, mettendo subito tutti al corrente dei nuovi
pettegolezzi che giravano per i salotti della capitale e ogni sua
parola era
accompagnata dalla conferma di Christina e dai commenti emozionati
della
signorina Bernstein che, per tutto il tempo precedente al pranzo, non
aveva
detto una parola e ora pareva essersi risvegliata dal suo torpore, gli
occhi
pieni di estasi per quei succulenti bocconi di vita mondana.
Contemporaneamente
Ludvig prese a parlare di una qualche battuta di caccia, in cui una
volpe
particolarmente scaltra aveva messo nel sacco i segugi di un suo amico,
mentre
sua zia e, di tanto in tanto, Christina, ascoltavano. La giovane
baronessa
sembrava rapita dalle parole del cugino e ben presto smise di prestare
ascolto
alla sorella minore, dedicandosi completamente al racconto del giovane
conte,
con sommo scontento di Sophia che, privata di parte del suo pubblico,
per poco
non mise il broncio.
Padre
Hans e l’anziano conte Frydendahl parlavano di questioni
filosofiche e
scientifiche: il conte stava osannando uno dei lavori di Voltaire,
mentre il
predicatore, con frasi gentili, cercava di convincerlo che Newton e
Voltaire
fossero in combutta col Diavolo.
Solo
Iedike e Albafica tacevano: il giovane ascoltava le conversazioni
altrui, la
fanciulla studiava discretamente lo strano ragazzo.
Albafica
Van Dijk era di certo un bel ragazzo, Iedike non poteva certo ribattere
un
fatto tanto ovvio e spiazzante: il viso aveva tratti armoniosi, da
angelo
–poteva mai esistere un uomo tanto simile alle statue delle
divinità pagane?-,
perfettamente cesellati, gli occhi erano profondi, contornati da ciglia
lunghe,
da donna, di un colore così poco comune e pieni di ombre
irrequiete e la sua
chioma, altrettanto insolita, pareva fatta da fili di seta; non aveva
il fisico
pigro dei nobili, anzi, sotto gli abiti si indovinava un corpo robusto
e
possente, seppur snello, come abituato alla fatica e allo sforzo,
eppure le
mani erano curate e apparentemente lisce e la pelle era candida, segno
che non
aveva mai lavorato in vita sua.
No,
decisamente era molto più che bello e tutte quelle
contraddizioni la
intrigavano e stuzzicavano la sua innata curiosità, che
spesso le era valsa una
quantità notevole di problemi.
Anche
il modo in cui l’ospite olandese si esprimeva lasciava
intendere una buona
educazione: certo, forse non aveva avuto il migliore dei precettori, ma
era
istruito e doveva aver viaggiato molto, in vita sua. Ed era dotato di
grande
pazienza, poco ma sicuro: qualsiasi altra persona intelligente sarebbe
fuggito
da Sophia o l’avrebbe strangolata, ma il poveretto, vittima
delle mire della
sua così mal sofferta cugina, era riuscito a mantenersi
calmo ed
impeccabilmente cortese.
Come
avesse
fatto era un mistero.
Be’,
si era detta Iedike, concentrandosi sullo stufato di lepre, magari
viaggiando
molto era abituato ad oche come e peggio di sua cugina.
Ma
ciò che più la incuriosiva e la rendeva simile ad
un bambino davanti ad un
dolce particolarmente succulento era il suo sguardo: pareva quasi che
lo
straniero avesse qualcosa da nascondere e, al contempo, stesse cercando
qualcosa.
Ma
cosa? Perché quegli occhi pervinca scrutavano tanto
attentamente il mondo?
Soprattutto, perché la osservavano con insistenza? Possibile
che cercasse
qualcosa da lei?
No,
si disse la giovane, probabilmente era lei a lasciar cavalcare
l’immaginazione
a briglia sciolta, perché, carattere a parte, la sua persona
non nascondeva
nulla di così curioso o misterioso. O forse, le suggeriva
una voce fastidiosa e
piena di inspiegabile eccitazione, quell’uomo tanto bello e
misterioso voleva
davvero qualcosa da lei.
Scacciò
quel pensiero con una smorfia infastidita, irritata da quelle
fantasticherie da
fanciulla svenevole.
Albafica
notò che la contessa Frydendahl era immersa nei suoi
pensieri e che, ad un
certo punto, aveva assunto un’espressione estremamente
scocciata, come se i
suoi ragionamenti fossero giunti ad un punto morto o ad una soluzione
che non
le piaceva per niente.
Chissà
a cosa stava pensando… che avesse capito qualcosa di troppo
su di lui? si
chiese il giovane. Un rischio da non correre e di certo non
così impossibile:
ormai si era accorto che la giovane nobildonna era di mente acuta e
piuttosto
curiosa e che pareva essersi particolarmente presa a cuore smascherare
le sue
intenzioni. Non doveva assolutamente succedere: se Friederieke
Frydendahl fosse
stata sua nemica, avrebbe rischiato di certo il fallimento della
missione, la
sua vita e la vita degli abitanti di Frydenjord e del castello, se
invece era
una creatura innocente, la povera ragazza avrebbe rischiato la vita.
Quando
il suo sguardo incontrò quello azzurro della giovane, lo
distolse, osservando
il resto dei commensali.
Sophia
e Christina erano due ragazze scioccarelle e vuote, nulla poteva
collegarle
alla stella o al grigiore che regnava su quelle terre, erano solo
ospiti e
nessuno avrebbe mai potuto fingersi tanto sciocco.
Sophia,
però, aveva dalla sua una certa arguzia, che la portava a
moti di intelligenti
piuttosto sorprendenti, anche se sempre subordinati ai suoi desideri e
capricci. Christina pareva essere più tranquilla della
sorella e forse anche
più intelligente, ma debole di spirito: il suo carattere
piuttosto malleabile
si era sottomesso a quello dispotico della sorella minore, che imitava
ed
invidiava.
Un
comportamento illogico, forse; ma, ragionò il ragazzo, se
Sophia aveva davvero
tanto successo nell’alta società –o
almeno, era ciò che traspariva dalle sue
parole, probabilmente esagerate dalla sua superbia, l’arte
della dialettica di
certo non le difettava-, questo aveva probabilmente oppresso e, in
qualche
modo, angustiato la sorella, che non poteva contare su un aspetto
fisico
particolare e imitarla, agli occhi della giovane baronessa, doveva
essere stata
l’unica soluzione.
Sulla
signorina Bernstein non poteva dir molto… gli era parsa una
donna vanesia,
amante della mondanità e molto severa con la sua protetta,
ma tranquilla e
docile, il contrario della baronessa Maria, simile nel carattere alla
nipote,
ma, a dispetto della giovane contessa, meno impetuosa, resa dura come
l’acciaio
dal mondo in cui era nata e astuta dall’ambiente in cui era
vissuta dopo il
matrimonio, fatto di sotterfugi e tranelli.
Una
specie di Friederieke adulta, con molta più esperienza e
decisamente più
scaltra: per quanto intelligente potesse essere la contessa, una donna
più
adulta ed esperta del mondo avrebbe di certo saputo celare meglio i
propri
pensieri e, soprattutto, la propria curiosità, cosa che la
contessa Frydendahl
non era totalmente in grado di fare. Forse avrebbe potuto sfruttare
quel
piccolo difetto a suo vantaggio, per incriminarla o scagionarla del
tutto.
Ludvig,
invece, pareva un semplice nobilotto di campagna, donnaiolo incallito e
amante
della caccia, un uomo fatto per i piaceri più che per le
preoccupazioni –non si
sarebbe affatto sorpreso se, ad occuparsi della tenuta assieme al
conte, fosse
stata la signorina contessa e non il giovane- eppure il suo sguardo,
sfuggente
e torbido, lasciava intendere una personalità più
profonda e mille segreti
nascosti nell’animo.
Avrebbe
continuato con quelle riflessioni, ma la voce dell’anziano
conte Frydendahl lo
riportò alla realtà.
Questo capitolo è stato un parto. 48 ore di travaglio. Tre gemelli. Podalici.
Ringrazio (e ringraziate) Petitecherie, senza di lei avrei pubblicato un capitolo pietoso.
Alla prossima.