La stoffa premuta sulla sua bocca fa male. Non è ruvida
– anzi, è morbida e calda e ha il suo profumo e le
fa perfino un po’ di solletico, la perfetta antitesi della
situazione in cui si trova – ma è stretta, le
schiaccia le labbra e le guance, e se chiude gli occhi per un istante,
può già vedere il segno rossastro che
lascerà sulla sua pelle, come una cicatrice ancora fresca e
bruciante, come un marchio.
Alle sue spalle, Yelena ridacchia silenziosa nell’incavo
della sua spalla, chinandosi su di lei, le braccia che le cingono la
vita forti e salde, dolorose. Il calore del suo fiato sulla pelle
scoperta la fa rabbrividire, la lana del suo maglione le preme contro
la schiena.
Se deve essere sincera, Toma non ha la più pallida idea di
cosa stia facendo. Insomma, c’è Felicia che la
aspetta e una relazione da consegnare domani che non si
finirà certo da sola – né
verrà scritta dalla sua amica, per quanto sia tecnicamente
un lavoro di gruppo, questo è certo. E lei è in
uno sgabuzzino, con un sciarpa sulla bocca e le mani
dell’inquietante sorella del ragazzo per il quale si
è presa una cotta imbarazzante e vagamente masochistica che
le accarezzano il ventre. Non sa nemmeno come sia finita in
questa situazione.
Le mani di Yelena sono fredde, ghiacciate. Eppure, la sua pelle
è così calda lì dove le sue dita corte
e tozze la sfiorano – i polpastrelli che premono sulla sua
pancia, le unghie che graffiano i suoi fianchi fino a farne uscire il
sangue – mentre scendono inesorabilmente.
E poi, Toma non può fare a meno di gemere, mentre quelle
dita gelide si fanno strada dentro di lei, improvvise e brutali, e il
suo mondo si riduce per un attimo ad un unico punto bruciante. Yelena
le bacia il collo – le sue labbra fredde e morbide lo
accarezzano appena, dolci e delicate come un sospiro – e poi
le morde la spalla, abbastanza forte da farle sbarrare gli occhi e
socchiudere la bocca. Una delle sue mani risale pigramente il suo
corpo, soppesa brevemente un seno e poi scatta verso l’alto,
stringe una delle estremità della sciarpa e tira.
- Pensavo avessimo deciso di usarla perché dovevamo fare
silenzio. Qualcuno potrebbe sentirci, sai? – sussurra Yelena
nel suo orecchio, e ride piano, con quella sua risata da bambina,
innocente e crudele allo stesso tempo. Toma trema, perché i
dettagli del come si sia ritrovata lì con lei sono ancora
vaghi e confusi, ma il perché
è tutto in quella risata.
Le sue dita si muovono di nuovo, stavolta più delicate e
lente, e Toma chiude gli occhi e tace.
#8 –
Harmatophilia [Fem!Germania/Fem!Nord Italia]
È tutto perfetto, semplicemente. La sua compagna di stanza
da un’amica per tutta la serata, sua sorella che promette di
non cercarla per nessun motivo al mondo – e sorride e fa
allusioni stupide e volgari come l’idiota che è,
ma questo purtroppo è inevitabile -, il cellulare spento e
rinchiuso in fretta e furia nella borsa, gli appunti delle lezioni del
giorno ricopiati con cura e in bella grafia e la relazione per domani
pronta sulla sua scrivania.
E Letizia riesce a scivolare sui vestiti che lei stessa ha buttato sul
pavimento. Ecco cosa si ottiene, non prestando attenzione alle proprie
cose.
Letizia rimane lì distesa, ridendo come se la cosa fosse
assolutamente esilarante. E in effetti è una visione quasi
comica, sdraiata scompostamente per terra, con addosso solo mutande e
reggiseno con improbabili pois arancioni, una mano che sfrega
delicatamente un punto sulla cima della testa e quella risata che le
sgorga dalla bocca come un fiume in piena, acuta e infantile e sincera.
Lutgard non ride. Osserva il suo seno morbido e sodo che si alza e si
abbassa al ritmo del suo respiro affannato, le sue guance arrossate e
lo splendido contrasto che creano con il bianco latteo del suo corpo
quasi interamente scoperto, le sue labbra rosse e gonfie, i suoi grandi
occhi marroni appena visibili sotto il velo delle ciglia folte, i corti
capelli castani come un’aureola spettinata intorno alla
testa. Osserva le sue gambe lisce e candide e non particolarmente
lunghe, la sua pancia non perfettamente piatta, il suo viso tondo e un
po’ paffuto.
Le prende una mano tra le sue e la aiuta a rialzarsi, e senza dire
nulla la bacia per l’ennesima volta, assaporando il sapore
delle sue labbra.
Quando si allontana, Letizia ride di nuovo e si getta sgraziatamente
sul suo letto, urtando con una mano e facendo cadere la piccola
ordinata pila di libri che tiene sul comodino. Lutgard le lancia uno
sguardo di rimprovero, poi alza gli occhi al cielo e la segue, cercando
di non sorridere.
Sa già che non tutto sarà perfetto. Forse,
è meglio così.
#9 –
Ice Princess [Fem!Spagna/Fem!Austria]
- Mi dispiace – dice Anita, e poi il silenzio cade di nuovo
tra loro. Rodelind la fissa, seduta sul letto, le mani raccolte in
grembo, la schiena dritta, la testa alta, lo sguardo lontano.
Anita si umetta le labbra, e vorrebbe scusarsi di nuovo – per
l’ennesima volta – ma le parole le rimangono
bloccate in gola, secche e pesanti, soffocandola. É sempre
tutto così complicato, con Rodelind – tutto
così importante e così serio. Lei è
sempre così seria, rinchiusa nel suo piccolo mondo di
silenzi e di sguardi significativi, in cui l’unico suono
è la melodia algida e controllata del suo pianoforte.
Sospira. Non che questo la giustifichi, ovviamente. Non pensava, non
capiva. Aveva bisogno di rumore, di musica, di calore – e
Fran era lì, sempre lì, tutta capelli dorati e
labbra rosa e sorrisi brillanti e risate argentine, bella e esuberante
e libera.
E ora Anita guarda Rodelind, la sua postura rigida,
l’espressione incolore. La guarda e prende la sua mano fredda
tra le sue.
Rodelind ha delle belle mani: polsi sottili, pelle così
chiara che può intravedere il blu delle vene, dita lunghe e
forti e aggraziate. Anita bacia il dorso, e poi ognuna di quelle dita
che l’hanno sempre sfiorata con tanta calma, un po’
come se fossero insicure e un po’ come se volessero
prolungare ogni singolo istante per l’eternità.
Anita alza lo sguardo e la guarda negli occhi, e non ne è
certa ma forse quel bagliore è lo scintillare di una
lacrima. E allora forse hanno ancora una possibilità
– forse, se stanno entrambe così male, potranno
capirsi e aiutarsi a vicenda – e le sue mani si spostano
sulle spalle esili di Rodelind che ora tremano appena, le accarezzano
il viso per un attimo, vagano sulla morbidezza del maglioncino e poi vi
si insinuano sotto, assaporano di nuovo la pelle liscia e morbida e
calda della sua ragazza.
- Basta – dice Rodelind, un sospiro sommerso subito dal suo
respiro rotto, ma la mano di Anita scorre ancora più
giù, si posa su una coscia, liscia le pieghe della gonna
dell’uniforme, fa per sollevare l’orlo e insinuarsi
tra le sue gambe. – Basta
– ripete Rodelind, e la sua voce è fredda e
tagliente anche se Anita la sente tremare come una foglia. Fa male come
se l’avesse appena presa a schiaffi.
La mano di Anita si ritrae, lentamente. La sua voce strozzata le sembra
quella di un’estranea quando guarda Rodelind in viso
– non piange, non ancora, e i suoi occhi sono fuoco blu
– e le dice che la ama, tentando di sorridere nonostante il
dolore e la paura che di nuovo le serrano la gola.
- Vattene – risponde Rodelind, e Anita sa che è
l’unica parola che le dirà per molto tempo.
#10
– Jewelry [Fem!Francia/Fem!Prussia]
La collana di Gilda cattura la luce di quel pomeriggio troppo bello.
Troppo bello per non uscire, troppo bello per rimanere chine sui libri,
troppo caldo, troppo brillante, con un cielo troppo blu e un sole
troppo dorato.
Françoise perde la concentrazione per l’ennesima
volta. Il suo sguardo vaga oziosamente per la stanza, da un righello ad
un evidenziatore a un block notes alla sedia che dovrebbe essere
occupata da Anita se solo Anita non avesse problemi-con-la-mia-ragazza e
non stesse cercando un regalo da comprarle o qualcosa del genere
– per un attimo si sente davvero in colpa anche se sa che
quelle due non dureranno comunque, passa oltre -, si ferma per qualche
istante sul nulla di una pagina bianca in attesa di essere scritta e si
posa di nuovo sul ciondolo al collo della sua amica.
È solo una piccola croce nera, semplice, decisamente troppo
poco ornata per i suoi gusti. Eppure, Gilda non se ne separa mai,
nemmeno per indossare qualcosa di più carino. Gilda non
è una persona religiosa e ha molto probabilmente la stessa
spiritualità di un rapanello, e quel ciondolo non sembra
nemmeno prezioso. Forse è una cosa di famiglia, un ricordo
d’infanzia: sua sorella ne ha uno uguale, in fondo. Anche se
non lo ammetterebbe mai, pensa Fran intenerita, la sua amica sa essere
così adorabilmente sentimentale.
Françoise si chiede pigramente come sarebbe prenderlo in
mano, rigirarsi la catenina tra le dita. Una volta le ha chiesto di
prestarglielo, e Gilda le ha tenuto il muso per tutto il giorno.
Sorride maliziosa, e immagina di far scorrere le dita più
giù, sopra il seno piccolo e sodo di Gilda e poi sotto la
sua camicetta, di sentire la consistenza di quella pelle candida e
carezzarla con la punta delle dita, di tenere la piccola croce scura
tra i denti e tirare l’altra verso di sé. Vede
già il suo sguardo pungente e seccato, le sue sopracciglia
lievemente inarcate, le sue labbra scarlatte tirate in un sorriso di
sfida come se volesse capire fino a quanto oserebbe spingersi prima di
fermarla ...
- Fran. Smettila di sfogare la tua perversione su di me. Lo sai che non ti
darei corda, e poi sono troppo figa per te -.
Françoise alza lo sguardo sulla sua espressione seccata e
sorride, scrollando le spalle e chiedendole scusa con un sguardo
silenzioso. Gilda sospira e scuote la testa, uno di quei ghigni
strafottenti che le riescono tanto bene stampato sulla bocca lucida di
rossetto: - Dimmi che non c’erano fruste. O che io tenevo in mano
la frusta -.
Françoise si rigira una ciocca di capelli biondi tra le
dita. – Ma certo, mon
amie. Fruste e corsetti e catene e un paio di forbici
– risponde, perché Gilda spesso non sa se stia
dicendo la verità o scherzando ma accetta tutto senza
giudicarla, perché capisce che se anche non stesse mentendo
tra loro non cambierebbe niente e non le chiederebbe mai di cambiare
per lei o per la loro amicizia.
Gilda sorride, scoprendo i denti bianchi: - Io tenevo le forbici,
ovviamente -.
- Ovviamente -.
#11
– Keraunophilia [Fem!Antica Germania/Fem!Antica Roma]
- Non mi dica che ha paura, signora Beilschmidt -.
E vorrebbe strangolarla – anche se lei è il suo
capo e lei una persona controllata e rispettosa e seria e fiera di
esserlo – solo per il sorriso che sente nelle sue parole,
mentre il buio le avvolge per un istante, facendola trasalire. Vorrebbe
strangolare lei e le sue stupide battutine –
com’è possibile che una donna così poco
seria sia diventata preside, poi? – e quel maledetto
temporale.
La luce di un lampo le illumina il viso olivastro, brilla nei suoi
occhi marroni che per un istante scintillano d’ambra. La
signora Vargas sorride, piccole rughe ai lati della bocca e intorno
agli occhi su una faccia che altrimenti sembrerebbe così
assurdamente giovane. Aldegund vorrebbe poter non farlo ma rimane a
fissarla, una mano ancora inutilmente protesa verso i documenti che
teoricamente è venuta a prendere.
E poi la sala professori è immersa nuovamente nella
penombra, la pioggia che batte incessante contro i vetri delle finestre
e la sagoma scura della preside fin troppo solida e reale di fronte a
lei per poterla ignorarle.
Il rombo sordo di un tuono oltre l’orizzonte le rimbomba
nelle orecchie, nella mente. Un altro lampo illumina tutto per uno
sfolgorante secondo, e lei quasi sente
l’elettricità scorrere nelle sue vene, le gocce di
pioggia infrangersi gelide e veloci e furiose contro la sua pelle,
l’odore della terra umida sospeso nell’aria.
E Lavinia Vargas non smette di sorridere – e per un attimo
sembra capire così tanto, questa sciocca che si crede
spiritosa, questa donna convinta di essere ancora una ragazzina.
Non sono più giovani, si costringe a ricordare Aldegund,
anche se le sue mani tremano mentre l’espressione della
preside rimane stabile e ferma e i suoi occhi sono caldi e gentili come
se il freddo della pioggia non potesse toccarla, anche se non si sente
come la donna forte e sicura che sa di essere ma come un animale
spaventato, succube dei suoi stessi istinti.
Non sono nemmeno vecchie, ma dovrebbero essere in grado di controllarsi
– lei sta cercando
di farlo, almeno. E Lavinia Vargas, con il suo sorriso
beffardo e la sua pelle liscia e la luce dei lampi negli occhi, rimane
sempre il suo capo.
- Buongiorno, signora preside – dice, prima di afferrare con
un gesto meccanico i documenti che stava cercando e voltarle le spalle.
#12
– Loss of control [Fem!America/Fem!Russia]
La spinge sul pavimento, rapida e brusca, senza la minima cura. Il
tappeto è ruvido contro la sua schiena nuda, il fiato le si
blocca nella gola per istante, e poi l’altra quasi cade su di
lei, schiacciandola a terra, e lei sente tutto il peso e il calore del
suo corpo contro il suo, il suo respiro ansante nel suo orecchio.
La ragazza la bacia, famelica, e il suo più che un bacio
è un morso, e lei sente il sapore del sangue nella bocca.
Quando i loro volti si allontanano lentamente, Yelena la guarda,
sorpresa, cercando di riprendere fiato, di calmare il battito del suo
cuore impazzito. Alla fine, sorride, divertita e forse, in fondo,
perfino un po’ colpita: - Siamo molto impazienti, non
è vero? -.
La ragazza – Alice? Freda? Non ricorda il suo nome, ma pensa
che forse terrà a mente più a lungo la sua pelle
lucente di sudore, i disordinati capelli d’oro che le
incorniciano il viso – le regala un sorriso bianco e
arrogante, prima di stringere i suoi polsi tra le mani e chinarsi a
baciarle il seno.
Yelena chiude gli occhi, sentendo i suoi denti scalfire appena la sua
pelle. Non è abituata a questo genere di cose, ma non
è nemmeno contraria a lasciar prendere il controllo a questa
ragazzina senza nome.
Tanto, poi, è certa di poterla convincere a scambiarsi i
ruoli.