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Autore: Acinorev    17/11/2012    14 recensioni
«Ma sono qui – la interruppi. - Sono qui, con te. Ed è esattamente dove voglio stare.»
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Unexpected'
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They won't be the same

Capitolo 17

 

“Oddio… Vedo una luce… Sto forse morendo?” esclamò Niall in modo teatrale, uscendo dall’ascensore nel quale ci eravamo tutti schiacciati, lasciando che le valige venissero trasportate dagli addetti del complesso.
“Sì, seguila. Vai in pace.” replicò Liam, scuotendo la testa.
“Mi dispiace Nialler, ma credo che sia solo la luce delle scale.” lo corresse Louis, sorridendo.
Mi passai una mano dietro al collo, stiracchiandolo appena e cercando di scacciare il dolore e la stanchezza.
“Vi prego, aprite quella porta.” supplicò Harry, mentre Liam armeggiava con le chiavi di casa.
“Ma Kath ed Abbie non sono in..” stava per chiedere Louis, quando la porta si spalancò.
Abbie era sulla soglia con un sorriso raggiante stampato in faccia: inutile dire che sembrava ben felice di vederci, e di vedere soprattutto uno di noi.
“Ragazzi! Vi aspettavamo più tardi!” esclamò, abbracciando velocemente Liam e Louis, i quali entrarono subito dopo in casa. Ad Harry riservò dei semplici baci sulla guancia, non privi di imbarazzo: il riccio non aveva voluto raccontarmi di quello che era successo tra di loro una settimana prima alla festa, ma mi aveva pregato di non riferire nulla a Niall. Non sapevo quindi come avesse reagito Abbie, anche se dalla tensione tra di loro non sembrava andare tutto alla grande.
Ovviamente l’accoglienza che spettò a Niall era tutta un’altra storia: io, d’altra parte, non morivo dalla voglia di aspettare che finissero di sbaciucchiarsi per entrare in casa, quindi li evitai strisciando tra loro e l’uscio della porta, sicuro che ad Abbie non sarebbe importato molto salutarmi dopo qualche minuto.
Tutto quello che volevo era lì, sul divano di pelle al centro del salotto, avvolto in una coperta di lana, mentre sorrideva ai nostri amici.
Mi fermai un paio di metri lontano da lei senza muovere un muscolo, incantato e straordinariamente felice di poterla rivedere dopo una lunga settimana. Sette giorni: come potevano essere passati tanto lentamente? Non importava quanti impegni avessi, quanto fossi costretto a saltare i pasti per aver tempo di fare tutto: niente, assolutamente niente, riusciva a far scorrere più velocemente il tempo; forse perché aspettavo con troppa ansia di poterla chiamare o di poterle letteralmente cantare la canzone della buonanotte. Certo era che quei sette giorni erano stati interminabili.
Kathleen si voltò verso di me e per qualche secondo rimanemmo a guardarci: sapevo che in quei giorni le sue condizioni erano un po’ peggiorate, come se avesse avuto una ricaduta. Mi aveva raccontato di non essersi sentita molto bene, ma ovviamente non era scesa nei dettagli e l’aveva presa alla leggera. La seduta di chemioterapia era stata rimandata a causa di valori del sangue troppo bassi e io mi ero preoccupato un po’, essendo così lontano da lei, ma mi aveva rincuorato il fatto che Abbie fosse con lei. Ed ora era lì, con il viso un po’ smunto e gli occhi contornati da un alone scuro che poco le si addiceva. Ma, nonostante tutto, io ero rimasto a fissarla, incapace di credere a quanto fosse perfetta anche così.
Appena lasciò apparire un sorriso sul suo volto, qualcosa scattò in me, spingendomi a ricoprire velocemente la distanza tra di noi, per fiondarmi su di lei su quel divano. Senza dire niente la strinsi a me andando subito alla ricerca delle sue labbra, mentre lei continuava a sorridere e a torturarmi i capelli.
“Bentornato.” sussurrò, affondando il viso nell’incavo del mio collo, mentre io facevo lo stesso lasciando che i suoi capelli mi solleticassero le guance.
“Come stai?” le chiesi, lasciando un bacio sulla porzione di pelle della spalla lasciata scoperta dal maglioncino blu.
“Bene, grazie.” rispose.
Mi allontanai da lei per guardarla in faccia e inclinai di poco la testa, corrugando la fronte.
“Che c’è?” domandò confusa, facendo finta di non capire.
“Quante volte devo dirti che voglio che tu sia sincera su queste cose?” le ripetei. Quasi ogni volta che le chiedevo qualcosa del genere rispondeva in quel modo oppure rendeva tutto meno grave di quello che non fosse: forse per non farmi preoccupare o forse perché era davvero convinta delle sue parole.
“E va bene. – sbuffò, spostando lo sguardo in un punto indefinito al mio fianco, - Sto uno schifo.” ammise, finalmente. Di certo sentire quella risposta non era la cosa migliore che potesse succedermi, ma odiavo quando mi mentiva riguardo il suo stato di salute.
“Mi dispiace.” sussurrai, appoggiando la fronte alla sua.
“Oh, andiamo. Non è niente di che. – riprese con tono allegro, allontanandosi leggermente da me e fissando i suoi occhi nei miei, -  Piuttosto, raccontami qualcosa. Com’è Madrid? E la torre Eiffel è molto alta? E il duomo di Milano?”
Sorrisi; sembrava quasi una bambina nel chiedermi con così tanto entusiasmo quelle cose: “Mi hai già obbligato a raccontarti tutto ogni volta che ci siamo sentiti. Non penso di avere altre cose da dire!” affermai scherzoso. Ad ogni chiamata mi chiedeva dei posti che visitavo, delle persone che incontravo, delle cose che mangiavo… E io le riportavo tutto nei minimi dettagli, come se i miei occhi fossero i suoi.
“Zayn, posso rubartela un attimo?” chiese la voce di Niall, che stava entrando in salotto con Abbie.
“Oh, certo.” risposi, sorridendogli e lasciando di malavoglia la presa su di lei. Mentre i due si salutavano con un abbraccio affettuoso, spostai lo sguardo sulla moretta a poca distanza da me, che, con le braccia incrociate al petto, mi fece una smorfia: “Un semplice ciao sarebbe stato sufficiente.” la informai.
“Ciao.” esclamò, guardandomi come se si stesse tenendo una sfida proprio lì, al centro del salotto. Alzai gli occhi al cielo e mi concentrai di nuovo su Kathleen, ormai libera da Niall.
“Non credere di averla scampata: voglio ancora sapere quelle cose.” mi ricordò lei, alzando un sopracciglio e sfoggiando uno dei suoi sorrisi.
“Hey, ragazzi, che ne dite di festeggiare il ritorno a casa da noi?” chiese Louis, di ritorno dalla cucina. Nonostante lui ed Harry si fossero trasferiti continuavano ad attingere alle nostre scorte come se fossero ancora le loro.
“Bell’idea!” confermai, annuendo. Lo stesso fece Niall.
“Allora noi andiamo. Ci vediamo per le… 9?” chiese Harry, dopo aver sorseggiato del caffè.
“Va bene.” rispose Niall.
Salutammo quei due. Abbie e Niall scomparvero dalla nostra visuale, mentre Liam doveva uscire. Da quanto mi aveva detto, Danielle gli stava facendo passare le pene dell’inferno: continuava ad essere “confusa” e a tenerlo sulle spine;  di conseguenza lui aveva deciso di darle un ultimatum. Lo guardai passare di fianco al divano e con un solo sguardo gli augurai buona fortuna. Mi sorrise ed uscì di casa.
“Vedi? È destino. – esclamai, riportando le miei mani sui fianchi di Kathleen, - Sembra che non possa proprio raccontarti quello che vuoi sapere.” scherzai. Non che non avessi voglia di parlarle di tutto quello che avevamo affrontato in quella settimana, più di quanto non avessi già fatto, ma dopo quei dannati sette giorni volevo passare il tempo con lei… in un altro modo.
“No, semplicemente non hai...”
La interruppi baciandola sulle labbra: quanto mi erano mancate.
“Dovrei sentirmi offeso invece, sai?” chiesi retorico, a pochi millimetri dalla sua bocca.
“E sentiamo, perché dovresti?” sussurrò, curiosa.
“Io torno da un viaggio in Europa di una settimana e la mia ragazza vuole solo sapere quanto è alta la torre Eiffel.” spiegai sorridendo.
Abbozzò una risata, spostando la mano sulla mia schiena e accarezzandola dolcemente: “Che cattiva ragazza. – affermò, - E sentiamo, come avrebbe dovuto accoglierti?”
“Beh… Così. – sussurrai, sfiorandole il collo spoglio, - O così.” continuai, scendendo a baciare la porzione di pelle che avevo appena accarezzato. Rise, mentre il suo alito caldo mi faceva venire i brividi; mi prese il viso tra le mani e lo avvicinò al suo: “Allora ricominciamo. Bentornato Jawi.” disse, lambendo le mie labbra.
Sorrisi, mentre imitava ogni piccolo movimento che io avevo fatto su di lei pochi secondi prima.
 
“Vado io! – risposi, accettando l’incarico di andare a recuperare della birra in qualche negozio ancora aperto. – Tanto sto morendo di caldo: almeno prendo una boccata d’aria.”
Leen annuì e mi lasciò la mano, permettendomi di attraversare il salotto e di avvicinarmi alla porta.
“Ti accompagno.” sentii dire alle mie spalle. Mi voltai e vidi Abbie indossare il suo cappotto. Corrugai la fronte e, un po’ stupito, la fissai incredulo mentre mi passava davanti.
“Che fai lì impalato?” mi chiese, aprendo la porta e scomparendo nel corridoio. Scrollai le spalle e la seguii fuori casa di Harry e Louis.
Per tutto il tempo che impiegammo ad uscire dall’appartamento regnò il silenzio. Poi, incuriosito, mentre l’aria fresca di Londra mi entrava nelle ossa facendomi rabbrividire, mi rivolsi ad Abbie: “Perché ti sei offerta di accompagnarmi? Non vorrai uccidermi in un vicolo buio!”
Alzò gli occhi al cielo e si strinse nelle spalle per proteggersi dal freddo: “Se ti avessi voluto uccidere l’avrei fatto dalla prima volta che ti ho visto a casa di Kath. - spiegò, come se fosse una cosa ovvia, - Ma, nonostante a volte vorrei farlo, mi devo trattenere.” continuò, voltandosi verso di me per sorridermi in modo falso.
Risi scuotendo la testa, ormai arreso al nostro “bellissimo” rapporto.
Per qualche passo non parlò nessuno: gli unici rumori erano le macchine che sfrecciavano sulla strada e il chiacchiericcio dei londinesi.
“Allora… - cominciò, cogliendomi di sorpresa, - Cosa pensi di fare ora?” chiese.
Inarcai le sopracciglia, guardandola confuso: “Di cosa stai parlando?”
“Di Kath, ovviamente. Non crederai che dopo… Non crederai che le cose resteranno le stesse?” domandò retorica, continuando a fissare il marciapiede sotto i suoi piedi.
“Non capisco. Perché le cose dovrebbero cambiare?”
Si fermò all’improvviso, spostando gli occhi grigi su di me: “Lei… - sussurrò incredula, - Lei non te l’ha detto?” Il suo tono di voce era quasi inudibile: sembrava stesse parlando più tra sé e sé che con me e quella non sembrava molto una domanda, quanto più un’affermazione. Non riuscivo a capire di cosa parlasse, né perché si comportasse in quel modo.
“Cosa avrebbe dovuto dirmi?” chiesi, avvicinandomi a lei di un passo.
Sembrò riscuotersi: “Ehm, niente. Niente. Senti, vai tu a prendere le birre, ok? Io… devo tornare a casa.” Si voltò, iniziando a camminare frettolosamente, come per scappare da me.
“Abbie!” la chiamai.
“Abbie!” riprovai, andandole dietro.
Mi piazzai di fronte a lei, afferrandola per le braccia e guardandola dritto negli occhi: “Abbie, che diavolo ti prende? Cosa non mi ha detto?”
Abbassò lo sguardo, scuotendo il capo, come per trattenere le parole dentro di sé.
La scossi leggermente, cercando di farla parlare: “Avanti: cosa non mi ha detto?”
In realtà non ero sicuro di volerlo sapere: avevo uno strano presentimento e l’espressione assente e preoccupata di Abbie mi spaventava. Aveva accennato a qualcosa che non sarebbe stato più come prima, di cosa stava parlando?
“Lasciami Zayn. – mi intimò, cercando di liberarsi, - Non posso dirtelo. Ho già… Ho già parlato troppo.”
“No, tu devi dirmelo!”
“Ti sbagli. Deve essere lei a farlo nel momento che riterrà più giusto.”
“Abbie, guardami. – sussurrai, cercando di attirare il suo sguardo su di me, - Voglio saperlo. Devo saperlo. Lo vedo dai tuoi occhi che è qualcosa di importante, quindi ora me lo dirai. Anche perché, evidentemente, lei non vuole farlo.” spiegai, cercando di convincerla.
“Io… Io pensavo che te l’avesse detto. Mi aveva giurato di averlo fatto e mi aveva raccontato anche della tua reazione. Ma a questo punto credo che fossero solo bugie.” sussurrò, abbassando di nuovo lo sguardo.
Per la seconda volta strinsi un po’ di più la presa su di lei: “Di che diavolo stai parlando?!” ripetei, alzando il tono di voce. Mi stavo innervosendo, avevo quasi paura, senza nemmeno sapere il perché.
Tornò a guardarmi e aprì la bocca come per dire qualcosa; la richiuse e solo dopo qualche secondo ci riprovò: “Zayn… Lei è… Il tumore…” si fermò di nuovo, mentre i suoi occhi si velavano di lucido. Quelle parole, la sua espressione, tutto mi stava facendo pensare al peggio. Immobilizzato, aspettai che riprendesse a parlare.
“Il giorno dopo la vostra partenza Kath ha avuto una crisi. – iniziò, facendo una piccola pausa, - All’ospedale mi ha pregato di non chiamarti, per non farti preoccupare, dicendo che te l’avrebbe detto lei. Quindi non l’ho fatto. E mi ha ripetuto la stessa cosa quando il dottore le ha riferito l’esito degli esami. Diceva che ti avrebbe parlato quello stesso giorno, mentre agli altri l’avrebbe detto al vostro ritorno. – Un’altra pausa, più lunga e snervante. - Il tumore è peggiorato. Ha… prodotto delle metastasi e ora è inoperabile.” sussurrò.
Continuai a guardarla negli occhi, come se lei non avesse parlato, come se stessi ancora aspettando di sentire quello che Leen aveva deciso di nascondermi. Il problema era che lei aveva parlato e che il mio cervello, il mio cuore, ogni stramaledetta cellula del mio corpo, tutto di me si rifiutava di capire quelle poche parole. Di credere a quelle parole.
Ancora con le mani intorno alle sue braccia, un flebile “Cosa…?” uscì dalle mie labbra, incapaci di articolare un qualsiasi altro suono.
Abbie lasciò scivolare sulla guancia una lacrima e si mosse leggermente, liberandosi dalla mia presa, mentre le mie mani ricadevano lungo i miei fianchi.
“Zayn…” esclamò.
“Non è vero.” affermai sicuro, stringendo i pugni.
“Zayn, non possono fare più niente per lei.”
“Non è vero.” ripetei.
“È così, invece.” mi corresse singhiozzando.
“C’è la chemio… La chemio potrebbe…” provai a dire, senza nemmeno pensarci.
“No: non può farla guarire. E lei non vuole continuare con le sedute.” mi interruppe.
Tutte quelle parole continuavano a rimbalzare da una parte all’altra nella mia testa, come una scarica di pallottole pronta a ferirmi.
“Che diavolo significa?! – urlai, - Cosa significa che non vuole continuare con le sedute?!”
Non ero più in me. Sentivo il mio corpo tremare per la rabbia, per la paura, per l’amore. Tremavo e cercavo di continuare a respirare, dimentico ormai di cosa fosse l’aria o di come si facesse a inspirare ed espirare. Non riuscivo ancora ad elaborare le parole di Abbie.
“Zayn, calmati.” sussurrò, cercando di accarezzarmi un braccio per farmi calmare. Mi scansai bruscamente: “Non… Non mi toccare.” ringhiai a denti stretti, serrando la mascella.
“Ascolta, lo so che è difficile. – riprovò, mentre altre lacrime le rigavano il volto, - È difficile anche per me, credimi. Ma lei ha bisogno di noi, ok? Dobbiamo…”
“Cosa? Cosa dobbiamo fare?! Kathleen sta morendo! Che cazzo dobbiamo fare?!” urlai, facendo sussultare Abbie. Il mio petto si alzava e si abbassava senza che io potessi controllarlo, tanto velocemente che sembrava potesse scoppiare da un momento all’altro.
Kathleen stava morendo.
Era irreale e allo stesso tempo fin troppo reale.
“Ti prego, non urlare. – sussurrò Abbie, mentre i passanti ci lanciavano sguardi preoccupati, - Non avrei dovuto dirtelo io. Ma tu devi calmarti: non puoi tornare a casa così, non puoi farti vedere così da lei.”
“Spiegami come dovrei fare a calmarmi! Dimmelo, se lo sai! Perché io sto solo cercando di capire come cazzo sia possibile che Leen stia… E non dovrei farmi vedere così da lei?! Mentre lei può benissimo nascondermi una cosa del genere preferendo parlare di Madrid e di Milano?! – sbraitai di nuovo, per poi ridurre la voce ad un sussurro, - Lei sta morendo, Abbie… Io…”
“Lo so che sta morendo! – urlò lei, - Secondo te non lo so?! È la persona più cara che ho: come pensi che stia io?!” domandò retorica, singhiozzando. Si portò le mani al volto, coprendoselo, mentre le mie unghie si conficcavano nei palmi delle mani.
Fissavo la sua figura scossa da alcuni singhiozzi, mentre rimanevo immobile con il respiro accelerato e incapace di dire qualcosa o anche solo di pensarla.
La suoneria del mio telefono riportò entrambi alla realtà. La vidi asciugarsi il viso con le maniche del cappotto e solo dopo qualche secondo i miei muscoli si mossero, quasi senza che io li controllassi.
Leggere sullo schermo illuminato il nome “Leen” mi provocò una fitta al centro del petto. Riposi il cellulare nella tasca dopo aver rifiutato la chiamata.
“Dobbiamo tornare. Devi parlarne con lei. Ha bisogno di te, ora.” sussurrò Abbie.
“Chiedi a Niall di accompagnarvi a casa. E di’ a Kathleen di non chiamarmi, di non cercarmi.” esclamai con tono piatto, prima di superarla a passo svelto.
“Zayn.” mi chiamò, afferrandomi per un braccio. La scostai in malo modo e continuai per la mia strada, senza badare ai suoi richiami, né al dolore che provava il mio cuore e che rischiava di farmi accasciare a terra.
Era anche sbagliato dire che continuai per la mia strada: non avevo una strada. Non sapevo nemmeno dove mi trovassi, se fosse giorno, se fosse notte. Avevo un’unica certezza ed era l’unica certezza che non avrei mai voluto conoscere.
Era impossibile.
Era impossibile che stesse succedendo davvero.
Stava meglio. Quando io ero partito stava meglio.
Allora perché aveva avuto una ricaduta? Perché quel dannato tumore si era ribellato alla sconfitta?
Lei era più forte di lui, meritava di essere più forte. E allora perché era stata condannata?
Forse era tutto uno scherzo.
Forse ero ancora sull’aereo di ritorno a casa e stavo sognando.
Perché mi sentivo in un incubo, l’incubo che più avevo temuto e che più avevo cercato di dimenticare.
Magari io non stavo camminando per le vie di Londra senza riuscire a distinguere la dolorosa realtà dalla mia speranzosa volontà.
Eppure ero lì e quello che stavo provando era fin troppo vivo dentro di me, troppo reale e fin troppo doloroso per non essere vero. Come potevo accettare una cosa del genere? Come potevo pensare che Kathleen, la mia Kathleen, avrebbe smesso di respirare?
Non sapevo quando sarebbe successo, non sapevo quanto si fosse espanso il tumore, non sapevo nulla, ma mi era bastato scoprire che era diventato tutto inutile per farmi impazzire. Era quella l’unica cosa impiantata nel mio cervello: "non possono fare più niente per lei.”
Possibile che anni e anni di progressi della scienza non avessero portato ad una cura per una malattia tanto orribile? Con chi dovevo prendermela, oltre che con il cestino a cui avevo tirato un calcio rabbioso, per il suo destino? Noi avevamo fatto tutto il possibile: era andata alle sedute di chemio, avevo cercato di non farla affaticare, stava seguendo tutte le cure, il suo corpo sembrava reagire meglio di quanto non si pensasse. Possibile che tutto quello non fosse abbastanza?
Non avrei mai pensato di poter provare un dolore così lancinante: era insopportabile, pazzesco. Sentivo come se non fossi più capace di stare in piedi, come se il mio cuore avesse smesso di battere di propria spontanea volontà e che fossi io a doverlo far funzionare a forza. E mentre quella sensazione mi pervadeva, nella mia testa continuava a ronzare il pensiero di Kathleen, un pensiero inaccettabile.
Arrivai ad un distributore automatico di sigarette: lo guardai per un attimo, incapace di stare fermo per più di qualche secondo. Avevo bisogno del fumo nella gola, nei polmoni, in ogni piccola parte di me: mi serviva per tenermi aggrappato alla realtà e per cercare di rilassare i miei muscoli, troppo eccitati da tutto quello dolore. Con un tonfo sordo, il pacchetto fu rilasciato e appena lo ebbi tra le mani lo aprii, tirandone fuori una sigaretta: nonostante avessi ridotto le sigarette avevo ancora l’abitudine di portare l’accendino con me, quindi la accesi e subito tirai un po’ di nicotina nel mio petto.
Avevo ridotto il fumo per lei. Era ridicolo a pensarci, dato che non era servito a un cazzo.
Mi guardai intorno e avvistai un piccolo spiazzo: era una specie di giardinetto al cui centro una rotonda di cemento era circondata da panchine, illuminata da quattro lampioni.
Mi fermai e inspirai a pieni polmoni, cercando invano di calmarmi e di pensare lucidamente, mentre il cellulare nella mia tasca continuava a squillare imperterrito. Lo spensi, dopo aver ricevuto l’ennesima chiamata di Kathleen: evidentemente aveva saputo ed evidentemente avrebbe voluto parlarne con me.
Buffo, no? Lei, che mi aveva nascosto una cosa così importante, cercava in tutti i modi di affrontarla ora. Mi aveva mentito, tenendomi all’oscuro del suo ricovero in ospedale. E io come avrei potuto capirlo a chilometri e chilometri di distanza? Senza poterla guardare negli occhi? Se al telefono mi sembrava la Kathleen di sempre? Quanto aveva faticato per sforzarsi di ridere e scherzare come se nulla fosse?
Come le era venuto in mente di non dirmi nulla?
E perché aveva deciso di interrompere le cure?
Mille domande mi affollavano la testa, insieme ad altrettanti dubbi e paure. Mille cose che si riassunsero in un unico urlo liberatorio alla luce di quei quattro lampioni, nel mezzo del nulla.
 
Guardai l’orologio al mio polso; segnava le 4.24. Erano esattamente cinque ore e tredici minuti  che mi trovavo in quella stupida piazzola, seduto su una stupida panchina. Ormai non sentivo nemmeno più il freddo o forse lo sentivo, ma passava in secondo piano rispetto a tutto il resto.
Rigirai tra le mani il pacchetto di sigarette ormai vuoto: non aveva avuto un grande effetto. Lo buttai nel cestino al fianco della panchina.
Mi alzai in piedi e per un attimo le gambe sembrarono non riuscire a reggermi, probabilmente a causa della bassa temperatura e del fatto che ero stato nella stessa identica posizione per più ore. Dopo averle sgranchite un po’, mi incamminai verso casa cercando di capire dove diavolo fossi e quale fosse la strada giusta per il ritorno. Avevo anche pensato di non tornare per quella notte, sentendomi incapace di affrontare Kathleen, di arrabbiarmi o anche solo di guardarla negli occhi.
Eppure dovevo farlo, perché avrei dovuto discutere con lei prima o poi e in quel caso avrei dovuto farlo in fretta.
Mentre imboccavo la via che mi avrebbe portato più vicino al mio appartamento, cercavo ancora di raccogliere il coraggio dentro di me per fronteggiare la realtà che in quelle cinque ore avevo tentato di metabolizzare; e intanto cercavo anche di raccogliere un po’ di forza per farlo.
Camminavo con il volto basso, fissando passo dopo passo il marciapiede grigio: non riuscivo nemmeno a capire come mi sentissi in quel momento. Diverse cose si mischiavano in me, dando vita qualcosa di estremamente doloroso. Sì, vita: perché, qualsiasi cosa fosse, mi stava divorando dall’interno. Non credevo nemmeno che potessi sopportare così tante emozioni e forse non lo stavo facendo: forse mi ero semplicemente arreso a loro.
Prima di quanto mi aspettassi, mi ritrovai di fronte al nostro appartamento. Mi fermai davanti all’entrata, guardando dal basso tutto l’edificio, con le mani in tasca e di sicuro le occhiaie sotto agli occhi.
Quello che mi stupiva era che non ero riuscito a piangere.
C’era stata la fase delle urla, quella dei calci alle panchine, quella della negazione, quella del silenzio e quella dell’immobilità più assoluta: ma nemmeno una lacrima aveva bagnato il mio viso.
Sospirai ed entrai all’interno, godendomi il tepore che aveva abbandonato il mio corpo già da un po’. Guardai l’ascensore, ma non lo utilizzai: come se volessi ritardare il ritorno a casa, salii le scale un gradino dopo l’altro con una lentezza quasi esasperante.
Cercai di fare il minor rumore possibile nell’aprire la porta, sperando di non trovare nessuno sveglio ad aspettarmi. In effetti, quando entrai tutte le luci erano spente e io mi sentii sollevato, per quando fosse possibile.
Mi diressi verso la mia stanza, ma quando varcai la soglia e accesi la luce, mi accorsi di Kathleen che, stesa sul mio letto con le gambe raggomitolate al petto, dormiva. Mi avvicinai un po’ di più, cercando di non svegliarla; l’occhio mi cadde sulla poltrona di velluto grigio che affiancava il mio letto. Mi sedetti lì  e continuai a guardare Leen: potevo sentire il suo respiro affaticato; il viso era pallido, più di quanto non lo fosse la sera a casa di Harry e Louis, e le guance erano rigate da qualche lacrima ormai asciutta. Mi distruggeva vederla così e sapere che l’avrei vista anche in condizioni peggiori, fino a non vederla più.
Ero furioso con lei: avrei voluto urlarle contro tutta la mia rabbia, il mio risentimento dovuto al fatto che mi avesse nascosto qualcosa del genere e che avesse deciso di interrompere la chemio senza nemmeno consultarmi. Ma ero anche dannatamente innamorato: avrei voluto stringerla a me come non mai, sperando di trasmetterle tutto il mio amore o la mia forza. Dov’era finita la mia forza?
Passai qualche minuto a fissare la sua figura addormentata, ma più la guardavo, più l’idea di perderla diventava insopportabile. Mi alzai e uscii da quella stanza.
Gettai un’occhiata al divano del salotto, dove avrei potuto dormire per qualche ora fino al mattino, ma il pensiero di dover affrontare Kathleen mi rendeva inquieto: non ero pronto.
 
“Zayn… Che ci fai qui?” chiese Harry, con gli occhi assonnati e i ricci ancora più in disordine del solito.
“Fammi entrare, per favore.” lo pregai. Quasi non riconobbi la mia voce: tremante e debole.
Harry spalancò lentamente la porta, permettendomi di entrare in casa. Senza esitare trascinai il mio corpo oltre la soglia, con addosso lo sguardo confuso del mio amico.
“Posso dormire qui?” chiesi in un sussurro, senza guardarlo. Mi passò di fianco e mi guardò preoccupato: “Certo…” rispose, mentre i suo occhi si svegliavano in parte a causa della luce, in parte a causa della preoccupazione per il mio improvviso arrivo nel mezzo della notte.
Senza dargli attenzione, mi diressi verso il divano accostato alla parete, per poi sedermici su.
“Hey, amico. Che è successo?” chiese il riccio, avvicinandosi di qualche passo.
“Lasciami stare, Harry. Voglio stare solo, per favore.” sussurrai. Sembrava quasi un supplica. Senza aspettare una sua risposta, mi sdraiai, voltandomi poi verso lo schienale per dargli le spalle.
“Ok.. – rispose, insicuro, - Se hai bisogno di qualcosa sai dove trovarmi.” concluse. Sapevo che in altre situazioni avrebbe continuato a indagare, ma evidentemente il mio stato gli aveva suggerito che quella volta non avrebbe funzionato.
Non risposi e lo sentii esitare, come se volesse chiedermi di nuovo cosa fosse successo. Rimase lì impalato ancora per qualche momento, per poi allontanarsi a piedi nudi e spegnere la luce.
Rannicchiai le ginocchia per scaldarmi.
“Non crederai che le cose resteranno le stesse?”
No. Non resteranno le stesse.

 




Ok, sono pronta a ricevere tutte le minacce di morte che volete. Davvero: sono pronta anche agli insulti!
In realtà in questo spazio autrice avrei molte cose da dire e allo stesso tempo non so da dove cominciare...
Beh, innanzitutto vorrei spiegarvi che questa storia è nata per finire così:
l'ho immaginata proprio in questo modo anche se dispiace anche a me...
E mi scuso con voi, che mi avete pregata più o meno in ogni capitolo di non far peggiorare Leen! 
Ma non riesco a cambiare il finale di una storia se la avevo pensata in un certo modo!
Non vorrei che ora qualcuna di voi smettesse di seguire la FF, perchè mi dispiacerebbe molto :/
Io vi prometto che cercherò di portarla a termine nel migliore dei modi,
anche se sarà molto difficile da diversi punti di vista!
Quindi ora più che mai ho bisogno di voi, del vostro sostegno e dei vostri pareri!
Perchè non ho mai scritto qualcosa riguardo un tema del genere, quindi non so se sono all'altezza oppure no!
Ah, non vorrei che pensaste che da ora in poi sarà tutto molto deprimente e cose del genere!
Ovviamente ci sarà della malinconia, ma ci saranno anche momenti normali :)
E niente... Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante la brutta notizia!
E spero anche di essere riuscita a rendere la reazione di Zayn il più realistica possibile!
Che ne dite? Leen ha sbagliato?
Vorrei mi lasciaste una recensione, così posso capire cosa ne pensate,
se state venendo a cercarmi per uccidermi o se siete incazzate nere lol
Ah, grazie ovviamente per tutto :3

Vi lascio con le gifssss, che questa volta non saranno divertenti perchè non ho ispirazione!

       

Ciao fanciulle, spero di non avervi deluse :)
Un bacione!

  
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