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Autore: WordsEnchantress    18/11/2012    1 recensioni
Manifestazioni in tutta Italia, manifestazioni in Europa.
Studenti, insegnanti, lavoratori: la rabbia ha colpito tutti, è il momento di lottare per i diritti che sono stati calpestati.
Anche lei è tra quelle persone.
Ed è lì anche quando il primo manganello si abbatte sulla folla.
Genere: Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La folla era così fitta che non potevo respirare senza perdere di vista le mie amiche.
Notai anche che, se mi fossi lasciata andare, non sarei caduta per terra.
Troppa gente: uno dei problemi principali delle manifestazioni.
Mi guardai intorno e vidi una marea di studenti, parecchi insegnanti e qualche lavoratore. Non male, non si riusciva a vedere la fine del corteo.
Sentii una punta d’orgoglio nell’essere lì: c’era aria di rivoluzione, gusto di cambiamento. Avrei potuto dire “io c’ero”.
Cori s’innalzavano a destra e a manca, sottolineando la propria presenza, urlando insulti a questo e quel politico. Alcuni slogan, invece, erano più gentili.
Striscioni e cartelli campeggiavano tra i ragazzi e alcuni insegnanti. Vidi scritte come “Non vogliamo morire di scuola” o meno sottili “Stop ai finanziamenti per i privati”.
Eravamo tutti lì per lo stesso motivo, questo mi fece provare un moto di tenerezza verso i presenti. Eravamo lì per far sentire la nostra voce, per ricordare al governo i nostri diritti costituzionali.
Rabbia, ecco quale sentimento bruciava il cuore dei manifestanti, lo si leggeva negli occhi di ciascuno di noi.
Individuai subito qualche testa calda, sono i più facili da scovare: sono lì solo per fare un po’ di fracasso.
Il corteo iniziò a muoversi lento e inesorabile, tingendo di mille colori le strade ormai bloccate di Milano. A guidarci dei furgoncini aperti dietro, con delle grandi casse e un sacco di tizi col megafono.
Dalle casse usciva musica ribelle: ska, rap a tematiche sociali. E poi un gran coro quando risuonarono le note di “Bella Ciao”.
Che brividi, in quel momento.
Tutto procedeva senza problemi, il che mi tranquillizzò un po’: conoscevo bene eventi del passato.
Qualcuno, fin troppo vicino al mio orecchio, parlò al megafono:
“Andiamo al Parlamento Europeo! Gridiamo la nostra indignazione in coro con gli altri paesi a noi vicini!”
Un boato percosse le file disordinate in segno d’assenso.
“Facciamo sentire le nostre voci, non fatevi fermare dalla polizia!”
All’ultima parola allungai il collo ma non vidi nulla di allarmante. Camminammo ancora un po’, e i ragazzi cominciarono a incitarci più forte.
Decisi quindi di mettermi in punta di piedi: eccoli, davanti a noi.
Una schiera di poliziotti si stagliava in mezzo a corso Magenta. Non ne distinguevo i visi da quella distanza, ma vedevo chiaramente i caschi e lo scudo. E i manganelli.
Le canzoni smisero di accompagnare i nostri passi e, piano piano, l’atmosfera s’incupì.
Respira, mi dissi, non succederà nulla.
Noi avanzavamo, loro avanzavano.
“Dobbiamo andarcene” dissi alla ragazza alla mia sinistra e lei annuì con uno sguardo spaventato.
Provammo ad allontanarci ma i “ranghi” erano troppo stretti.
Eravamo fregate.
Vidi i manifestanti i prima linea pararsi dietro a degli scudi e capii che non si sarebbero fermati, né gli uni né gli altri.
Il primo impatto fu come un’ondata a catena. I primi furono spintonati indietro e così via. Alcuni caddero, altre vennero colpiti da chi indietreggiava.
Un gomito mi colpì forte al petto e sentii nitidamente una costola che s’incrinava.
Si placarono un attimo e mi ci volle poco a capire perché.
Un groppo alla gola e la vista appannata mi fecero vacillare. Fumogeni.
Io e la mia compagna ci coprimmo immediatamente la faccia.
Cercai con lo sguardo una via di fuga. La prima cosa che vidi, però, erano due ragazzine alla mia destra. Avranno avuto quattordici anni, cosa ci facevano lì da sole? Sembravano perse.
Mi feci coraggio e urlai loro di coprirsi immediatamente.
Appena il peggio fu passato lasciai libero il viso per controllare la situazione: la prima linea stava per ricominciare l’attacco.
“Senti lo vedi quel portone? – dissi a una delle due, e lei annuì – andate lì, a ogni costo, vicino a quei giornalisti. Non vi muovete finché non sarà tutto finito, chiaro?”
Non se lo fecero ripetere due volte.
Mi girai verso il gruppo alla mia sinistra. Vicino a me c’era un’insegnante piccola e avvizzita, con occhi grandi e i capelli arruffati. Mi sorrise, probabilmente aveva capito la mia idea. Afferrò gentilmente la mia amica per la manica e la trascinò a suon di spintoni verso il lato della strada.
Feci per seguirle, ma alcuni ragazzi mi sbarrarono la strada.
E tutti ricominciarono a muoversi.
Mi sentivo pesante, guardai avanti e tutto rallentò.
Vidi un manganello alzarsi verso il cielo.
Tutti ci guardavamo: alcuni eccitati per lo scontro, altri terrorizzati: ma comunque una marea di studenti, parecchi insegnanti e qualche lavoratore. Tutti disarmati.
Nel caos fui spinta verso le prime linee, faccia a faccia con un poliziotto,
Lui non stava usando il manganello.
Mi guardò con occhi tristi, per un attimo mi parvero persino umidi. Forse nel portafoglio gli bruciava una foto, la foto di una figlia. Rimanemmo fermi a fissarci nel centro dell’inferno.
Un ragazzino al mio fianco urlò di farci passare. Era una supplica, più che altro.
Ma il collega di quell’uomo non parve capirlo. Lo vidi alzare il manganello e calarlo sul collo del ragazzo. E ancora. E ancora.
Lui si dibatteva, cercava di proteggersi, ma a ogni colpo si muoveva di meno.
Poi si fermò.
Il mio cuore esplose e mi buttai su di lui: caddi dando la schiena all’uomo e protessi quel ragazzino. Era troppo piccolo per questo.
Ma alla prima manganellata sulla schiena mi resi conto che nemmeno io ero pronta.
Sentii il colpo rimbombarmi tra le vertebre.
Dovevo togliermi, ma quel ragazzino aveva una famiglia, da qualche parte.
Pensai a mia madre, ai suoi occhi dolci.
I colpi sulla schiena non cessavano mai.
Poi le sirene riempirono l’aria e, non so come, mi ritrovai su una barella.
Non potevo aprire gli occhi, non riuscivo a muovere le mie membra.
Ero un guscio pieno solo dei miei pochi e sconnessi pensieri.
Sentii il poliziotto buono difendermi e un ragazzo piangere vicino a me.
Riconobbi la voce del tizio al megafono chiedermi scusa.
“Manifestavamo per i nostri diritti di studenti, ci hanno tolto i diritti umani. Non scusarti. – mormorai – Non riusciranno a chiudermi la bocca.”
Le sirene avevano smesso di strillare, da qualche parte, in una stradina, gli altoparlanti ricominciarono a cantare “Bella Ciao.”
   
 
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