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Autore: SakiJune    08/06/2007    1 recensioni
E' una storia (lunga) sull'amore, il coraggio e la vigliaccheria dei sentimenti... "Nel duemilauno avevo diciott'anni, i capelli lunghi, i vestiti stracciati e le tasche rifornite di erba. Mi ero iscritto da poco all'università ed ero già indietro con gli esami in maniera preoccupante. Mi facevo chiamare Shin: un nomignolo per lo meno coerente con i miei lineamenti"
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I WILL BE LAURA K


CAPITOLO 1

Mi chiamo Seamus Mohin Takezawa. Fino a non molti anni fa, mi avreste estorto questa semplice frase solo se foste stati impiegati dell'anagrafe o potenziali datori di lavoro. Questo nome da folletto mi ha sempre causato imbarazzo: in parte perché ero un ragazzino stupido, poi perché ero circondato da coetanei altrettanto superficiali. Abitavo a S..., una cittadina ad una trentina di miglia da Londra, ed ero iscritto al primo anno dell'università di S., nei pressi del quartiere italiano, sul lato ovest della città. Invidiavo con tutto il cuore i miei amici d'infanzia e i miei compagni di facoltà, sia gli italiani, sia gli indiani, sia gli inglesi purosangue. Ero certo che sarei stato fiero delle mie origini se fossero risalite ad un'unica etnia, ad un'unica cultura, qualunque essa fosse. Invece avevo questo squallido nome irlandese, una vecchia madre irlandese (era rimasta incinta di me a 45 anni) e gli occhi a mandorla.

La mamma si chiama Martha Mohin. La sua famiglia, per quanto ne so, non era né ricca né povera, per la Dublino di cinquant'anni fa, lei era graziosa al punto giusto e com'è naturale un giorno un uomo le chiese di sposarla. Tutto normale, no? Già. Lui si chiamava Ernst Kaufmann... era un operaio tedesco, ebreo non praticante, di buon carattere. Nonostante le proteste del nonno, fervente cattolico, si sposarono presto e a quanto pare il loro matrimonio era molto ben assortito. Non ho mai visto una sua foto, ma anche così sono sicuro che l'attrazione fisica non c'entrasse niente con il loro amore. Comunque, non è che stessero tutto il giorno a guardarsi negli occhi, perché nel '57 nacque mio fratello Declan. Dieci anni dopo Ernst morì in un incidente sul lavoro. Considerato che di queste tragedie ne capitavano spesso (allora non esisteva l'HCCP), la cosa non avrebbe suscitato tanto scalpore: ma il sindacato questa volta sollevò un tale polverone che la fabbrica fu costretta a chiudere - pagando regolarmente gli stipendi ai dipendenti - finché i proprietari non avessero messo in pratica certe elementari misure di sicurezza e modernizzato un pochino gli impianti.

Mia madre si tirò su le maniche. Aveva studiato da segretaria, e trovò un impiego a Blackpool. Oh, si señores, dall'altra parte del mare. Non si guardò indietro. A quarant'anni era diventata nientemeno che l'assistente del direttore generale, ma se le aveste chiesto - chi sei? - vi avrebbe risposto semplicemente: - la vedova K.

Agli inizi degli anni Ottanta, la sede della ditta fu trasferita a Londra. A Martha (che di nuovo non si guardò indietro) toccò un appartamento in affitto più che agevolato, ma con un piccolo difetto che forse avrete indovinato: era a S.! Seppe adeguarsi anche a questo... non cercò un'altra casa e fece la pendolare fino alla pensione.

Il cambiamento.

Le nuove colleghe, l'atmosfera della capitale.

Gli uomini. Per la prima volta da quando era rimasta sola, si accorgeva degli uomini.

Mio padre, un anonimo uomo d'affari di Tokyo, era capitato a Londra, nell'ufficio dove la mamma lavorava, e si erano frequentati finché lui non era dovuto ripartire. Mesi dopo, quando era tornato per altre trattative di non so che, aveva scoperto che la signora M. era in maternità... e aveva fatto due più due. L'andò a trovare e lei gli sbatté la porta in faccia, dicendogli che il suo senso del dovere non sapeva dove metterselo: ma quando vide che faceva sul serio, gli permise di starle vicino. Lui riuscì a trasferire i suoi affari a Londra e hanno vissuto più o meno insieme per venti anni. Papà ha cinque anni meno della mamma, cioè sessantacinque. Di recente è tornato a stare in Giappone. Non che me ne importi più di tanto. Che lui mi voglia bene, lo so, ma non basta. Ha sempre odiato Declan, e se un tempo condividevo i suoi sentimenti, ora me ne vergogno con tutto il cuore. La mamma soffriva tantissimo per questo nostro atteggiamento, naturalmente. Ma cosa potevo avere io, un ragazzetto bruno, dal fisico minuto, con la passione per lo skate e il rischio totale, con un elettricista in sovrappeso ex studente alla yeshivah, e che in più abitava a C...? Non avevamo né lo stesso cognome né avevamo mai vissuto insieme. Così con mio padre mi divertivo a prenderlo in giro, e se passava a trovarci me ne restavo in camera mia a chattare o andavo dove mi pareva.

E, ovvio, ero anche geloso di lui, perché mia madre lo adorava talmente... Ho sempre avuto l'impressione, da quando ero molto piccolo, che mi considerasse già un adulto, o comunque che pensasse che non avessi bisogno di lei perché avevo un padre, io. Non so se fossi nel giusto, ma in casa mia respiravo quell'aria, e non riuscivo a non pensarci. Una volta lo chiesi a papà: "La mamma pensa che Deke sia ancora un bambino?" "Se è per questo crede ancora di essere in Irlanda". Era una frase fatta, perché mio padre (me ne accorgo adesso) non poteva sentire la differenza tra un inglese e un irlandese, lui che viveva in Occidente da meno di dieci anni. Ma dalle sue parole ricevetti la conferma dei miei pensieri: la mamma non mi voleva veramente bene, almeno non quanto ne volesse a Deke, e non amava davvero papà, almeno non quanto aveva amato il signor Kaufmann. Cominciai a capire che i fatti non corrispondono quasi mai alla volontà. La mamma era affettuosa, ma non per questo provava vero affetto; mio padre aveva un carattere più tranquillo, meno espansivo, ma ero sicuro di poter contare su di lui.

Adesso ho capito che, se le cose non sono come le vedi, non sono neanche il contrario di come sembrano. La verità sta in qualche punto imprecisato nel mezzo, o fuori dalla visuale, e quando la si trova è sempre tardi.

Ricordo che una volta, andavo in quarta o quinta elementare, mi beccai un'infezione alla gola e dovetti restare a letto per varie settimane. Era la prima volta che mi sentivo così male, per quanto ne so. Ed ero anche parecchio giù di morale. Mio padre, la sera, tornava dal lavoro con un ghiacciolo e restava a leggermi qualcosa, o giocavamo a dama. Ma per quasi tutto il giorno ero solo, perché mia madre era sempre al telefono con Deke.

La ditta per cui lavorava mio fratello era in crisi, e le prospettive a breve termine erano due: chiudere i battenti, o venire "risucchiata" dalla multinazionale con cui aveva l'esclusiva, perché a quest'ultima pare non convenisse più darle l'appalto alle solite condizioni. Nel secondo caso per i dipendenti, in apparenza, non ci sarebbe stato nessun problema, ma Deke la pensava in modo diverso. La mamma era così preoccupata per questa situazione che a me non pensava affatto. Almeno così sentivo allora, così mi ricordo. Poi, in qualche giorno, tutto andò a posto: sia per quanto riguardava il lavoro di Deke che la mia salute - ma dentro di me rimase qualcosa, come una piccola voce, che mi ripeteva "sarai sempre il secondo per lei".

L'unico colpo di testa di mio fratello, in tutta la sua vita, era stato lasciare a metà gli studi. Ci era stato costretto: aveva capito di essere fondamentalmente ateo, e non si era mai visto un rabbino ateo. Così era diventato un tecnico elettricista e si era iscritto al NCP. Questo non mi faceva ridere, perché era un atto di ribellione, anche se la mia idea del ribelle tipo era molto diversa per il mio cervellino da videogames, e la politica mi interessava solo quando c'era da fare casino in piazza. Nel duemilauno avevo diciott'anni, i capelli lunghi, i vestiti stracciati e le tasche rifornite di erba. Mi ero iscritto da poco all'università ed ero già indietro con gli esami in maniera preoccupante. Mi facevo chiamare Shin: un nomignolo per lo meno coerente con i miei lineamenti.

   
 
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