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Autore: RakyKiki    22/11/2012    5 recensioni
[Sterek AU.]
Stiles è un deportato in un campo di concentramento e Derek è un sadico e crudele tenente tedesco in stanza in quel campo.
Il rating è provvisorio e potrebbe variare.
Ci potrebbero essere delle scene piuttosto forti.
Ma soprattutto ci sarà abbastanza ANGST.
Detto questo vi auguro una buona lettura!
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo due.

 

 

Questo capitolo è dedicato ad A., il ‘ragazzo dai pantaloni rosa’.

 

 

Quello era un giorno particolare:

una volta ogni due settimane, precisamente la Domenica, era giorno di riposo nel quale invece che svolgere i soliti lavori ci occupavamo della pulizia del nostro Block.

Quello era il giorno che tutti i deportati aspettavano con più ansia; dava quasi una parvenza d’umanità a quel posto, fornendo un pasto più abbondante del solito o permettendoci di dormire poco di più.

Tutti riposavano, relativamente parlando.

Tutti tranne gli addetti alle camere a gas.

Sebbene il loro lavoro consistesse nello spostare i corpi dei morti, era sicuramente il più faticoso di tutti dal punto di vista psicologico: ti distruggeva, ti logorava e soprattutto, ti ricordava quale piega avrebbe potuto prendere così, da un giorno all’altro, il tuo futuro.

Li vedevi lì, i volti tesi in un’espressione dura e incredibilmente triste, che trascinavano il corpo della persona con cui avevano magari parlato il giorno prima.

Quel giorno quel compito capitò a me.

Era la prima volta che vi andavo e fu terribile la sensazione che provai entrando in quella camera carica di morte ed è pressoché impossibile descriverla: la prima cosa che ti colpiva era il tanfo incredibile di cadavere, ti entrava nel naso e non ne usciva più e ti provocava le vertigini talmente era forte; la seconda cosa era la grande, o meglio ENORME, quantità di corpi: uomini e donne, anziani e bambini, bianchi e neri, ebrei e musulmani, tutti erano ammassati là senza alcun riguardo.

Iniziai a spostare i corpi.

Tentavo di trattarli con più rispetto che potevo, ma ciò mi rallentava, perché non mi limitavo a prenderli per un arto: li trattavo con gentilezza e osservavo loro il rispetto dovuto ai defunti.

“Smettila o metterai nei guai anche me!” Mi disse ad un tratto il mio compagno di lavoro.

“Perché?” gli chiesi.

“Perché dobbiamo essere veloci: la stanza dev’essere vuota per questo pomeriggio e se tu vai avanti così non lo sarà ed a quel punto non faranno distinzione tra me e te.” Rispose lui mentre continuava a lavorare.

Non fece nemmeno in tempo a finire di parlare che entrarono nella camera un soldato insieme al tenente Hale.

Io e il mio compagno ci guardammo per poi fermarci e fare una specie d’inchino.

Tornammo al lavoro mentre i due militari parlavano tra di loro.

“Muoviti o siamo morti! Vengono qui per controllare che abbiano scelto le persone giuste per questo lavoro. Se non ci considereranno tali i prossimi a venir trasportati saranno i nostri corpi.” Mi disse il mio compagno ma non lo ascoltai, quei corpi erano appartenuti a delle persone e mai avrei mancato loro di rispetto.

“Tu, vieni qua.” Mi chiamò il soldato.

Finii di trasportare il corpo, dopodiché andai dai due militari.

“Il tuo nome.” Disse il soldato.

“Stiles Stilinski.” Risposi io, ben consapevole d’aver commesso un grave errore.

“Ho detto: il tuo nome.” Mi rispose il soldato.

“E174518 signore.” Risposi io.

“Devi essere più veloce.”

“Non posso signore.” Risposi.

Non mi sarei mai piegato a quell’ordine.

Mai.

“Perché, -mi chiese il tenente Hale interrompendo il soldato- sei forse infortunato? Se così fosse dovresti trovarti nel Ka-Be.”

“No signore, non sono infortunato. Ma questi corpi meritano di essere trattati come tali e non come bestie. Lei non crede?” risposi infrangendo un’altra regola: mai fare domande.

Il tenente si scambiò un’occhiata con il soldato il quale, ad un cenno del tenente Hale, alzò un braccio e mi colpì in pieno volto con uno schiaffo talmente carico di rabbia e di odio che mi ruppe il labbro.

“Questi cadaveri non meritano rispetto: animali erano, animali sono ed animali resteranno.” Disse il soldato, dopo essersi pulito la mano dal mio sangue sulla casacca di uno dei cadaveri, mentre il tenente Hale non mi perdeva di vista.

“No signore, non lo sono.” Risposi al soldato, senza però smettere di guardare negli occhi il tenente.

“Come hai detto di chiamarti?” mi chiese quest’ultimo.

“E 174518.”

“Bene. E 174518, fatti trovare domani mattina davanti al mio ufficio.” Rispose con un’espressione che era un misto tra il truce ed il divertito che mi inquietò molto, provocandomi brividi freddi lungo la schiena.

“Ma signore, non credo che il comandante del campo sarà…” tentò di protestare il soldato, subito interrotto dal suo superiore.

“Con il comandante ci parlerò io.” Rispose il tenente, dopodichè se ne andarono.

“Amico, devi avere qualcuno che ti protegge lassù per essere ancora vivo.” Mi disse il mio compagno ma io non gli risposi, ancora inquieto per lo sguardo che mi aveva rivolto il tenente Hale.

***

L’ufficio del tenente era come una calda coperta di lana messa sulle spalle in una fredda giornata d’inverno.

Quel giorno pioveva ed io mi sentivo un po’in colpa per non essere con gli altri a lavorare nel fango.

Stavo in piedi davanti a quell’uomo che invece era seduto dietro la scrivania.

Ormai erano parecchi minuti che ci fissavamo negli occhi senza fare o dire qualcosa.

“Non sei ebreo, né omosessuale, né musulmano. Sei cittadino tedesco, allora perché sei qui?” mi chiese con sguardo indagatore.

“Ho tentato di salvare un bambino”

“Perché?”

“Perché i soldati volevano portarlo via.”

“Era ebreo.”

“Non è una colpa.”

“Tu credi?”

“Sì, lo credo.” Risposi con voce e sguardo ferma.

Scese nuovamente il silenzio durante il quale non smettevo di tenere i miei occhi fissi in quelli dell’uomo davanti a me.

Potevano farmi tutti i giochetti psicologici che volevano, potevano picchiarmi quanto desideravano ma non mi sarei piegato.

“You’re not a hero.” Sussurrò il tenente mentre si alzava dalla sedia per venire verso di me.

Perché aveva detto quella frase?

Cosa significava che non ero un eroe?

Cosa voleva dirmi con quelle parole?

Si fermò davanti a nemmeno un passo di distanza da me e da quella distanza potei osservarlo meglio: aveva i capelli neri, un taglio particolare né corto né lungo, la mascella perennemente contratta, come se fosse sempre nervoso, una leggera barba, le labbra sottili piegate in una linea dura.

Ma quello che più mi colpì furono i suoi occhi: erano verdi, ma non di un verde qualsiasi, no.

Erano di un verde particolare, al centro quasi gialli, poi diventavano di un verde sempre più intenso che sul bordo diventava paradossalmente blu scuro.

Erano occhi ipnotici, in cui potevi perderti ed annegare con facilità.

Si avvicinò ancora di più ma non indietreggiai.

Alzò una mano e con un dito mi toccò il labbro rotto, ancora dolorante dal giorno prima.

Il contatto con la sua pelle mi fece male, non solo per via della ferita, ma anche dentro.

Mi sentii come scosso da una qualche scarica, ed il mio cuore prese a battere velocissimamente.

Ritrasse quasi subito la mano, l’espressione che per un brevissimo istante mi era sembrata preoccupata era tornata quella truce di sempre.

“Vai nel Ka-Be e comunica loro che il tenente Hale ha detto di farti medicare.” Disse tornando alla scrivania ed iniziando a scrivere su di un foglio, che poi firmò.

“Consegna loro questo e non avrai problemi. Quando hai finito torna qui.” Aggiunse e sparì in un’altra stanza.

Feci come mi aveva detto, quasi in uno stato di trans.

Non riuscivo a concepire bene cosa fosse successo.

Tornai nel suo ufficio ma lui non era lì.

Mi guardai intorno.

La libreria dietro la scrivania era piena di fotografie: vi erano anziani e giovani, donne e uomini.

In una riconobbi il tenente Hale che abbracciava una donna molto simile a lui, probabilmente sua sorella.

Non so il perché ma rimasi incantato da quella fotografia, tant’è che non mi resi conto che l’uomo era tornato.

“E 174518.” Mi chiamò e subito mi girai, il cuore che batteva a mille per lo spavento.

Calò nuovamente il silenzio, che venne interrotto da una domanda che tentavo di reprimere.

“E’ sua sorella?” chiesi, incapace di trattenermi.

L’uomo non rispose ma mi guardò con sguardo truce.

Poi sospirò.

“Si, è morta un anno fa.” Disse.

“Mi spiace.” Risposi io d’istinto.

“Tornando a noi, ti ho voluto qui per un motivo preciso.” Disse andando a sedersi nuovamente alla scrivania.

“Tu sei diverso. Non riesco a capire in cosa ma lo sei: hai quella luce negli occhi, quella forza di volontà che non ti fa piegare. Tu sei diverso da tutte le persone presenti in questo luogo, esattamente come me. Per questo lavorerai per me.”

“Signore?” chiesi confuso.

“Hai capito bene. Oltre ai tuoi normali compiti farai anche quello che ti dico io. Se durante il tuo turno di lavoro dovessi aver bisogno di te, tu lascerai quello che stai facendo e verrai qui o nel luogo che ti dirò. Il tuo nome dice che devi essere educato dico bene? Ma mi sembra che non stia funzionando il loro metodo. Perciò userò il mio metodo.” Disse.

‘Il loro metodo”.

Quelle parole mi colpirono, quasi come se lui non si identificasse con gli altri soldati, come se si ritenesse…diverso.

Vedendo che non dicevo nulla, perso nei miei pensieri, disse:
“Mi hai sentito?”

“Sì signore.”

“Bene, ora puoi andare, non ho altro da dirti.” Mi congedò.

Quando stavo attraversando l’uscio della porta aggiunse:

“Cerca di non farti ammazzare, eroe. Mi servi vivo.”.

Con le sue parole nelle orecchie andai confuso alla miniera: mi aspettava un’altra dura giornata di lavoro.

 

 

 

 

NdA:
Buonasera!
Eccomi qui con il secondo capitolo!
Sono contenta che vi sia piaciuto il primo, dico davvero!

Detto questo potrei anche chiudere qui le note, ma mi prendo solo due minuti per parlare di una cosa accaduta oggi:

un ragazzo di 15 anni a Roma si è suicidato perché oppresso dai compagni che lo deridevano perché gay, dai professori che l’ostacolavano nel suo essere se stesso e dai genitori che non lo capivano.

Non è giusto morire a 15 anni,

non è giusto morire perché gli altri non ti accettano per come sei.

E’ orribile vedere che ancora nel 2012 ci sia gente così meschina e cattiva che si diverte a far stare male gli altri.

Riposa in pace A., ‘ragazzo dai pantaloni in rosa’.

   
 
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