~There was a Town~
C’era
una città. Una città come tante, con i suoi
abitanti, le sue case, le sue
strade.
C’era
un parco. Un piccolo sputo di verde che spezzava la monotona tristezza
del
grigio dell’asfalto.
C’era
una panchina. Una di quelle dove gli innamorati si fermano per
scambiarsi baci,
carezze, discussioni, un oggetto intriso di momenti di ogni tipo.
C’era
un orsacchiotto. Un pupazzo custode dei sogni, dei desideri, delle
paure di un
bimbo, un unico compagno di giochi e solo amico fidato.
Ogni
pomeriggio era solito gironzolare nel parco della città da
solo, con l’unica
compagnia del suo orsacchiotto di peluche.
Amava
quel pupazzo. Gli era stato regalato da sua madre per il suo terzo
compleanno e
da quel giorno non se ne separò mai più, ovunque
andasse teneva sempre stretto
tra le braccia il suo adorato Tom.
Roxas
riteneva Tom il suo migliore amico, gli confidava ogni suo segreto e
giocavano
sempre insieme. Sapeva che qualunque cosa sarebbe successa, ovunque
sarebbe
andato, lui e il suo orsacchiotto sarebbero stati per sempre insieme.
Avevano
molti anni di differenza, infatti Axel aveva quasi vent’anni
e per lui il
piccoletto era come il fratellino minore che aveva sempre desiderato e
non
aveva mai avuto.
Era
un ragazzo con una visione scura del mondo. Riteneva che anche se Roxas
era un
bambino non doveva lasciarsi abbindolare dalle favole che gli
raccontavano a
scuola, doveva crescere e prima lo avrebbe fatto, meglio avrebbe potuto
affrontare il mondo che lo circondava, una prigione di uomini che
dietro ai loro
sorrisi e alle parole cortesi nascondono odio, rancore, ipocrisia,
egoismo e
soprattutto insoddisfazione per una vita che li costringe ad essere
ciò che non
vogliono essere, ma ciò che la società li obbliga
a diventare.
Lui
sapeva bene fino a che punto poteva arrivare la crudeltà
umana, aveva
sperimentato sulla sua pelle cosa vuol dire la stupidità e
la disperata
concretezza del genere umano.
Quello
stupido pupazzo teneva Roxas chiuso in un mondo che non esisteva; un
mondo di
pareti di cristallo che teneva fuori tutto e tutti; un mondo che lo
rendeva
felice sì, ma che era così effimero che era
destinato a crollare e l’impatto
con la crudele realtà quotidiana lo avrebbe distrutto.
All’età di cinque anni però, aveva
cominciato a diventare vittima di strani fenomeni.
Ogni tanto diceva di ricevere
visite da parte di strani esserini chiamati heartless.
La madre riteneva che quelle strane
visioni del figlio fossero delle piccole ricerche di attenzioni da
parte di un
bambino trascurato che voleva più giochi e più
carezze dai genitori, oppure una
conseguenza dovuta alle troppe ore trascorse a rimbecillirsi davanti a
fate, cavalieri
e altri strani personaggi dei suoi programmi preferiti .
Tutto andò avanti normalmente
finché Axel non cominciò a parlare di strane
conversazioni che teneva con
questi esserini, che gli parlavano di oscurità, luce, cuori
e roba simile.
Ripeteva sempre di essere
costantemente seguito da queste creature. A scuola veniva sempre
isolato dai
compagni e spesso era vittima di derisioni perché era
considerato da tutti un matto,
uno squilibrato, un pazzo… ma nessuno sapeva che in
realtà la sua non era
pazzia ma un dono tramutato in punizione.
Questi heartless intaccavo
l’equilibrio psicologico del bambino.
Infatti Axel non solo sembrava che
parlasse da solo, ma in più aveva nei confronti degli
estranei, soprattutto
verso coloro che lo deridevano e lo umiliavano, particolari
atteggiamenti
aggressivi.
Quando aveva appena dieci anni, la
madre e il padre non riuscivano più a sostenere gli strani
discorsi e i
comportamenti del figlio, perciò ricorsero ad una tragica
soluzione.
Il 10 settembre nell’anno del suo
decimo compleanno, Axel fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico nel
quale fu
sottoposto ad una seria di elettroshock che miravano a ridurre le sue
strane
anomalie e i suoi comportamenti.
Ma in realtà, anche se le strane
visite diminuirono fino a scomparire del tutto in età
adulta, fu proprio ciò
che doveva risolvere il problema a decretare la sua vera pazzia.
Il bimbo e il
ragazzo
si erano conosciuti al parco un freddo pomeriggio di ottobre.
Roxas
stava come sempre raccogliendo foglie colorate e rincorrendo i gatti
che si
nascondevano nei cespugli. Axel invece era seduto su una panchina ad
osservare
il cielo.
Non
c’era il sole quel giorno. Le nuvole grigie rendevano il
cielo così pesante,
così malinconico. Odiava quel colore, gli ricordava le
pareti di quel
posto in cui i suoi
genitori lo avevano
rinchiuso per una colpa che non aveva. Gli rivennero in mente ricordi
che aveva
tentato di soffocare in ogni modo, ma che appena chiudeva gli occhi gli
passavano davanti come un film dell’orrore che aveva come
protagonista lui
stesso. Ed era proprio guardando quel cielo che gli venivano in mente
le sue
urla strazianti di dolore dovute a quelle scosse che tormentavano e
distruggevano il suo corpo. Non avrebbe mai ceduto. Anche se avesse
dovuto
continuare a soffrire per sempre non si sarebbe mai lasciato
sopraffare. Tutto
ciò che realmente voleva era che qualcuno gli si
avvicinasse, lo abbracciasse e
gli sussurrasse “io ti credo”; voleva che qualcuno
capisse che il suo strano
comportamento non era dovuto ad un qualche tipo di squilibrio mentale,
lui non
aveva bisogno di elettroshock o roba del genere, lui aveva bisogno di
qualcuno
che lo capisse e lo facesse uscire da quel suo sentirsi uno sbaglio, o
meglio,
un pazzo. Ed è proprio ciò che fece il piccolo
Roxas quel giorno. Non riusciva
a spiegarsi il perché, ma appena vide la figura di quel
ragazzo con gli occhi
persi nelle nuvole la cosa più spontanea che gli venne in
mente di fare fu
quella di avvicinarsi e vedere chi fosse quel buffo signore con i
capelli
strani, come aveva pensato lui.
Era
un tipo bizzarro, con gli occhi fissi in alto, i pugni stretti, con gli
occhi
che stillavano lacrime amare e le sue labbra socchiuse in un
sussurrò…
“perché nessuno mi crede”.
Ciò
che fece il bambino quel pomeriggio fu proprio realizzare il sogno di
quel
ragazzo. Si aggrappò ad una sua gamba, gliela strinse forte
e gli disse “Io ti credo”.
Da quel giorno si videro
tutti i giorni, sempre alla loro panchina davanti la quale si erano
conosciuti.
Grazie
a quel bambino riuscì a capire che la vita non è
grigia ma ha mille sfumature
di infinti colori;
la
vita è gioia, luce, la cosa più bella che uno
possa ricevere, ed è la felicità ciò
che può ricambiare equamente questo dono ricevuto. La
tristezza prima o poi è
destinata a finire, l’esistenza umana è fatta per
essere colorata
dall’esperienze che anche se non sono tutte positive rendono
le persone ciò che
realmente sono e possono diventare.
Roxas
era il suo angelo custode, ne era gelosissimo, ed era anche per questo
che la
presenza di quel futile e inutile peluche gli dava tanto fastidio.
Un
giorno Axel portò il bambino a fare un giro in macchina in
campagna, dato che
Roxas adorava la natura, quale posto poteva essere più
opportuno?
Il
ragazzo guidava, con gli occhi puntati sull’asfalto, ma con i
pensieri rivolti
ad unica cosa.
Il bimbo era seduto sul seggiolino posteriore
centrale. Aveva la cintura di sicurezza e come al solito stava
coccolando il
suo Tom.
Odiava
così tanto quell’ inutile
pupazzo...
E
fu quello l’oggetto della sua pazzia.
Mentre
guidava, Axel si girò verso Roxas e tentò in
tutti i modi di strappargli via
dalle mani Tom abbandonando il controllo dell’auto,
perdendolo definitivamente.
Ed ora era lì, tra i
riflessi abbaglianti di schegge di un vetro rotto, tra pezzi in fiamme
di un
auto distrutta, tra il sangue purpureo che macchiava la stoffa di un
pupazzo.
La
follia di un uomo aveva infranto una promessa che doveva durare per
sempre.
Aveva perso
tutto, questa volta per sempre e dell’unica
cosa che lo faceva sentire vivo, era rimasta la parte che odiava di
più.
C’era
una città. Una città sporcata dalle urla
disperate di chi aveva perso tutto.
C’era
un parco. Uno di quelli in cui non si sa mai chi si può
incontrare, uno di
quelli che può cambiarti la vita.
C’era
una panchina. Intrisa di momenti, belli brutti, di baci, carezze,
litigi,
parole perse e mai dette.
C’era
un orsacchiotto. Un inutile peluche macchiato di sangue, macchiato di
promesse
non mantenute, di un cuore spezzato e unico testimone di segreti
nefasti.
Durante il tentativo di
strappare via l’orsetto dalle
mani di
Roxas, Axel perse il controllo dell’auto che uscì
dalla carreggiata ed andò a
sbattere ad alta velocità contro un enorme quercia.
Il
piccolo Roxas morì sul colpo, mentre Axel rimase
gravemente ferito ma rimase miracolosamente in vita. Quando al ragazzo
venne
riferito che tutto ciò che rimaneva del bambino era Tom,
dopo aver perso anche
l’unico barlume di serenità che rischiarava
l’oscuro tunnel della sua mente, Axel
pianse amaramente e riconoscendosi sconfitto, tornò
l’ultima volta alla loro
panchina, vi ci appoggiò Tom e infine si tolse la vita, con
la speranza che
nell’aldilà la sua vita fosse migliore e con la
speranza di poter di nuovo
abbracciare il suo angelo custode che gli aveva dato tanto e a cui lui
aveva
tolto tutto.
~NdCari~
Salve
a tutti! :D
Questa
è la prima vera storia di Natecari, diciamo che vale un
po’ come biglietto da
visita:D.
Sono
contenta di aver pubblicato questa storia anche se all’inizio
ero un po’
titubante, ma sono soddisfatta del risultato:).
Volevo
fare un appunto che riguarda il titolo.. quei diecimila colori che
fanno quasi
male agli occhi hanno un motivo… sono partita da colori
freddi perché
all’inizio Axel vede tutto grigio e triste mentre poi capisce
che in realtà il
mondo è a colori, infatti poi nelle ultime lettere si arriva
al giallo,
all’arancione, al rosso che invece sono più forti
e caldi… è una cavolata lo
so, ma mi piacerebbe che trasparisse questo messagio:).
Devo
rivolgere un ringraziamento speciale a
mia cugina per aver pazientemente corretto la
punteggiatura e alcune
frasi che non filavano proprio per niente.
Inoltre
ringrazio di cuore tutti coloro che leggeranno e recensiranno:D
Spero
che alla fine non mi sia uscito solo un polpettone di pensieri
assurdi:).
Tanti Ciao♥
~Natecari♥