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Autore: Redrum    12/06/2007    0 recensioni
Finalmente la seconda serie delle avventure di Ray Oddname e dei suoi amici, protagonisti ignari di storie parallele a quelle di Harry Potter... dove li avevamo lasciati con «Deus Ex Machina»? La guerra, i Mangiamorte, il terrore, il panico... e adesso? Il passato, il presente e il futuro sono i veri protagonisti di questa seconda stagione. Complessa, intensa, intricata, convulsa, avventurosa... una storia a capitoli, in continua evoluzione, senza una meta precisa. Una storia che va vissuta. Forse più strana, forse più cruda, più volgare... Leggete e giudicate. Il futuro di tutti i personaggi che avete amato, odiato, conosciuto, stimato, con cui avete pianto, riso, sofferto e combattuto... beh, quel futuro è qui.

[Redrum feat. jewel]

Meglio concentrarsi sul cibo. Beh, questo è ciò che sta facendo Jack, alla mia sinistra. Ha unito prima e seconda porzione col contorno in una specie di pastone denso e informe, che ha prontamente strizzato a forza tra due fette di pane grosse come cerchioni di un camion. Cerco di non vomitare al suono dei suoi sgradevoli sbrodolii, e infilzo con la forchetta quel che rimane della mia bistecca al sangue. Accanto a me, a destra, Liam sta fissandomi incredulo, con un mezzo sorriso, mentre tende l'orecchio agli spiacevoli grugniti provenienti da quell'altro deficiente.

Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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(8)

Idrovora


Mettiti la maschera migliore

per nascondere l'animo peggiore;

sali sul palco

e fai un grande spettacolo.


Sal Gascoyne

(Chester, Galles, agosto 1997)







30 maggio 1990



guardiamo gli insetti

sbattere sulle lampadine

li vediamo friggere

diciamo

non ce la fanno

a entrare nella luce

quegli stupidi


Luciano Ligabue, “Prima di accendere la tivù”







Ci vedrà.

Di questo ne sono praticamente certo. Ma lui se ne frega, quello scemo. E continua, anche. Smettila, dannazione. Perché poi ci devo sempre andare di mezzo io, non lo so, ma tant'è: è sempre successo così. E ho come il terrore che questo sarà ciò che accadrà sempre. Giorno merdoso, recita una scritta fatta da me sul quaderno con la penna nera.

«Guarda!», mi bisbiglia tutto felice. Che idiota. Eccolo lì, seduto dietro il suo banco, accanto a me, apparentemente composto. Ma c'è qualcuno, rivolto alla classe dall'alto della pedana su cui la cattedra è posta, che ignora le mutande abbassate di quel bambino di dieci anni dai capelli color grano. Giuro che non posso fare a meno di ridere, facendo saettare lo sguardo dal volto serioso della maestra alle natiche rosee che quel deficiente si ostina a strusciare sulla seggiola. Mi copro la bocca e mi tappo il naso per bloccare il respiro isterico, sperando di non farmi sentire.

Cavolo, Jack, piantala!

«Guarda, cugino puzzoso!», ripete. Io non riesco a trattenermi.

«Che intimi indossa?», sibilo tra le lacrime, mimando la pubblicità che si vede in tivù. Attacchiamo entrambi a sghignazzare, e abbassiamo la testa contro il banco. Forse in modo troppo brusco, a giudicare dal tonfo che sento provenire dalla mia sinistra.

«Oh, cacchio», borbotta lui seccamente. La maestra conficca le pupille nere nelle mie, e poi lancia uno sguardo accigliato a mio cugino.

«Huxley! Oddname!», grugnisce. «Che avete da far baccano?»

«Mi scusi, non lo facciamo più». La falsa voce contrita di Jack mi fa venire ancora più voglia di ridere. Vedo la signora Creed puntarci contro quelle palle nere di occhi, come quelli degli squali, aggrottando le sopracciglia dietro gli occhialetti squadrati.

«Lo spero bene», sbuffa, e con un gesto teatrale si volta verso la cartina degli Stati Uniti alle sue spalle. Le sottili mani scheletriche intrecciate di vene in rilievo scorrono con un fruscio sulla bandiera appesa di fianco alla lavagna. L'interminabile sproloquio della maestra non mi sfiora di striscio, e gli occhi mi si concentrano sul falco al centro della bandiera, le ali spiegate sopra lo stendardo con scritto “premiamo le nostre libertà, manteniamo i nostri diritti”. Non so come mai, ma ho come l'impressione che quel motto non voglia dire un bel niente.

Sono ancora concentrato a pensare a per quanto poco io e Jack l'abbiamo scampata, quando con un autentico spasmo di panico sento la sua voce bisbigliare di nuovo. Non a me, stavolta.

«Ehi, Wilson! Wilson!», sibila mio cugino, rivolto a un ragazzo ripetente, seduto una fila più avanti. Si volta proprio mentre la signora Creed non sta guardando, e i capelli castani gli ricadono sugli occhi.

«Ohi», fa lui.

«Fai lo stuntman!», risponde elettrizzato Jack. Oh, no, ti prego. Sidney, non farlo, non lo stare a sentire.

«Non posso... mi vede», mormora. Perfetto. Poi però sembra ripensarci. «Perché, che stunt devo fare?», chiede, con una nota di interesse nella voce. No, cavolo, no!

«Uno qualunque, dài, UomoScimmia, fallo per me!». Oddio, no, accidenti, Jack! Ci vedrà!

«Okay», annuisce Sidney compiaciuto, dopo un attimo di riflessione. Ecco. Sono definitivamente finito, penso disperatamente, e appoggio di nuovo la fronte sul tavolo freddo, proprio mentre Sidney Wilson si alza in piedi e, prendendo la rincorsa, si lancia a capofitto su una fila di seggiole vuote. Mentre l'aula rimbomba delle risate di Jack, vedo solo una cosa davanti a me. Sfocata, nera, contorta, la scritta giorno merdoso mi ammicca dalla pagina bianca del quaderno.


*


Devo ammettere che, nonostante tutto, non riesco a trattenermi. Il direttore della scuola ci ha appena fatto una ramanzina interminabile. Sidney è stato sospeso per una settimana, Jack ha preso una nota sul registro, e io non si sa come sono riuscito ad esserci di mezzo, beccandomi una punizione insieme a mio cugino, ma ancora non sono capace di controllare gli scossoni isterici del mio ventre. Devo scoppiare a ridere in faccia a qualcuno. Devo. Poi mi ricordo. L'ho già fatto. Sono già scoppiato a ridere in faccia a qualcuno. Al direttore Maugham, per la precisione. E lo ha fatto anche mio cugino. Ecco perché ci sono entrato di mezzo anche io. Ecco perché io e Jack siamo in punizione. Camminiamo per il corridoio deserto, e io lo guardo di sottecchi. Sembra fregarsene, come sempre. Io invece sono tutto l'opposto. Certo, ho ancora una voglia tremenda di pisciarmi addosso dalle risate, ma la paura della reazione dei miei genitori si sta diffondendo nelle mie membra come veleno di un cobra. Che cosa diranno quando sapranno che noi due non potremo più partecipare alla recita di fine anno? Era un'occasione importante, c'erano scuole da tutti gli Stati Uniti, o quasi. Il direttore ci aveva lasciato il libriccino della serata, per farci riflettere sulle nostre azioni e farci provare rimorso. Cosa che io non avevo affatto, e immagino nemmeno Jack. Un paio di battute in una rappresentazione scrausa di Grease potevano anche andare a farsi benedire, la cosa non mi preoccupava. Ma le sculacciate, quelle facevano male sul serio. Arranco accanto a mio cugino, mentre lui con una manata accartoccia un disegno appeso al muro, frutto dell'impegno dei bambini della classe prima C. Evidentemente noi di quinta abbiamo questo potere sui minori, instaurare un regime di terrore. Doveva essermi sfuggito.

«Jack, che diranno mamma e papà?»

«Perché, a me?», ribatte lui, e strappa in quattro pezzi il disegno. Addio all'arte. Io gli sventolo davanti il libretto, e le pagine plastificate gli soffiano aria sul viso, scompigliandogli la frangia bionda.

«E la recita?», domando, non proprio triste. Non so voi, ma io odio da morire il fatto di dover pronunciare a voce alta undici stupide parole davanti a genitori con le macchine fotografiche puntate contro di me come mitragliatrici. Jack mi strappa di mano il libriccino e lo sfoglia.

«Ma chi se ne frega, Ray... Dài, la recita è una cacca totale», dice, e inizia a leggere storpiando tutto. «Eppoi io preferisco starmene a casa piuttosto che vedermi... Suoni e colori della Mia Merda, della scuola elementare di Red Wing, Minnesota, oppure rompermi le palle con il Concerto degli alunni della Sezione Musicale di Moncùli, Illinois»

«Ehi, Jack O' Lantern», ribatto. «Piantiamola con le cavolate, che quando torniamo a casa ci fanno il culo rosso come quello di un babbuino»

«Oh, no, già! Stasera ceniamo tutti insieme!», geme, schiaffandosi una mano sulla fronte.

«Eh, sì», annuisco. «Sarà una scenata memorabile»

«Non necessariamente». Fa un sorrisetto furbo, di quelli che mi fanno presagire il peggio.

«E perché?»

«Semplice», fa lui. «Non diciamo niente»


*


La situazione non è poi così critica, in fondo. Basta controllarsi, e non pensare – ogni volta che lo sguardo dei propri genitori si aggancia al nostro – alla loro reazione delusa e arrabbiata. Meglio concentrarsi sul cibo. Beh, questo è ciò che sta facendo Jack, alla mia sinistra. Ha unito prima e seconda porzione col contorno in una specie di pastone denso e informe, che ha prontamente strizzato a forza tra due fette di pane grosse come cerchioni di un camion. Cerco di non vomitare al suono dei suoi sgradevoli sbrodolii, e infilzo con la forchetta quel che rimane della mia bistecca al sangue. Accanto a me, a destra, Liam sta fissandomi incredulo, con un mezzo sorriso, mentre tende l'orecchio agli spiacevoli grugniti provenienti da quell'altro deficiente. Albert Atticus Oddname, suo padre, gli sta scompigliando i riccioli mori, mentre a voce stentorea declama qualcosa di imprecisato sul mondo dei computer dai primordi ai giorni nostri. Vedete, il cervello contorto del buon vecchio Al funziona così: si prepara con cura un argomento, studiandoselo a fondo su libri ed enciclopedie; poi, di solito alle cene di famiglia come questa, aspetta con ansia che tale argomento salti fuori (o meglio direziona con audacia la conversazione verso di esso), per poi esordire con la fatidica frase “ah, ma voi allora non avete capito niente... ve lo spiego io”. Il resto ve lo potete immaginare. Venti minuti di sproloqui su cose di cui alla fine ai presenti non è che interessi proprio tutto, accompagnati dallo sguardo sconsolato di Marion, sua moglie. Lei è un tipo sempre calmo, con un'innata avversione alle volgarità e alle parolacce. Nessun dubbio quindi che si astenga dal conversare con me, Jack o Liam, il quale anzi prova un morboso piacere nello sparare le più inaudite volgarità in sua presenza. Marion preferisce quindi intrattenersi o con John, mio padre ed esatto opposto di suo fratello Albert, o con chiunque dei presenti non trovi interessante parlare della macchina addizionatrice di Blaise Pascal.

Mia madre, nel frattempo, sta chiacchierando con i coniugi Huxley. O meglio, con la madre di Jack, dato che il povero Frank è ancora sconvolto dalla capienza orale di suo figlio, e sembra volersi trattenere dal prenderlo a vassoiate in faccia. Poco più in là, su una seggiola dotata di qualche cuscino per farla stare al livello del tavolo, la piccola Jane Huxley si bea del suo ergonomico ciuccio di gomma in versione extralarge, e sembra voler gareggiare con suo fratello a chi produce il suono più imbarazzante. Jack, dal canto suo, ha abbandonato il vizio del ciuccio solo pochi anni prima, per potersi applicare con più costanza ai suddetti aborti culinari. Bisogna aggiungere che Jane in realtà si ostina a tenere il ciuccio nonostante sia abbastanza grandicella da parlare e andare a scuola. Lo faccio notare a Liam, e lui dice che è meglio che non si metta anche a chiacchierare, sennò potrebbe succedere come il giorno prima. Avevamo pranzato tutti seduti sulla scala che porta alla terrazza, e all'ennesima (per noi) cavolata che Jane aveva fatto uscire dalla sua bocca inesperta di bambina piccola in mezzo a tre stronzi della nostra portata, Liam aveva fatto scattare la gamba e fatto affondare la scarpa nel suo piatto di gnocchi al pomodoro. Col piagnisteo che era seguito noi avevamo preferito levare le tende e andare a costruire trappole, uno dei nostri passatempi preferiti dopo il rugby nel giardino, in cui Jane era il bersaglio prestabilito da placcare ogni sette secondi.

«Allora, com'è andata a scuola oggi, ragazzi?», fa mia madre guardando sorridente me e Jack. Liam si mette comodo sulla sedia foderata di vimini, e mi fissa ghignando. Lui e i suoi sono del Missouri, e in questi giorni sono venuti a trovarci, dato che Liam non ha scuola (non venitemi a chiedere perché). Io e Jack ci scambiamo una rapida occhiata d'intesa.

«Bene», borbotta lui, e io gli faccio l'eco. Mia mamma fa una faccia scettica, e sento la necessità di aggiungere qualcosa di pittoresco per farcire la sintesi della nostra giornata scolastica, glissando su particolari compromettenti.

«Abbiamo studiato la storia di Des Moines», azzardo. Jack coglie al volo l'attimo.

«Sì, e poi tutti i fiumi...»

«... e le montagne», aggiungo. Albert interrompe il suo eloquio sul codice binario per farmi notare che l'Iowa è prevalentemente collinare, ma io lo ignoro, e lui torna ad occuparsi della sua spiegazione, che ormai solo il padre di Jack sta ascoltando distrattamente, dato che suo figlio ha terminato il suo pranzo da infarto e quindi non ha più occasione di distrarsi colpendolo a vassoiate come forse si era ripromesso di fare. Marion decide di fermare suo marito, e provvidenzialmente si inserisce nella conversazione cambiando argomento. Premetto che questa è una fortuna non solo per Frank, che dall'espressione sconvolta pare proprio non possa più sopportare altre digressioni sulla codifica in linguaggio macchina, ma anche per me e Jack; le scorte di farciture per la nostra giornata alla scuola elementare di Des Moines si stanno pericolosamente prosciugando.

«Ehi, Al, che ne dici se domani mattina ci facciamo tutti una passeggiata, visto che è domenica?», gli dice sorridendo in modo amabile. «Potremmo fare un picnic fuori, vicino ai campi degli Huxley»

«A me va benissimo», fa lui tranquillo, mentre io cerco di non immaginare Jack durante un picnic. «Ehi, Frankie, i vostri omonimi stanno diventando parecchio ricchi, dico bene? Potreste spacciarvi per parenti»

«Non saprei di che farmene di tutti quei terreni...», ribatte scuotendo la testa. «E poi credo che facciano gola a un po' troppe persone. Personalmente con quegli Huxley non ci voglio aver nulla a che fare»

«Eh, già, continueremo a usare la ditta di mia sorella come copertura...»

«Insomma, Albert!», esclama esasperata sua moglie. Francamente non capisco cosa significhino tutti quei discorsi da adulti, e se devo essere proprio sincero non mi sono mai piaciuti molto. Anche Jack sembra trovarsi a disagio, mentre Liam continua a trattenersi dallo scoppiare a ridere. Un qualcosa di marrone e umido viene sparato attraverso il tavolo, e rimbalza contro un candeliere. Per un attimo mi immagino che sia un tappo di una bottiglia, poi mi accorgo che è stata Jane, improvvisatasi campionessa della Cannonata del Ciuccio. Jack le molla un paccone sulla nuca, facendola frignare.

«'Ackie ridammi il ciuccio!», mugola la piccola. Suo fratello lo afferra con uno sbuffo e glielo porge, premurandosi di intingerglielo per bene nel barattolo di paprika prima di ridarglielo. Per fortuna quel mitico angelo custode che poi è mia madre si accorge del misfatto e toglie di mano alla bimba quella macchina di morte, con grande disappunto di Jack.

«Cos'era quello?», gli chiede. Mio cugino risponde stizzito.

«Era il ciuccio di Jane, uffa, volevo ridarglielo». È incredibile come riesca a convincersi di avere ragione, a volte. Mia madre però scuote la testa ed allunga la mano verso di lui, sporgendosi sul bordo del tavolo.

«Non dicevo il ciuccio... parlavo di quello», dice, e punta il dito verso la sua tasca dei jeans. La guardo e mi viene un colpo: dall'orlo sporge il libriccino della recita scolastica. Quando mia madre se lo fa consegnare Jack esordisce nuovamente in una delle sue facce contrariate, e spara la più grossa balla mai esistita.

«È per la nostra recita, volevamo farvi una sorpresa e farvelo vedere dopo cena, ecco»

«Uh, che bello», fa la mamma di Liam, mentre io cerco di percuotermi la fronte con più forza possibile. «Dammi un po', Marla...»

«Accidenti, quante scuole partecipano!», esclama Frank allungando il collo. Albert invece sembra annoiarsi di fronte ad argomenti così plebei, e lo sguardo allucinato tradisce una segreta voglia di parlare a qualcuno della cosa più pallosa esistente su questa Terra.

«Oh, Ray, hai visto?», mi fa mio padre. «C'è un concerto degli alunni di una scuola elementare dell'Illinois, e c'è una bambina che suona il violino come te»

«Che bello», mormoro, deciso più che mai a scomparire sottoterra.

«È vero», annuisce mia mamma. «"violino solista: Julie Adams"... magari diventate amici»

«Sì, della famiglia Addams», borbotta Jack, e insieme scoppiamo a ridere.

«Non è divertente, ragazzi», interviene Marion, e io ho come l'impressione che stia per succedere una disgrazia. Vedo Liam aprire la bocca, e serro le palpebre, preparato al peggio.

«Ma', non rompere i coglioni», proferisce. Lo sapevo.

Il suono viscido che segue mi rende partecipe del fatto che qualcuno, con una manata, ha fatto incontrare la faccia di Liam con il piatto di macedonia. Serro le palpebre ancora più forte.


*


Ho sbadatamente tralasciato un particolare importante in tutto questo. Una delle migliori doti di Albert, oltre agli sproloqui e al baseball con la testa di suo figlio, è quella di raccontare le balle più assurde. L'unico a crederci come un coglione è Jack, dato che lui si ciba di stronzate. Lui carbura con le stronzate. E ne spara a centinaia al minuto, quindi deve pur avere una fonte. Beh, Al Oddname è una di queste. Dopo la cena lui ci ha radunato accanto alla portafinestra che dà sulla terrazza, e, indicando la torre merlata che incombe sulla nostra casa, ha pensato bene di narrarci i misteri celati al suo interno, conditi con le più fenomenali vaccate che la storia dell'uomo ricordi.

«Vedete, io e Johnny, tuo papà», racconta indicandomi con la mano, «non avevamo mai voglia di studiare, e invece di fare i compiti per la scuola scappavamo di casa e salivamo nella torre, perché dentro c'erano delle cose terrificanti». Lascia una pausa di sospensione per godersi l'effetto ottenuto, vale a dire me e Liam mediamente interessati e Jack con la bava alla bocca come se avesse un attacco epilettico.

«Dai, zio, vai avanti!», gongola quel deficiente. Al non se lo fa ripetere due volte.

«E quelle volte che uscivamo a giocare c'era anche il tuo papà, Jack»

«Davvero?»

«Certo», annuisce Albert, e con un gesto teatrale torna ad indicare la torre. «Lo sapevate che al piano terra, accanto alle scale, c'è una stanza...»

«Sì!», sbercia Jack come un cretino, gesticolando a tutta birra e dondolandosi sulla sedia. «Quella col letto con le coperte strappate, sembra il letto di un cadavere!»

«Il letto... di un cadavere?», faccio io guardando Liam, e lui mi restituisce lo sguardo più allucinato mai visto prima. Jack mi ignora, e così Al, che prosegue a raccontare fandonie come se nulla fosse.

«Beh, sì... solo che lì un morto c'è stato veramente», mormora con fare serio. A dispetto di quel distacco scettico che volevo mantenere, non posso fare a meno di interessarmi. È Al Oddname, bada bene, non faccio che ripetere a me stesso. Il più grande ballista in circolazione. Ma niente, il mio cervello di bambino non bada a queste cose.

«Papà, stai scherzando?», borbotta Liam, e questo mi solleva: non sono l'unico ad aver perso il cinismo.

«Affatto», replica quel maledetto. Volenti o nolenti, è riuscito nell'intento di abbindolarci a suon di minchiate. «Al piano superiore, poi, c'è una testa di coccodrillo con dei pugnali conficcati...»

Jack si lascia sfuggire un gridolino estasiato, e si sorregge al bordo della seggiola con le palme delle mani. Gli occhi sono grossi come scodelle.

«... e in cima», conclude Albert con un sapiente mantenimento della suspense, «c'è una pelle di leone

«Noooo!», gemo con un suono strozzato, e una parte di me (quella sana) mi maledice per averlo fatto. Ma queste storie sono così affascinanti...

«Giuro, ragazzi! E pensare che una volta io mi ci ero nascosto dentro, e quando Stephen, un nostro amico, venne su... si vide questa pelle di leone di quattro metri di lunghezza che si alzava da terra, con me dentro che ruggivo, e sembrava vero!»

«Ha! Ha! Ha! Sì è scagazzato le mutande di merda sciolta, allora!», sghignazza Jack con la sua proverbiale finezza.

«Incredibile... Dài, ragazzi, andiamo a vedere domani!», mormora Liam, e, mentre la parte sana di me è dilaniata tra cercare di capire come possa Liam non avere sviluppato anticorpi alle stronzate di suo padre e chiedersi in che parte del globo terrestre esistono leoni di quattro metri di lunghezza, sto pensando anche io la stessa cosa: voglio andare a vedere in quella torre, dannazione, è più forte di me! Per fortuna a tutto c'è un limite, e ci pensa lo stesso Al a farcelo notare.

«No, ragazzi, è pericoloso», dice scuotendo la testa. Jack si irrita subito, come al solito.

«Uffa, ma voi ci siete andati e noi no!»

«Ma Jack, ora non ci sono più queste cose nella torre... sono state tolte»

«E dove sono?», chiede mio cugino sprizzando bava come un irrigatore a pioggia.

«Chi lo sa... forse qualcuno ha pensato che erano spaventose... o forse in realtà il leone e il coccodrillo sono vivi, e aspettano... aspettano che voi entriate nella torre», bisbiglia Albert, e noi ragazzi ci guardiamo terrorizzati, nonostante tutto il suo discorso alla fin fine non voglia dire un cavolo.

«Ma... ma allora tu quando ti sei nascosto nella pelle di leone... se era vivo poteva prenderti!», sussurro, senza rendermi conto di cosa sto dicendo.

«Ho avuto fortuna... ma chi vi dice che la avrete anche voi? E poi no, ragazzi, domani dobbiamo andare a fare la passeggiata. Niente torre. Andate a letto ora, su. E chiudete le finestre... perché da lì... il leone vi vede. Tutti e tre.»

Tremiamo come foglie. Beata gioventù.


*


Mi sveglio di soprassalto, artigliando l'orlo della federa con le dita. Jack russa accanto a me, sbavando beatamente sul cuscino. Ho fatto uno strano sogno. C'era un leone che mi voleva vendere delle lampadine bucate a 7 dollari la confezione, e io accettavo barattando col ciuccio di Jane. Dannata bistecca. Scendo giù, in cucina.

No, basta, non è possibile.

Eh, sì. Eccolo lì, il vecchio Al. Pronto a trascinarci tutti in un'altra discussione su qualcosa di inutile. Scorre quel quotidiano del Missouri con aria avida, alla ricerca di qualche cronaca tragica da commentare, o, ancor meglio, di una notizia pseudo-culturale sul magnifico e inconoscibile universo dell'informatica. Distolgo lo sguardo da quella foto in copertina, e mi immagino di avere anch'io una patina sfocata sul volto, proprio come quella bimba. Probabilmente sarei reso invisibile ad Albert, e questa mi sembra decisamente una cosa positiva.

«Che palle, voglio ancora marmellata», commenta Jack offeso fissando il suo piatto spolverato di briciole.

«Devi stare leggero, 'Ackie», gli fa sua mamma con fare premuroso. «Ricordati che faremo il picnic, sennò poi dopo non mangi niente», aggiunge, e io sento il desiderio di esternarle i miei più profondi dubbi al riguardo. Liam, accanto a me, si limita ad alzare le spalle. Si ficca in bocca l'ultimo marshmallow e si mette a canticchiare una canzone che ha poco di puro e casto. Ride. Sposto lo sguardo fuori dalla finestra, mentre mia madre mi afferra le spalle in un abbraccio strettissimo e si mette a scompigliarmi i capelli e a farmi le coccole, cosa che sinceramente detesto quando sono coi miei amici. Il tempo è soleggiato, e all'orizzonte i campi color smeraldo ondeggiano come coperte stese ad asciugare. Non dovrebbe andare storto niente, oggi, con una giornata così. Tutti sono di buon umore, e solo io sto a farmi le paranoie su quella dannata recita scolastica. Nessun altro ha le palle girate, stamani. Beh, a parte Jack, ma non è esattamente per la recita. Mio padre si alza dal tavolo. Non dovrebbe andare storto niente.

«Ripuliamo quando torniamo, dài», propone sorridente. «Preparate le vostre cose, che usciamo!». Tutti si allontanano dal tavolo, e un concerto di cigolii di seggiole mi solletica le orecchie.

«Andiamo, Jack, prepariamo gli zaini», azzardo aggiustandomi i capelli sulla fronte.

«Sì, andiamo, ma che due cazzi, questa passeggiata di merda», ribatte secco.

No, oggi non dovrebbe andare storto niente.

Una volta giunti nella nostra camera (io e mio cugino dormiamo in un matrimoniale, come Liam non manca mai di farci notare) afferriamo ciascuno il proprio zainetto di scuola, lo svuotiamo di qualsiasi contenuto ad essa inerente e iniziamo a setacciare la stanza alla ricerca di roba utile da portarci dietro. Dopo alcuni minuti sono riuscito a radunare un piccolo binocolo, il mio registratore di audiocassette (utilissimo per immortalare i rutti di Jack), IT di Stephen King e una vecchia macchina fotografica di mio nonno Raymond; una volta constatato che il mio compare ha preso tutto il necessario per sé (vale a dire un coltellino svizzero enorme, un vasetto pieno di moccio finto, un libro su serpenti e insetti e una bussola), mi calco il berretto sulla testa, chiudo lo zaino, mi ficco il registratore Aiwa nella tasca dei bermuda, e sono pronto.

«Si va?», chiedo voltandomi verso Jack. Lui richiude il coltellino annuendo.

«Sì, andiamocene affanculo, porca puttana», proferisce.

Si va.


*


La passeggiata non è male, una volta superata la fase Sotto-Stretto-Controllo-Parentale. Dopo lunghi tratti di cammino passati sotto le grinfie dei rispettivi genitori, finalmente noi bambini siamo riusciti ad allontanarci, fregandocene di Frank e Heather che chiamano Jack, di Al e Marion che chiamano Liam, e di John e Marla che chiamano me. La sorellina di Jack ci osserva da sopra le forti spalle del papà, mentre io, seminando polvere di terra secca a ogni passo, raggiungo i miei cugini, che si sono provvidenzialmente distanziati ancora di più. Sento in modo chiaro Al sparare minchiate dietro di me. Sì, meglio levare le tende. Tiro fuori dalla tasca il registratore, dentro cui una cassetta porta la scritta Troiai visibile attraverso il piccolo oblò di plastica trasparente.

«Dài, X-Ray, fai sentire a Liam quello che abbiamo registrato ieri!», chiede Jack, mentre da un albero al lato della strada spezza un ramo e col coltellino inizia a pulirlo. Schiaccio Play, e la mia voce stridula gracchia dall'altoparlante.

...ehi, 'Ackie, cantiamo!”

cosa?”

Facciamo una canzone per benino!”

Uffa che schifo, mi rompono i coglioni, le canzoni”, ribatte la voce di Jack, e il suo corrispettivo in carne e ossa scoppia a ridere come una iena.

«Ha! Ha! Ha! Hai sentito, Lee?»

«Figo!», ghigna Liam, mentre il nastro continua a girare. Incredibile come una sola parolaccia possa far diventare “figa” una registrazione.

...ma lo bevi, 'sto succo?!”, prosegue la mia vocetta.

No!”, urla in risposta quella di Jack, e subito dopo un suo rutto rimbomba sonoro. “Capito? Capito? Sei – uno – stronzo!”

Sbotto a ridere anch'io, e copro il registratore con il palmo della mano mentre vedo arrivare Al di gran carriera.

«Ragazzi, che fate?»

«Ascoltiamo la cassetta», risponde Jack, proprio mentre un suo rutto ancora più potente scaturisce da quell'Aiwa infernale. Liam sta facendo l'impossibile per non ridere in faccia al suo padre biologico, e la situazione non migliora quando Al chiede:

«Ehi, lo sentite questo rumore?»

Io premo il tasto Stop, perché non credo di poter sopportare altro: mi fa malissimo la pancia, e probabilmente presto mi esploderà per le troppe risate trattenute. Jack invece non ce la fa a resistere.

«Era un rutto, zio Albert!», latra. «L'ho fatto io!», aggiunge, in un moto d'orgoglio. Al scuote la testa.

«Ma che dici... no, io parlo del rumore che viene da laggiù»

«Che rumore?», chiedo incuriosito, senza capire. Tendo l'orecchio in direzione dei campi di mais alla mia sinistra, verso il punto in cui la stradina sterrata, tagliata in due da una striscia d'erba in rilievo, compie una curva e sparisce. Poi lo sento. C'è un suono continuo, una specie di lamento, di gemito, che sorge da dietro i fusti di granturco maturo.

«Riesco a sentirlo!», esulta Liam, e io gli faccio eco. Acceleriamo il passo, proseguendo verso il suono, con Al alle calcagna.

«Lo sapete cos'è, ragazzi?», domanda lui con tono criptico. «Sapete cos'è che fa quel rumore?»

«Cosa? Cosa?», fa Jack, abbaiando come un cane idrofobo. Ormai la sua curiosità morbosa è a livelli esorbitanti, e anche io, devo dire, di coccodrilli infilzati e letti di cadavere non riesco ad averne mai abbastanza.

«Si chiama idrovora», inizia Albert. «È una macchina per aspirare acqua. Sta laggiù, al lago. Vedete?». Indica dietro la curva. Allungo il collo mio malgrado, e vedo una enorme massa d'acqua verdognola che si estende per più o meno cinquanta metri di ampiezza, stretta da una cintura di mais che, vicino ai bordi del lago, si stempera in un terriccio umido e sabbioso. Agganciata sulla riva come un animale a bagnomaria, sta una specie di motore simile a quelli per motoscafo, coperto da una tenda marrone scolorita. Dei tubi fuoriescono dal corpo come zampe di ragno, per immettersi nella fanghiglia, e una ruota cinghiata gira ossessivamente con moto scoordinato, emettendo il famoso suono.

«È pericolosa, non vi dovete avvicinare assolutamente», dice Al serio. «Se cadete in acqua, quella vi risucchia come niente». Reprimo un brivido, osservando il perimetro del lago. Una rete plastificata arancione, di quelle da cantieri, corre nel settore che dall'idrovora va verso di noi, dove termina il campo degli omonimi Huxley. Un cartello giallo ammicca affisso a un palo, recitando la scritta:


CONTEA DI AXETOWN (IA)

LAVORI DI MANUTENZIONE

-DRAGAGGIO LAGO-

dir.: Craig Johnson

VIETATO IMMERGERSI

PERICOLO DI MORTE


«Davvero si può morire?», fa Liam preoccupato. Al annuisce, e temo non stia dicendo cavolate, stavolta.

«È capitato, purtroppo», racconta, giocherellando nervosamente con l'orlo della camicia azzurra. «Un ragazzo si è tuffato e l'idrovora gli ha quasi staccato un braccio». A Jack si illuminano gli occhi di una luce folle, e questo non è per niente un buon segno. Anche Al sembra accorgersene, perché ci spinge con le mani lontano da lì, facendoci proseguire. Gli altri genitori ci raggiungono, e mia madre chiede:

«Cosa è successo, Al?»

«Niente, Marla... niente», borbotta lui. «Andiamo via di qui». Non me lo faccio ripetere due volte: accelero l'andatura per affiancarmi a Jack e Liam e lasciarmi i grandi alle spalle, ma la voce di mio padre mi raggiunge, e la sua mano fa lo stesso. Mi dà un colpetto amichevole sul collo. I miei cugini si allontanano, guadagnando terreno: sono in trappola.

Corri, Ray.

«Ooh... eccoti qua, finalmente!», esclama mio papà tutto contento, massaggiandomi le spalle magre. «Che mi racconti?», chiede, mentre mia madre si mette di fianco a me. In lontananza Jack sta agitando il ramo ora sbucciato a mò di bastone da passeggio.

Scappa finché sei in tempo.

«Amore della mamma!», fa lei, scompigliandomi la frangia tipo per la sedicesima volta oggi. «Il mio tesoro fa la recita, allora!»

Oh, Gesù. Fuggi, Mr. Gray.

«Eeh...», mormoro, fissandomi le punte delle Converse rosse. «Bello, eh?»

Un cavolo, idiota, levati da qui!

«Quando è di preciso? Così ti veniamo a vedere tutti, anche la nonna e il nonno...»

Oh, Cristoddio, Ray, vattene via, che ti costa, per la miseria?

«Ehm... mi pare... il sei giugno?», tentenno, inventando una data di sana pianta. Mia madre e mio padre gioiscono felici. Cerco di scomparire sotto la visiera del cappellino Rollerblade.

Beccarle costa, fuggire è gratis. Avanti, Ray...

«Non vedo l'ora di esserci, e tu?»

«S-sì, c-cavolo, certo...», balbetto, e lo sguardo mi cade di nuovo sull'erba secca che scorre sotto i miei piedi. La macchina fotografica mi trascina giù, segandomi il collo col laccio.

Non deve andare storto niente, oggi...

Cerco di controllare il respiro, per non far trapelare il pantagruelico senso di terrore che mi sbrana le budella. Cerco di

... non può...

buttare fuori l'aria, e finalmente mi calmo; sento delle voci allegre, Liam e Jack

... andare storto...

sono davanti a me, ma non sono soli. Vicino c'è qualcun'altro, un ragazzo, si dev'essere unito da poco a loro...

... niente.

«Porca Eva», sibilo, e mio padre resta troppo incredulo persino per mollarmi un ceffone. Davanti a me c'è un adolescente moro coi capelli lunghi fino alle spalle, uno parecchio più grande di noi. La cosa non mi preoccupa, perché noi lo conosciamo. In effetti, è il perché noi lo conosciamo, che mi preoccupa. Già. Perché Nathan “Joey” Jordison è il migliore amico di Sidney, l'Uomo Scimmia. Incrocio le dita e mi lascio alle spalle i genitori, increduli, sperando che Jo non si metta a fare lo stuntman in mezzo al granturco.

«Ehi, ragazzi!», esclamo cercando di dare un'impressione disinvolta, quando invece sono teso come una lucertola nelle grinfie di un gatto. Joey mi dà una pacca sulla spalla, mentre Jack inizia a far mulinare il suo bastone.

«Bella, Oddname! A giro coi vecchi?»

«Come?»

«Sì, coi genitori», spiega in tono pratico, allargando le braccia magroline sotto la maglia dei Metallica.

«È vostro amico?», chiede Marion, sopraggiungendo alle nostre spalle.

«Sì, è Nathan...»

«... questi sono i nostri genitori», aggiunge Liam indicando i grandi.

«Molto lieto», fa Joey, e i braccialetti neri gli roteano sul polso secco mentre stringe la mano a tutti.

«Ma tu sei grande, quanti anni hai?», chiede sorpreso il papà di Jack.

«Quattordici compiuti da un mese. Andavo a scuola dove vanno loro, quindi siamo amici»

Mia madre annuisce, anche se dal suo cipiglio direi che ha notato anche lei che il discorso non quadra un granché. Joey allora decide di fare un grosso errore: rimediare.

«Beh, conosco Wilson, che è bocciato... e sta con loro in classe... lo conoscete, no?»

Joey, non...

Mia mamma scuote la testa, e gli altri fanno lo stesso, scambiandosi sguardi divertiti.

«C'è un ragazzo ripetente da voi?», chiede Al, e Joey ribatte:

«Ma sì, dài! Sidney! È amico di Jack»

Joey, io ti uccido.

«Siete amici?», fa Heather a quel disgraziato di suo figlio. Jack annuisce facendo il vago. «Ma anche lui recita con voi?»

«Macché, ora è sospeso...», sbotta Joey, e non è per essere cattivo, ma in questo preciso istante gradirei molto che si tuffasse di testa nel tubo dell'idrovora. Jack sibila di scatto:

«Zitto, cazzo!», e dà una botta sullo stinco di Jo col bastone. Capisce, e lo capiamo tutti istantaneamente, che ha appena fatto l'errore più grande della sua vita. Mia madre e la sua fanno due più due, ed è il delirio. Le mani mi tremano.

«Ray, non me lo avevi detto...?»

«Ma che è successo?»

«Perché hai zittito Nathan?...»

«... non c'entrate qualcosa, vero?»

«Vero, ragazzi?»

Inizio a non controllare più i tremiti, e le palme mi sbattono sulle cosce come scacciamosche. Il registratore nella tasca si aziona, e la voce di Jack inizia a sberciare:

FAMMI BERE IL SUCCOOOOO!”

Cerco di spegnerlo, ma tutto quello che riesco a fare, con le dita che ballano la conga, è colpire la macchina fotografica, facendola scattare. Una volta spento quel dannato aborto tecnologico, mi accorgo che Joey e Liam sagacemente si sono dileguati, lasciandoci in balia della più grande sfuriata della storia che l'uomo ricordi. Ed è proprio questa sfuriata, in data 31 maggio 1990, alle ore 11:26 antimeridiane, l'unica al mondo a nascere prima che qualcuno di noi sputi il rospo. Quattro minuti dopo, il rospo lo sputa Jack con tutte e quattro le zampe, e la tempesta parentale si abbatte su di noi al triplo della potenza. Dopo interminabili attimi di vergogna e rabbia concentrate in sei metri quadri di strada sterrata, precisamente alle 11:35, Jack fa quello che avrei voluto

(dovuto?)

fare io poco prima: scappare via.

Lo vedo correre lontano, gridando qualcosa, e attirandosi lo sguardo incredulo di Liam e di tutti noi. Non capisco più niente, mi sembra tutto una specie di sogno. Dalle mie orecchie ovattate non trapela alcun rumore, c'è solo un cupo ronzio di sottofondo. Vedo Al correre per raggiungere Jack, ma invano. Mio cugino ha ormai scavalcato il ciglio della strada, la testa bassa, il bastone stretto in mano come una scimitarra.

Poi capisco. Capisco perché Al sta correndo. Perché stanno correndo tutti. Capisco cos'è quel ronzio in sottofondo. E capisco, con puro orrore, cosa sta gridando Jack.

«L'idrovora! L'idrovora! Io vado a vedere l'idrovora!»



Cammino da tanto tempo ormai. Il mio papà è davanti, lui è più veloce di me. Ha le gambe lunghe.

C'è proprio una bella luce oggi, sembra magica, come quella dei folletti.

Ho sempre sognato di essere una fatina. Di luccicare e volare via, sui fiori, con le mie ali da farfalla. Perciò voglio guardare ancora un po' quella luce. È strana. È fioca. E la tiene dentro di sè un bambino.

È carino come bambino. Ha le guance grasse, come piacciono a me. Però mi sa che sta facendo una cosa molto stupida. Corre. Corre tantissimo, mi sa che vuole prendere qualcosa. Non lo so. Ha una faccia buffa. Corre verso il lago e degli adulti lo inseguono. Ci sono anche altri bambini. È brutto quel lago. L'acqua è nera, non mi piace l'acqua nera. Sembra sporca. E poi c'è quella macchina che fa rumore. Sembra un dinosauro, come quel pupazzetto che mio fratello tiene in camera. Vorrei strillargli, dirgli che sta facendo una cosa stupida ma non me ne dà il tempo. Non mi accorgo bene di cosa gli succede, so solo che è una cosa brutta. Vedo gli altri bambini che lo rincorrevano fermarsi assieme ai grandi. Sulle facce delle espressioni spaventate. Somigliano a quella che fa il mio babbo quando casco dall'altalena. Mi fa ridere quella faccia. Però quelle là sono un po' diverse, fanno quasi piangere. Forse è quella cosa strana di cui mi parla sempre papà. La chiama “precipazione” o una cosa così.

Preoccupazione.

Io non lo so che cos'è però la sento dentro. Nel cuore. Lo sapete che fa tum-tum? Sì, lo so che tutti lo sanno. Ma io l'ho anche sentito. Sono fortunata, vero?

Il bambino fa una cosa ancora più stupida di tutte le altre: si mette sull'orlo del lago. Lì, dove c'è la terra e poi si scende ma non ci sono le scale. Quel posto lì che è pericoloso. Forse mi aveva visto. E per guardare in alto ha messo un piede storto. È caduto. Cioè, non è proprio caduto. È scivolato. La terra si è sbriciolata sotto di lui, come i biscotti quando li disintegri con le dita perché non ti vanno. Però un altro bambino ha corso velocissimo e lo ha preso per la manina. Deve aver stretto fortissimo visto che sembravano una cosa sola. Il terreno un uccello e loro due ali. Un'araba fenice. O un tacchino. Però il bimbo era gracile, magro magro. Perciò è scivolato anche lui. Cadevano giù velocissimi e io li ho chiamati a voce alta. “Bambini!” Ma non mi sentivano. E se affogavano nel lago? I folletti li salveranno. I folletti li salveranno. La luce del bambino? Dov'era? Ora ne vedevo tante altre. La magia dei bambini. E poi una luce fortissima. Accecante. La luce si è gonfiata come un palloncino e ha sbalzato via i due bambini, investendoli.

Credete che i bambini non possano volare? Non avete visto quei due. Su, in alto. Vicino alle nuvole. Vorrei arrivarci anch'io.

Non vedo più le loro facce tanto sono illuminate. Però il sorriso del bambino riccio e di quelli che sembrano i suoi genitori fa sorridere anche me.

Volevo essere una fatina. O forse un folletto. O forse qualcos'altro.

Magari era anche il suo sogno. O la sua realtà.

Mi piaceva quel sorriso.

Mi piaceva tanto.

  
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